L`Europa come strumento di nation-building: storia e
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L`Europa come strumento di nation-building: storia e
L'Europa come strumento di nation-building: storia e storici dell'Italia repubblicana Federico Ramerò Per lo storico, non meno che per il fotografo o il cameraman, sono sempre cruciali il punto di osservazione, l'angolazione dell'inquadratura, che possono far emergere immagini anche radicalmente diverse dello stesso oggetto. La vi-cenda storica dell'Italia post-bellica non è mai stata al centro della mia specializzazione professionale (mi occupo principalmente degli Stati Uniti e delle loro relazioni con l'Europa). Ma l'ho tuttavia osservata, oltre che con l'ovvia curiosità del cittadino, anche attraverso ricerche che di quella vicenda esaminavano aspetti «esterni»: problemi di relazioni internazionali, di conformità o disomogeneità rispetto a modelli trans-nazionali, di proiezione estera di alcuni dei propri dilemmi interni.1 La mia quindi è una posizione doppiamente da outsider, rispetto agli storici «italianisti» della Repubblica. In primo luogo perché le mie fonti ei miei protagonisti stavano più spesso a Washington e Bruxelles che non a Roma o Torino. In secondo luogo perché mi trovo abitualmente a discutere con dei colleghi (storici della ricostruzione europea, dell'integrazione, delle relazioni euro-americane ecc.) per i quali l'Italia post-bellica è un soggetto tra tanti, sempre intrinsecamente visti in comparazione tra di loro. Uno sguardo «esterno» dunque, con un'angolazione portata a sottolineare sia le «normalità» dell'Italia post-bellica che le sue «peculiarità», e ad interpretare taluni fenomeni italiani come componenti magari dissimili, ma non sempre fondamentalmente divergenti, di processi storici dai contorni geograficamente più ampi. Che da questi punti di osservazione si profili una storia diversa rispetto a quella dell'Italia ritratta dagli storici che hanno una focalizzazione interna è naturale e necessario. E potrebbe essere scientificamente assai utile, se tra queste diverse rappresentazioni storiografiche vi fosse interazione 1 Cfr. CU Stati Uniti e il sindacalismo Europeo 1944-1951, Edizioni Lavoro, Roma 1989; Emigrazione e integrazione europea 1945-1973, Edizioni Lavoro, Roma 1991; Gli Stati Uniti in Italia: Piana Marshall e Patta atlantico, in AA.VV., Storia dell'Italia repubblicana, v. 1, La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino 1994, pp. 231-89. Le riflessioni presentate in questo mio intervento devono moltissimo alla lunga, affezionata e stimolante frequentazione di Vibeke Sorensen, che purtroppo è scomparsa net gennaio scorso- Tutti coloro che, negli ultimi anni, si sono occupati di storia dell'integrazione europea sanno quanto ci mancherà la sua vitale, intelligente elaborazione storica e teorica. «Passato e presente», a. XIII (1995), n. 36 20 INTERVENTI e confronto. Così invece generalmente non è, per una varietà di motivi culturali, disciplinari e istituzionali che inducono a una tacita distanza reciproca. Da ciascuna angolazione, o per lo meno dalla mia, ci si trova allora spesso a constatare discrepanze narrative e interpretative talora così acute da apparire incongrue: esse sono particolarmente evidenti sui temi della ricostruzione, dell'identità nazionale e dell'integrazione dell'Italia in Europa. Qui vorrei mettere a fuoco alcune di queste discrepanze e collegarle a più ampie caratteristiche della cultura politica e pubblica dell'Italia repubblicana. 1. Dal dopoguerra fino al trattato di Maastricht l'atteggiamento pubblico dell'Italia nei confronti dell'integrazione europea ha mostrato una peculiare e spesso contraddittoria miscela di temi e linguaggi. Per un verso vi era una sovrabbondanza di altisonanti dichiarazioni sui valori superiori della civiltà europea, sempre idealizzata come fondamentale eredità comune se non addirittura come unica fonte di speranza per un continente devastato dalle guerre nazionalistiche del recente passato. Spesso in questi proclami cosmopoliti risuonava l'ambizione ad una politica estera dagli scopi tanto magniloquenti quanto irrealistici: l'unità europea veniva esaltata quale possibile fattore di pace nel contesto di un antagonismo bipolare che la maggior parte delle forze politiche italiane in fondo vedeva più come una minaccia per la stabilità internazionale che non come un suo fattore costitutivo. D'altro canto, però, i governanti italiani esibivano anche un pragmatismo ben più robustamente efficace nel rivendicare i benefici economici nazionali, e spesso settoriali e locali, che sarebbero derivati dall'integrazione europea. Nelle varie fasi del suo avanzamento, essa venne quindi a incarnare la realizzazione di cruciali obiettivi non continentali o sovranazionali ma prettamente italiani: cornice istituzionale per lo sviluppo di una moderna industria siderurgica, perno per l'industrializzazione estensiva; nuova opportunità di impiego per i disoccupati meridionali; grande mercato per esportazioni a basso costo; fonte di capitali d'investimento per il Sud e perla «coesione sociale». A partire dagli anni Settanta, anche un potenziale gendarme monetario e fiscale per un sistema politico intrinsecamente inflattivo e propenso al deficit, Di questo duplice linguaggio dell'europeismo italiano si trovano però poche tracce nella scarsa letteratura sull'Italia e l'integrazione: le analisi delle idee e della cultura politica hanno prevalso su ogni altro approccio. Invece, i recenti progressi della ricerca d'archivio su varie tematiche (in prevalenza di carattere economico-politico) sembrano indirizzare la storiografia verso un diverso consenso interpretativo. Dai lavori svolti sulle origini della Comunità europea de! carbone e dell'acciaio, sulle politiche commerciali e industriali, su quelle agricole, sulla politica migratoria, come sulla visione d'assieme della diplomazia italiana,2 emerge chiaramente la netta prevalenza che il secondo tipo di argo- 2 Cfr., rispettivamente, R. Ranieri, L'espansione alla prova del negoziato. L'industria italiana e la Comunità del carbone e dell'acciaio 194S-19S5, istituto Universitario Europeo, tesi di dottorato, Firenze 1988; F. Fauri, Ncgotiating for Industrìalimtion: Itaiy's Commercial Strategy and Industrial Expansion in the Context of the Attempts to Further European Integration, Istituto Universitario Europeo, tesi di dottorato, Firenze 1994; G. Laschi, L'Italia e il processo di integrazione europea: il caso dell'agricoltura 1947-195S, Istituto Universitario Europeo, tesi di L'EUROPACOMESTRUMENTODINATION-BUILDING 21 menti — quelli di natura pragmatica e nazionale - ebbe sempre nel guidare le scelte dei governi e le loro negoziazioni con partiti, forze sociali e gruppi d'interesse. Durante l'intera storia della «Prima Repubblica», furono i dirigenti democristiani, e in particolare De Gasperi, a indicare con maggiore lucidità il legame forte che univa quei due piani del discorso politico, e ad incardinare il proprio disegno strategico nel punto in cui essi si intersecavano. In effetti è stato De Gasperi a definire ed organizzare quasi tutti i principali argomenti che hanno poi guidato l'approccio ufficiale e pubblico dell'Italia all'integrazione europea fino a pochi anni fa. E molti dei successivi problemi interpretativi nascono dal fatto che, da buon politico, egli presentò la scelta europea con toni, scopi e motivi sapientemente differenziati (per quanto interconnessi) a seconda dei diversi interlocutori a cui di volta in volta si rivolgeva. Al pubblico indistinto dei cittadini e degli elettori - il cui senso di appartenenza e di identità nazionale, già storicamente breve e superficiale, era appena stato terremotato dalla disastrosa implosione del proprio Stato-nazione durante la guerra - la oc degasperiana presentò l'Europa come una sorta di «nuova casa». Un ambito di appartenenza, cioè, in cui le tradizioni locali si sarebbero conciliate quasi senza traumi con la modernità; in cui avrebbe riacquisito senso e vitalità una coscienza nazionale opportunamente scrostata dai sedimenti della frustrazione nazionalistica; e in cui il paese avrebbe trovato una confortevole nicchia per riadattarsi ad un mondo così sconcertantemente dissimile dalle illusorie geografie scioviniste dell'immaginario collettivo pre-bellico. Al proprio ambiente cattolico De Gasperi additò l'unificazione europea sia come opzione etica di politica estera che come principale, forse unica, speranza di rilevanza culturale e politica in un mondo inquietantemente secolarizzato. Per ì cattolici inclini al non allineamento militare, infatti, l'appartenenza ad un'Europa integrata avrebbe attutito il brutale impatto con i rigori degli equilibri di potenza, aiutandoli così a conciliarsi con la scomoda necessità di appartenere all'alleanza militare occidentale. Inoltre, in un'Europa a guida cristiano-democratica essi potevano ragionevolmente coltivare l'ambizione di esercitare una leadership ideale e politica, e quindi di esplicare un'effettiva influenza internazionale.5 Ma, al di là di queste distinzioni, la scelta italiana per l'integrazione europea era innanzi tutto una questione di sviluppo della nazione, sia nei senso di crescita e modernizzazione economica che di stabilizzazione politica e costituzionale. Per i diversi gruppi d'interesse economico come per le forze sociali, le aggregazioni culturali e, più ancora, le forze politiche interessate, ciò che davvero risultava cruciale era l'integrazione non tanto dell'Europa quanto dell'Italia in Europa. Di questa visione De Gasperi formulò una sintesi apodittica: «una dottorato, Firenze 1992; F. Ronaero, Emigrazione e integrazione europea 1945-1973 cit.; A. Varsori, Introduzione, e L'Italia e l'integrazione europea dal Piano Marshall al Piano Pleven, entrambi in Id. {a cura di). La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), LED, Milano 1993, pp. 7-40 e 331-60. J Si veda S. Galante, Alla ricerca della potenza perduta: la politica internazionale della DC e del PCI negli anni '50, in E. Di Nolfo-R, Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L'Italia e la politica di potenza, 1950-1960, Marzorati, Milano 1992, pp. 173-98. 22 INTERVENTI carenza di materie prime ed una sovrabbondanza di manodopera: questa è la situazione geo-politica dell'Italia».* Per quasi tutti i suoi sostenitori, e certo per quelli in posizioni di potere e responsabilità politica, l'Europa doveva costituire una risposta ai problemi internazionali, ma più ancora a quelli interni- economici, sociali e politici - in cui si dibatteva la nazione. In questa sua essenziale finalità di consolidamento e rafforzamento dello Stato nazionale l'europeismo italiano non costituiva peraltro una significativa variazione rispetto agli scopi sostanzialmente analoghi perseguiti dagli altri partner comunitari.5 Per i governi di coalizione imperniati sulla DC, negli anni Cinquanta l'integrazione europea fu uno degli assi portanti del loro sforzo di far fronte ad alcune caratteristiche strutturali dell'arretratezza italiana in condizioni tali da poter simultaneamente sostenere e vincere la competizione elettorale di massa inaugurata dalla Costituzione repubblicana. Si trattava di innescare e far perdurare nel tempo una rapida crescita economica, e al tempo stesso di non consentire che le dislocazioni sociali che ne conseguivano (per non parlare di quelle ben più minacciose che sarebbero derivate da una prolungala stagnazione) divenissero così ampie e incontrollate da disgregare la coalizione sociale ed elettorale su cui poggiavano i governi centristi, mettendone quindi in pericolo non solo le strategie ma la stessa sopravvivenza. La soluzione di questa complessa equazione risiedeva anche, e in non piccola parte, nella sfera internazionale. La liberalizzazione commerciale nell'area dell'OECE, il sistema di compensazioni finanziarie dell'Unione europea dei pagamenti e, più ancora, l'integrazione europea furono considerati come l'unica cornice economica ed istituzionale appropriata per far fronte ai problemi dell'Italia. Il difficile compito di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo economico e alla stabilizzazione politica del paese non poteva che essere condiviso con i partner internazionali. Il vero centro propulsore e motivante dell'europeismo dell'Italia fu sempre, e assai chiaramente, il bisogno di una «messa in comune» dei problemi del paese.6 Gli obiettivi chiave perseguiti nelle negoziazioni dei trattati di Parigi e poi di Roma sono, in proposito, rivelatori: nuovi mercati per l'esportazione di prodotti resi competitivi dai bassi costi; massima apertura delle frontiere per espandere la fuoriuscita di emigranti dall'Italia; risorse finanziarie per estendere e modernizzare l'apparato industriale nazionale e per fronteggiare i costi delle relative dislocazioni occupazionali e sociali. Ancora una volta, fu De Gaspe-ri a dare la più succinta razionalizzazione di questo atteggiamento strategico dell'Italia: «non è possibile trovare la soluzione dei nostri problemi nell'ambito nazionale».7 * A. De Gasperi, Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 1985, p. 794. s Si veda A.S. Mi!ward-F. Lynch-R. Ranieii-F. Rumerò-V, Sorensen, Tire Frontier of National Sovereignty. HiStOry and Theory 1945-1992, Routledge, London 1993. Inoltre A.S, Miiward, The Europecm Resene ofthe Nation State, Routledge, London 1993. 6 I. Poggiolini, Europeismo degasperiano e politica estera dell'Italia 1947-49: un'ipotesi interpretativa, «Storia delle relazioni internazionali», 1 (1985), ri. 1, p. 82. 7 ADSTANS, Alcide De Gasperi netta politica estera italiana (1944-1953), Mondadori, Milano 1953, p. 129- L'EUROPACOMESTRUMENTODINATION-BUILDING 23 La ricerca storica ha ormai persuasivamente dimostrato come la preferenza italiana per quella che, nel gergo odierno, si chiamerebbe integrazione «hi profondità» - cioè per il massimo livello possibile di sovranazionaiità, di integrazione politica, e di politiche pubbliche comunitarie - non derivava da una idealistica propensione federalista quanto da una valutazione pragmatica delle esigenze nazionali (ovviamente secondo l'interpretazione che di esse davano i dirigenti democristiani e centristi). La delicata complessità della società italiana, ed in particolare il suo dualismo economico, richiedevano che all'interdipendenza si facesse fronte con schemi dirigisti più sofisticati della semplice estensione di un'area di libero scambio. Per irrobustire i pochi settori competitivi bisognava esporli alla concorrenza: ma ciò andava fatto con cauta e controllata gradualità. Cosa forse ancora più importante, non si potevano elevare a livelli europei di produttività le aree depresse ed i settori non concorrenziali se non si poteva disporre di quei capitali di investimento e di quelle costose politiche sociali che avrebbero potuto derivare solo da un alto livello di coordinazione e di interventismo sovranazionale.8 Fu innanzi tutto questa intrinseca, e talora contraddittoria, molteplicità di scopi che fece sempre ruotare la politica europea dell'Italia intorno al perno fondamentale di un'integrazione radicalmente sovranazionale. I dirigenti democristiani erano perfettamente consapevoli dell'urgenza politica di assicurare una robusta crescita economica che portasse, almeno sul medio periodo, ad una sostanziale riduzione della disoccupazione. Ovviamente, questa era un'esigenza imperativa per i governi di tutte le democrazie europee. Tuttavia, nell'Italia della guerra fredda e del riassestamento post-bellico questa priorità politico-economica inglobava anche un'urgenza storica più drammatica. Agli occhi dei dirigenti centristi da essa dipendeva infatti non solo la sorte di una maggioranza politica, sia pure importante come la propria, ma la stessa preservazione della Repubblica come entità democratica, indipendente ed occidentale. Ciò che per loro era in gioco - nel complesso processo di apertura dell'economia nazionale alla concorrenza estera, di ampliamento e ristrutturazione della base produttiva e, simultaneamente, di riduzione della disoccupazione e di stimolo allo sviluppo delle atee depresse - era niente di meno che la sopravvivenza del fragile Stato nazionale ricostituito alla fine della seconda guerra mondiale. Essi dubitavano che in un regime politico aperto si potessero assicurare la coesione sociale, la stabilità istituzionale e politica, e il consolidamento culturale della nazione, senza l'ausilio di un cospicuo interventismo da parte di un'Europa integrata. Il consolidamento dello Stato nazionale, e della stessa egemonia democristiana al suo interno, doveva fare affidamento sull'Europa. I diversi ministeri che, pur succedendosi e variando di accenti, chiedevano tuttavia con monotona insistenza delle politiche europee comuni, dei fondi sociali e di investimento europei, delle forti ed efficaci istituzioni sovranazionali al fine di giungere a «trasformare il problema italiano della crescita e del- 1 Si vedano le considerazioni di P. Saraceno, Gli anni dello schema Vanoni (1953-1959), Giuffrè, Milano 1982, in particolare i saggi Schema Vanoni e integrazione europea nella politica meridionalistica degli anni Cinquanta, pp. 61-82, e Schema Vanoni e MEC, pp. 167-78. 26 INTERVENTI plicito dell'atteggiamento federalista, secondo cui il processo storico di integrazione europea sarebbe questione non di natimi-building ma di idealismo so-vranazionale, oppure se l'assunto non dichiarato sia che la trasformazione postbellica della società italiana abbia in fondo avuto poco a che fare con il suo contesto internazionale. Queste due possibilità non sono reciprocamente incompatibili, ed anzi mi pare ipotizzabile che esse coesistano in modo complementare. Quel che mi preme sottolineare, ad ogni modo, è il carattere emblematico, e concettualmente auto-limitativo, di questo non approccio all'intera tematica. Se le ipotesi avanzate in precedenza hanno infatti un qualche fondamento, ci troviamo di fronte a qualcosa di più serio della consueta marginalizzazione degli aspetti internazionali della storia d'Italia (il che sarebbe comunque già rimarchevole per un periodo, come quello postbellico, segnato dal crescere dell’interdipendenza istituzionalizzata, da un'inedita alleanza strategica ed ideologica, dal rapido e massiccio trasferimento di modelli culturali e sociali ecc.). Mi pare cioè che si debba discutere apertamente dell'esistenza di un paradigma eccezionalista che sembra attraversare la storiografia dell'Italia: un paradigma non esplicitato, ma robusto e pervasivo, che di fatto porta ad escludere ogni considerazione dell'esperienza storica italiana in una prospettiva comparata. Se c'è infatti un elemento che accomuna i lavori interpretativi appena citati, questo è il loro ritrarre una vicenda storica nazionale che - al dì là dei puri riflessi interni della contrapposizione ideologica della guerra fredda - sembrerebbe aver luogo in una sorta di vuoto. Pur con cospicue differenze, tutti in qualche modo ruotano intorno all'idea che l'Italia avrebbe vissuto un processo di modernizzazione spurio, distorto e incompiuto, tanto da configurare un'esperienza storica assolutamente unica e singolare. Le mie obiezioni non sono rivolte all'indirizzo interpretativo di questa visione - della cui utilità e validità è testimone la sua multiforme diffusione nella storiografia come nelle scienze sociali - quanto piuttosto alle sue inespresse premesse concettuali. Perché nella tesi di una assoluta «peculiarità della modernizzazione italiana» è intrinseca la nozione che si faccia riferimento, per contrasto, ad un modello storico altrove dominante. E tuttavia nella nostra storiografia non affrontiamo mai la questione di quale sia e cosa sia questo modello di modernizzazione. Rispetto a quali altri percorsi risulta deficitaria o distorta la modernizzazione dell'Italia post-bellica? L'esperienza francese di dirigismo statalista? Quella dell'economia sociale di mercato tedesca? Quella britannica del welfare state universalistico? A questa questione non vi è risposta per il semplice fatto che non ci poniamo mai davvero la domanda. Finiamo così per riferirci a un orizzonte largamente astratto e astorico, e ad un idea fondamentalmente soggettiva e impressionistica di cosa avrebbe mai dovuto essere questa benedetta «modernizzazione». Quello dell'Italia del dopoguerra sarebbe così un caso tanto peculiarmente eccezionale da non poter essere paragonato, sotto alcun pirofilo concreto ed analizzabile, neppure alle esperienze storiche delle nazioni più affini, nelle quali operava lo stesso Piano Marshall e cresceva la stessa economia del consumo di massa e del welfare state, che organizzavano la interdipendenza con strumenti comuni come L'OECE e L'UEP, e che procedevano addirittura a una reciproca integrazione in strutture sovranazionali! L'EUROPA COME STRUMENTO DI NATION-BUJLDÌNG 11 Mi pare cioè che abbiamo bisogno di un serio sforzo in direzione di veri e propri studi comparativi, ed ancor più di una mentalità maggiormente comparativista nell'insieme della ricerca e della riflessione storica. Ciò risulta tuttavia assai arduo in presenza del diffuso pregiudizio storiografico che ci fa guardare alla storia d'Italia con l'occhio fissamente, e giustamente, rivolto a scoprire le ragioni per cui essa ha sempre stentato a «diventare normale»,15 ma senza tuttavia mai delineate i tratti di quella presunta normalità. 3. Queste che ho definito discrepanze non riguardano comunque solo gli storici, e sono anzi interessanti proprio perché appartengono più ampiamente alla cultura dell'intero paese. Perché è evidente che, sul problema dell'Europa, in Italia vi è a lungo stata una decisa schizofrenia - questa sì davvero peculiare. Se l'obiettivo chiave della politica europeista italiana era senz'altro il consolidamento di uno Stato-nazione dalle basi ancora assai fragili, la retorica politica e pubblica ha peraltro sempre dato la massima enfasi - ben più che in ogni altro paese comunitario - alla suprema importanza della unificazione politica, di una piena e compiuta sovranazionalità. Cosa forse ancor più impressionante, questo atteggiamento ultra-europeista ha incontrato via via sempre minori opposizioni, e negli ultimi venticinque anni ha finito per abbracciare quasi l'intero spettro politico e culturale. Quando i Trattati di Roma furono presentati in Parlamento, si dichiararono favorevoli non soltanto i partiti dell'area di governo, ma persino i neo-fascisti congenitamente deputati alla difesa del nazionalismo: e la loro motivazione, sintomaticamente parallela a quella offerta dal governo, era che il tipo di integrazione economica prevista dai Trattati era tale da non minacciare di obliterare la nazione. Anche i settori più esplicitamente protezionisti del mondo industriale e commerciale ritennero opportuno ammantare di alti ideali europei le proprie richieste di sussidi e protezioni nazionali.'6 Nell'arco degli ultimi quarant'anni, i ranghi sempre più inclusivi dell'europeismo italiano hanno progressivamente finito per comprendere non solo l'originaria e strana coppia dei cattolici e dei liberali, ma poi quelle ancor più bizzarre dei federalisti e dei nazionalisti economici, dei programmatori keynesiani e dei liberisti, degli atlantisti e dei neo-fascisti anti-americani, dei difensori dell'unità risorgimentale e dei suoi più recenti critici autonomisti. Anche l'intera sinistra socialista e marxista ha finito per confluire, passo dopo passo, nel grande fiume dell'europeismo italiano. Nel primo decennio post-bellico l'opposizione di sinistra, ed in primo luogo il PCI, aveva fieramente contrastato l'integrazione, interpretandola come un ulteriore disegno - dopo il Piano Marshall e la NATO - di subordinazione del paese all'egemonia del capitalismo internazionale e segnatamente di quello americano- In quell'ottica, lo sviluppo del paese aveva bisogno non di interconnessione con l'Occidente ma dì neutralità e piena sovranità, di nazionalismo economico più che di interdipendenza. Poi l'avvicinamento all'area di governo, gli effetti del boom economico connesso all'entrata in vì- !s 5. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana cit., p. 455. 16 Cfr. F. Roy Willis, Italy Chooscs Europe, Oxford University Press, New York 1971, p. 207 e ss., e F. Fami, Negotìating fbr Industrialization cit. 28 INTERVENTI gore del MEC, la graduale accettazione di un'Italia occidentale e, infine, l'incedere della distensione internazionale stimolarono un graduale ma profondo mutamento di rotta. Dapprima i socialisti non si opposero ai Trattati di Roma, e poi i comunisti iniziarono a tramutare la loro opposizione all'Europa comunitaria in attenzione, coinvolgimento ed infine partecipazione e sostegno senza riserve. Dai primi anni Settanta il pei prese ad apprezzare la CEE come fattore di crescita economica e di cooperazione internazionale e poi - allineandosi progressivamente alle socialdemocrazie - giunse a riprendere, pur se mutato di segno, l'auspicio degasperiano dell'Europa unita come veicolo per l'estensione della propria influenza internazionale e di quella dell'Italia. Ora si trattava non dell'Europa democristiana ma di quella delle socialdemocrazie: i protagonisti erano diversi., ma lo schema concettuale era largamente simile.17 La dominazione dell'europeismo nel discorso politico italiano si è quindi fatta piena e incontrastata, e negli ultimi anni la schizofrenia si è ulteriormente approfondita. Nel 1992-93 - proprio mentre la politica economica italiana si affidava a una radicale svalutazione della lira dopo la fuoriuscita dallo SME - l'intero spettro politico continuava a lodare senza riserve l'unificazione politica e monetaria come unici scenari per lo sviluppo del paese.18 Nella storiografia scontiamo però una singolare assenza di ricerche e acquisizioni su questo intreccio così peculiarmente italiano tra una idealizzazione pressoché incontrastata dell'unificazione sovranazionale e delle politiche deliberatamente mirate al consolidamento e alla crescita della nazione." Vorrei quindi concludere additando semplicemente alcuni possibili indirizzi di ricerca e discussione. 4. Una prima considerazione è che il linguaggio dell'euro-idealismo ha rappresentato una sorta di codice condiviso, un utilissimo terreno di incontro all'interno di un sistema politico dominato da culture universaliste. Uno spirito universalista era largamente intrinseco sia alla cultura cattolica che a quella socialista e comunista. Ma in Italia anche le deboli forze liberali e conservatrici laiche assunsero un'identità via via più ispirata a un vago eppur orgoglioso cosmopolitismo: a differenza dei loro corrispettivi britannici e francesi essi infatti non potevano affidarsi alle ben più solide fondamenta di una radicata e persistente tradizione nazionale. Da ogni parte, quindi, le scelte di politica " Sì veda S. Galante, In Search of Lost Power, in E, Di Nolfo {a cura di), Power in Europe? Great Britain, France, Germany and Italy and the Orìgins of the EEC, 19S2-19S7, De Grunter, Berlin 1992, p. 409. 18 Ed i motivi fondamentali per tale posizione restavano quelli di sempre. Nella campagna elettorale della primavera del 1994 il programma del I>DS conteneva la seguente dichiarazione di puro stampo degasperiano: «Proprio perché l'Italia è indebolita da grandi carenze sociali e strutturali, l'unica possibilità per un moderno sviluppo economico e sociale del nostro paese risiede nel processo di unione europea». " Anche la ben nota sindrome italiana dell'essere «europeista nelle parole e non nei fatti», di non rispettare gli impegni presi in sede comunitaria pur senza per questo mettere la sordina alla propria roboante retorica europeista, può comunque avere una sua contorta eppur razionale funzionalità politica: si veda in proposito l'interessante analisi di M. Giuliani, (1 processo decisionale italiano e le politiche comunitarie, «Polis», 6 (1992), n. 2, pp. 307-42. L'EUROPA COME STRUMENTO DI NATION-ÌIMLDING 7.9 estera vennero sempre ammantate di una retorica universalista, e presentate, in Italia ancor più che altrove, come scelte di appartenenza e di civiltà. L'interpretazione dell'unità europea in chiave di valore ideale rispondeva a diversi scopi e funzioni. In quel vuoto di identità nazionale ereditato dalla guerra, essa permetteva di razionalizzare la valenza effettivamente nazionale della negoziazione dei termini concreti dell'integrazione. Soprattutto, essa facilitava la riconciliazione con la realtà di un rigido bipolarismo a dominio extraeuropeo per quelle varie forze e culture che vi si trovano fortemente a disagio: i residui del nazionalismo pre-bellico e la destra anglofoba, il pacifismo cattolico e, con il passare del tempo, anche la sinistra antiamericana. Nel primo ventennio post-bellico, infatti, l'opposizione comunista usò la bandiera dell'indipendenza e dell'autonomia dello sviluppo nazionale in contrapposizione all'allineamento atlantico. Ma poi, mano a mano che le sinistre previsioni di un soggiogamento statunitense dell'Europa si rivelavano inconsistenti, e che le sinistre italiane si avvicinavano alla sfera delle responsabilità di governo, l'europeismo divenne anche il loro orizzonte mentale, il linguaggio concettuale che consentiva di collocare l'aspirazione all'autonomia in un contesto più credibilmente realistico, meno antagonistico e più pragmatico. L'idealizzazione dell'unità europea crebbe così fino a divenire la lingua franca di un intero sistema politico le cui varie componenti non volevano e non potevano adottare registri esplicitamente nazionalistici, anche se tutte perseguivano, in varia fatta e misura, delle strategie di sviluppo e consolidamento dello Stato nazionale. Una seconda questione riguarda i nessi tra la cultura politica e il complesso della società italiana. È evidente che l'incerta debolezza dell'identità nazionale era fenomeno ben più esteso del sistema politico, e tuttavia di questa pervasiva realtà abbiamo una conoscenza storica, o sociologica, assai più intuitiva che analitica. Quel tanto dì ricerca fatta finora sul tema (peraltro scivoloso) della «opinione pubblica», suggerisce che negli anni Cinquanta molti italiani vedevano nell'Europa la sfera più naturale e promettente per realizzare l'uscita dal «ghetto» post-bellico, e per trovare le leve internazionali necessarie a risolvere le difficoltà del paese.20 Un lavoro di ricerca assai più ampio è stato fatto nel campo adiacente della «americanizzazione». Per quanto naturalmente propensi a enfatizzare le influenze transatlantiche, sono studi che forniscono utili indicazioni anche sulle nostre tematiche. Molte ricerche focalizzate sulla ricezione e l'adattamento locale della cultura sociale e materiale americana mostrano quanto l'Europa fosse vista in chiave non alternativa ma complementare all'atlantismo e all'americanismo, come integrazione positiva e necessaria alle molteplici relazioni con gli USA. Il bisogno di inclusione, di «appartenenza» all'Europa, originava anche dal desiderio di attenuare il rigore dell'allineamento bipolare, e di esaltare invece un senso di autonomia e di identità propria, di persistenza storica e culturale, pur nel contesto dì una modernizzazione che sognava l'America. 30 Cfr. K. Rainero, ltalìan Public Opinion and European Politics 1950-1956, in E. Di Nolfo (a cura di), Power in Europe? cit., pp. 490-95. 30 INTERVENTI Fu in particolare nella cultura cattolica - la quale ambiva a una modernizzazione «controllata», depurata per quanto possibile di valori materialistici e secolari, e sentiva quindi l'urgenza di ideali riequilibranti che contribuissero a rassodare, invece di sradicare, la cultura tradizionale - che si eresse un'immagine alta e nobile dell'Europa come aspetto di un'identità che voleva riuscire ad essere tanto nuova quanto ininterrottamente continuista.2> Ma il concetto stesso di una cultura e di un'appartenenza europea era importante anche negli ambiti più secolarizzati della cultura economica e delle scienze politiche e sociali, nella pubblica amministrazione e in diversi gruppi d'interesse. Serviva a demarcare una propria sfera di indipendenza e originalità rispetto a tutto ciò che era o appariva americano, così da perpetuare e aggiornare il proprio irrinunciabile bagaglio culturale anche nel più vasto mondo post-bellico, anche nel flusso della modernizzazione.22 La rivendicazione di autonomia e indipendenza culturale fu ovviamente un carattere distintivo degli intellettuali e degli opinion-maker che, a destra come a sinistra, hanno pervicacemente esaltato l'Europa come matrice più appropriata, se non indispensabile, per un approccio «raffinato» e «civile» alla modernità, in alternativa a quello «spietato» e «grossolano» dell'America. In larga parte si è trattato di una naturale autodifesa ideale e funzionale degli intellettuali europei, italiani e non, ma mi pare che ciò rifletta qualcosa di più vasto. Se e quando si scriverà la storia socio-culturale delle élites e delle classi medioalte italiane, si scoprirà probabilmente che esse coltivavano l'ambizione di giungere alla prosperità consumistica senza però accoglierne pienamente le concomitanti caratteristiche americane: l'individualismo acquisitivo e materialistico, la stratificazione sociale fondata sul solo denaro. Almeno fino ai primi anni Settanta i ceti professionali, intellettuali e manageriali, e in genere le classi medie più istruite, hanno sempre considerato Parigi, o magari Londra, ma non certo New York e men che meno Los Angeles quali capitali del loro immaginario, modelli di cultura, organizzazione sociale e stili di vita. Che relazioni intercorrevano tra questi aspetti della nostra storia sociale e la retorica politica sull'integrazione dell'Europa e nell'Europa, il crescere degli interscambi (materiali e non) con i paesi europei, la sempre più altisonante e pervasiva celebrazione di una «cultura comune europea»? Sono domande a cui, come storici, non siamo in grado di rispondere, e a cui andrebbe quindi dedicato un articolato sforzo di ricerca. Esso dovrebbe includere anche altri gruppi sociali, perché una cosa è sufficientemente chiara: da qualsiasi angolazione la si affronti la questione dell'Europa rivela una singolare capacità di toccare aspetti rilevanti per l'identità e gli interessi, per quanto diversi, di ogni entità sociale. Per l'industria, e per una parte almeno dell'agricoltura, integrazione u Cfr. P.P. D'Attorte (a cura di), 'Nemici per la pelle, Angeli, Milano 1991, in particolare i saggi di A. Ventrane, L'avventura americana della classe dirigente cattolica, pp. 141-60, e di M. Barbanti, La "battaglia per la moralità" tra oriente, occidente e Italocentrismo 1948-1960, pp. 161-98. Si veda inoltre G. Fink-F. Minganti, La vita privata italiana sul modello americano, in P. Ariès-G. Duby (a cura di), La vita privata. Il Novecento, Laterza, Bari 1988, pp. 351-80. 22 Sì veda F. Romero (a cura di), Americanizzazione e modernizzazione nell'Europa postbellica, una discussione con interventi di Michael Hogan, Leonardo Paggi e Vibeke Sorensen, «Passato e presente», 9 (1990), n. 23, pp. 19-46. L'EUROPACOMESTRUMENTODINATION-BUILDING 51 voleva dire più ampi mercati concorrenziali e insieme un nuovo sistema di sussidi e protezioni. Per i ceti urbani medio-alti essa probabilmente incarnava il fascino della modernità senza aspre rotture con le confortevoli rassicurazioni della tradizione e dei suoi privilegi. Per i sottoccupati del Sud il MEC costituì una fonte di impiego temporaneo relativamente ben retribuito che poteva, nella maggior parte dei casi, essere alla base di una strategia di reinserimento nell'economia italiana. E per l'insieme della classe media l'Europa ha incarnato la fantasia stereotipa di una soluzione esterna e quasi miracolìstica («Come funzionano bene i treni in Germania... le poste in Francia», ecc.) a tutti i problemi di un apparato di servizi pubblici tanto criticato quanto quotidianamente piegato a proprio vantaggio. Insomma De Gasperi e La Malfa, o persino Berlinguer, non sono certo stati soli nell'immaginare l'integrazione europea come leva e contesto per uno sviluppo economico con dislocazioni sociali contenute, per la convivenza di liberismo e statalismo, per una modernità senza eccessiva disgregazione socioculturale. Quelle ambizioni inespresse al consolidamento dell'identità e della coesione nazionale fornirono l'energia cruciale che non solo guidò le scelte dei partiti in materia di integrazione, ma plasmò anche i consensi e gli orientamenti dei loro elettori. Sotto questo profilo le aporie della nostra storiografia sono notevoli. Uno studioso della cultura e del gusto delle classi medie come Lanaro costruisce il suo ritratto dell'Italia post-bellica intorno alla tensione tra l'assenza di «un costume nazionale laico» e il frenetico assorbimento del consumismo che elevava gli USA a «pietra di paragone del "moderno"». Nella sua interpretazione l'unità della nazione si realizzò solo con il boom del 1958-1963, quando t consumi, la televisione e le migrazioni fornirono gli italiani di un comune denominatore culturale.22 Ma, per quanto ammantati dei seducenti colori dell'America, quei fenomeni ebbero luogo proprio grazie a percorsi e collocazioni europee, e l'integrazione in Europa è sempre più divenuta sinonimo di via maestra, se non obbligata, per un'ulteriore crescita materiale e civile dell'Italia. Un'ultima osservazione, allora, per tornare alle visioni idealizzate, talora puramente desideranti, dell'unità europea. Esse originavano certo da ideologie universaliste, ma erano anche profondamente intrecciate, in chiave funzionale, con gli imperativi politici delia crescita, con le aspirazioni dei ceti medi urbani, con alcune esigenze delle classi lavoratrici e, più estesamente, con il bisogno di attenuare le fratture del paese e ridefinire un'identità nazionale. Quanto più flebile era quella identità, a cui mancava il perno di un riconoscimento forte e condiviso nel proprio Stato, tanto più grandiosa e quasi utopica risultò essere l'immagine della nuova entità europea che ci doveva comprendere. Nei primi quarantanni della Repubblica, ogni discorso sull'Europa conteneva un nocciolo prioritario, inespresso ma largamente condiviso: l'integrazione dell'Italia, per mezzo dell'Europa, quale nazione vitale e funzionante. In ogni ambito della società italiana (le eccezioni erano davvero poche, e individuali) l'Europa era dunque concepita non come fine ma come mezzo: uno strumento per riforgiare una identità collettiva che, per essere sostenibile, ne- S. Lanate L'Italia nuova, Einaudi, Torino 1988, pp. 81, 88 e 234. 32 INTERVENTI cessitava di un senso di marcia, di alcune mete ambiziose ma concretamente perseguibili, ed allo stesso tempo della persistenza di modelli culturali e schemi sociali preesistenti. Per più di una generazione la tensione collettiva a raggiungere «livelli europei» - di reddito, consumi, infrastrutture, efficienza e stili di vita simboleggiò la spinta verso una nazione rifondata e ammodernata. Fin tanto che il processo di integrazione europea riuscì ad apparire come perno ed epitome di tale progresso, l'Europa continuò a fungere efficacemente da simbolo e slogan per un'ambizione intrinsecamente nazionale. Poi è improvvisamente giunto il «malessere» europeo del dopo Maastricht e, soprattutto, il crollo del sistema politico incentrato sulla DC, Per la prima volta da quarantanni, con la rottura politica del 1994, nella retorica italiana il consenso dell'euro-idealismo si è segmentato, ed è affiorato un discorso esplicitamente nazionalista. Siamo ovviamente lontani dai termini acri del desueto nazionalismo pre-bellico. Ma pure i toni più morbidi e pubblicitari della destra attuale rivelano uno sciovinismo che pareva dimenticato. Dalla lettura dei mercati finanziari internazionali come luogo di «complotti» contro la lira all'agonismo paracalcistico del linguaggio di Forza Italia, dall'esplicita ostilità alla «svendita» di aziende italiane fino al nazional-populismo della gran parte del linguaggio televisivo: non c'è neppure bisogno delle flebili nostalgie di un Mussolini «grande statista» per cogliere il nazionalismo di una configurazione politico-cul turale di destra il cui primo messaggio vincente, dopotutto, fu quello secondo cui gli italiani sono capaci di operaie «miracoli», senza far ricorso a modelli esterni ma solo al meglio di se stessi. Nell'attuale contesto europeo si può non attribuire carattere di eccezionalità al fatto che anche l'Italia sia sfiorata da quei venti nazionalistici che poco più a Est soffiano feroci. Ma, più che del loro insorgere, nel nostro caso si deve parlare di un affiorare in superficie. Infatti mi pare che un discorso obliquamente ma caparbiamente nazionale, e forse anche un'informe etica sciovinista, siano stati (pur avvolti in un atlantismo ubbidiente ma poco convinto e, ancor più, in un europeismo tanto altisonante quanto strumentale) tra le grandi correnti sotterranee della cultura politica e dell'identità collettiva anche nei decenni «universalistici» della «Prima Repubblica». Ciò che finora rimaneva sottinteso ora sale dritto alla ribalta: nell'ultima campagna per le elezioni del Parlamento europeo i consueti appelli per una «Europa più forte» furono significativamente azzittiti, e soverchiati, dall'assertiva promessa berlusconiana di «un'Italia più forte in Europa».