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Personaggi principali Vincenzo Della Ducata, principe di San Basilio Mercedes Arroyo y Lopez, sua moglie Felice Della Ducata, suo figlio Margherita, governante di casa Della Ducata Tommaso, cocchiere di casa Della Ducata Totò Montalto, Tano Miccichè, Gesualdo Mineo, amici di Felice. Rosalia, l’innamorata di Felice. Rosario, il mozzo di stalla. Matteo Maria Bonanno, barone di Pietrasecca Antonio Spanò, barone di Castelforte Carmine Cutò, barone di Belmonte Alfio Cangemi, dei conti di Pietrasanta Rosario Macuto, barone di Castelluzzo Leopoldo Sansovino, duca di Palizzolo Gerlando Pollino, marchese di Pietraperduta I personaggi sopraelencati sono frutto di fantasia. 7 I “Ma chi minchia è, ’stu piemuntesi?” Sprofondato nella vecchia poltrona, nel salone del Circolo, don Vincenzo Della Ducata, principe di San Basilio, duca di Altavilla, barone di Frazzana e di Altofonte, ripiegava lentamente il giornale, togliendosi il pincenez e riassestando il monocolo sull’occhio sinistro, più un vezzo che una necessità: la sua vista, da lontano, era ancora abbastanza buona. Fece scorrere lo sguardo sugli altri soci, chi assiso come lui, leggeva il giornale, chi sorseggiava un cognac fumando il sigaro. Una bella figura, il principe. Siciliano nell’anima e nelle convinzioni, di siciliano, fisicamente, non aveva molto. Alto di statura, i capelli ormai abbondantemente brizzolati dei suoi quasi settant’anni avevano ancora qualche filo nero, un tutt’uno con i lunghi favoriti che gli scendevano sulle guance; gli occhi azzurro scuro tradivano eredità 9 Dedo di Francesco genetiche normanne, ma era siciliano fino al midollo. Solo le sopracciglia e i folti baffi ave vano più fili neri che bianchi. Matteo Maria Bonanno, barone di Pietrasecca, un piccoletto pelato sui cinquant’anni, abbassò lentamente la copia de “La Nazione” che stava sfogliando. “Principe, nunn è piemuntesi. ’Stu Garibaldi, francesi è. A Nizza nacque, all’inizio del secolo, e francesi parla. All’epoca, Nizza francese era; poi fu Sabauda dal ’15, e con il plebiscito di questi giorni francese ritornò.” “Conosco la storia di Nizza. Ma che minchia vuole, ’stu francesi, da noautri?” Don Antonio Spanò, barone di Castelforte, panciuto signore sui sessanta, dalla sua poltrona, si inserì nel discorso. “Un mercenario, è. Dal Sud America, venne, e lì pure, il mercenario fece. Dicono che lo chiamò il re di Piemonte, ma il suo primo ministro, quel Camillo Benso conte di Cavour, organizzò tutto.” Una risatina di scherno di Matteo Bonanno sottolineò la sua frase. “In Argentina, la fame faceva, e lavorava al porto come scaricatore.” 10 II Nell’aprile del 1860 il lavoro del “grande tessitore” Camillo Benso conte di Cavour per unificare il Sud e il Nord dell’Italia era quasi portato a compimento. Lo Stato Pontificio sarebbe stato stretto in una morsa fatale, che avrebbe salvato solo la cristianità di Roma città, e, con il tempo e l’aiuto di opportune al leanze estere, anche gli austriaci dovevano essere ricacciati oltre l’arco alpino. Uomo di pochi scrupoli, Cavour era il vero governante del Regno di Piemonte e Sardegna; il suo re, Vittorio Emanuele, aveva altro a che pensare, impiegando le sue giornate fra la caccia agli animali selvatici e alle gonnelle; e quest’ultime, più selvatiche erano anch’esse, più gli piacevano. Più ancora che gli ideali patriottici, Cavour aveva a cuore il bilancio dello Stato, pesantemente eroso dal dissipatore di sostanze Vittorio Emanuele II. Sulla carta geografica, aveva disegnato quello che doveva diventare, 11 Dedo di Francesco nei suoi intenti, lo stato italiano, con i Savoia come regnanti. Dall’intero arco alpino all’estrema punta della Sicilia, sarebbe stato un unico territorio, eccezion fatta per l’enclave della Roma cattolica, da confinare in una ridotta zona, quasi un quartiere, intorno a San Pietro. Chiunque era manovrabile e sacrificabile pur di attuare il suo progetto. Persino un repubblicano fanatico come Mazzini, che, fuggito in esilio a Londra, cospirava con i patrioti antimonarchici, poteva essere utile; un ottimo sistema di informatori e di polizia permetteva che filtrassero i proclami mazziniani atti a mantenere sollevati gli animi, non importa se antimonarchici: per i cospiratori il primo nemico era l’Austria, e tanto andava bene, era poco rilevante se anche i Savoia erano visti come il fumo negli occhi. Per l’attuazione pratica del suo piano, Giuseppe Garibaldi gli era parso l’elemento perfetto. Visione politica nulla, Garibaldi aveva impiegato il suo tempo in giro per il mondo a combattere in nome della libertà dei popoli contro regnanti blasonati o temporanei usurpatori del potere, con un seguito di mercenari il cui quoziente intellettivo, per la maggior 12 Il principe parte, si scatenava solo con l’odore della polvere da sparo. La sua ragione di vita era sparare cartucce, nella camera di scoppio dei fucili o nelle camere da letto di conoscenze occasionali. Repubblicano o monarchico secondo le esigenze della situazione, l’importante per lui era battersi per quello che riteneva il giusto ideale del momento, inclusa l’unificazione dell’Italia nel 1860. Pochi anni prima, pur di assicurarsi nel 1855 l’alleanza di Napoleone III nella guerra di Crimea, ed in vista di una nuova guerra contro l’Austria, Cavour non si era fatto scrupoli di bruciare l’avvenire di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, una bellissima diciannovenne, nonché sua cugina, infilandola nel letto dell’imperatore francese, il quale sapeva dire di no alle richieste dei suoi ministri ma non a quelle di nude grazie femminili che condividevano il suo talamo. Al momento della partenza per Parigi, il primo ministro le disse “usate tutti i mezzi che vi pare, ma riuscite.” E Virginia, “Nicchia” come era chiamata, ci riuscì, anche se il suo matrimonio, celebrato poco più di un anno prima, andò a rotoli. Pur di mantenere in piedi il rapporto tra Cavour e Napoleone III, fece la spola tra 13 Dedo di Francesco Torino e Parigi, anche se dopo qualche anno la sua stella si era ormai affievolita. Invidiata per la sua bellezza, invisa alle altre dame della nobiltà parigina perché straniera, morì a Parigi a poco più di sessant’anni, praticamente in miseria, e fu sepolta nel cimitero del Père Lachaise, nonostante avesse chiesto di essere inumata a La Spezia, la città che più aveva amato. Subito dopo la sua morte, la polizia francese e quella italiana cercarono tutte le sue carte e lettere, e le bruciarono: carteggi che avrebbero potuto svelare retroscena politici pericolosi: da distruggere, quindi. La vita di una giovane donna, che la bacchettona storiografia ufficiale ha voluto relegare al ruolo di amante qualsiasi, di cortigiana, fu sacrificata da Cavour sull’altare della Patria. Senza di lei, con buona probabilità, la terza guerra di indipendenza con l’esitante alleato Napoleone III, nel 1866, non avrebbe avuto luogo, ed i confini geografici disegnati da Cavour sarebbero stati diversi. In tutta l’Italia esistono strade e piazze intitolate a Vittorio Emanuele II, Mazzini, Cavour e Garibaldi: i quattro “grandi” che hanno fatto l’Italia, dicono i libri di storia. Non esiste “via Virginia Oldoini” o “via contessa di Castiglione”. 14