Alessandro Carrera 99 L`AMORE AL TELESCOPIO. `ALLA SUA

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Alessandro Carrera 99 L`AMORE AL TELESCOPIO. `ALLA SUA
Alessandro Carrera
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L'AMORE AL TELESCOPIO.
'ALLA SUA DONNA' E IL PLATONISMO LEOPARDIANO
Il 23 giugno del 1823, da Recanati, Leopardi scrive una lettera in
francese ad A.M. Jacopssen, un letterato di Bruges incontrato a Roma.
Una prima lettera non ci è pervenuta, ma Jacopssen aveva risposto, e la
replica di Leopardi la possediamo. Ho rinunciato alla speranza di vivere,
scrive Leopardi. L'arte di non soffrire è l'unica che ormai cerco di
imparare, e sono abituato ad avvertire il vuoto dell'esistenza come
qualcosa di reale. Un tempo il nulla delle cose era l'unica cosa che per
me esistesse, un fantasma circondato da un deserto. Ora so che la
sensibilità e la virtù sono illusioni, ma se gli uomini decidessero di
crederci non sarebbero più felici? E la società stessa non sarebbe
costretta in qualche modo a dar corpo alle illusioni, visto che la felicità
non si può appoggiare su nulla di reale? Un solo istante di estasi e di
emozione profonda vale tutte le voluttà alla portata delle anime volgari,
ma come far si che un tale sentimento duri nel tempo e si rinnovi?
"Parecchie volte," continua Leopardi, che qui citiamo nella traduzione
di Andrea Zanzotto,
ho evitato di incontrare per giorni l'oggetto che mi aveva affascinato
come un sogno meraviglioso. Ero certo che l'incanto si sarebbe
dissolto al contatto con la realtà. E tuttavia continuavo a pensare a
quell'oggetto, ma senza considerarlo così come era per davvero, lo
contemplavo nella mia fantasia, quale mi era apparso in sogno. Era
una follia? Ο sono io un sognatore?1
L'abitudine alla riflessione e la sovrabbondanza di vita interiore
rendono impossibile la vita quotidiana, aggiunge Leopardi. Un animo
sensibile esige di vivere in una grazia e in una perfezione che non
appartengono a questo mondo. Ne deriva che, senza esser mai contento
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di sé, e anzi diffidando delle proprie forze, tale animo non sa fare
quello che sanno fare tutti. "In effetti," prosegue Leopardi, "è proprio
solamente della fantasia il procurare all'uomo l'unica specie di certa
felicità di cui egli sia capace. La vera saggezza è appunto quella di
ricercare la felicità nell'ideale, come fate voi." Ma la mia fantasia,
continua Leopardi, si è fatta sterile, e rifiuta quel soccorso che un tempo
prestava con più generosità: "Vivo qui come in un eremo, dividendo
tutto il mio tempo fra i libri e le passeggiate solitarie. La mia vita è più
uniforme del moto degli astri, più grigia e insignificante delle parole [in
italiano e in corsivo nel testo] delle nostre Opere."
Al tempo in cui Leopardi scrive la lettera a Jacopssen, la sua
elaborazione filosofica è attraversata da un duro conflitto tra la
consapevolezza che le illusioni sono necessarie alla vita e la
constatazione della loro inconsistenza ontologica di fronte alle esigenze
della verità. Siamo nel giugno del 1823, e Leopardi non ha ancora
maturato del tutto la radicale conversione al vero che annuncerà nella
lettera a Pietro Giordani del 6 maggio 1825 ("Non cerco altro più
fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato"), e che realizzerà
poi in poesia nell'epistola a Carlo Pepoli del marzo 1826 (in cui
dichiara di voler dedicare le sue ricerche a un vero definito acerbo e
tristo, e tuttavia capace di concedere i suoi peculiari diletti) e, più
compiutamente, con la morte della speranza con la quale, nell'aprile
1828, conclude "A Silvia." Il canto "Alla sua donna," composto nel
settembre del 1823, è quasi la riscrittura in poesia della lettera allo
Jacopssen di tre mesi prima: una celebrazione della bellezza, del fascino
e della necessità dell'illusione, condotta in un linguaggio già
perfettamente disilluso. "Alla sua donna" è l'ultima delle Dieci canzoni
pubblicate da Nobili a Bologna nel 1824, cosa che ne fa la conclusione
provvisoria dell'opera poetica leopardiana, il punto di arrivo a cui, nel
1824, sa di essere arrivato.
Leopardi è consapevole del carattere ambiguo e sfuggente della
soluzione proposta da "Alla sua donna." Nel settembre del 1825, infatti
(e quindi posteriormente alla fondamentale lettera al Giordani),
ristampando su un numero del "Nuovo ricoglitore" di Milano le
"Annotazioni" già pubblicate in calce alle dieci canzoni, le fa precedere
da un "Preambolo" serio e ironico, a tratti leggermente monellesco, in
cui dapprima fa notare che delle dieci canzoni non ve ne è "né pur una
amorosa" (sopprimendo dunque la possibilità di leggere "Alla sua
donna" come una canzone d'amore petrarchesca), difendendo poi il suo
'Alla sua donna'
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diritto di scrivere canzoni argomentative e filosofiche, ben sapendo che
tale scelta lo rende attaccabile da coloro ai quali sembra strano che un
poeta si proponga "[...] di dar materia ai lettori di pensare, come se a
chi legge un libro italiano dovesse restar qualche cosa in testa, ο come
se già fosse tempo di raccoglier qualche pensiero in mente prima di
mettersi a scrivere." Di tutto il "Preambolo," il paragrafo dedicato a
"Alla sua donna" è il più ammiccante, come se l'autore fosse
preoccupato che sia proprio la canzone in apparenza meno problematica
ad essere la più facilmente fraintesa. "Alla sua donna" è anche l'unica
canzone che Leopardi fa ristampare sul "Nuovo ricoglitore." Da un lato,
insomma, Leopardi sa che quella canzone è ciò che di più avanzato ha
scritto sulla contrapposizione tra illusione e verità, tra ideale e reale;
dall'altro si rende conto che il conflitto ha bisogno di essere
ulteriormente elaborato, tanto in filosofia quanto in poesia:
Recheremo qui, per saggio delle altre, la Canzone che s'intitola "Alla
sua donna," la quale è la più breve di tutte, e forse la meno
stravagante, eccettuato il soggetto. La donna, cioè l'innamorata,
dell'autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza
e di virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia,
nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi
qualche rara volta nel sonno, ο in una quasi alienazione di mente,
quando siamo giovani. Infine, è la donna che non si trova. L'autore
non sa se la sua donna (e cosi chiamandola, mostra di non amare altra
che questa) sia mai nata finora, ο debba mai nascere; sa che non vive
in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee
di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei
de' sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa,
sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia,
perché, fuor dell'autore, nessun amante terreno vorrà fare all'amore
col telescopio.
La canzone dunque non è amorosa ma lo è, a patto che l'amore
venga inteso come svincolato da ogni possesso: un amore a distanza, un
amore al telescopio; un amore, infine, platonico, a cui non è interessato
nessun "amante terreno," fatta eccezione per l'autore. Ancora prima di
accingerci alla lettura della canzone, il "Preambolo" ci dà insomma
abbastanza elementi per inquadrare "Alla sua donna" nella illustre
tradizione delle composizioni poetiche dedicate al tema dell'amor di
lontano ο amor de lohn, il cui progenitore, ben prima di Petrarca, è il
trovatore Jaufré Rudel con la quinta composizione del suo canzoniere:
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Lanquan li iorn son lonc en mai
m'es belhs dous chans d'auzelhs de lohn,
e quan mi sui partiz de lai
remembra.m d'un amor de lohn...
(Quando a maggio son lunghe le giornate
amo il canto d'uccelli di lontano;
e da quando di là sono partito
mi ricordo un amore di lontano...)
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Così, quando Leopardi inizia "Alla sua donna" con "Cara beltà che
amore / Lunge m'inspiri ο nascondendo il viso [...]," in due versi
riassume non pochi elementi di una poetica della lontananza che è sua
e che insieme ha radici profonde e lontane. Leopardi non menziona mai
i trovatori, che del resto non erano una lettura comune prima che la
filologia romanza ne facesse oggetto di studio, e il modello dell'amore
cortese riappare nei Canti attraverso la mediazione stilnovistica e
petrarchesca. Questo non ci impedisce di ascoltare risonanze
squisitamente trovadoriche nelle canzoni in cui Leopardi espone la sua
teoria dell'amore ("Alla sua donna," "Il pensiero dominante," "Amore
e morte" e "Aspasia"). Il Canto XVIII, in particolare, ha come
argomento la distanza assoluta, invalicabile, e proprio per questo
poeticamente produttiva, che è posta tra la Musa e il suo devoto. La
beltà invocata nel primo verso è cara, quindi conosciuta e consueta,
come è caro il colle dell'"Infinito," come è "cara beltà" la donna che
appare al poeta ne "Il sogno," e come il pensiero dominante verrà poi
definito un "caro dono del ciel"; e però ispira amore "da lunge," oppure
"nascondendo il viso," cioè sottraendosi allo sguardo del poeta. Anche
Laura nasconde il viso in "Una donna più bella assai che'l sole" (CXIX,
21), e il volto suggellato è il segno di ogni Iside: segno non solo della
donna che non si trova, ma anche della donna che non si vede.
Ora, proprio la questione se sia possibile innamorarsi di una donna
mai vista, e conosciuta solo per leggenda, è al centro di un dibattito che
si estende dai trovatori alla scuola siciliana e oltre. L'amore normale,
l'amore che regna tra la gente, argomentava il sensato Jacopo da Lentini
nel suo sonetto "Amore è uno desio che ven da core," è quello generato
dagli occhi e nutrito dal cuore. Può anche darsi che qualcuno si
innamori "senza vedere so 'namoramento" (e Jacopo sta certamente
pensando a Jaufre), ma "quell'amor che stringe con furore" nasce solo
da un cuore che "imagina" e che prova piacere di "quel desio" delle
' Alla sua donna'
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cose che gli occhi "rapresentan a lo core." E Cecco d'Ascoli, nel suo
"L'Acerba," risponde implicitamente a Jacopo che l'innamoramento
cieco si dà, ma solo se una vista interna sostituisce la vista esterna:
"Senza vedere, l'uom può innamorare / formando specchio della nuda
mente / veggendo vista sua nel 'maginare." Leggiamo ora l'intera
prima strofa leopardiana, e constateremo che la donna che non si trova
e che non si vede ha molti modi di apparire, così come il suo poeta ha
molti modi di fare della sua nuda mente uno specchio:
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Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri ο nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
Ο ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? ο te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
La cara beltà ispira amore da lontano ο nascondendo il viso, eccetto
quando appare in sogno, come un'ombra divina, a "scuotere il cuore"
(e si ricordino sia "Il sogno" che il tema del sogno nella lettera allo
Jacopssen). Il cuore, dunque, la può immaginare internamente, ma non
in modo autosufficiente: è necessaria la mediazione dell'immagine
onirica, ο la contemplazione del giorno e del riso della natura, chiamati
a sostituire la mancata apparizione della donna. Lo spazio della donna
è dunque circoscritto da una vera e propria quadratura: la lontananza
pura e incolmabile, il nascondimento, l'apparizione in sogno e l'aperto
del giorno e della natura. La temporalità che le è propria è articolata
secondo le estasi del passato, del presente e del futuro. Nel passato, la
donna del poeta ha reso beata con la sua presenza l'età dell'oro; nel
presente si libra al di sopra della "gente" come un'anima in volo, ma
viene ribadito che la sua caratteristica è l'invisibilità: la "sorte avara" la
nasconde infatti a un "noi" che comprende sia la gente che il poeta.
L'epifania della donna è dunque riservata ad un possibile avvenire, che
in ogni caso si estende al di là dell'arco di vita concesso al poeta. Così
infatti inizia la seconda strofa:
Viva mirarti omai
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Nulla spene m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio.
Si badi che Leopardi non dice: non ho nessuna speranza di
contemplarti da vivo, bensì: non ho speranza di mirarti vìva. Un'idea
può essere contemplata da morta? Muore un'idea? Dovremo tornare
sull'argomento. Per il momento non c'è risposta. Il poeta si limita ad
affermare che, se così dovrà essere, egli si limiterà ad ammirare la sua
donna solo quando il suo spirito, nudo e solo, e dunque spoglio del
corpo (un ricordo di Petrarca, CXXVIII, 101), sarà giunto per una via
sconosciuta alla peregrina stanza dell'aldilà (e si noti la potenza di
questa metafora nuda, "peregrina stanza," per indicare la dimora
dell'anima dopo la morte; non dissimile dalla vita descritta come "punto
acerbo" del "Coro di morti" e dalla morte come "supremo / scolorar del
sembiante" del "Canto notturno"). Il seguito della strofa ribadisce che
la donna del poeta non appartiene alla terra:
Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Non è in questione una eventuale somiglianza con la forma
esteriore e visibile della donna, bensì la sua invisibile essenza. Anche
una "forma veduta" (per citare il Cavalcanti di "Donna me prega") che
fosse simile ("conforme") alla donna non la potrebbe sostituire. La
donna del poeta dimora nell'aperto del giorno e della natura, ma resta
invisibile e sospesa. Non tocca la terra, non si confonde con essa, così
come la vita mortale non può essere confusa con la vita dei divini né
con la dimensione favolosa della giovinezza. È questo, infatti,
l'argomento della terza strofa:
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
'Alla sua donna'
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Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe.
La donna della poesia appartiene solo all'asse che congiunge i
divini al cielo, non a quello che lega i mortali alla terra. Se a qualcuno
fosse concesso di amarla in terra, in verità come in immagine (due
dimensioni, verità e immagine, in conflitto ma platonicamente
complementari), la sua vita si farebbe beata. L'affermazione introduce
un corollario: un simile amore farebbe ritornare al poeta lo stesso
desiderio di fama e di virtù che provava negli anni della sua giovinezza.
Nel "Risorgimento" (1828), Leopardi riprende lo stesso tema: la natura,
scrive, mi diede palpiti e dolci inganni, e una virtù ingenita che gli
affanni riuscirono a sopire, ma non ad annullare. Il fato e la sventura
non furono sufficienti a vincerla. Nemmeno la "vista impura"
dell'"infausta verità" potè soffocarla del tutto. Ma la natura, la stessa
che concede palpiti e dolci inganni, discorda dalle vaghe immagini che
il poeta si crea, è sorda e non sa commiserare, bada all'essere e non al
bene. Ragione per cui, se nell'animo del poeta rinascono "gl'inganni
aperti e noti," essi non dipendono più da nessun aiuto esterno: solo il
cuore ne è responsabile. La donna del poeta non vive più, prova che
anche le idee possono morire: "Forse la speme, ο povero / Mio cor, ti
volse un riso? / Ahi della speme il viso / Io non vedrò mai più." E dopo
il "Risorgimento," nell'ordinamento dei Canti, viene "A Silvia," la
catastrofe della speranza. Certo, la donna del poeta non è solo la
speranza. Ma la speranza è pur sempre l'ultima dea, il fondo del vaso
di Pandora, l'unica possibilità di contrastare il destino dei mortali.
Torniamo a "Alla sua donna" e osserviamo come si conclude la terza
strofa:
Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Siamo qui davanti a una considerazione elegantemente logica,
affidata al rapporto tra l'"Or" del verso 30 e l'"E" del verso 32. Il primo
"or," avversativo, sta per "consideriamo, riflettiamo, teniamo presente
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che [...]," mentre l'"Β" successivo vale come un "eppure" ma anche
come un "infatti": il cielo non ci conforta, e tollera che la nostra
esistenza sia miserabile, eppure (e infatti) una vita mortale al tuo fianco
sarebbe de facto una vita che "india" ("De' Serafin colui che più
s'india," Paradiso, IV, 28), rendendo i mortali simili agli dèi. Dove
troviamo, in Leopardi, la stessa situazione in cui una presenza scesa dal
cielo rende impossibilmente divina la vita sulla terra? Bisogna rivolgersi
alla "Storia del genere umano," composta tra il gennaio e il febbraio del
1824, pochi mesi dopo "Alla sua donna." Nell'operetta morale è la
discesa dell'Amore celeste sulla terra che fa la vita umana "di troppo
breve intervallo superata dalla divina," ed è per tale motivo che solo
molto raramente Giove concede all'Amore di unire due mortali. Dunque
la donna del poeta è un oggetto d'amore, ο perlomeno si avvia, nella
mente di Leopardi, a fondersi con la figura dell'Amore celeste che è in
corso di elaborazione. Ma perché Leopardi ci ha voluto avvertire nel
"Preambolo" del 1825 che la canzone non è amorosa? E perché ha
insistito sul fatto che gli amanti terreni, a parte l'autore, non hanno
intenzione di far l'amore con il telescopio?
Leopardi scrive "Alla sua donna" di ritorno dal deludente soggiorno
romano (novembre
1822-maggio
1823).
Seguendo le date
dell'epistolario e dello Zibaldone, è possibile quasi ricostruire la genesi
biografica della canzone. A Roma Leopardi scopre che le donne di città
sono tanto inavvicinabili quanto quelle di paese, e il 6 dicembre del
1822 ne scrive in termini amari e risentiti al fratello Carlo. La lettera a
Jacopssen allude a un incontro reale non approfondito per ragioni
contingenti, per paura di un rifiuto ο per il timore, squisitamente
trovadorico, che la vicinanza dell'oggetto amato ne diminuisca il fascino
e la perfezione. Sul finire dell'agosto 1823, quindi pochi giorni prima
della composizione di "Alla sua donna," Leopardi annota che nell'antico
stato naturale dell'umanità l'inclinazione dell'uomo verso la donna era
semplice e materiale, e l'immaginazione non vi aveva parte. Ma tale
desiderio, incontrando sulla sua strada il mistero femminile, si è fatto
sempre meno sensuale e carnale, e "da questa mescolanza di sommo
desiderio e tendenza naturale" sono nati pensieri ed affetti "quasi
mistici." L'uomo si rappresenta così la donna che ama "come cosa
divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ecc." La natura gliela
rende amabile e desiderabile, ma le circostanze gliela nascondono e gli
impediscono ο gli rendono difficile il possesso. Ed è da questi
impedimenti materiali (vestimenti, costumi e leggi sociali circa le
'Alla sua donna'
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donne) che nasce nell'uomo "un effetto il più spirituale quasi, che abbia
mai luogo nel suo animo," nonché la persuasione di essere mosso, nel
suo desiderio, solo dallo spirito (p. 3309, 29-30 agosto 1823). Leopardi
sa molto bene, dunque, che se l'impedimento differisce il desiderio, il
desiderio differito produce l'effetto di innalzare l'oggetto d'amore a una
sfera divina che in qualche modo giustifica la sua irraggiungibilità.
L'amore spirituale è il frutto del desiderio differito, ma è anche un
frutto che, come l'acerbo vero, "ha i suoi diletti." Masochistici, forse,
ma innegabili. Primo fra tutti, la rimozione anticipata del dolore
dell'eventuale mancato possesso o, detto in termini psicanalitici, la
cauterizzazione preventiva della ferita narcisistica (come avverte il
"Preambolo," questo è un amore che non causa né soffre gelosia). Tra
tali ambigui diletti prende posto la dolce sofferenza del lavoro poetico,
della canzone e dell'invocazione, il cui compito consiste nel colmare la
distanza tra il poeta e la Musa senza però eliminarla né accorciarla in
alcun modo. È il paradosso amoroso già individuato da Leo Spitzer a
proposito di Jaufré Rudel: "[...] amore che non vuole possedere, ma
godere di questo stato di non-possesso [...]," e ulteriormente circoscritto
dalla definizione dell'amore cortese data da Jacques Lacan: "[...] un
modo assolutamente raffinato di supplire all'assenza di rapporto
sessuale, facendo finta che siamo noi ad ostacolarlo."
Un anno dopo "Alla sua donna," nel giugno del 1824, Leopardi
scrive il "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare," che
riprende il conflitto tra donna ideale e donna reale, e lo decide
malinconicamente a favore della prima. "Oh potess'io rivedere la mia
Leonora," esclama Tasso nel chiuso della sua cella. E aggiunge: "In
fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza,
da rinnovarmi, per così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante
calamità." Così interviene il genio:
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GENIO: Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata,
ο pensarne?
TASSO: Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna;
lontana, mi pareva e mi pare una dea.
GENIO: Coteste dee son così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un
tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno, e se li
pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
TASSO: Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato
delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi
le immaginavamo?
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GENIO: Io non so vedere che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne
e di sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare.
Le donne non sono angeli, conclude il genio, né si vede perché lo
dovrebbero essere. Ma questa notte, promette a Tasso, ti condurrò in
sogno la tua donna, e anzi farò in modo che tu le stringa la mano,
provando una dolcezza tale che ne sarai sopraffatto. Si ripropone la
scena de "Il sogno," ma con la consapevolezza del sognatore in
dormiveglia, che sogna sapendo di sognare. L'incanto può ripresentarsi,
ma ha perso l'innocenza; la donna può ritornare, ma ha perso
l'angelicità. "Egli sogna e sa che sogna," scrive De Sanctis nel suo
saggio "Alla sua donna." "Poesia di Giacomo Leopardi" (1855), "questa
coscienza è l'avvoltoio che lo rode." La Leonora di Tasso è debitrice
alle figure femminili de "Π sogno" e di "Alla sua donna," ma tende ad
"Aspasia" e alla definitiva rottura dell'incantesimo. E l'incantesimo è la
distanza, sta nella distanza e opera solo a distanza.
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La donna del poeta dunque non è solo l'oggetto del desiderio ma
anche il suo soggetto, l'istanza depositaria dell'essenza del desiderio
stesso. Una vita mortale al fianco della donna stellare implicherebbe la
discesa, la rinuncia alla lontananza e lo svelamento del volto suggellato.
Ma questo non può e non deve accadere. L'amore che questo poeta
prova per la sua donna non sopravviverebbe alla dimensione della
prossimità. Se abbandonasse la sua lontananza, la donna del poeta
finirebbe come la luna del frammento "Odi, Melisso: io vo' contarti un
sogno" (1819), che una volta caduta nel prato di Alceta si riduce ad un
carbone spento. Ma Leopardi, nel 1823, non è ancora del tutto pronto
per sostenere teoricamente ciò che poeticamente ha già deciso. È questa
discrepanza, forse, che spiega il mutamento di tono avvertibile tra la
terza e la quarta strofa. Fino al verso 33 il modello petrarchesco è
dominante linguisticamente (non c'è forse canzone leopardiana in cui
gli echi petrarcheschi siano così numerosi come "Alla sua donna") ma
non è esplicitamente imitato. Nella quarta strofa, invece, sembra che
Leopardi non regga più la tensione intellettuale che ha instaurato. Le
prime tre strofe sono meritoriamente libere da pianti, gridi e fremiti; le
sostiene anzi un lucido, per quanto musicalissimo, rigore argomentativo.
Non così la quarta, dove ci ritroviamo d'un tratto nel ben noto
paesaggio sentimentale del petrarchismo:
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Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
'Alla sua donna'
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Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio.
"Giovanile errore": inevitabile ricordare l'attacco del Canzoniere.
Inevitabile, anche, ripensare a Francesca, il cui amore per Paolo, come
dice lei stessa, "ancor non m'abbandona," e ai danteschi "dubbiosi
disiri," che in Leopardi si fanno "perduti." Ma di cosa si lagna il poeta,
se l'errore d'amore lo abbandona? Dei desideri e delle speranze
scomparse, certamente, ma non solo. Il lamento alzato da Leopardi si
rivolge proprio al rifugio petrarchesco ormai impraticabile. Poeta
sentimentale e intellettuale, inevitabilmente moderno, Leopardi inizia a
non poter più credere nella doppia morale che sta praticando dai tempi
delle pagine iniziali del "Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica" (1818). Finora gli è riuscito di cercare la verità in quanto
filosofo e di difendere le illusioni in quanto poeta. Con il tempo gli
diverrà sempre più difficile, e già nel "Preambolo" del 1825 prenderà
ironicamente e amaramente le distanze dall'ultimo petrarchismo
possibile, quello che aveva ritentato e infine abbandonato tra la quarta
e la quinta strofa di "Alla sua donna." "[...] di te pensando, / a palpitar
mi sveglio": infine il sogno è finito. Ciò che ne rimane è un'alta specie,
un'imago:
E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
"[...] del suo proprio error l'alma s'appaga": Petrarca ancora un
volta, "Di pensiero in pensier, di monte in monte." Moroncini, nel suo
commento del 1927, sostiene con argomenti convincenti che la prima
e la quarta strofa sono state scritte per ultime. Dopo "Alla sua donna"
e il Tasso, sarà sempre più diffìcile, per Leopardi, appagarsi dell'errore.
Vorrà il vero, e andrà incontro allo scacco di "Aspasia." Ma restiamo
a "Alla sua donna": l'imago che rimane dopo che il vero, cioè la
presenza, è tolta, è solo un simulacro vuoto ο resta custode, velo e
maschera del vero, pur se inattingibile? Che specie e imago rimandino
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qui all'idea platonica è detto chiaramente nell'attacco della quinta e
ultima strofa:
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
Ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, Leopardi ribadisce che
all'intelligenza eterna, alla pura essenza, non conviene rivestire una
forma sensibile. Il quadrato di cielo, terra, divini e mortali non può
essere alterato. Solo dopo il raggiungimento di tale certezza il Canto
XVIII può avviarsi verso l'estatica celebrazione della lontananza che lo
conclude. Eppure, proprio in questo momento di radicale, irrecuperabile
abbandono, accade qualcosa di imprevisto: la donna della poesia
ridiventa in qualche modo un ente corporeo, qualcosa che, seppure non
tangibile, gode di un luogo nel cosmo in cui potrebbe dimorare. Con
una mossa inaspettata, l'ultima incarnazione della donna è quella
dell'abitante di un altro pianeta:
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Ο s'altra terra ne' supremi giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e in più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi
Questo ignoto d'amante inno ricevi.
Pur innalzata a idea, la donna del poeta potrebbe dunque vivere
davvero, ma su un'altra terra. Tale improvvisa rimateralizzazione
dell'idea così invocata ha due significati. Il primo è che la donna del
poeta è la donna che non si trova e che non si vede, e della quale non
si sa se sia nata ο nascerà mai, ma non è detto che sia la donna che non
esiste. Torniamo al "Preambolo," precisamente al punto in cui Leopardi
afferma che di tale donna il poeta sa solo "[...] che ora non vive in
terra, e che noi non siamo suoi contemporanei." Il poeta, dunque, dopo
averla cercata nelle idee di Platone, "[...] la cerca nella luna, nei pianeti
del sistema solare, in quei de' sistemi delle stelle [...]," aggiungendo
quasi di essere disposto, pur di trovarla, anche a fare all'amore col
telescopio.
Ironia? Nel "Preambolo" è certa, anche ostentata. Ma è un'ironia
'Alla sua donna'
111
che si estende anche alla canzone ο la lascia immune? De Sanctis non
vede nessun ironia nella conclusione di "Alla sua donna." Anzi: "È una
tristezza plumbea, ritirata in se stessa, senza espansione, senza
eloquenza." Certamente il "Preambolo" permette, se non di trovare
dell'ironia esplicita in "Alla sua donna," di considerare in modo
dolorosamente ironico le sorprendenti implicazioni della sua
conclusione. Perché Leopardi insiste, tanto nella Canzone quanto nel
"Preambolo," sull'aspetto astronomico della cerca intrapresa dal poeta?
Considerare la donna come abitante di un'altra terra è pur sempre un
innalzamento astrale della sua condizione, ma l'osservazione sul fare
all'amore col telescopio riporta il volo del Canto XVIII a dimensioni
imbarazzantemente terrene, a metà tra la ricerca scientifica e la passione
del dilettante che vuole vedere le stelle da vicino. Ma che c'è da vedere
qui? La donna ideale non si scorge col cannocchiale, non più di quanto
si possa fare il voyeur delle Muse puntando un binocolo sull'Elicona.
D'altra parte la fisicità che viene riconsegnata alla donna con il renderla
abitante di un altro pianeta, forse perfino individuabile con l'occhio
amplificato di un telescopio, ci illumina sul fatto che tale donna non si
trova ma si potrebbe trovare, non si vede ma si potrebbe vedere, non in
un normale campo visivo, ma in qualche luogo al limite della visione.
Il giovanile interesse di Leopardi per l'astronomia non è mai rimasto
senza influenze per lo sviluppo della sua poetica. Ma dov'è, e qual è,
l'altra terra su cui l'idea platonica della donna potrebbe accasarsi?
"Alla sua donna" è stata composta due anni dopo che Leopardi, in
alcune note dello Zibaldone, aveva già affrontato criticamente e
radicalmente la dottrina platonica delle idee. Consideriamo, per
cominciare, le osservazioni del 17 e 18 luglio 1821. In base alle
conclusioni della gnoseologia lockiana, interamente basata sulla
sensazione e l'esperienza, Leopardi contesta il principio platonico che
si possano dare forme immutabili delle cose. Se nulla è necessario, e ciò
che è può non essere, e non vi è gerarchia tra le possibilità, dunque non
vi è un principio universale delle cose. Ma se nulla è necessario,
necessario è il nulla: "In somma il principio delle cose, e di Dio stesso,
è il nulla" (p. 1341). Sembra quasi che Leopardi stia lottando contro la
prova ontologica di Sant'Anselmo d'Aosta, il quale sosteneva che Dio
esiste necessariamente, perché Dio è perfetto per definizione, e dunque
deve esistere, perché se non esistesse gli mancherebbe l'attributo
dell'esistenza, e mancando di un attributo non sarebbe perfetto. Ignaro
della confutazione già elaborata da Kant (l'esistenza di un oggetto è un
Alessandro Carrera
112
fatto dell'esperienza, non un attributo), Leopardi elabora una sua
confutazione che chiama in causa il conferimento "umano, troppo
umano" di attributi che trascendono l'umano esperire: poiché crediamo
assoluto il vero, sostiene Leopardi, gli attribuiamo "la necessità non
solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo
assolutamente perfettissimo." Ma ciò che noi giudichiamo perfezione è
pur sempre un concetto relativo, situato in una particolare condizione
del tempo e dello spazio: "Anche la necessità di essere, ο di essere in
un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è
perfezione relativa alle nostre opinioni ecc. Certo è che distrutte le
forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio" (p. 1342, 18
luglio 1821).
La distruzione di Dio precipita sulla pagina zibaldoniana come una
rivelazione, non poco sconvolgente, e inattesa dal suo stesso autore. Due
mesi dopo, Leopardi riformula la sua critica in modo più prudente,
anche se non meno incisivo. Non si parla più di distruzione di Dio, ma
viene riconfermata, con buona pace di tutto il platonismo cristiano,
l'incompatibilità del concetto di un Dio onnipotente con il sistema
platonico. La tesi leopardiana è tanto più scardinante se consideriamo
che negli anni della Restaurazione veniva auspicato un ritorno a Platone
in chiave apologetica e antiliberale, e che uno dei sostenitori di tale uso
di Platone era Carlo Antici, zio di Leopardi, il quale aveva incoraggiato
ripetutamente il nipote a dedicarsi alla traduzione e al commento dei
dialoghi platonici sperando di trovarsi tra le mani un opera a sostegno
delle sue convinzioni politiche. Leopardi ha ben altre preoccupazioni.
Quando ritorna ad approfondire la sua critica a Platone, inizia con il
soppesare il rapporto di associazione (di idee concomitanti) che lega la
parola, l'idea e l'immagine. Ogni parola desta l'idea della cosa, sostiene
Leopardi, ma non tutte le parole destano immagini (p. 1704, 15
settembre 1821). Devono essere parole proprie di una lingua, né
tecniche né di significato nudo. Oltre a ciò, le idee concomitanti variano
da individuo a individuo, il che significa che nessuna parola dà luogo
a un'identica concezione (o catena associativa) per tutti gli uomini.
Nessun individuo e nessuna nazione possiedono le stesse idee di un
altro individuo ο di un'altra nazione. Ma siccome la ragione è costituita
"del modo in cui le cose si concepiscono" (1706), cioè della
concomitanza delle idee, da questa diversità di concezioni ne consegue
che non si dà un vero assoluto, e che l'uso delle parole che sembrano
uguali per tutti nasconde concezioni e associazioni diverse per ognuno.
La verità, potremmo dire commentando Leopardi, è figlia del tempo, ma
'Alla sua donna'
113
è una figlia che non cresce mai. Gli antichi credevano di conoscere il
vero quanto noi, e il secolo futuro dubiterà di tutto ciò che noi diamo
per certo. Ma se tale conclusione viene applicata alla morale e alla
religione, ne discendono conseguenze inquietanti. Tutto può essere
soggetto al tempo, ma non la legge di Dio, non la morale che Dio ha
dato agli uomini mediante il Verbo. Eppure anche la legge di Dio, dal
Vecchio al Nuovo Testamento, è cambiata, e nel corso della storia la
vediamo cambiare nelle diverse interpretazioni che ne danno i teologi
e la Chiesa. Se ne ricava che la morale non nasce dall'essenza di Dio
ma dalla sua volontà, che è creatrice anche della morale e che può
mantenere e cambiare le sue stesse leggi (p. 1712, 16 settembre 1821).
Non si sottovaluti la portata ermeneutica, veramente pre-nietzschiana,
di una simile conclusione, che lega inestricabilmente la verità al
divenire. Il sistema platonico delle idee in quanto "esistenti per se,
eterne, necessarie, indipendenti e dalle cose e da Dio" non è affatto
arbitrario ο fantastico, sostiene Leopardi, ma anzi necessario per salvare
la logica del discorso e la stessa possibilità di condividere un
linguaggio. La credenza nell'assolutezza delle affermazioni e negazioni
"[...] non poteva né potrà mai salvarsi se non supponendo delle
immagini e delle ragioni di tutto ciò ch'esiste" (p. 1713). Ma tali
immagini e ragioni devono essere indipendenti dallo stesso Dio, perché
altrimenti: 1) si dovrebbe cercare la ragione di Dio (l'idea di Dio, ma
diremmo meglio la sua causa formale), il quale, se il bello, il buono e
il vero non fossero assoluti e necessari, non avrebbe nessuna ragione di
essere a sua volta; 2) se Dio avesse una ragione (una ragione
sufficiente, una causa formale che lo rende il Dio onnipotente che
conosciamo), le idee dovrebbero dipendere dalla sua volontà. Infatti, se
Dio non può influire sulle idee del bello, del buono e del vero, non è
Dio, ma se Dio può influire sulle idee, il bello il buono e il vero non
sono più "eterne idee," perché Dio le può volere altrimenti:
Ora, trovate false e insussistenti le idee di Platone, è certissimo che
qualunque negazione e affermazione assoluta, rovina interamente da
se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto
dubitar di queste (p. 1714, 16 settembre 1821).
L'argumentum contra Platonem, condotto per absurdum, soffre di
una impostazione eccessivamente formalistica e sillogizzante, e non è
neanche del tutto convincente. Manca, all'argomentazione leopardiana,
la distinzione tra idea e opinione, tra eidos e dóxa. Per quale motivo
Alessandro Carrera
114
ogni mutamento nella concezione del bello ο del buono dovrebbe
risultare in una modificazione dell'idea corrispondente? L'idea è il
terminus di un processo di conoscenza, non è disponibile a qualunque
chiacchiera se ne possa fare. Oltre a ciò, la questione se l'onnipotenza
di Dio sia svincolata ο limitata dalla leggi fisiche ο logiche è una vexata
quaestio fin dai tempi di San Pier Damiani e del suo De omnipotentia
divina. Il fatto che Dio non possa suonare al violino un'equazione di
secondo grado, per citare una famosa frase di Husserl, non significa di
per sé che l'idea di Dio sia inconsistente. Detto questo, c'è però una
grande forza nell'argomentazione leopardiana, tanto più apprezzabile per
chi ha familiarità con l'ermeneutica nietzschiana e post-nietzschiana, e
che può essere formulata nella forma di un paradosso: se Platone è vero,
il Dio ebraico-cristiano non è possibile; e se il dio ebraico-cristiano è
vero, non è possibile Platone. Ma se Platone non è possibile, le idee non
sono eterne ma mutevoli, la verità non è intemporale ma epocale,
soggetta al tempo e all'interpretazione.
Con gli anni, Leopardi troverà sempre più difficile ricorrere a
Platone per salvare la convenzionalità del linguaggio, delle idee
condivise, e della stessa possibilità di fare poesia. La rinuncia all'ancora
di salvezza platonica diverrà anzi il fondamento della "filosofia
dolorosa" dell'ultimo Leopardi. Nei Pensieri, la filosofia delle illusioni
non è ripudiata, ma è considerata da una considerevole altezza; nella
"Ginestra" non ve ne è traccia. Tornando al settembre del 1823, quando
assimila la donna del poeta alle idee di Platone, Leopardi sa già che tali
idee sono "false e insussistenti." Sa anche, peggio ancora, che la loro
confutazione porta con sé la rovina dell'intera famiglia metafisica. Se
un poeta non crede nella realtà metafisica della sua Musa, come può
fare poesia? Leopardi non ha ancora trovato la risposta a tale domanda,
ed è per questo che è possibile parlare di una sottilissima meta-ironia,
amorosa e filosofica insieme, all'opera proprio in "Alla sua donna," e
non solo nel "Preambolo" che la accompagna. Il 1823 è anche l'anno
in cui Leopardi riprende a leggere Platone, con l'interesse del filologo
e con l'intenzione di intraprenderne la traduzione (intenzione presto
abbandonata per le consuete ragioni di salute, e comunque indipendente
dalle fantasie sanfediste dello zio), ma forse anche con l'ostinazione del
sognatore che non vuole ancora smettere di sognare. Tra gennaio e
luglio legge Protagora, Fedone, Ipparco, Menesseno, Minosse,
Clitofonte, Synerastae, Gorgia, Teeteto, Sofista e Convito, e rilegge il
Fedro. Dopo aver annotato nello Zibaldone, il 22 agosto, che solo
115
'Alla sua donna'
l'immaginazione e il cuore scoprono e insegnano le più grandi e sublimi
verità, il 23 agosto afferma che i filosofi più profondi sono coloro che
hanno avuto in sorte "un genio decisamente poetico," fra i quali il più
profondo, il più vasto, il più sublime e il più poeta è senza dubbio
Platone. Nulla ci impedisce di pensare, dunque, che anche il riferimento
all"'altra terra" contenuto in "Alla sua donna," e non solo quello alle
"eterne idee," possa essere interpretato con i testi di Platone alla mano.
È nel Fedone che Socrate racconta la "favola della vera terra," in
cui dimorano gli dèi e in cui gli uomini vengono avviati al castigo ο
alla ricompensa per le loro azioni. Questa vera terra "si libra pura nel
cielo puro dove sono le stelle" (109bc), e se qualcuno riuscisse a salire
fino all'estremo limite dell'aria e sporgesse il capo come un pesce che
si affaccia alla superficie del mare "riconoscerebbe che quello è il vero
cielo, quella la vera luce e la vera terra" (109e-110e). È una terra che
ha la forma di un dodecaedro fatto di dodici pentagoni e risplende di
colori straordinari; appare alla vista come un'unica iridescenza di
gemme incorruttibili ed è popolata da uomini che abitano le rive
dell'aria come i mortali abitano le rive del mare. Tali uomini non sono
più costretti da legami corporei, hanno quotidiani commerci con le case
in cui vivono i divini e vedono il sole, la luna e le stelle "quali sono in
realtà" (111c). Concludendo il suo racconto, Socrate ribadisce che non
si tratta di nient'altro che di una favola (mythos) e che non è assennato
sostenere che le cose stiano proprio così, ma che d'altra parte tali favole
sono una conseguenza della dimostrazione dell'immortalità dell'anima,
"[...] e giova fare a se stesso di tali incantesimi [...]" (114d). Può darsi
che Leopardi avesse in mente proprio questo passaggio quando ha
scritto che "per i veri e profondi filosofi" i grandi sistemi di pensiero
non sono che ipotesi, ο "una favola, come Platone chiamava il suo
sistema delle idee" (p. 2709, 21 maggio 1823).
Come si sa, le fonti della descrizione socratica sono orfiche,
pitagoriche ed empedoclee. A. E. Taylor ha suggerito che l'aspetto
favoloso della narrazione avesse lo scopo di unire la concezione ionica
della terra piana con quella pitagorica della terra sferica. Citando John
Burnet e il suo commento al Fedone, Taylor sostiene che verso la metà
del V secolo una tale conciliazione delle due cosmologie sarebbe stata
ancora ritenuta naturale, ma certo non aveva più valore per Platone e i
suoi contemporanei. Da qui, evidentemente, l'insistenza sul carattere di
favola del racconto. Ma Santillana e Dechend hanno proposto
un'interpretazione differente, che prende il racconto maggiormente alla
10
11
Alessandro Carrera
116
lettera. Socrate descrive la vera terra come un dodecaedro, la stessa
figura geometrica che nel Timeo (55c) viene usata dal Demiurgo per
avvolgere il cosmo, e dove le dodici facce corrispondono ai dodici segni
zodiacali. Sulla base di questo e di numerosi altri indizi sparsi nel testo,
i due autori concludono che la vera terra non è altro che il cielo, la
volta stellata che avvolge la terra sublunare e che è simboleggiata dal
fiume Okeanós che la circonda e le scorre intorno in cerchio: lo stesso
cielo che se qualcuno potesse contemplare al di sopra dell'aria vedrebbe
come realmente è, nella purezza dell'etere.
Al di sopra dell'aria, ο mediante un telescopio. L'altra terra in cui
Leopardi si figura di trovare la donna del poeta non potrebbe essere
appunto la volta celeste? Leopardi non crede alle idee di Platone, così
come Socrate non crede alla favola che sta raccontando. Però "giova a
se stesso fare tali incantesimi," come dice Socrate, e nessuno deve
insegnare al Leopardi del 1823 quanto l'illusione coscientemente
coltivata soccorra la vita. Ma, si potrebbe obiettare, non lo sapevamo
già? Non ci aveva già detto Leopardi che il poeta cercava la sua donna
nella luna, nei pianeti e nei sistemi delle stelle? E tuttavia il riferimento
al cielo platonico, alla vera terra di Socrate, ci avverte che quello di
Leopardi è un amor de lonh di tipo diverso da quello di Jaufré. È un
amore che non cerca di diminuire la lontananza, non si mette in viaggio
per mare, come secondo la leggenda fece Jaufré, per incontrare la
Contessa di Tripoli di cui si era innamorato senza averla mai vista. E
non di meno è un amore che vuole vedere. Pur senza udire "il canto
degli uccelli di lontano," si lascia avvolgere dalla silenziosa musica
delle sfere, da quella sensazione di silenzio visivo che prova chiunque
abbia messo gli occhi a un telescopio. La donna del poeta va cercata in
cielo perché è un'idea, e la vera terra, la casa delle idee, è il cielo. Le
prime idee sono gli astri e le costellazioni, e la donna del poeta prende
il suo posto tra di esse.
Perché, ad esempio, la sua "cara beltà" ispira amore "nascondendo
il viso"? Nel suo saggio sui misteri dei Kabiri, Kerényi ha osservato che
il rito del velamento della sposa è l'unico elemento che, nel matrimonio
arcaico, non ha un equivalente nel gioco erotico e nell'accoppiamento
degli animali. Corrisponderebbe dunque al passaggio dalla natura alla
cultura, perché il suo modello non è sulla terra ma nel cielo, "[...] dove
il sole e la luna, nella fase della loro congiunzione, scompaiono
nell'oscurità." Ma che cosa sono il cielo e la volta stellata se non
un'altra illusione e un'altra convenzione? Non ci sono nessun cielo e
12
13
117
'Alla sua donna'
nessuna volta stellata se non per l'occhio che li guarda. Ciò che
nell'esperienza quotidiana chiamiamo cielo è la forma del confine a cui
arriva la capacità di visione dell'occhio. Ma tale limite si sposta con le
circostanze e le condizioni di visibilità, e per ogni profondità di campo
che riusciamo a raggiungere c'è una volta stellata differente. E la prima
volta stellata, il primo cielo in cui gli occhi hanno trovato il loro
confine, è costituito da quella sfera di 20-30 centimetri all'orizzonte
della quale il neonato, gli occhi ancora deboli, impara a distinguere il
seno e il volto della madre. L'esplorazione graduale di quel cosmo lo
porterà in breve a tracciare le sue personali costellazioni. Si accorgerà
della somiglianza tra capezzoli e occhi, collegherà la rotondità delle loro
forme con la piega delle labbra e l'arricciatura dei capelli, e riprodurrà
le costanti di quelle forme nei disegni a forma di doppia spirale che si
incontrano presso ogni civiltà, dal paleolitico al neolitico. In seguito il
capezzolo, l'occhio e il volto si trasformeranno nelle più elaborate
forme dei simboli solari e lunari, rosoni e mandala, mentre la
stilizzazione della doppia spirale intrecciata, l'8 coricato, verrà a
significare l'infinito, l'orizzonte, il confine di ogni sguardo e il limite
della visione e della misurazione. La donna del poeta è molte cose, ma
la sua genealogia appare indiscutibilmente materna: è una madre che
mantiene sempre una prudente distanza dal figlio, che dal canto suo è
impegnato a misurare la distanza che intercorre tra i due poli della
relazione. La donna del poeta rimane un oggetto d'amore senza mai
precipitare in un Oggetto Totale, e d'altra parte non abbandona mai il
campo e non permette che un oggetto più umanamente tangibile si
faccia avanti. La poesia dell'amore di lontano, da Jaufré a Petrarca a
Leopardi, non è certo l'unica poesia d'amore possibile. Nella misura in
cui si sottrae alla ferita narcisistica e alla conseguente instaurazione del
principio di realtà, forse non è nemmeno la più sana; è, semplicemente,
quella poesia che si pone come compito la misura, si vorrebbe dire la
cartografia, della lontananza originaria. Come osserva lo stesso
Leopardi in un secco aforisma incluso nello Zibaldone negli stessi giorni
in cui scrive "Alla sua donna": "I limiti della materia sono i limiti delle
umane idee" (p. 3341, 3 settembre 1823). La frase può esser letta in due
sensi: i limiti che gli uomini attribuiscono alla materia sono tracciati
dalle idee umane, ma i limiti delle idee umane sono determinati dalla
materia. Nessuna idea, nemmeno quella della donna celeste, è più
grande del cielo che la contiene. Un'interpretazione in chiave di sublime
kantiano di "Alla sua donna" si scontra cosi con le colonne d'Ercole
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Alessandro Carrera
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poste dalla stesso Leopardi. D'altro canto, l'idea di materia non ha altri
limiti se non quelli, immensi, delle idee umane. Il che riapre la
questione del sublime: il cielo e l'altra terra dove la donna può, forse,
essere vista, proteggono, come la siepe, dal naufragio fisico nell'infinito,
cosi come permettono al poeta di appagarsi nell'opera e per l'opera,
naufragando interiormente nella commedia mentale del desiderio
inappagato.
16
ALESSANDRO CARRERA
New York University,
New York
NOTE
1
Giacomo Leopardi, La vita e le lettere, a cura di Nico Naldini (Milano:
Garzanti, 1983), pp. 251-2. Dove non è altrimenti indicato, le citazioni dalle
opere leopardiane sono tratte da Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani e
Mario Andrea Rigoni, 2 voll. (Milano: Mondadori, 1987 e 1988), e da
Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, 3 voll. (Milano: Grazanti,
1991).
2
Costanzo Di Girolamo, I trovatori (Torino: Bollati Boringhieri, 1989), pp.
60-2. La traduzione è mia.
Il testo di Jacopo da Lentini è tratto da Gianfranco Contini, I poeti del
Duecento, vol. I (Milano-Napoli: Ricciardi, 1960). Per Cecco d'Ascoli si veda
L'Acerba, vv. 1959-1961, a cura di Achille Crespi (Ascoli Piceno: Cesari,
1927).
3
4
Leo Spitzer, "L'amore lontano di Jaufré Rudel e il senso della poesia dei
trovatori," in Il punto sui trovatori, a cura di Mario Mancini (Bari: Laterza,
1991), p. 233 (trad. parziale di L'amour lontaine de Jaufré Rudel et le sense de
la poésie des troubadours, ora in Leo Spitzer, Études de style [Paris: Gallimard,
1970], pp. 81-133); Jacques Lacan, Seminario. Libro XX: Ancora, ed. it. a cura
di Giacomo Contri, trad. it. di S. Benvenuto e M. Contri (Torino: Einaudi,
1983), p. 69 (Le Séminaire de Jacques Lacan. Livre XX: Encore [Paris: Seuil,
1975]).
5
Impossibile non pensare al tema del "pathos della distanza" in Nietzsche e alla
pagina estremamente leopardiana da lui dedicata all'"effetto a distanza" delle
'Alla sua donna'
119
donne. "Se un uomo sta in mezzo al suo tumulto, in mezzo alla sua risacca di
sortite e progetti, ecco che vede passar scivolando, sotto i suoi occhi, placidi,
incantevoli esseri, di cui anela la beatitudine e il ritiro: sono le donne (...)
L'incanto e il più potente effetto delle donne è, per usare il linguaggio del
filosofo, un effetto a distanza, una actio in distans: ma ci vuole appunto — in
primo luogo e soprattutto — distanza!" (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza,
60, in Opere, Vol. V, tomo Π, ed. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari
[Milano: Adelphi, 1965 e sgg.]). Quanto questa distanza sia una questione di
stile, di stilo e di stiletto, e quindi un problema di scrittura, è il soggetto
dell'acuto ma non risolutivo saggio di Jacques Derrida, Sproni. Gli stili di
Nietzsche, a cura di Stefano Agosti (Milano: Adelphi, 1991 - Éperons. Les
styles de Nietzsche [Paris: Flammarion, 1978]). Manca, nel saggio di Derrida,
una considerazione topologica della distanza tra la donna e lo stile dell'uomo.
Per il riferimento a De Sanctis si veda la nota 8.
6
Su Odi Melisso [...], in rapporto alla relazione tra lontananza e prossimità,
rimando al mio "La caduta della luna. L'esperienza della distanza nel XXXVII
Canto di Leopardi (Odi, Melisso [...])," Testo n. 21 (gennaio-giugno 1991),
65-83, ripubblicato in Itinerari filosofici n. 2 (gennaio-aprile 1992), 3-27.
Riferiamo i termini cielo, terra, divini e mortali (ma senza alcuna ortodossia),
all'uso che ne fa Heidegger in La cosa (Das Ding), in Martin Heidegger, Saggi
e discorsi, trad. it. di G. Vattimo (Milano: Mursia, 1976), pp. 107-24 (Vorträge
und Aufsätze [Pfullingen: Neske, 1954]). Per un'applicazione libera del Geviert,
della quadratura heideggeriana, all'analisi dell'"Infinito" di Leopardi, rimando
al mio "Prossimità e infinito. Leopardi alla luce dell'ermeneutica di Heidegger,"
L'anello che non tiene. Journal of Modem Italian Literature Vol. 2, η. 1
(Spring 1990), 5-28.
8
Francesco De Sanctis, Leopardi, a cura di Carlo Muscetta e Antonia Perna
(Torino: Einaudi, 1960, 1983), p. 415. Dello stesso parere sono Damiani e
Rigoni nel loro commento ai Canti ("[...] di ironia non c'è in "Alla sua donna"
la minima traccia [...]," op. cit., Vol. I, p. 957). Di opinione diversa, e quindi
favorevoli a una lettura parzialmente ironica, sono Giorgio Ficara
nell'introduzione all'edizione dei Canti da lui curata (Milano: Mondadori,
1987), p. 16, e Luigi Blasucci in "Alla sua donna," in Letture leopardiane.
Primo ciclo, a cura di Michele Dell'Aquila (Roma: Fondazione Piazzolla,
1993), p. 23. La lettura di Blasucci è altresì utile per la sua analisi delle fonti
petrarchesche, ma non solo, di "Alla sua donna."
7
9
Sebastiano Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, terza ed. riveduta
con Addenda (Bari: Laterza, 1997), p. 109. Su Leopardi e Platone si vedano
Sebastiano Timpanaro, "Il Leopardi e i filosofi antichi," in Classicismo e
illuminismo nell'Ottocento italiano (Pisa: Nistri-Lischi, 1965), pp. 183-228;
Vincenzo Di Benedetto, "Giacomo Leopardi e i filosofi antichi," Critica storica
(1967), vi; Mario Andrea Rigoni, "Il materialismo e le Idee", in Saggi sul
pensiero leopardiano (Napoli: Liguori, 1985, pp. 55-72 ora in Il pensiero di
Alessandro Carrera
120
Leopardi [Milano: Bompiani, 1997]),; Gianfranco Contini, Letteratura italiana
del Risorgimento, tomo I (Firenze: Sansoni, 1986), p. 312; Franco Ferrucci,
"Memoria come immaginazione in Leopardi," Lettere italiane XXXIX, n. 4
(ottobre-dicembre 1987), pp. 502-14; Emanuele Severino, Il nulla e la poesia.
Alla fine dell'età della tecnica: Leopardi (Milano: Rizzoli, 1990), pp. 107-108,
e Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi (Milano: Rizzoli, 1997), pp.
89-92; Massimo Cacciari, "Leopardi platonicus?", in Drân. Méridiens de la
décision dans la pensée contemporaine, trad. fr. di M. Valensi (Paris: Éditions
de l'Éclat, 1992), pp. 111-32; Massimo M. Pesaresi, "Leopardi's Platonic
Temper," in Giacomo Leopardi. Estetica e poesia, a cura di Emilio Speciale
(Ravenna: Longo, 1992), pp. 55-75; Alberto Folin, "Il senso dell'immagine", in
Pensare per affetti. Leopardi, la natura, l'immagine (Venezia: Marsilio, 1996),
pp. 53-7; Marco Fortunato, "Il piacere dell'immagine. Realtà e irrealtà
dell'immagine in Leopardi," in AA.VV., Immagine e realtà. Annuario di
"Itinerari filosofici" 2 (Milano: Mimesis, 1998), pp. 127-36. Si veda anche
AA.VV., Leopardi e il mondo antico. Atti del V Convegno Internazionale di
Studi Leopardiani (Firenze: Olschki, 1982). La questione del platonismo
leopardiano è tutt'altro che pacifica. Timpanaro non attribuisce un'importanza
decisiva alle letture platoniche di Leopardi, sostenendo che la formazione
filosofica leopardiana resta debitrice soprattutto al sensismo del diciottesimo
secolo. Di parere del tutto diverso è Emanuele Severino, per il quale Leopardi
è un pensatore "greco," e contemporaneamente teso al superamento delle aporie
platoniche. Rigoni parla di platonismo, a proposito di "Alla sua donna,"
precisando che l'idea platonica potrebbe si rendere belle e felici la terra e la
vita, ma solo "se esistesse" (p. 63 dell'ed. 1985). Contini ha visto in "Alla sua
donna" più neoplatonismo che platonismo, e in particolare il metodo
neoplatonico "della teoria apofatica e negativa." Cacciari, dal canto suo, ha
trovato in Leopardi un platonismo "persuaso," cioè avvertito e disincantato.
Cesare Galimberti ha sostenuto che in Leopardi vi è una certa convergenza tra
platonismo e cristianesimo ("Novo ciel, nova terra," in AA.VV., Studi in onore
di Alberto Chiari [Brescia: Paideia, 1973], pp. 537-47); Antonio Negri ha
invece parlato di antiplatonismo proprio in riferimento a "Alla sua donna,"
perché appunto Leopardi non crede che l'Idea possa agire nella realtà, calarsi
nelle cose e rivestire "sensibil forma" (Leopardi. Un'esperienza cristiana
[Padova: Edizioni Messaggero, 1997], p. 237). Secondo Franco Ferrucci,
Leopardi è sempre stato "poeticamente" platonico, proprio per potersi servire
di quell'affascinante sistema di "idee preesistenti alle cose" ogni volta che
l'ispirazione lo richiedeva. Consideriamo che già Nietzsche, in un frammento
della primavera-autunno 1884, aveva definito Ultra-platoniker sia Leopardi che
Hölderlin: "La specie Hölderlin e Leopardi: sono abbastanza duro per ridere
della loro perdizione. Di questa si ha un'idea sbagliata. Questi ultraplatonici, ai
quali sfugge sempre l'ingenuità, finiscono male. Qualcosa nell'uomo dev'essere
duro e rozzo; altrimenti si perde in modo ridicolo, per continue contraddizioni
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'Alla sua donna'
con i fatti più semplici: per esempio, con il fatto che un uomo di tanto in tanto
ha bisogno di una donna [...]" (Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi, a cura
di Cesare Galimberti [Genova: Il Melangolo, 1992], p. 99). Nietzsche non
poteva sapere che i suoi futuri commentatori avrebbero sollevato precisamente
la questione del suo platonismo (Heidegger) e della sua apparente durezza con
le donne (Derrida). Ma, come scrittori, né Leopardi né Nietzsche potevano
accantonare del tutto Platone: "L'intenzione che il poeta persegue [...] è quella
di svelarci le idee, ossia di mostrarci mediante un esempio che cosa sia la vita
e che cosa sia il mondo" (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, a cura di Ada Vigliarli [Milano: Mondadori, 1989], pp.
1293-4). Ma perché sia possibile che idee altrimenti dette vita e mondo possano
essere convogliate e racchiuse in un esempio bisogna pur credere che la
contingenza di tale esempio sia in grado di rimandare a una verità che lo
incorpora e che gli è superiore.
10
Platone, Fedone, in Opere complete, trad. it. di M. Valgimigli (Bari: Laterza,
1977), pp. 177-85.
Alfred Edward Taylor, Platone. L'uomo e l'opera, trad. it. di M. Corsi
(Firenze: La Nuova Italia, 1968), pp. 324-5 (Plato: The Man and his Work
[London: Methuen, 1949, 6 ed.]).
Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul
mito e sulla struttura del tempo, ed. it. a cura di Alessandro Passi (Milano:
Adelphi, 1983), pp. 217-31 (Hamlet's Mill. An Essay on Myth and the Frame
of Time, [Boston: Gambit, 1969]).
Kàroly Kerényi, "I misteri dei Kabiri" ("Die Mysterien der Kabiren"), in Miti
e misteri, trad. it. di A. Brelich (Torino: Boringhieri, 1979), p. 40. Oppure: la
physis, qui simboleggiata dalla donna, "ama nascondersi" (Eraclito, Fr.
Diels-Kranz 123), cioè ama nascondere il processo della generazione.
I primi astri e le prime costellazioni di ogni cielo sono gli occhi della madre:
"[...] una delle prime forme circolari delle quali il bambino ha esperienza è
rappresentata dagli occhi materni e in particolare dalla pupilla nella quale egli
coglie l'immagine di un sé riflesso e che va gradualmente integrandosi nel corso
dello sviluppo, nel riconoscimento di un sé separato, unitario, e individualizzato
rispetto al corpo e al seno materno. È quindi nel 'nucleo,' nel cerchio mandalico
più interno (nella pupilla) che cogliamo le immagini e le parti più profonde del
sé originario e precoce" (G. Ba, S. Mungo, S. Belinzoni, F. Facco, "L'uso del
mandala nella relazione terapeuta-paziente come possibile strumento di lettura
psicodinamica," in Schizophrenia: An Integrative View. Experimental and
Clinical Researches, a cura di C. L. Cazzullo, G. Invernizzi e C. Bressi
[Milano: Ghedini, 1987], p. 247). Sul tema del mandala si vedano Carl Gustav
Jung, "Simbolismo del mandala," in Gli archetipi e l'inconscio collettivo. Opere
di C.G. Jung, Vol. 9, tomo I, ed. it. a cura di Luigi Aurigemma, trad. it. di L.
Baruffi (Torino: Bollati Boringhieri, 1980), pp. 345-77 (Über Mandalasymbolik,
1950," in Gesammelte Werke, Vol. 9, Bd. 1 [Olten: Walter-Verlag, 1974]);
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Alessandro Carrera
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Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala (Roma: Astrolabio, 1969); José
e Miriam Argüelles, Mandala (Boston-London: Shambhala Publications, 1972,
1985, 2 ed.). Sul simbolismo della spirale rimando a Jill Purce, The Mystic
Spiral. Journey of the Soul (London-New York: Thames and Hudson, 1974,
1990).
Sul tema della pericolosa vicinanza dell'Oggetto Totale, il datato ma sempre
utile Denis de Rougemont offre un vasto campionario, raccolto sia nella poesia
araba sia in quella provenzale: Ibn Dawud implora l'amata di non adempiere
alla promessa d'amore; Cercamon ammette di desiderare solo ciò che gli
sfugge; Matfre Ermengau sentenzia che il piacere d'amore è distrutto
dall'appagamento (L'amore e l'occidente, 1939, trad. it. di L. Santucci [Milano:
Rizzoli, 1977], pp. 430 e 136 - L'Amour et l'Occident [Paris: Union General
d'Éditions, 1962, 2 ed.]). Per venire a un esempio più recente, così una voce
si rivolge a Diana, donna celeste, dea-luna violata dagli astronauti dell'Apollo
11, in una poesia di Andrea Zanzotto scritta nel 1969 e pubblicata ventun anni
dopo (Gli sguardi, i fatti e senhal [Milano: Mondadori, 1990], p. 13): "- Ora ti
dormi tutta / occhi capelli raggi bocca / e l'altre cose dolci che non si toccano
/ tutta quel tu che non si tocca." Lo stesso Zanzotto ha contrapposto una
possibile "oralità eterna" come rapporto immediatamente fisico con la madre
(lingua-madre) con le "protoscritture" (dalla carezza al graffio) che vengono a
"intagliarsi" sul corpo e con le quali la distanza della madre e dalla madre viene
marcata: "Ma la madre si sottrarrà a tale contatto, pur se non completamente,
ponendosi sempre 'un p o " oltre," rendendo così temibile una vera e propria
catastrofe della lingua (Andrea Zanzotto, Fantasie di avvicinamento [Milano:
Mondadori, 1991], p. 290). Notiamo di sfuggita (perché l'argomento merita ben
altro studio) che il rapporto tra distacco dal corpo materno e pratica della
scrittura, implicito e sorvegliato tanto in Leopardi quanto in Nietzsche, si fa
esplicito e apertamente centrale in Zanzotto. Si veda, come primo approccio,
John P. Welle, The Poetry of Andrea Zanzotto: A Critical Study of "Il Galateo
in Bosco" (Roma: Bulzoni, 1987), pp. 91-112.
Su "Alla sua donna" si vedano anche: Giuseppe De Robertis, Saggio su
Leopardi (Firenze: Vallecchi, 1944); Cesare Luporini, Leopardi progressivo
(Firenze: Sansoni, 1947; 2 ed. Roma: Editori Riuniti, 1980); Piero Bigongiari,
Leopardi (Firenze: Vallecchi, 1962); Mario Fubini, "Alla sua donna" (1963), in
G. L., Opere, a cura di M. Fubini (Torino: UTET, 1977); Walter Binni,
"Introduzione" a G. L., Tutte le opere, Vol. I (Firenze: Sansoni, 1969, 1976, 2
ed.); G. Savarese, "Consapevolezza e illusione nella canzone 'Alla sua donna'"
(1970), in L'eremita osservatore. Saggio sui "Paralipomeni" e altri studi su
Leopardi (Padova: Liviana, 1982); Angelo Jacomuzzi, "La canzone leopardiana
'Alla sua donna'," Italianistica IV, no. 1 (1975), 32-49; A. Noferi, "Petrarca in
Leopardi e la funzione di un commento," in Rime di F. Petrarca con commento
di G. L. (Milano: Longanesi, 1976); Walter Binni, La protesta di Leopardi
(Firenze: Sansoni, 1982); Michele Dell'Aquila, "Schede di lettura della canzone
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'Alla sua donna'," in La virtù negata. Il primo Leopardi (Bari: Adriatica
Editrice, 1987). Si veda anche Antonio Prete, "Il sublime e la prossimità
dell'assente," in Dicibilità del sublime, a cura di Tomaso Kemeny e Elena Cotta
Ramusino (Udine: Campanotto, 1990), pp. 257-60, in cui il Canto leopardiano
viene interpretato su uno sfondo costituito dallo Pseudo-Longino, dalla Passante
di Baudelaire e dall'amor de lonh rudelliano; ora in A. Prete, Finitudine e
infinito. Su Leopardi (Milano: Feltrinelli, 1998), pp. 103-9.