pietrangelo buttafuoco le uova del drago
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pietrangelo buttafuoco le uova del drago
Anno VIII n. 15 18 luglio 2006 ( I L Q ERALDO AFFINATI U I Stilos N D I C I ALBERTO BEVILACQUA Scrittori e testi imprescindibili del ’900 eletti a «compagni segreti» e rivelatori nell’esplorazione del mondo in un viaggio che crea un canone involontario Il rapporto dolce e scabroso con la madre in una raccolta di poesie, riedite dopo da Mondadori, che riacuiscono un sentimento filiale doloroso e potente pagina 5 pagina 9 N A L E D E SERGIO ROMANO I fatti sono interpretabili secondo criteri diversi e postulano ricostruzioni diverse: una rivoluzione, giacché un tempo la storia era scritta solo dai potenti pagina L I B R I ) ’ L Un incontro fortuito e fatale con una ragazzina in un cinema romano dove proiettano le comiche di Chaplin. Lei è Vita e lui Diamante, i protagonisti del capolavoro dell’autrice romana C’è una sola forma di bellezza, quella dell’amore. Un romanzo che vuole costituire un modello e relega in un secondo piano la teoria banausica della vita pagina 18 parevano disegnati col carboncino e sempre sul punto di scollarsi dal labbro. Dietro l’apparente dolcezza degli occhi celesti, brillava una furbizia risoluta, una saggezza senza età. Non fosse stato per i baffi, aveva un’aria familiare. Entrando, siccome era in ritardo, Diamante non aveva letto bene il programma, così non sapeva chi fosse il comico nuovo della Keystone. Cominciò a interessarsi alle sventure del vagabondo. Moriva di fame, veniva inseguito dalla polizia, correva, sculettava, passeggiava con una biondina, rubava un pezzo di pane, veniva arrestato, cadeva, si rialzava, combinava ogni sorta di disastri - veniva umiliato, schernito, deriso, ma non perdeva mai la sua dignità. La platea era esilarata, e anche Diamante, ma la ragazza dietro di lui rideva, rideva, e lui nel frastuono della folla, tra le note del piano, finì per percepire solo quella risata, inconfondibile, finché fu assolutamente certo che si trattasse di Vita. Gli batteva il cuore all’impazzata. In tre anni, ogni volta che il pensiero di lei lo aveva visitato, lo aveva respinto con la forza della volontà. Perché altrimenti non sarebbe mai arrivato alla fine della ferma. Si sarebbe imbarcato come clandestino, disertore, e l’avrebbe ritrovata. La sua ragazza italiana sparita. Più di tutto, voleva vederla. Alla fine del rullo, quando in sala s’accese la luce, si voltò. La proprietaria della risata aveva dodici, forse tredici anni. I capelli neri, lisci, raccolti in due treccine annodate sulle orecchie, e due occhi chiari maliziosi. Non era Vita. Non le assomigliava nemmeno. «Anvedi», esclamò la ragazzina, e gli rise in faccia. Mentre tornava a voltarsi, deluso, irritato e anche offeso, Diamante intercettò un sorriso di donna. Due occhi scuri, liquidi, distanti, lo fissavano. Nell’atrio, si fermò a leggere le locandine. Il vagabondo si chiamava Charlot: domenica prossima il cinema avrebbe proiettato i nuovi episodi delle comiche. Il nome del personaggio era scritto in caratteri cubitali, quello dell’attore in caratteri minuscoli. Diamante si asciugò la fronte col fazzoletto perché quel nome lo conosceva. Era il nome del ragazzo inglese del vaudeville, a Denver. Chas. Gli sembrò inverosimile, irreale, assurdo. Allo stesso modo, inverosimile, irreale, assurda, gli sembrava ormai tutta una parte della sua vita. Come un sogno. Comunque qualcosa che non era mai accaduto. E mai più accadrà. Voleva mettersi a urlare: lo conosco, io conosco questo ragazzo! Ma nessuno gli avrebbe creduto. La folla lo sospinse verso l’uscita. Qualcuno lo strattonava per il gomito. Non si voltò. Una dolce, educata voce di donna disse: «ma che fai, non sta bene, non lo conosciamo». «È proprio identico spiccicato, mo’ te lo faccio véde». Continuavano a strattonarlo. Era la ragazzina con la risata di Vita. «Aò», gli disse, familiarmente, «sei tale e quale al vagabondo del film». Gli sistemò una penna sul labbro superiore. «Mo’ c’hai pure i baffi». Rideva. Con quella risata impertinente, beffarda. Diamante avrebbe voluto prenderla a schiaffi. «Ma io non faccio ridere», le rispose. La sua voce gli risultò estranea. Si rese conto che non parlava con nessuno da almeno ventiquattrore. Era talmente solo, a Roma. Accanto alla ragazzina c’era una giovane donna vestita di viola; sul suo cappello sventolava una piuma color pervinca. Era lei che gli aveva sorriso, nel cinema. Una donna fine, elegante e gentile. Che ci faceva, con una monella come Vita? Sotto i portici era già buio. Spioveva, ma dalle grondaie l’acqua si riversava a fiumi sul selciato. L’insegna del cinema si rifletteva nelle pozzanghere. «Sta’ a vedere», disse Diamante. Arricciò le labbra per trattenere la penna-baffi, divaricò le punte dei piedi, sculettò verso i giardini, mulinò l’ombrello come fosse il bastone da passeggio e sollevò il berretto come una bombetta, a mo’di sussiegoso congedo. Le due ragazze risero. Diamante tornò indietro, lentamente. Notò, compiaciuto, che lo guardavano ammirate. Forse era la divisa, forse la somiglianza con l’attore famoso, forse i capelli corti, ben curati, o gli occhi azzurri. La sua svagata sicurezza. La disinvoltura. L’indifferenza. Fatto sta che ebbe l’impressione di averle conquistate. Diamante porse la penna alla ragazzina. «È Emma che scrive», disse quella, passandola alla bruna, «io non sono buona». «Scrive? E cosa scrive?». La bruna arrossì, e distolse lo sguardo. Vita disse, con profondo rispetto: «Poesie». La Vita di Charlot da di Mack Sennett vi farà piangere dal ridere. Per un’ora di spettacolo con accompagnamento di pianoforte dal vivo il prezzo era dieci centesimi. Diamante voleva distrarsi. Voleva dimenticare la fotografia della Königin Louise. Più di tutto - quasi disperatamente - voleva ridere. Entrò. Le gag di Mack Sennett - i soliti inseguimenti di guardie e ladri, conditi da torte in faccia e capitomboli - non gli strapparono neanche un sorriso. Il cinema era lercio, affollato, sapeva di sudore e bruscolini. Era seduto sull’orlo della panca, gomito a gomito col fattorino obeso di un albergo dei dintorni che si sganasciava dalle risate. Il pubblico reagiva all’unisono, applaudiva nello stesso istante, come fosse manovrato. Rideva, masticava lupini, sputava. Al quarto rullo, sullo schermo apparve un individuo buffo, piccolo di statura. Aveva gli occhi celesti e i capelli neri. Indossava un ridicolo paio di scarpe sproporzionatamente grandi e dei calzoni cascanti, rattoppati. Camminava in modo decisamente comico, mulinando il bastone da passeggio. Si muoveva come un principe, ed era un vagabondo. Dietro di lui, vicinissimo, soffiandogli sul collo, una ragazza rise. Diamante s’immobilizzò sulla panca. Se non avesse saputo che era impossibile, si sarebbe voltato di scatto, perché quella era la risata di Vita. Ma lei non poteva essere in un pidocchioso cinema di piazza Vittorio. Dove fosse, non lo sapeva, ma non poteva essere qui. Il buffo tipo dalle lunghe scarpe portava un paio di baffetti neri che 1 euro ZADIE SMITH 7 Pubblichiamo l’inizio di un capitolo rimasto inedito del romanzo Vita uscito nel 2003 da Rizzoli, vincitore del Premio Strega. Il brano, intitolato nella versione originaria "Emma", riguarda l’incontro di Diamante ed Emma a Roma. aveva incontrata nell’aprile del 1915. Era domenica. Gli mancavano tre giorni alla fine del servizio militare. Non aveva fatto richiesta per prolungare la ferma nella Guardia di finanza. Del resto l’avrebbero respinta. I superiori lo consideravano un piantagrane, un cocciuto e rompiscatole bastian contrario. Lo avevano trasferito di nave in nave, dalle corvette era finito sui battelli, e dai battelli ai magazzini, da una caserma all’altra, da un comando all’altro. Nessuno sembrava volerlo trattenere a lungo. In realtà era lui a non volersi fermare. Senza rendersene conto, faceva di tutto per nuocere al suo futuro. Alla fine, per toglierselo dai piedi lo avevano spedito a Roma. Lo avevano assegnato alla stazione di Ponte Milvio. Un bel posto, accanto al fiume Tevere che scorreva tranquillo fra colline verdi e rive boscose uccelli, pescatori, orti, contadini in bicicletta: gli sembrava di essere in campagna. Doveva controllare chiunque entrasse in città. Il primo giorno di servizio fermò un’automobile nera. Vistosa come la Hudson Touring di Bongiorno. Al volante c’era un ciccione dalla faccia di burro, con un gran gozzo. Non aveva il permesso di guida, né documenti, e correva a settanta chilometri l’ora. «Sono costretto a segnalare la sua infrazione ai miei superiori» spiegò Diamante, per nulla intimorito dal fermacravatte d’oro del guidatore, dal suo costoso orologio e dal suo profumo inglese. «Giovanotto - lo interruppe ridendo il tizio - lei non sa chi sono io. Sono l’onorevole **». Diamante aveva annuito, dicendo: «Ebbene?» «Ebbene, ebbene, non sia stupido, non si rovini la carriera e via dicendo». Ma Diamante aveva tenuto duro, e gli aveva appioppato la multa di prammatica. L’onorevole doveva essersi lagnato con chi doveva, perché una settimana dopo Diamante era stato trasferito in un ufficio di periferia, a incollare francobolli sulle buste. Si disgustò definitivamente della sua divisa. Quella domenica d’aprile pioveva a rovesci e Diamante si era rifugiato sotto i portici di piazza Vittorio. Era stanco, camminava ininterrottamente dal mattino, aspettando solo che facesse buio per rientrare in caserma. Roma non gli piaceva. Tutto gli sembrava angusto, meschino, soffocante. Non c’era il porto, non c’era l’oceano. Il fiume - paragonato all’Hudson River o all’Ohio - sembrava un rigagnolo. I tram sconquassati. I palazzi bassi - nemmeno un grattacielo. Una città orizzontale, senza profilo, solo le croci e le cupole delle chiese svettavano sulle case degli altri. Piazze tante, ma vuote, i grandi magazzini miserabili, i passanti malvestiti - una penosa sensazione di povertà. Solo la zona della stazione riusciva ad affascinarlo. La vista dei convogli fermi allo scalo San Lorenzo placava la sua inquietudine. Per un attimo, immaginava di salire alla disperata su un treno merci e partire per chissà dove. Ma l’Italia era piccola, e i treni non anVIVE A ROMA. PRIMO TITOLO davano lontano. E quel tempo era passa"IL BACIO DELLA MEDUSA" (BALto. Aveva ventitre anni. Da settimane si DINI, 1996), ULTIMO "UN GIORchiedeva cosa avrebbe fatto dopo il conNO PERFETTO" (RIZZOLI, 2005) gedo. La libertà tanto attesa non aveva niente di consolante. L’America lo MELANIA G. MAZZUCCO aspettava, ma niente dell’America gli sembrava di voler condividere. Sotto i portici lo attirò un’agenzia di viaggi. La porta era sprangata, la vetrina buia. Appoggiò il viso contro il vetro e scrutò distrattamente le pubblicità delle compagnie di navigazione. Il piroscafo del Norddeutscher Lloyd aveva quattro comignoli e compiva la traversata transoceanica in soli 11 giorni. Era un’ottima compagnia. I dormitori spaziosi, puliti, il vitto ottimo, nulla a che vedere con il bollito di manzo marcio delle compagnie italiane. Fra tre giorni, col congedo, lo avrebbero pagato. Tolti gli annosi debiti contratti con le salmerie, gli avrebbero dato, più o meno, duecento lire. Il passaggio in terza classe a New York sulla confortevole Königin Louise costava 200 lire. All’angolo con via Carlo Alberto una folla di ragazzini spingeva per infilarsi in un cinematografo. Ogni domenica le comiche - recitava la locandina. La scatenata ban- I Segue a pagina 24 © M. Mazzucco, per Stilos, "Emma" pietrangelo buttafuoco le uova del drago romanzo www.librimondadori.it S t los sguardi e riguardi pagina 2 Sellerio Novità Andrea Camilleri La vampa d’agosto Una nuova indagine per il commissario Montalbano. «Se il romanzo giallo è solo un “passatempo enigmistico”, un genere giocattoloso che induce il lettore a correre alla soluzione per appagarsi, La vampa d’agosto non è un romanzo giallo. Dentro la sua trama il lettore frena la corsa» (Salvatore Silvano Nigro). Honoré de Balzac Il parroco di Tours «Le leggi naturali dell’egoismo» in azione nella lotta feroce e meschina tra preti di provincia per un’eredità: un apologo sulla repressione del desiderio considerato all’origine del realismo letterario. Pierre Boileau, Thomas Narcejac I vedovi Chi può dire se Mirkine sia un amante ossessionato dalla gelosia, o un burattino nelle mani di un assassino? Boileau e Narcejac, la coppia del noir francese che piaceva a Hitchcock, col pretesto del giallo costruivano labirinti in cui realtà e finzione danzano avvinghiate, come negli incubi. Mario Soldati Cinematografo «Se per vero scrivesse soltanto le sue memorie di regista, ne uscirebbe un capolavoro» (Giovanni Comisso). Gli scritti intorno al cinema – intorno ai suoi set cinematografici – del più multimediale scrittore italiano. Giuseppe Bonaviri L’incredibile storia di un cranio Dal materialismo magico del maestro siciliano un’utopia cosmobiotecnologica. «Bonaviri è un visionario del linguaggio. Il suo sguardo spazioso impera come sempre sugli elementi; sul vitalismo rigoglioso e panico della natura» (Salvatore Silvano Nigro). Domenico Seminerio Il cammello e la corda Dall’autore di Senza re né regno un romanzo erotico, di gusto libertino: la passione carnale che ossessiona un prete si materializza in un giardino di Afrodite e risveglia dal tempo una tragica vicenda pagana. Jaime Bayly L’uragano ha il tuo nome Gabriel ama Sofía e sogna di scrivere un romanzo: avranno una figlia e di lui si interesserà un grande editore; ma Gabriel è gay. Un amore e una carriera normalmente difficili, ma dalla prospettiva di un omosessuale. Luciano Canfora 1914 Dalla radio al libro. Luciano Canfora spiega l’origine della Grande Guerra come primo atto della guerra civile europea e baratro in cui precipita la centralità dell’Europa. Franco Cardini Lawrence d’Arabia Dalla radio al libro. Lo storico dell’Oriente Cardini racconta il suo percorso di indagine nella figura storico-psicologica dell’agente di Sua Maestà suscitatore dell’orgoglio arabo: eroe o traditore? O tutt’e due? Sergio Valzania Sparta e Atene. Il racconto di una guerra Dalla radio al libro. Sergio Valzania, storico della guerra, racconta cosa successe tra ateniesi e spartani nella guerra peloponnesiaca per l’egemonia e come Sparta e Atene rovinarono entrambe. Joseph Addison, Richard Steele Parlando di donne. Lettere a un quotidiano inglese del ’700 Addison e Steele nel 1711 inventarono il primo quotidiano moderno, «The Spectator»; c’era anche la rubrica delle lettere, delle donne e per le donne: un gossip ininterrotto e un quadro irresistibile e vero dell’universo femminile di allora. www.sellerio.it Nella foto Indro Montanelli, morto il 22 luglio 2001. Nella foto piccola Tiziana Abate, autrice per Rizzoli di Soltanto un giornalista INDRO MONTANELLI. Cinque anni dopo la LA VITA scomparsa non si stempera il ricordo di un intellettuale capace di dividere le coscienze in forza della sua vocazione a farsi coscienza critica Gesti nobilissimi e altri discutibili Nato a Fucecchio il 22 aprile 1909, si è distinto per atti nobilissimi (come il rifiuto della nomina a senatore a vita, l’abbandono del "Giornale" dopo che Berlusconi si mise in politica, la coerenza al credo conservatore che lo spinse a lasciare il "Corriere della Sera" per le sue simpatie verso la sinistra) e per atti che gli sono costate pesanti accuse (come soprattutto le infiammate corrispondenze dall’Africa a favore del fascismo, i suoi panegirici a Mussolini, l’iscrizione al Pnf). Autore della monumentale Storia d’Italia, valida perché divulgativa, ma anche di numerosissimi altri libri, è ricordato per il ferimento nel ’77 da parte delle Br e per l’appello nel ’76 a votare Dc turandosi il naso. Un solitario in mezzo agli italiani M aurizio Gasparri, dirigente di An, disse verso la fine di marzo del 2001: «Montanelli è stato un uomo sempre dalla parte di chi comandava: fascista durante il fascismo, antifascista appena in tempo quando il regime stava cadendo, mantenuto da Berlusconi, adesso sta con la sinistra. Senza i soldi di Berlusconi "Il Giornale" sarebbe stato chiuso perché non riusciva a vendere un numero adeguato di copie, come invece fa Belpietro che ha portato in pareggio il bilancio del quotidiano. Se noi dovessimo vincere, Montanelli lo lasceremo a quelli che hanno perso. È tempo che, a oltre 90 anni, stia una volta tanto dalla parte sbagliata, da quella dei perdenti, dato che è sempre stato coi vincitori». Il giorno dopo, intervenendo in una discussione, il futuro ministro della Comunicazione, rincarò la dose: «Gli unici manganelli che si son visti sono quelli dei centri sociali. Montanelli è troppo anziano, ma chi non ha ancora raggiunto quei livelli di perdita di lucidità dovrebbe rendersene conto. Bene ha fatto Fini a dire che il governo non tollererà, in occasione del G8, la violenza dei centri sociali tanto cari a Montanelli e Rutelli». Pochi mesi dopo, alla morte di Montanelli, il neoministro rilasciò la seguente dichiarazione: «Con Indro scompare una voce autorevole del giornalismo e della cultura italiana, sempre capace di essere sferzante e di andare controcorrente in ogni momento e in ogni circostanza». Non fu un caso unico: prima e dopo la morte di Montanelli tanti altri seguirono lo stesso comportamento. Sono passati cinque anni e ora il distacco regalato dal tempo chiarisce che per tutta la vita Montanelli dovette sopportare attacchi del genere. I suoi ultimi anni sono stati tra i più belli del recente giornalismo e, al contrario dell’operazione di alcuni libri, sono da ricordare come di un amico si tiene nella mente quando all’ultimo ha fatto del bene invece di andare a rivangare le marachelle precedenti. Ancor più se queste sono tutte da dimostrare e troppo spesso sventolate a fini politici. Perché la storia del giornalista fu l’esatto contrario di ciò che ha raccontato il ministro. La condanna a morte dei nazifascisti e una rivoltellata dei brigatisti ne sono una prova sufficiente. Non bastasse c’è il resto: un’intera vita passata a combattere una battaglia contro il suo tempo. Si riteneva «soltanto un giornalista», che a intendere bene cosa volesse dire non appariva poi poco. Per Montanelli essere giornalisti voleva dire essere testimoni. «Testimone sempre, protagonista mai», scrisse nella rubrica di dialogo con i lettori del "Corriere della Sera", «La stanza». Questo suo patto con se stesso lo portò a rifiutare di tutto, anche una carica che non avrebbe certo compromesso la sua indipendenza: il seggio di senatore a vita. Amava la libertà. I soldi, che non teneva in gran conto, gli servivano solo per sentirsi più libero. Era di destra, ma S tilos Una pubblicazione Domenico Sanfilippo Editore "SOLTANTO UN GIORNALISTA". Uscita nel 2003, la biografia di Tiziana Abate (Soltanto un giornalista, Rizzoli Bur, pp. 357, euro 9) si distingue per il senso di dettatura che la ispira: il libro è il frutto delle conversazioni che la giornalista ebbe con Montanelli sui temi più diversi, ma tutti rigorosamente riguardanti la sfera professionale, di quella privata Montanelli non avendo voluto parlare ritenendola irrilevante. VIVE A MILANO. SCRIVE PER "LA STAMPA", "QUOTIDIANO NAZIONALE", "CAPITAL", "CLASS" E "STYLE" FRANCESCO RIGATELLI TIZIANA ABATE Diceva di non avere rimorsi e nulla da farsi perdonare L’unica biografia di cui Montanelli promosse la scrittura fu Soltanto un giornalista (Rizzoli) di Tiziana Abate. Molte sono state le conversazioni avvenute tra i due ad un tavolo di ristorante e in ultimo nella casa di viale Piave a Milano, poi tradotte in un libro dalla giornalista de "Il Giorno", prima inviata di Montanelli a "Il Giornale" e a "La Voce". Sono state tagliate le frattaglie: la vita privata del giornalista. Per sua stessa volontà. Ma la scrittrice le custodisce in un cassetto. Stilos l’ha intervistata. Cosa contengono quegli appunti? Il Montanelli uomo. Con i suoi rapporti privati, affettivi. Un percorso emotivo. Ne vengono fuori gli «omissis», come li chiamava lui. Diceva di non avere rimorsi: nulla di cui farsi perdonare. Ma cose che non aveva fatto, invece sì. Con i genitori, per esempio. E con le donne. Malinconie crepuscolari di chi nella vita aveva ricevuto più di quanto non avesse dato. Perché Montanelli scelse proprio lei per la sua biografia a futura memoria? Inizialmente gli diedi del matto. Ma non era una mattana di qualche setanche qui bisognava seguirlo nei suoi ragionamenti, perché «le parole - ricordava - sono dei contenitori vuoti». La sua destra era un sogno, un insieme di principi morali. Già, i principi. Aveva troppa esperienza, accumulata sulla strada, per credere alle idee. Sì, gli potevano piacere, per carità, ma i principi, quelli non si toccavano. «I principi restano - confessò negli ultimi anni a Tiziana Abate in Soltanto un giornalista (Rizzoli) - e le idee invece cambiano con gli uomini cui vengono date in appalto. L’impegno della coerenza ho imparato a riservarlo soltanto ai valori fondamentali cui un uomo deve ispirare la propria condotta: il dovere dell’onestà, della sincerità, del coraggio, della responsabilità. Ma sul piano delle idee, sono state proprio l’onestà, la sincerità e il coraggio che mi hanno costretto a cambiarle ogni volta che mi sono trovato di fronte all’evidenza del loro o del mio inganno». Tante volte Montanelli ha sbagliato, ma «mai per aziendalismo, né men che meno per servilismo», scrisse Gian Antonio Stella. Fu fascista ad esempio, ma nel 1937 buttò via la tessera e da allora con la politica chiuse per sempre, poi, quando sbagliava lo Direttore responsabile Mario Ciancio Sanfilippo Coordinatore Gianni Bonina Anno VIII, n. 15 Martedì 18 luglio 2006 timana come al solito, un invaghimento professionale: applicò al nostro rapporto la stessa regola che dava al giornalismo. Si poteva rimettere l’ora sulle abitudini giornalistiche di Montanelli. Perché come tutti gli uomini di genio ne temeva le insidie caotiche. Ci si incontrò così una volta alla settimana per otto anni. Quando gli domandai come mai avesse scelto me, rispose: «Fossi matto, quelli (le grandi firme) invece di parlare del morto parlano di se stessi». Dopo il suo libro sono fiorite numerose biografie su Montanelli. Quali ha letto? E che ne pensa? Dopo le prime, ho smesso di leggerli. Quella di Paolo Granzotto è la migliore: affettuosa e rispettosa ma non per questo manca di cogliere le contraddizioni del personaggio. Oggi cercherebbe di fare in modo diverso Soltanto un giornalista? No, mi sono attenuta alle sue disposizioni. Compresa la lettera finale in cui domandava di togliere le parti private e non inerenti la vita giornalistica. Temeva emergesse solo il personaggio e non il suo lavoro. Chi erano oltre a lei le donne del ammetteva. Scrisse nel 1965 sulla "Domenica del Corriere": «Noi ci rifiutiamo di ammettere che le cose possono essere viste in una luce diversa da quella in cui le vedono i nostri occhi, perché questo ci obbligherebbe a riconsiderarle e ad approfondirle: il che costa, lo riconosco, una certa fatica. Ma il significato della vita è appunto in questa fatica. Chi non la compie, rinunzia a vivere, e si contenta di vegetare. Secondo me le convinzioni che ci esentano dal dubbio sono poche, e tutte di ordine soltanto morale. Certamente bisogna averne d’incrollabili sul fondamentale problema del bene e del male. Ma questo riguarda i "principi". Sulle idee politiche, al contrario, non c’è il diritto, ma il dovere della più larga disponibilità alla critica altrui e alla lezione della esperienza. Chi le rifiuta non è una persona di carattere (...). Perché la vera, la grande o, come oggi si dice, la "irrinunciabile" libertà, è appunto quella di riconoscere il proprio errore e di correggerlo». C’era in lui qualcosa di «poco italiano», che per lui era il massimo dei complimenti, un certo senso «della precarietà delle vicende umane», ha scritto Enzo Biagi, una percezione della vita come chiaramente finita e dun- Registrazione Tribunale di Catania n. 11/99 del 24/4/99 Spedizione in Abb. Post. Art. 2 comma 20b legge 662/96 Stampa I.E.S srl Catania Concessionaria pubblicità Pubblikompass tel.: 02.24424611 email: [email protected] REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE E TIPOGRAFIA Viale Odorico da Pordenone 50 - 95126 Catania email: [email protected] - tel: 095.330544 mondo di Montanelli? Nel mondo di Montanelli non c’erano donne. Il suo mondo era il giornalismo per cui aveva una dedizione monacale. Certo, c’erano le compagne che tutti sanno. E la segretaria Iside Frigerio aveva un ruolo discreto ma importante, quello di una affettuosa e un po’ ruvida governante da quando lui lasciò il Corriere. E gli uomini di Montanelli? I maestri Longanesi e Prezzolini. Enzo Maimone, l’autista, versione maschile di Iside Frigerio, che negli ultimi anni quando Montanelli era così magro che le gambe da fenicottero parevano non reggerlo più lo seguiva da lontano per evitare che cadesse. Non rinunciò mai alla sua passeggiata in cui scriveva mentalmente, quasi in trance, i suoi fondi. Infine, con i giovani che rapporto aveva? Grande disponibilità. Non insegnava mai nulla. Dava esempio e usava il carisma. Con molta umiltà. Quando a "Il Giornale" gli cambiarono la grafica e dovette scrivere editoriali più brevi perché finissero in prima pagina non fece una piega. F. R. que da rispettare fino in fondo. Ci pensava spesso, anche isolandosi dagli altri, era inevitabile. Longanesi disse che stava in mezzo agli altri per sentirsi più solo. Forse non aveva trovato Dio, ma lo aveva cercato. Di certo senza intermediari. Nelle ultime settimane era stanco, stanco di tutto: del suo paese, di rispondere ai lettori, di spiegare la Storia agli italiani. Quella Storia che aveva raccontato in tanti bei volumi, da dilettante, come teneva a precisare, nel tentativo di educare un poco gli italiani, di fargli sapere chi erano, da dove venivano, quali diritti, quale presente avevano. Nonostante tutto amava l’Italia e se glielo chiedevano rispondeva con un filo di voce: «Se rinascessi vorrei, anche se mi vergogno a dirlo, tornare a essere italiano». Montanelli camminava, notò Nello Ajello, «due passi avanti ai suoi lettori». Vero. «Non si è mai curato, neppure alle elezioni del 2001 - ha detto Federico Orlando - di deludere la maggioranza dei suoi lettori con una dichiarazione di voto. Sentiva l’affetto dei lettori, ma sapeva di non poter riuscire ad educarli civilmente. Si è battuto negli ultimi tempi come pochi altri per il suo paese, anche se ha ricevuto in cambio forse più amarezze». Abbonamenti Annuale 20 euro Conto corrente postale n. 218958 intestato a: Amministrazione Stilos Viale O. da Pordenone, 50 - 95126 Catania Distribuzione nazionale Parrini & C. S.p.a. Con la stessa forza Montanelli diresse "Il Giornale" e poi "La Voce", volenteroso di farne veicoli di informazione e di formazione, messaggi di gusto e di cultura. Ma i due progetti vennero assassinati entrambi dalla stessa mano, quella di Silvio Berlusconi. «Con la destra io non ho mai identificato un’ideologia - spiegava Montanelli a riguardo - e men che meno un partito, ma una civiltà. Benedetto Croce definiva il liberalismo un contenitore in cui qualunque idea può trovare posto, purchè ne accetti i comportamenti e vi s’adegui. Più che un’idea, la destra è sempre stata una morale, un catechismo di comportamenti, correttezza, discrezione, orrore dello spettacolo e della demagogia». Tornato negli ultimi anni al "Corriere della Sera" grazie a Giovanni Agnelli e Paolo Mieli, ne rifiutò sia la direzione sia la cura di un elzeviro marmidone accettando solo la rubrica delle lettere con lo stesso intento, la stessa determinazione di sempre. E riguardo ad essa spiegò: «La porta di questa Stanza rimarrà aperta fino al giorno, anzi fino al minuto in cui avrò la forza fisica e intellettuale di accogliervi il lettore e di rispondergli. Il giorno in cui non potrò più farlo, vorrà dire non che sto per morire, ma che sono già morto, nel senso che desidero esserlo». Al tentativo di colloquio con il lettore, a quella «goccia cinese» da versare con cura ogni giorno sull’Italia, dunque, non rinunciò fino all’ultimo. Non dimentichiamo che visse fino a 92 anni. Ma la troppa precisa coscienza del paese e degli italiani, la consapevolezza in fondo di non poter fare molto per i suoi lettori, che non andasse al di là del suo ruolo di testimone, lo sconforto, insomma, per lo stato delle cose, lo avevano stancato. Montanelli aveva sofferto di una «sua» depressione, come diceva lui. «Sua» perché eccezionalmente gli permetteva lo stesso di lavorare. Niente lo poteva distrarre dal suo grande amore: il giornalismo. Questa contraddizione, che, gramscianamente, Montanelli stesso sintetizzò nel dualismo tra il «pessimismo della Ragione gobettiano e l’ottimismo dell’Azione prezzoliniano», l’ha sottolineata più volte anche Ernesto Galli della Loggia, secondo cuiconvivevano in Montanelli il borghese positivo e l’intellettuale novecentesco con le sue angosce esistenziali, le sue tentazioni annientanti, la sua solitudine. «E il mestiere di giornalista - ha detto Galli della Loggia - credo lo abbia preservato da tentazioni più nichilistiche e anarchiche». Indro Montanelli, che un lettore in ultimo chiamò con affetto «il guardiano delle parole», non fu mai solo, ma un po’solo si sentiva e non poteva che essere così. Era troppo diverso, «troppo coerente», come ha scritto Beppe Severgnini. Era un toscano-inglese dell’Ottocento, così «poco italiano». Era l’erede, come scrisse in una delle sue più belle Stanze, di un grande retaggio che lo condannava «all’orgoglio, all’onestà e alla solitudine». Gentile lettore, in qualsiasi comune d’Italia lei si trovi, prenoti la sua copia presso un edicolante di fiducia. Sarà certo di non perderla e di riceverla puntualmente. sguardi e riguardi S t los Da sinistra in alto a destra le tombe di Amelia Rosselli, Antonio Gramsci, John Keats e in basso panoramica del Cestio pagina 3 S C A F F A L E IL CIMITERO ACATTOLICO DI ROMA. Il degrado e l’abbandono ricoprono di una guazza tutta italiana il camposanto che ospita poeti e uomini illustri di fede protestante. Qui giacciono le spoglie di nomi quali John Keats, Percy B. Shelley, Gregory Corso, Antonio Gramsci, Antonio Labriola, Carlo E. Gadda L’eretico non ha più riposo l «Cimitero dei protestanti» o «Cimitero acattolico», conosciuto anche con il nome suggestivo di «Cimitero degli artisti e dei poeti», o più semplicemente come «Campo Cestio», è un luogo di una straordinaria e monumentale bellezza che si estende su uno spazio di due ettari e accoglie circa quattromila tombe di cittadini di ogni nazionalità: vi è sepolta una umanità varia di viaggiatori, poeti, artisti e diplomatici, appartenenti ad una sontuosa élite di eretici. Uno stemma ritrovato su una bara nel 1930 consente di risalire ad una delle prime inumazioni ai piedi della Piramide: si tratta di uno studente di Oxford, Gorge Langton, morto nel 1738. Tuttavia il cimitero nasce ufficialmente l’11 ottobre 1821 per dare una degna sepoltura agli stranieri di confessione protestante o greco-scismatica che vivevano a Roma, anche se, negli anni, è stata preferita la formula più ampia di cittadini acattolici. L’area cimiteriale si estende tra la Piramide Caio Cestio, incastonata tra le Mura Aureliane e Porta San Paolo, e il quartiere Testaccio. In un fossato scavato tra la parte antica del cimitero e le Mura Aureliane è ben visibile il selciato della via Ostiense che era diretta al porto di Roma. Il quartiere Testaccio o Monte Testaccio deriva il suo nome da Mons testaceus, ovvero monte dei cocci; infatti si tratta di una piccola altura artificiale che si è formata nei secoli con gli scarichi delle anfore provenienti dal porto di Ostia. Prima che l’attuale aerea fosse protetta, con molta probabilità i cittadini di confessione non cattolica venivano sepolti in uno di quei luoghi «privilegiati» adatti per i rinnegati, i condannati impenitenti e gli eretici; un luogo che a Roma era situato oltre la Porta Flaminia, al Muro Torto. I più «fortunati» venivano tra- I VIVE A PERUGIA. "L’ERRORE GIUDIZIARIO" (MOBYDICK 2004), "BERNARD LAZARE. CONTRO L’ANTISEMITISMO" (DATANEWS, 2004) MASSIMO SESTILI sferiti nel cimitero protestante di Livorno. Se i protestanti erano considerati come lebbrosi o appestati, tanto che il popolino romano, quando scorgeva un funerale protestante, era solito gridare «Al fiume! Al fiume!», alludendo al vicino Tevere, anche agli ebrei non toccava una sorte migliore. Il cimitero degli ebrei si trovava sull’Aventino e veniva chiamato con disprezzo «ortaccio degli ebrei». Nonostante la riluttanza della chiesa cattolica, il problema di riservare un’area per la sepoltura degli eretici si fece sempre più pressante nel periodo del «Grand Tour», quando gli stranieri di estrazione sociale elevata che si recavano a Roma era notevolmente aumentata e non potevano essere sepolti con prostitute e suicidi. La zona del Monte Testaccio faceva parte dell’agro romano ed era un territorio di bivacchi e feste notturne dove le prostitute allietavano il popolino. Nel prato privo di mura e di alberi, all’ombra della piramide, sulle prime tombe interrate alla luce delle torce, brucavano le pecore. Extra Ecclesiam nulla salus! Per queste anime non vi era nessuna possibilità di salvezza. Ora sul portone principale d’ingresso campeggia la scritta «Resurrecturis». Lungo i viali ombreggiati dai cipressi che separano le tre zone del cimitero, inebriato dai colori e dal profumo dei fiori, immediatamente si percepisce che in questo luogo la memoria non è invasiva e opprimente, il passato suscita riflessioni e ricordi che si dipana- no in un filo che tiene insieme Oriente e Occidente, Nord e Sud, cristiani protestanti ortodossi ebrei ed atei. Seguendo il filo di una storia spesso fatta di intolleranza e di conflitti, gradualmente ci si immerge in un dolce naufragio della memoria che trova un appiglio nella leggerezza dell’epitaffio della tomba di John Keats: «Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua». Innamorato della bellezza assoluta sottratta al divenire e all’effimero dell’esistenza, Keats scolpiva i suoi versi sull’acqua. Colmo di inquietudine, intuiva la bellezza, la grazia e l’armonia che vedeva allontanarsi dall’uomo plasmato dalla menzogna, e nella bellezza cercava la patria ideale. Keats che, sentendo la morte ormai vicina, mandò Severn a visitare il luogo della sua sepoltura e, alla descrizione fatta dal suo amico, disse che gli pareva già di sentire come i fiori gli crescevano sopra. Sulla sua tomba attorniata da erba e fiori, il suo sogno è stato esaudito ed egli è in ascolto: «Fu visione o sogno in veglia? Spente / son quelle note ormai: - Dormo od ascolto?» Visioni e sogni che si ritrovano sulla tomba di Percy Bysshe Shelley: vagabondo, anarchico, rivoluzionario, ribelle, visionario, sognatore assetato di infinito, che lasciò la gretta Inghilterra per l’Italia, dove morì inghiottito da una tempesta nel golfo di La Spezia. «Cado / sopra le spine della vita e sanguino». Una tempesta anticipata nella sua Ode al vento occidentale che sembra già contenere il suo epitaffio: un cuore in tempesta, come chiaramente compare nell’iscrizione tombale, «Cor Cordium, Cuore dei Cuori», seguita dai tre versi del canto di Ariel dalla Tempesta di Shakespeare: «Nothing of him that doth fade, Buth doth suffer a sea-change Into something rich and strange». È la tem- I L C A SO Una denuncia partita dagli Stati Uniti Il World Monuments Fund ha recentemente inserito il Cimitero acattolico di Roma tra i cento siti mondiali maggiormente a rischio. L’8 febbraio 2006 arriva puntuale la denuncia del "New York Times" e dell’"International Herald Tribune" con due articoli firmati da Elisabeth Rosenthal. In Italia le reazioni non si sono fatte attendere. "La Repubblica" lo stesso giorno propone un articolo di Rosaria Amato dal titolo «All’ombra delle Mura Aureliane il camposanto degli acattolici», che riprende tra l’altro l’intervento di Valerie Magar: «Questo è un sito che richiede molte cure ma il loro costo va oltre il budget del cimitero». Il 9 febbraio "L’Unità" interviene con un articolo di Eduardo Di Blasi, «In pericolo il cimitero degli acattolici»: «Molti dei monumenti stanno cadendo a pezzi come le ossa che ospitano, danneggiati dall’inquinamento e da anni di incurie». L’11 febbraio firma un articolo per il "Corriere della Sera" Sergio Luzzatto, «Per favore, salvate le Ceneri di Gramsci», che afferma: «L’inquinamento atmosferico, l’erosione dei metalli, la crescita incontrollata della vegetazione vanno gravemente danneggiando i sarcofagi e i monumenti tombali». Alla Camera dei deputati, il 10 febbraio, viene presentata un’interrogazione, da parte dell’on. Pistone al ministro per i Beni Culturali, che rileva come «i segni del tempo, il marmo corroso delle tombe, le statue sgretolate o alla meno peggio restaurate, le lapidi quasi già divelte, gli smottamenti del terreno, sono i segnali più evidenti della denuncia fatta dai giornali». pesta di Adonais, scritta in memoria dell’amico John Keats, ma soprattutto la sua tempesta esistenziale. Shelley scrisse che i poeti sono i non riconosciuti legislatori dell’umanità: nella continua tensione per sentirsi parte dell’infinito sanno cogliere la potente energia della vita cosmica che sentono pulsare dentro se stessi. Di fronte alla tomba di Antonio Gramsci (1891-1937), morto nelle carceri fasciste in una tragica solitudine, perviene l’eco della passione civile di Pier Paolo Pasolini e del suo amore per Roma: «Stupenda e misera città, /che mi hai insegnato ciò che allegri e feroci / gli uomini imparano bambini. / […] Stupenda e misera / città che mi hai fatto fare / esperienze di quella vita / ignota: fino a farmi scoprire / ciò che, in ognuno, era il mondo». Su questa tomba la lucciola, assediata da un buio profondo e disperato, provava con rinnovata e angosciata passione a riprendere il volo con parole che sanno d’amore e di senso profondo della storia: «Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?» Pasolini, avvolto nella miseria delle periferie romane, dagli ingenui e feroci sorrisi dei ragazzi di vita, da un’umanità di una povertà indicibile che ancora invoca nella sua inguaribile innocenza il Signore. Una invocazione che ritrovo sulla tomba del romantico svedese Harald Jacobsson: «Non pronunciare mai il nome di Gesù invano». In questo cimitero, definito da Oscar Wilde il posto più sacro di Roma, riposa Gregory Corso, il poeta della beat generation che prima di morire espresse il desiderio di venire sepolto accanto a Shelley. Come Pasolini amava la disperata innocenza degli esclusi: «Uscii di prigione amando i miei simili perché tutti quelli che incontrai là dentro erano fieri e tristi e belli e perduti, perduti». In questo luogo di pensiero abbellito dalla creatività dell’uomo, per sua espressa volontà è sepolto Carlo Emilio Gadda. I versi per l’epigrafe della sua tomba sono stati scritti dal poeta Mario Luzi: «Qui nel cuore antico e sempre vivo di sogni e d’utopie, Roma dà asilo alle spoglie di Carlo Emilio Gadda geniale studioso artista dalle forti passioni morali e civili signore della prosa». Goethe, in visita a Roma nel 1778, affascinato dalla bellezza della Piramide, immaginò la sua tomba circondata di cipressi e rischiarata dalla luna: il figlio August lo precederà e la sua tomba è situata tra due magnifici cipressi a ridosso delle mura Aureliane. Qui, insieme a Dario Bellezza, definito da Pasolini «il miglior poeta della nuova generazione», icona del movimento gay della capitale, riposano la poetessa Amelia Rosselli, la scrittrice Luce D’Eramo, l’intellettuale argentino Rodolfo Juan Wilcock, il fisico Bruno Pontecorvo, il filosofo Antonio Labriola, unitamente al principe russo Jusupov, padre dell’assassino di Rasputin. In questa piccola altura verde e muta, il vento sussurra silenzioso dei misteri dell’universo, di un’armonia ancora possibile, di una gioia che è vita e solo l’arte può comprendere. Tra queste tombe il solido nulla eterno si impregna della leggerezza di un fiore: «eterno / tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla».E tra i fiori si accompagnano dai versi di Ungaretti che assumono consistenza di fronte ai cespugli di rose che ornano le sepolture: «Morte, muta parola / ti odo cantare come una cicala / nella rosa abbrunata dei riflessi». FRANCESCO PICCOLO, Scrivere è un tic, pp.118, euro 7, minimumfax 2006 Tra vari tipi di artisti, i pittori ed i musicisti sono i meno esposti perché non si occupano di ciò che tutti conoscono cioè la vita. Invece lo scrittore di narrativa parla proprio della vita per cui basta essere vivi per ritenersi di saperne abbastanza. Questo è in sintesi il pensiero di Flannery ’O Connor sul libro di Francesco Piccolo intitolato Scrivere è un tic, il quale credeva di potersi prendere cura di un compito divulgativo necessario e non semplice. Voleva assomigliare agli scrittori studiando le loro riflessioni. FRANCESCO MARANI, La casa dei due podestà, pp. 174, euro 15, Book 2006 Una storia vera. Si parla di un piccolo paese della Pianura padana dove lo scrittore vive felice con il padre che riversa sul figlio tutta la sua conoscenza di politica e poesia. Tutto scorre lieto fino al capovolgimento politico. È la fine. La sera del 27 aprile del 1945, in una Italia liberata, un individuo armato si presenta come appartenente alla brigata Garibaldi e porta via il podestà del quale non si saprà più niente fino alla scoperta di una fossa comune. Marani osserva la Liberazione da una prospettiva poco investigata, correggendo l’equazione che fa dei gerarchi fascisti coscienze insensibili e aguzzini preda dell’amusia. DANIELE SCALISE (cura) Men on men 5. Antologia di racconti gay, pp. 260, euro 8,40, Mondadori 2006 Di cosa parlano i gay quando scriveno? Il loro racconto è vario e ispirato a diverse fonti. Il loro è un mondo in cui vi sono parentele, amicizie incubi e abitudini. Si trovano i temi della prostituzione al «battuage», cioè brevi incontri sessuali, o del’importanza dell’amica con la quale ci si sfoga e della quale anche innamorarsi. Il narratore gay parla dell’Aids come anche di infanzia e di amore perduto. Ma tutto ciò non basta a se stesso. Occorrono sudore e ispirazione e i racconti di Men on Men 5 sembrano darne testimonianza. FERDINANDO MEZZETTI, Da Mao a McDonald’s, pp. 499, euro 10, Tea 2006 Oggi il capitalismo occidentale è molto presente in Cina, che ha quadruplicato il suo prodotto inetrno lordo conquistando la posizione di quinta potenza economica mondiale. Segno di un tenore di vita di tipo occidentale è la presenza di migliaia di ristoranti sparsi in centinaia di città. In quella Cina ancora chiusa in sé dopo la morte di Mao l’impero celeste è uscito dal sottosviluppo pur conservando contraddizioni tra antichi poveri e nuovi ricchi. La marcia verso il capitalismo, prende più vigore dopo l’addio al Timoniere. Fernando Mezzetti in una nuova edizione accresciuta rivolge il suo lungo sguardo agli esponenti della vita politica cinese decifrando soluzioni e svolte del Partito cominista con la passione giornalistica della osservazione quotidiana. pagina 4 ENZO VERRENGIA hi si ricorda di George Roundy, il parrucchiere interpretato da Warren Beatty in Shampoo, di Hal Ashby, uscito nel 1975? Lì un fascinoso specialista di acconciature femminili scorrazzava per Los Angeles, seminando sesso e sentimenti, ma anche rivendicando un’umanità sentita e sorgiva. Cose che vengono in mente a proposito di Gianluca Mercadante, da Vercelli. Anche lui è fascinoso come un giovane Warren Beatty, ma non spreca il tempo fra uno shampoo e una messa in piega a collezionare tresche amorose. Sodale ricorrente di Aldo Nove e Tiziano Scarpa, fra gli altri, questa figura pressoché irripetibile di scrittore/parrucchiere conquistò visibilità all’inizio del decennio con McLoveMenù, fiaba d’amore post-postmoderna che vinse il Premio letterario «Parole di Sale» e fu pubblicato da Stampa Alternativa. Già in quel romanzo brevissimo si delineavano lo stile e il panorama vivente delle storie di Mercadante. Un’ironia mai debordante nel sarcasmo, usata per rappresentare tipi contigui a ogni latitudine. Lo scrittore, peraltro, pur di nascita e radicamento vercellese, ha geni meridionali visibilissimi nel cognome, campano. Ciò gli conferisce una polivalenza che manca a parecchi nomi dell’Oltrepò, spesso concentrati sui loro paraggi, soprattutto metropolitani, proponendoli come esempi di universalità nazionale, quando così non è. Al contrario, Mercadante riesce a cogliere la variegatezza del carattere e dei caratteri nazionali contemporanei nell’umanità che gli passa intorno. Cominciando da quella familiare, che costituisce il nocciolo soffice di ricordi in Il banco dei somari , sorta di autobiografia romanzesca, più che romanzata, nella quale il percorso della formazione deborda felicemente in quello del ritratto d’ambiente e di epoca. Il titolo, peraltro, riprende quello del blog che Mercadante anima da tempo, guadagnandosi un protagonismo tutt’altro che precario negli spazi letterari della rete. Roberto Marchiori narra in prima persona il proprio itinerario esistenziale, dagli anni ’70 a questo primo XXI secolo ancora troppo sbilanciato sul Novecento per definirsi Nuovo Millennio. Quasi come il giovane Holden, Roberto viene colto in un finale che compensa le derive emozionalmente arrabbiate toccate talora nel corso dei suoi primi trent’anni. Ma al contrario dell’eroe di Salinger, il Marchiori di Mercadante non intende scardinare l’establishment lacerando le proprie carni. Non che qui si abbia a che fare con un giovane conciliante. Solo, l’ironia si smarca dall’an- C Interviste GIANLUCA MERCADANTE "Nodo al pettine" pp. 176, euro 12,80 Alacrán, 2006 GIANLUCA MERCADANTE "Il banco dei somari" pp. 128, euro 11,50 No Reply, 2006 tagonismo radicale e basta quel «banco dei somari» a ritagliare per la brigata giovanile dei personaggi un territorio di alterità a anticonformismo vispo e divertito, oltre che divertente per i lettori. Mercadante bissa la presenza in libreria con l’uscita contemporanea di Nodo al pettine, confessioni di un "parrucchiere anarchico" . Il registro dell’autore rimane lo stesso, ma la configurazione narrativa cambia per ulteriore ripiegamento autobiografico. In Il banco dei somari, Roberto Marchiori compie una svolta finale autonoma, come padre e individuo narrante. Nodo al pettine invece porta allo scoperto il vero esito di Mercadante, che a quattordici anni smette di andare a scuola per fare il parrucchiere. E da quel momento in poi la sua vita imbocca la strada del confronto permanente con una fauna che nutre in parallelo la vocazione letteraria, il «bisogno di descrivere» messo in bocca dall’autore al suo alter ego de Il banco dei somari. Stilos lo ha intervistato. Il banco dei somari come miniatura del romanzo di formazione, Nodo al pettine a mo’di confessione operativa. Insieme sugli scaffali… I docenti universitari sostengono che il romanzo di formazione e l’autobiografismo siano le forme di narrazione più difficili da praticare, per un autore. Mi sarò cavato un dente, anzi due? Mah. Aspetterei di vedere se sotto crescono quelli del giudizio. Sono in ogni caso due libri molto diversi fra loro, per proposta editoriale e contenuti. Dubito che i librai li abbiano esposti poi davvero tanto vicini. Giuseppe Caliceti scrive nella prefazione di Nodo al pettine che gli interessano molto gli scrittori che per vivere fanno altro. In Italia, alcuni dei migliori lavoravano del tutto al di fuori della parola scritta e dell’accademia: Fenoglio enologo, Volponi dirigente d’industria, Levi chimico. Dunque, lo strumento per narrare si affina lontano dai libri, per poi produrne di propri? Non posso dirlo. Esistono obiettivamente romanzi di recente uscita che, privati dell’esperienza diretta da parte S t los GIANLUCA MERCADANTE. Due romanzi complementari: un unico modo di osservare l’umanità rifacendone il passato prossimo e rovesciando il canone giovanilistico Osservare il mondo da parrucchiere degli autori rispetto all’oggetto della loro narrazione, non avrebbero avuto alcuna ragione d’essere. Mi riferisco a Pausa Caffé di Giorgio Falco, o a Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio, ma sono esempi ben distanti dal mio e da quelli che lei cita. Diciamo che alcuni scrittori si sono guadagnati con costanza e fatica la possibilità di vivere a contatto con la cultura: insegnanti, ricercatori, talent scout, giornalisti, perfino addetti stampa. Altri invece no. Ma un luogo di lavoro resta un luogo di lavoro. Se genera interdipendenze con ciò che un autore produce, il tutto sta alla discrezione dell’autore stesso. Ognuno racconta quello che meglio crede - e soprattutto, se arriva a scrivere, raggiunge la propria poetica attraverso strade talmente diverse e personali, di volta in volta, che è abbastanza impossibile tradurle in un’ideale topografia. Trent’anni sono forse pochi per essere il riepilogo di un’intera vicenda umana. Eppure Roberto Marchio- ublino, 2003. C’è una camera d’albergo; e dentro c’è Aldo ALDO BUSI. Racconto, pamphlet e taccuino: Busi. «Mi butto vestito sul catafalco - scrive -, sul letto, volevo dire (…), accendo solo l’abat-jour e mi precipito… più per istinto che per memoria… all’ultimo dei quindici racconti sulla gente di Dublino e legVIVE A ROMA. HA APPENA go d’un fiato "The Dead". Lo assumo PUBBLICATO "NUOVI CIELI, come un elisir di lunga vita dalla priNUOVISSIME CARTE" ma parola, "Lily", all’ultima da cui (EMPIRÌA) prende il titolo, "i morti"». Una scena, questa, che rischia di passare inosPAOLO DI PAOLO servata nel turbine di immagini sorprendenti cui quest’ultimo libro di che sia uno sguardo, che sia un vento Busi, Bisogna avere i coglioni per d’agosto, in Grecia. Legge dunque prenderlo nel culo, sottopone il letto- "The Dead", Busi - e mentre legge ha re. E invece c’è, al fondo della scena voglia «di due uova all’occhio di bue in questione, qualcosa di decisivo. e tre fettone di pancetta affumicata»; Forse perché quel racconto di Joyce, e sempre mentre legge (mentre scri"The Dead", è uno dei più belli, e im- ve) riconsidera una scena di vita famiportanti, che siano mai scritti (c’è liare spiata in aereo con «ammiraziodentro tutto: la chiacchiera con cui ne succhiasangue» per la «dolcezza riempiamo il tempo; la paura, la di- infinita che si passavano quei tre», stanza; e il cibo e l’aria, e la neve; e padre, madre, figlia; e ancora, sempre l’influenza dei morti sulle nostre vite); mentre legge decide di partire per le dendola da prospettive diverse. Busi è isole Aran, perché invece concentrato su tutto, sempre e forse perché Busi un viaggio mai contemporaneamente. Ma come fa? Il lo sente e lo fa R e c e n s i o n i di fatto nelle isole suo io dà senso a tutto: - la zip di uno sentire a noi con Aran si racconta zaino e le parole di un poeta, un limela luce assoluta, il ALDO BUSI peso di una rive"Bisogna avere i coglioni in "The Dead". rick osceno e una telefonata con Eulazione; forse perper prenderlo nel culo" Questo è il mira- genio Scalfari, il grande scroto di Viecolo: niente è se- ri, l’aeroporto congestionato di ché diventa perfipp. 306, euro 17,50 parato da niente, Mykonos. È un io-mondo, un Busino, "The Dead", Mondadori, 2006 la vita per Busi è mondo che racconta sé stesso, cioè il il pretesto, la un tutt’uno: lette- mondo, cioè Busi. Nei suoi non-rospinta per un viaggio da compiere. Accade così che ratura, pancetta affumicata, viaggi da manzi, da Sodomie in corpo 11 (1988) una minima vicenda - l’incontro con fare; e forse lui è l’unico scrittore, tra ad Altri abusi (1989) fino al più recenun libro -, tracciata mirabilmente dal- i vivi e tra i morti, in grado di vivere- te, bellissimo E io, che ho le rose fiola scrittura di Busi, finisca con il defi- sentire-scrivere così: immerso in un rite anche d’inverno? (2004), ci sianire, una volta di più, il modo di esse- gigantesco sconfinato «tutt’uno», che mo abituati a un procedere per accure dell’autore: il suo stare (nei luoghi, riconsegna al lettore caricato di si- mulo, a un macroscopico catalogo nei giorni). Incanta, Busi, perché ri- gnificati, vecchi e nuovi. Gli scrittori che comporta un vibrazione della paconsegna i libri alla loro vivezza, trat- che conosciamo, anche gli scrittori gina, un rumore interno - come un tandoli appunto da cose vive (anche che ammiriamo, sembrano (sono) crepitio - che coincide con quello delquando parlano di morte) - e così fa concentrati su un aspetto della vita, l’universo attorno. I sensi all’erta di con i paesaggi, le parole altrui; così fa basta farci caso: una sfumatura, uno Busi riuscirebbero a percepirlo (e poi con qualunque genere di cosa esisten- stato d’animo, un’esperienza che si a restituirlo per mezzo d’inchiostro su te egli incroci: che sia un pene eretto, portano dietro di libro in libro, aggre- carta) dovunque, fermi o in movi- D ri pare avere attraversato molto di più del centinaio di pagine nelle quali si racconta. Roberto Marchiori è una telecamera, un puro strumento di osservazione. Tutto in lui - i suoi pensieri, le sue reazioni, le sue interazioni - è votato a questo scopo. Ho scelto di dare vita a un personaggio che si lasciasse (letteralmente) scivolare addosso determinati anni perché era mia intenzione dipingere il ritratto di una generazione, la mia, figlia di un Paese che ha perso la propria memoria storica. Roberto Marchiori, per ragioni anagrafiche, vive le fasi salienti di un sistematico lavaggio di cervello collettivo, non sempre passivo, anzi: il vuoto che descrivo nel romanzo sarebbe alla portata dello sguardo di chiunque, ma temo sia subentrata un bel po’ di assuefazione, in trent’anni. Che succede in tutto questo all’individuo più corteggiato delle ultime decadi letterarie italiane, il giovane autore? Manda le sue cose in giro e aspetta che qualcuno ammetta se è il caso di dargli retta o meno. Ottenuto questo esaltante risultato, aspetta ancora. Nodo al pettine non è un diario, ma un taccuino. Come si fa ad acquisire il privilegio di suscitare in una mente vigile lo stimolo ad esserne ritratti? Oppure, dal suo punto di vista, come si scatena, sul lavoro, quel «bisogno di descrivere»? Dal bisogno di esorcizzare. Se descrivo, in qualche misura spiego a qualcuno. E se spiego a qualcuno - è un principio basilare della psicanalisi - chiarisco meglio le cose innanzitutto a me stesso. A prescindere dalla posizione l’ultimo libro Atlante dei sensi all’erta mento non importa: il viaggio, in tal senso, non è indispensabile. Indispensabile è una mente perennemente in viaggio, anche alla finestra di casa, e quella sensibilità vorace che - dice lo scrittore - «mi ha tormentato, e anche deliziato». Siamo nell’ultimo, straordinario capitolo, datato "9 maggio 2005, Pieve di Lombardia". Qui l’io-Busi, da fermo, spiega a sé stesso la necessità della scrittura (per capire - e capirsi) e definisce il suo rapporto con i luoghi: «Ogni angolo di mondo un mero pretesto per covare e scovare un’ulteriore illuminazione inutile se non al mio spirito di fastosa conservazione separato per sempre dall’esterno anche in questo rito di finto avvicinamento»; e d’altra parte il complicato rapporto con l’altro da sé, con gli altri (con «l’umanità») è chiarito nel fluviale incipit: «Ma io sono lo Scrittore e quindi l’altro per eccellenza», precisa Nella foto sopra Gianluca Mercadante, autore per Alacrán di Nodo al pettine. Sotto Aldo Busi che da Mondadori ha pubblicato Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo senz’altro privilegiata di osservatorio umano che un salone di parrucchiere può rappresentare, nel mio personalissimo caso ritengo che se ho maturato il bisogno di descrivere un mondo partendo da questo particolare microcosmo, la necessità che mi ha spinto a farlo sia stata quella di liberarmi dal terrore che la convivenza pacifica (e, sempre nel mio caso, commerciale…) con certe tipologie umane a volte mi procura. Il bello di quando effettui una ripresa dal vero è che se la estremizzi diventa l’esatto contrario. Se parti dall’orrore, e acceleri, arrivi al grottesco. Quindi la commedia umana più che mai si svolge dal parrucchiere? Direi che ne è uno dei teatri. Prima però in Il banco dei somari sembrava che tutto si concentrasse in un palazzo qualsiasi della provincia. Qual è il filo che lega questi due interni della sua esistenza? Esclusa l’appartenenza geografica di entrambi alla stessa città in cui vivo e sono cresciuto, direi che la scelta di delimitare i contorni delle vicende di un libro in interni, mi permette di lavorare meglio sulla storia che voglio raccontare. È quanto accadrebbe comunque a una trama qualsiasi: nel momento in cui tagli una storia, da una più complessa concatenazione di avvenimenti, ottieni quello che vorresti raccontare in un romanzo di cento, duecento, trecento o più pagine. Mettere i miei personaggi all’interno di un habitat mi rassicura, è l’equivalente su carta dell’inscenare una piece a teatro. Ci sono dei limiti territoriali fisici, delle quadrature sceniche, spazi precisi, netti. D’altronde, sono pur sempre cresciuto in mezzo alle risaie, no?… Secondo lei, allora, anche chi è nato nel pieno della post-modernità fa ancora in tempo a formarsi una memoria che funga da identità, non disperdendo quest’ultima fra i nonluoghi, le marche di vestiario e gli oggetti del consumo ipertecnologico? Di contro, ammetterà che proprio ai giorni nostri stiamo ritornando a esprimerci scrivendo, grazie alle e-mail, agli sms… si commenta di tutto, tramite la rete, e nel farlo ci si scambia informazioni, ci si mette a nudo… in qualche maniera, si arriva a stratificare un quadro composito di società che in futuro bisognerà poi sgrossare un bel po’e forse analizzare. Attraverso la parola scritta si alimenta la memoria. Viviamo in un Paese dove si scrive molto, molto più di quanto si pubblichi e si legga. Speriamo serva a definire questa epoca, prima o poi. Lo scopriremo quando finirà, non prima, è nella natura di queste cose. Per ora vedo deroghe, falsi crolli, ma nessuna autentica picchiata verso l’abisso. Bisogna aspettare. Busi, che poi apprezza la «forbita semplicità e l’elegante modestia» di chi si viene in mano per scelta, da bravo «masturbatore scientifico». E ammettendo di essere «un amante parziale, mediocre» (appena prima di spiegare con severa ironia il titolo del libro), Busi non si accorge (o finge di non accorgersi) delle sue splendide contraddizioni. Le stesse che poi danno sostanza a una pietas detta sempre a metà (per pudore, per rispetto di sé e per odio della retorica), anzi mai detta e perciò tanto più sincera. Quella che sembra dettargli infine parole assolute sul nostro rapporto con gli altri, con l’altrui male e l’altrui solitudine. Tutto ruota attorno alla parola «ferita», e a occhi di bambino che forse stanno per piangere: «Grandissimi, marrone, umidi, intelligenti, stupefatti, spaventati e, a tratti, strabici come per spossatezza». Con queste pagine (seguite da un ulteriore, tenerissimo e dolente, omaggio alla propria madre), si chiude un libro che è insieme taccuino, pamphlet, racconto, atlante (dall’Irlanda a Capri, da Montreal a Salonicco). A dargli un verso, ci pensa il moralista Busi (a tale definizione, dice, «ci tengo tanto!») ancora e ancora in viaggio - o in ballo: perché, spiega, «siamo feretri in ballo, il ballo della fine apparente, tra l’interramento e il volo, con dentro ancora qualcosa di vivissimo che risuona». E questo «qualcosa» risuona meravigliosamente qui, con lo stile inimitabile di Busi, che raccoglie voci («una penultima parola per tutti»): quasi fosse Orfeo, che prepara l’incanto, e-voca, appunto, risveglia le cose, e si guarda indietro per controllare. O per ricordare. Magari una verità che lampeggia sullo specchietto retrovisore della propria auto: in una notte di neve «prodigiosa» dell’85: di neve che cade sui vivi e sui morti - come nel racconto di Joyce. Catone autori italiani ANDREA CARRARO SILENZIO E OSSESSIONE Antonio Di Benedetto, morto nella metà degli anni Ottanta, è uno scrittore argentino (i genitori erano entrambi di origine italiana) poco noto in Italia e abbastanza misconosciuto anche in patria tanto che venne definito da qualche critico, vado a memoria, «il segreto meglio conservato della letteratura argentina». Ora, mi sono accostato a L’uomo del silenzio (Rizzoli) con una certa curiosità avendo prima letto la bella, empatica prefazione di Laura Pariani che mi ha letteralmente preso all’amo, e poi accompagnato in una nutriente lettura che è anche un’avventura intellettuale. Il libro è algido, severo, potentemente metaforico, e può leggersi come il referto di una malattia che si esprime nella ricerca disperata del silenzio assoluto, di luoghi non offesi dalla perfida e quotidiana sfida dei rumori. Il protagonista è uno scrittore giovane e la scrittura svolge anche una funzione terapeutica. Non è arduo appaiare l’esile trama alla terribile esperienza del sequestro e della prigionia patiti dallo scrittore durante il golpe militare per un anno e mezzo. Il libro uscì nel 1964, cioè diversi anni prima del sequestro, che avvenne il 24 marzo 1976, ma come non leggerlo al modo di una lucida e terrificante premonizione di quello che gli sarebbe accaduto e che lo avrebbe poi lentamente annientato nei pochi anni che gli erano rimasti da vivere? Il protagonista non sopporta i rumori, dicevamo. Si appella alla normativa vigente in materia nel suo paese, scrive lettere, articoli, redige denunce, ma ottiene ben pochi risultati. Allora comincia una via crucis di cambiamenti di domicilio, sempre sfuggendo a qualche rumore (macchine, torni, elettrodomestici, autobus, onde radio, musica…). In lui è presente una qualche volontà di autoannientamento, anche se nella realtà è la società moderna tutta che si libera di lui, imprigionandolo, lo espelle dal proprio tessuto, lo rende innocuo: proprio come è successo allo scrittore durante il sequestro e la detenzione, della quale non conobbe mai il motivo. L’uomo del silenzio è molte cose insieme, per questo è difficile inquadrarlo correttamente o liquidarlo in una formula purchessia. Prima di tutto, si è detto, è il romanzo di un’ossessione lungo il crinale di una quotidianità alienante. Il lavoro (impiegatizio), l’amore, la scrittura, l’amicizia, è lungo questo asse che si avvita la lotta contro i rumori del protagonista. Ma L’uomo del silenzio è anche metaletterariamente il romanzo de Il tetto, il libro che l’autore vorrebbe tanto scrivere e sempre rimanda di cominciare. «Nel mio romanzo ci sarebbe un crimine e vari indiziati, ma io stesso, l’autore, ignorerei l’identità del criminale». La riflessione sul rapporto realtà-finzione è delle meno effimere. Lo strato più profondo del libro è quello, direi, metafisico: il protagonista conclude l’arco della sua esperienza esistenziale con l’arresto e la prigionia, quasi una preparazione alla morte. «Penso all’Aldilà… e immagino un silenzio incorruttibile» dice dopo aver saputo che il suo amico Besariòn - sorta di suo doppio pedante e superstizioso - è morto. Il silenzio a cui anela sempre senza mai raggiungerlo è una condizione di pace ultraterrena. Questo romanzo dalla scrittura disadorna e originalmente cadenzata, precisa fino al cesello, a tratti potrebbe annoiare chi fosse in cerca di pura azione e psicologie. Per goderne occorre invece lasciarsi contagiare dalla «follia» del personaggio, calandosi senza resistenza in una dimensione filosofica e allegorica. S t los Nella foto Eraldo Affinati, autore per Fandango di Compagni segreti migway. E così via. Ai reportage seguono riflessioni sugli scrittori contemporanei che a me sembrano testimoniare, in un modo o nell’altro, oggi, qui ed ora, il nodo spirituale della sezione, da Don De Lillo a Steven Heighton, da Winfred Georg Sebald a Cormac McCarthy, da Michael Herr a Jonathan Raban, per citarne solo alcuni. Il volume è poi incastonato da due scritti di viaggio: uno a Hiroshima ("La cicatrice del Novecento"), l’altro a Nagasaki ("Nella terra consacrata"). Perché ho scelto questa struttura? Per me la scrittura certifica l’esperienza, come se fosse l’ultimo anello di una lunga collana conoscitiva. Ho sempre sentito un rapporto molto stretto tra leggere, viaggiare e scrivere e ho inteso rappresentarlo. Il titolo è dichiaratamente, e non casualmente, conradiano… "The secret sharer", che per noi è Il compagno segreto, ma Piero Jahier tradusse come "Il coinquilino segreto", è uno dei capolavori di Joseph Conrad: compreso in "Racconti di mare e di costa", narra la storia di uno sdoppiamento. Non si sa bene se il fuggiasco ospite del capitano sia una realtà o un’allucinazione. Lo stesso potrei chiedermi io a proposito degli scrittori inclusi nel mio libro: questi compagni segreti, coi quali di certo ho avuto un rapporto privilegiato, sono fuori o dentro di me? Sarebbe difficile rispondere. In uno scenario che pare avvolto dalla incommensurabile potenza del tragico, esistono barlumi di speranza: la letizia dei ragazzi incontrati ad Hiroshima nell’ipocentro dell’esplosione atomica, la gentilezza dell’impiegato alla stazione ferroviaria nella stessa città, i bambini che giocano assorti sulla spiaggia dello sbarco in Normandia… A questi esempi di speranza potrei aggiungerei anche i miei allievi magrebini o slavi o afghani, ai quali insegno italiano ogni giorno alla Città dei Ragazzi di Roma, presenti anch’essi in Compagni segreti, come interlocutori impliciti. Sono da sempre interessato al male umano, nella storia trascorsa e nella contemporaneità, non per gusto macabro, ma per comprendere le ragioni del presente. Parto dalla Seconda guerra mondiale, che forse continuerò a sentire una ferita aperta almeno finché vivranno i protagonisti diretti, come Mario Rigoni Stern, ma sono concentrato sul nostro mondo: e credo che la letteratura contemporanea rappresenti uno dei migliori strumenti attualmente disponibili per interpretarlo. Il grande tema della responsabilità, così come perfettamente compendiato dall’ammonimento del teologo Dietrich Bonhoeffer, che è poi figura centrale nel corpus della sua intera produzione letteraria («per chi è responsabile la domanda ultima non è come me la cavo eroicamente in quest¹affare, ma quale potrà essere la vita della generazione che viene») sembra costituire il senso ultimo di questo percorso gnoseologico a due voci, quella della letteratura e quello del pellegrinaggio. Responsabilità della parola: scritta e orale, da non intendersi quale precettistica, regolamento o statuto giuridico, ma nel senso indicato da Dostoevskij, che con questo concetto voleva definire il peso dello sguardo altrui che ogni uomo inevitabilmente è chiamato a sostenere. A farlo ci possono aiutare i maestri, antichi e moderni: ecco perché in Compagni segreti ci sono gli omaggi sulla tomba di Lev Tolstoj, a Jasnaja Poljana, o sulla spiaggia di Dollarton, nella baia di Vancouver, dove Malcolm Lowry conobbe una delle sue stagioni più belle. Mi permetta di rivolgerle la stessa domanda che lei pone, in una pseudointervista, a Saul Bellow: «Secondo lei, la letteratura si avvia a diventare un’attività minoritaria?» Credo che, salvo eccezioni, la vera letteratura lo sia sempre stata, anche se talvolta, e specialmente oggi, la rivoluzione mediatico-informatica vorrebbe indurci a pensare il contrario. ue cani, Archer, vecchio che assomiglia a un lupo, e Sarik, CATERINA BONVICINI. I sentimenti dell’ambivalenza cucciolo che invade gli spazi dell’altro: Archer ringhia, esercita la sua autorità, ma la compagnia del piccolo gli piace, anche se cerca di non farlo vedere come se fosse un debolezza. Qualche volta gli scopre le genVIVE A LUCCA. CURA UNA quasi-madre, Valentina, genuina ed del compagno per stare con loro in give, al cucciolo, se gli dà troppo fastiesagerata, sensibile, intelligente e con- momenti importanti. RUBRICA SETTIMANALE DI CRIdio: si amano, si perdonano, ricomincreta, rimane in bilico tra due culture, Capace di reggere anche l’odio della TICA LETTERARIA SULLA CROciano. Ma un filo invisibile divide l’aadattabile sempre e per amore ad ogni bambina e di vederlo positivo: «Un NACA DI LUCCA DE "LA NAmore dall’odio. nuovo paese che la ospita. Rimane la odio arioso, travolgente, pieno di luce, ZIONE" Un giorno avviene uno scontro viodomanda sospesa, di fronte a questa un odio pieno di vita». Donna non lento e si uccidono: «eppure non c’eragazza che «come zingara è rovina- madre ma forse più madre di quella MARISA CECCHETTI ra crudeltà». Questo limen sottile rita»: fino a che punto sia giusto inserir- naturale, per la capacità di darsi: «ho torna nei cinque racconti della rac- de tante botte dalla madre «zingara fi- si nella vita dei figli degli altri, anche distribuito in giro il mio corpo e la mia colta di Caterina Bonvicini, I figli de- no al collo, quasi uno stereotipo: pan- se il motore è l’amore, a intaccarne le anima», carica di vita perché libera gli altri, definendo una zona d’ombra, tofole, gonna alle caviglie, viso rugo- radici culturali, a lasciare identità non nella vita e nelle scelte, amante perfetta che entra pian piano anche nel cuodi ambivalenza e di sofferenza dove le so, analfabeta». definite. parti ora si sovrappongono, ora si di- Madre e figlia si gridano le parole più Anche l’equilibrio de "L’amante per- re di bimbi divisi. La formula minima truci in centro fetta", protagonista del secondo rac- ripropone la soglia, questa volta tra stinguono. E quecittà, da lontano, conto, è messo a dura prova dai figli di l’amore e il gioco erotico spinto, tra sto amore da cani R e c e n s i o n i ma più tardi Valen- lui avuti dalla prima moglie. Questa l’attrazione e il disgusto, tra la passioche chiude la ractina corre incontro donna che ama loro padre, che lo ha ne e l’umiliazione. colta è come quelCATERINA BONVICINI alla madre che la rubato alla loro mamma, è la strega La lettura che fa di sé una diciassettenlo degli uomini: "I figli degli altri" accarezza tenera. cattiva da cui prendono le distanze in ne insieme al racconto dei fatti, avviedel resto anche pp. 181, euro 12,50 Chi è dunque quel- modo tanto esagerato da diventare te- ne sulle pagine del diario stilato a l’urlo di Sarik azEinaudi, 2006 la giovane donna neramente comico, nelle lunghe ore scuola nelle ore di chimica, con una zannato a morte è che si prende cura trascorse in casa di lei. Figli-pacchet- formula narrativa che mescola l’e«tremendamente umano». Si può amare e fare del ma- della bambina, le mette a disposizione to, spostati e palleggiati tra rivendica- splosione ormonale dell’adolescente la sua casa, la va a prendere a scuola, zioni e ripicche, entrano lentamente all’eros sadico subìto, alle formule le, nonostante le migliori intenzioni. Valentina delle rose è una rom di undi- fa i compiti con lei, la riveste, le inse- nel cerchio d’affetto della «strega», chimiche scritte sulla lavagna da un ci anni che vive con numerosi parenti gna l’italiano? che è presenza costante, sicura, pa- docente disatteso. Piacere e sofferenin un monolocale e vende rose. Pren- Con una madre zingara e un’amica- ziente, capace di sottrarsi alle richieste za, nella consapevolezza che, per libe- rarsi di lui, deve prima liberarsi di sé: «Mi ha addomesticato come un cane. Oggi l’ho visto per quello che è. Non soffro neanche, ho solo un enorme senso di nausea». Un finale imprevedibile e beffardo vede riaffiorare nei rispettivi figli atteggiamenti ben noti, come se fossero un patrimonio genetico. Una donna adulta è la protagonista di "Non adorarmi", ammaliatrice che sfrutta il potere fascinoso della cultura e della sua posizione. Fallita nel rapporto con i propri figli, perdente in famiglia, disinvolta come una teatrante, fa dei suoi allievi degli schiavi felici, alimentando il suo ego con la loro dedizione. Fondamentalmente sola. Ambigua, interessata, crudele e dolcissima, secondo le esigenze del suo copione: «Individua immediatamente i punti deboli di tutti e lì colpisce, prima per sedurre poi per tormentare. Non adorarmi - diceva sempre, così uno restava definitivamente fregato». Nella Bonvicini il racconto conferma la sua grande validità di genere letterario, per la tensione narrativa costante, per la struttura intrigante che lo sostiene, ma soprattutto per la capacità di fotografare pezzi di vita, con una verosimiglianza che turba, e di scandagliare l’anima attraverso una lettura attenta di parole, gesti, pensieri. l più bel libro di Eraldo Affinati, a detta di chi scrive e prima dell’uscita di questo Compagni segreti, era stato Campo del sangue (Mondadori, 1997): rilettura dell’universo concentrazionario nazista, in cui un viaggio da Venezia ad Auschwitz, accompagnato dall’incombente viatico di una dolorosa memoria privata (un nonno partigiano fucilato, sua madre destinata al lager e fuggita dal convoglio ad Udine), si mudulava, di volta in volta, nelle forme del diario e del saggio, intrecciandosi alle struggenti e lancinanti testimonianze dei grandi scrittori della Shoa: Levi, Hillesum, Weiss, Amery… In quel libro, in fondo, così come accadeva in altre prove di Affinati, l’autore si cimentava in un percorso di ricerca e di conoscenza che, pur avendo le caratteristiche della necessità e della ineludibilità tipiche di una vocazione, era destinato soltanto a rinvenire, con fatica e sofferenza, qualche lacerto di spiegazione alla ineliminabile ed ingiustificata presenza del Male nel mondo. Anche Compagni segreti in fondo nasce da questa coazione ossessiva, sgranata, in questo frangente, all’interno di una struttura assai particolare ed originale. Infatti le dodici sezioni di cui si compone questo libro, ognuna individuata da titoli che sembrano folgorazioni onomastiche ("Frantumi", "Sbarre", "Soglie", "Zone grigie", "Il vecchio e il male"…), racchiudono un’alternanza di reportage e di saggi letterari, alcuni dei quali anche di pregevole fattura e di grande pregnanza espressiva: penso a quelli dedicati a Coetzee, a Doctorow, a De Lillo, per esempio. A questa cernita di microsaggi (che si presenta, a tutti gli effetti, come un canone, forse involontario, di scrittori e testi «imprescindibili» del «secolo breve») corrisponde una serie di pellegrinaggi nei luoghi par excellence del ’900, sia che essi appartengano di diritto alla Storia con la S maiuscola (Hiroshima, la prigione di Beleo Ozero - 1000 miglia da Mosca, ma «prossima» nella memoria alla Kolyma salamoviana -, Montecassino, Bordeaux, con la cronaca del processo al collaborazionismo nella persona del prefetto Papon, la spiaggia di Omaha Beach, la Berlino assediata dalla Armata Russa… ) sia che risalgano ad una specie di costellazione affettiva e memoriale dell’autore: Ketchum, Idaho, dove Hemimgway si sparò, la dacia di Boris Pasternak a Peredelkino, la tana di Tolstoi a Jasnaia Poljana, la spiaggia di Dollarton a Vancouver dove Malcom Lowry riuscì a placare, per un po’, il suo spleen, e infine l’Asiago di quello che Affinati considera una sorta di suo padre putativo, ovvero Mario Rigoni Stern. Veri e propri pellegrinaggi questi compiuti da Affinati, di cui vengono pignolescamente fornite non solo notazioni logistiche, ma anche la documentazione su come essi oggi appaiono nel confronto, ingrato, fra ciò che erano nella coscienza del «viaggiatore» che, in maniera propedeutica, «aveva già letto tutti i libri» che li concernevano e ciò che sono diventati, ora deformati dalla modernità e dal progresso, anche se lì l’aura di un tempo ciclico ed eternizzante sembra ancora resistere. Questi luoghi, sebbene siano sottoposti a quell’inevitabile processo di «desa- I D ERALDO AFFINATI. Una selezione di microsaggi (che si presenta, a tutti gli effetti, come un canone, forse involontario) di scrittori e testi «imprescindibili» del «secolo breve», cui corrisponde una serie di viaggi e pellegrinaggi in luoghi topici che hanno disegnato il Novecento Pellegrinaggi nel mondo con i «compagni segreti» VIVE AD OSIMO (AN) DOVE INSEGNA MATERIE LETTERARIE. COLLABORA CON "GIUDIZIO UNIVERSALE" LINNIO ACCORRONI cralizzazione» che pare status costitutivo della contemporaneità, sono come incistati nella carne viva di Affinati (non paia casuale la sua affermazione: «per scelta o per destino, vallo a capire, sono l’uomo delle cicatrici e dei punti di sutura»). Resta ora da decrittare chi siano quei «compagni segreti» del titolo, che trasparentemente alludono alla viscerale intimità fra il capitano ed il clandestino, protagonista dell’eponimo racconto conradiano: piace pensare che essi non siano, come vorrebbe una lettura più immediata e semplificatoria, soltanto quei maestri della letteratura che Affinati sente come destinali nella sua formazione di intellettuale e di scrittore, ma anche gli inconsapevoli secrets sharers del presente, quegli alunni slavi, arabi, africani ed asiatici che sono nella sua classe e che, scorrendo il dito sulla mappa geografica, insegnano, «con pazienza e lungimiranza» al professore ed al mondo i luoghi da cui provengono e le tappe del loro esodo: «le scalcinate periferie di Addis Abeba, la finestra pluviale poco distante da Lagos, i mercati galleggianti di Dacca, gli empori di Herat, le feste di Rabat, gli scantinati di Bucarest. Ed io compio davvero insieme a loro, senza pagare il biglietto, il figiro del mondo in aula». Affinati ne ha parlato con Stilos. In copertina una foto di cui lei è autore viene ritoccata dalle distorsioni cromatiche di Toccafondi: segno ormai inconfondibile dei libri targati Fandango. La copertina riproduce una fotografia del cosiddetto «panificio» di Stalingrado: la rovina di un palazzo che i russi, all’indomani della celebre battaglia contro i tedeschi, lasciarono così com’era, quale monito per le generazioni venture. Scattai io stesso la foto l’estate di quattro anni fa quando andai in quella città oggi chiamata Volgograd. Ho proposto l’immagine, assieme ad altre, a Gianluigi Toccafondo: il lavoro grafico che lui ha fatto, nel suo caratteristico filtro stilistico, mi sembra corrispondere pienamente allo spirito del libro. L’originale alternanza di reportage e recensioni librarie, spesso veri e propri microsaggi, caratterizza la struttura di questo testo così difficilmente catalogabile: a che cosa è dovuta questa scelta così particola- IL LIBRO ERALDO AFFINATI "Compagni segreti" pp. 376, euro 18,50 Fandango, 2006 In giro nel mondo con gli scrittori contemporanei «Compagni segreti» sono gli scrittori contemporanei che hanno guidato l’autore nei suoi viaggi nel mondo alla ricerca di una cifra da dare al Novecento attraverso i luoghi che lo hanno segnato. Da Hiroshima alla Russia agli Stati Uniti, Affinati ricerca la patria dove le ragioni della vita si incontrano con quelle della letteratura. Libro di forti suggestioni e intenso per forma e contenuto, Compagni segreti è un almanacco di reportage e saggi dove prevale l’intelligenza. re? Sembra così che anch’esso rientri, a pieno titolo, in quella che lei definisce come l’anomala peculiarità della grande letteratura contemporanea, ovverosia «l’insufficienza della catalogazione per generi». Il libro, introdotto da due pagine intitolate "Le ragioni del ritorno", è composto da dodici parti, ognuna delle quali viene preceduta da un reportage in linea con il tema della sezione. Ad esempio, il capitolo "Sbarre" presenta in apertura il diario del mio viaggio in un penitenziario di massima sicurezza in Russia. Quello chiamato "Il vecchio e il male" inizia con un pellegrinaggio a Ketchum, sulla tomba di Ernest He- Un filo divide amore e odio pagina 5 Ossigeno autori italiani BENEDETTA CENTOVALLI MEMORIA DEL SACCO Andate a vedere il film Diario del saccheggio (2004, distribuito da Fandango) di Fernando Solanas. Primo tempo della trilogia che prevede La dignità degli ultimi (2005) e Argentina latente (2006). Serve a capire meglio cosa è successo in Argentina, come è maturata la crisi economica esplosa nel 2001, le ragioni politiche di un disastro che ha fatto più vittime della dittatura e ha messo in ginocchio un paese che era tra i più ricchi del mondo industrializzato. Solanas ci mostra come si distrugge consapevolmente un’economia solida e florida gonfiando il debito internazionale, privatizzando e svendendo alle compagnie estere l’industria nazionale, indebolendo l’agricoltura e l’allevamento, favorendo l’importazione indiscriminata con la fittizia parità dollaropeso, amministrando il bene pubblico con la corruzione. Istituti finanziari internazionali, multinazionali, grandi banche con la complicità del potere giudiziario, delle corporazioni politicosindacali hanno trasformato il «granaio del mondo» in un paese dove si soffre la fame e gran parte della popolazione è indigente. 35.000 morti l’anno per denutrizione e malattie curabili. Nel dicembre 2001 la situazione è esplosiva. Il corralito deciso dal ministro dell’economia Domingo Cavallo blocca i risparmi degli argentini. Il 19 dicembre, alle undici di sera, quando in televisione il presidente Fernando De la Rúa dichiara lo stato d’assedio, la popolazione di Buenos Aires spontaneamente scende in piazza. Un rumore sempre più violento sale dalle strade della capitale, un fiume di donne, bambini, giovani e anziani avanza armato di pentole, coperchi e bastoni, di tutto quello che può far rumore. Il cacerolazo è non solo l’espressione pacifica della rabbia degli argentini, ma il golpe di un popolo sopraffatto da trent’anni di modello neoliberista che ha cancellato l’economia del paese sia in dittatura sia in democrazia. La classe media più potente dell’America Latina al ritmo di «Ladrones! Ladrones!» e «Se vayan todos!» dice basta alla mafiocrazia degli ultimi decenni. Dal colpo di stato dei militari di Videla nel 1976 il paese è precipitato in una rincorsa alla speculazione finanziaria estera che ha arricchito i già ricchissimi e smantellato l’industria, come quella petrolifera. Il massacro degli oppositori come l’inutile guerra delle Malvinas hanno reso possibile il consolidarsi di un modello economico suicida e criminale, che si perfeziona da Raúl Alfonsín a Carlos Menem. Anzi Menem assieme a Cavallo, con la complicità del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, sono i massimi artefici del saccheggio. La temperatura della protesta sale nella notte tra il 19 e 20 dicembre, fino a quando De la Rúa ordina di reprimere la manifestazione. Più di trenta morti, feriti e arresti indiscriminati. E il presidente costretto a fuggire in elicottero dal tetto della Casa Rosada. L’occupazione di Plaza de Mayo e delle strade di Buenos Aires dura per mesi, molti di coloro che manifestano indossano la maglietta a righe bianche e azzurre della nazionale di calcio, segno di identità e di appartenenza, è la bandiera infinita che sigla il duro film di Solanas. Se resistete all’urto della rabbia che questo documentario suscita, andate anche a vedere Bombon. El perro di Carlos Sorin, un film, dolce e riflessivo, figlio di quella situazione. Patagonia. Disoccupazione. La speciale amicizia con un dogo argentino. Un sorriso con l’amaro in bocca. pagina 6 EMILIA PAGLIANO FRANCO CARDINI, LEONARDO GORI. Il secondo thriller, scritto a quattro ietrich von Altenburg, personaggio già protagonista de Lo specchio nero, torna in Il fiore d’oro scritto - come il precedente - da Franco Cardini e Leonardo Gori. A prima vista Dietrich von Altenburg assomiglia ad un altro personaggio, il Martin Bora di Ben Pastor; in realtà, a parte alcune somiglianze il fatto di essere entrambi tedeschi, non nazisti, di occupare un alto grado che permette loro una certa libertà di azione - Dietrich e Martin hanno ben poco in comune e l’andamento stesso del romanzo di Cardini e Gori è del tutto diverso da quello dei romanzi dal forte impegno morale di Ben Pastor. Sia ne Lo specchio nero che ne Il fiore d’oro la trama segue il filo dell’avventura, alla ricerca di un oggetto dai poteri misteriosi, connesso in qualche maniera con le forze dell’occulto, simbolo di per sé del potere assoluto. E c’è, in entrambi i romanzi, più che una ricostruzione degli avvenimenti storici dell’epoca bellica, un’intrigante atmosfera creata da altre suggestioni del tempo - la fanatica ambizione di Hitler di riunire in un museo a Norimberga storiche insegne del potere in Lo specchio nero, la musica di Wagner, la filosofia junghiana e quella orientale, gli scritti e anche le stravaganze di D’Annunzio, la sua amicizia con Guglielmo Marconi, il cinema del Ventennio in questo Il fiore d’oro. Che cos’è, dunque, questo fiore d’oro che sembra essere appartenuto a Schopenhauer all’epoca del suo interesse per il buddismo e l’induismo? Un talismano da cui dipendeva la vita o la morte di chi lo aveva in mano, e non si sa come il fiore sia arrivato a Wagner che sembra poi averlo regalato a Nietzsche. Sappiamo però che, quando Wagner componeva il Parsifal, aveva indicato che il Graal venisse rappresentato come un fiore d’oro. E che certamente Wagner riebbe indietro il gioiello e lo aveva con sé alla sua morte, a Venezia. A questo punto entra in gioco D’Annunzio. Si svolge al Vittoriale la maggior parte del romanzo di Cardini e Gori, dove deve essere girato un film di coproduzione italo-tedesca su un vecchio copione di D’Annunzio, utilizzando anche i cartelli con le didascalie originali, se vengono ritrovati. Leonardo Gori è molto abile nel creare il piccolo mondo fittizio dei suoi romanzi, facendo riapparire i suoi personaggi anche trasversalmente, nell’una e nell’altra di quelle che appaiono come due serie distinte: Dietrich von Altenburg incontra nuovamente, ne Il fiore d’oro, Elena Contini, la donna di cui è innamorato il capitano dei carabinieri Bruno Arcieri nei romanzi seriali di cui questi è il protagonista, ed ora Elena (che precisa di non vedere Bruno da cinque anni) ha un ruolo attivo di cui non diciamo nulla, in mezzo a repubblichini e tedeschi nella Repubblica Sociale di Salò. E Dietrich accenna pure all’amico Bruno, chiamandolo solo per nome e ricordando il loro incontro nella vicenda che era al centro de Lo specchio nero. Stilos ha intervistato i due autori. Gori, lei ha scritto quattro romanzi con il capitano dei carabinieri Bruno Arcieri e due con l’ufficiale delle SS Dietrich von Altenburg e, a parte l’ultimissimo L’angelo del fango, sono tutti ambientati nello stesso periodo, la Seconda guerra mondiale. Perché due serie di romanzi con due personaggi diversi e tuttavia nella stessa epoca storica? mani, opera di un giallista e un medievista appassionato di storia moderna: una miscela di mystery, arcano, poliziesco e documentale che premia una coppia capace di combinare generi e intrighi rievocando gli eventi bellici D Guerra mondiale del ’39 il teatro dell’esoterismo Il motivo è semplice: Franco Cardini mi ha chiesto se ero d’accordo di creare qualcosa insieme. All’inizio mi è parsa una «proposta indecente», poi ho accettato con interesse e curiosità. E abbiamo proseguito con questo secondo romanzo perché ci siamo resi conto che alcune cose potevano essere perfezionate, che si poteva raccontare una storia in maniera migliore e, inoltre, Lo specchio nero aveva avuto un discreto successo. Quanto alla scelta dello stesso periodo storico, gli anni ’30 e ’40, devo dire che, pur essendo molto diversi, Cardini ed io abbiamo in comune l’amore per il passato recente. Per me il passato ha un fascino particolare e mi illudo di utilizzare il passato non tanto per raccontare cose del presente ambientandole nel passato, ma per trovare nel passato le radici del nostro vivere attuale. E mi è piaciuta l’idea di un secondo filone perché non avevo esaurito le cose che volevo dire di quell’epoca. Cardini: come è nata l’idea di scrivere un romanzo con Gori? Io mi sento un giallista di complemento: pur apprezzando il genere, non conosco la scrittura gialla, il giallista è Gori. Mi era molto piaciuto il primo romanzo di Leonardo Gori, Nero di maggio, avevo un’idea che poteva essere trasformata in un buon thriller e ho giudicato Gori, per affinità di idee, di gusti e di cultura, come lo scrittore più adatto per questa operazione che è risultata poi ne Lo specchio nero. Per Il fiore d’oro abbiamo ripetuto la stessa esperienza con maggiore affiatamento. C’è un forte filone esoterico in entrambi i romanzi, connesso con i due oggetti al centro della trama, lo specchio nero e il fiore d’oro: da dove le viene questo interesse per l’esoterismo? E come si concilia con la sua visione di storico? IL LIBRO FRANCO CARDINI LEONARDO GORI "Il fiore d’oro" pp. 401, euro 17,50 Hobby & Work, 2006 Nietzsche, Wagner più il Vittoriale Aprile 1944. Un cadavere galleggia in un canale di Venezia. L’ufficiale delle SS Dietrich von Altenburg ha l’incarico di trovare il «fiore d’oro», il gioiello che Nietzsche regalò a Wagner e che forse si trova nel Vittoriale di D’Annunzio. Il Vate aveva scritto i cartelli per un film muto, "Il fiore d’oro", nome che veniva dato in codice ad un’arma segreta. Come storico sono un medievalista e l’aspetto esoterico in senso ampio fa parte del mio campo di interessi perché è connesso con periodi e figure storiche che fanno parte della mia specializzazione. Però sono molto interessato alla storia moderna e contemporanea e al periodo fra le due guerre. Il fenomeno del nazismo e la Seconda guerra mondiale sono molto densi da questo punto di vista, per quanto riguarda l’aspetto esoterico. Ciò si concilia perfettamente con la mia visione di storico. Credo che questi siano due bei libri di storia e che l’aspetto esoterico, specialmente per come e quanto ha caratterizzato il nazismo, sia ben esposto e non credo ci siano errori. Certo, si tratta di romanzi, ci sarà qual- ’occasione per dialogare con Bruno Fabi, caposcuola della BRUNO FABI. Un saggio filosofico che torna corrente filosofica che va sotto il nome, ormai diffuso e considerato, di «Irrazionalismo sistematico», ci è data dalla pubblicazione, dopo oltre cinquant’anni dalla prima edizione, di Il Tutto e il Nulla. Saggio di una fiVIVE AD ALBANO LAZIALE. lità della materia, l’arcana innata intellosofia dell’irrazionale. Il volume vie"LA PITTURA DI CARLO FOR- ligenza delle cellule pronte a costruire, secondo compiti diversi, la stupefane riproposto ai lettori arricchito da un TINI" (SOVERA, 2004), "I cente complessità dell’organismo visaggio dello stesso autore e da una poCINQUE PILASTRI DELLA STOLvente fino a creare l’organo pensante, stfazione di Franco Campegiani. StiTEZZA" (ARMANDO, 2003) creativo, auto-cosciente. Tutto ciò mi los lo ha intervistato. ha convinto dell’irrazionalità dell’esIl suo libro, che uscì nel 1952, ha inALDO ONORATI sere e della vita umana. Tenendo prefluito molto sul pensiero contemporaneo, ma ancor di più sulla lette- Con il passare degli anni, la mia con- sente che la mostruosa possibilità calratura. L’Irrazionalismo è una sco- vinzione è maturata, considerando la colatrice dell’elettronica e le deduzionon corrisponden- ni-induzioni logiche relative, sterili in perta o un’ipotealla realtà dei astratto, sono soltanto un apporto mosi? I n t e r v i s t e za valori dati razio- desto alla creatività e al progresso, in Intravidi trasparire nalmente come cui dominano l’intuizione, la fantasia, l’irrazionale nella BRUNO FABI assoluti, i tragici la volontà, l’azione e la fede, tutte vistoria, nella lette"Il Tutto e il Nulla" accadimenti co- cine all’irrazionale, nella recente fonratura e perfino pp. 325, euro 13 smici a lungo e dazione dell’«Irrazionalismo sistemanella cronaca già Anemone Purpurea, breve termine, la tico» ho indotto il principio (opposto a nella mia prima 2006 illogicità della sto- quello di una filosofia tradizionale): giovinezza, così ria e delle vicende «Tutto ciò che è reale, è irrazionale». tentai di riassumere in un saggio, nei lontani anni Cinquanta, il mio pen- umane, il mistero della molecola che Il suo libro fu caldeggiato da Ugo siero al riguardo, in forma sistematica. pare essere energia, la infinita casua- Spirito. Quali ostacoli incontrò nel- L che imprecisione… E qual è, Gori, il suo atteggiamento nei confronti dell’esoterismo? La mia mentalità rifugge dall’esoterismo e, confrontandomi con gli apporti di Franco Cardini, mi sono divertito a mettere in discussione le mie convinzioni positiviste. Ed era una lotta interna tra due mentalità diverse: una di rifiuto e una possibilista. Ne Lo specchio nero c’era Bruno Arcieri che incarnava lo scettico Leonardo Gori a fronte di Dietrich che rappresentava il possibilista Franco Cardini; in questo nuovo romanzo c’è come un superamento, non c’è più Bruno, noi ci siamo amalgamati e il romanzo è più unitario. Cardini, oltre al filone esoterico, qual è stato più precisamente il suo apporto al romanzo Il fiore d’oro? È stato un apporto più variato, rispetto a Lo specchio nero in cui mi sono limitato a «creare» il personaggio di von Altenburg e alle disquisizioni dotte. Ne Il fiore d’oro ci siamo spartiti anche scene e dialoghi che non avevano a che fare con il filone esoterico e persino scene d’amore: ad esempio amo molto il sogno-delirio di Dietrich in cui si assiste al matrimonio del maresciallo Stalin con Jean Harlowe, scena che rivendico come assolutamente mia. Ne Lo specchio nero si parlava della volontà del Führer di radunare in un museo a Norimberga tutti i simboli del potere dell’antichità, in questo nuovo romanzo la trama ci porta a scoprire un congegno progettato da Guglielmo Marconi: che cosa c’è di vero nell’uno e nell’altro progetto? Sia nel primo sia nel secondo ci sono forti nuclei di verità. Esisteva veramente, durante il nazismo, la volontà di creare un museo del genere e Leonardo Gori potrà confermare che esi- dopo 50 anni L’irrazionale è dappertutto la critica? Non incontrò ostacoli critici di rilievo, ma fu accolto con interesse anche all’estero e a livello universitario. Unica critica fu quella di un giornale della mia città natale, una critica scarsa di argomenti e dovuta forse al tentativo Nella foto superiore Leonardo Gori e Franco Cardini, autori per Hobby & Work di Il fiore d’oro. In basso Bruno Fabi che da Anemone Purpurea ha pubblicato Il Tutto e il Nulla stono miti e leggende sul conto delle invenzioni «perdute» di Marconi che morì - casualmente? - pochi mesi dopo D’Annunzio. In ogni caso storia, storia della scienza, esoterismo e altre amenità sono inserite nel romanzo sempre in modo sostanzialmente corretto, anche se con le doverose concessioni all’invenzione. Gori, sapevamo dai precedenti romanzi della sua passione per la musica, conosciamo pure quella per i fumetti. Ne Il fiore d’oro veniamo a conoscenza di un altro suo amore, quello per il cinema, anche per il cinema degli albori. Che cosa le comunica una pellicola del film muto? Ho scoperto tardi il cinema muto e ho avuto la rivelazione di un mondo diverso: il cinema muto aveva definito la sua estetica matura e adulta in un mondo espressivo che è stato ucciso dal sonoro negli anni ’28-’30. Tutti sappiamo di attori del muto che sono stati falcidiati e sostituiti da altri nel sonoro. Vedere un film muto è andare in un altro mondo, è un viaggio nel tempo. Mi affascina ciò che non è scontato e mi piace raccontarlo. Ho cercato di comunicare questa fascinazione puramente visiva ed è stata una sfida farlo con la letteratura, raccontare le immagini con le parole. In quanto storico, Cardini, pensa che venga sminuita la storia come è trattata nei romanzi, oppure il romanzo è una maniera per rendere accessibile la storia ai più? Sono convinto che un buon romanzo storico sia un ottimo veicolo per divulgare la storia, accessibile e non solo ai più- basta che l’essenza della storia sia rispettata. Ci sono anche le ucronie che hanno pari dignità, ma anche nel caso delle ucronie credo che il gioco intellettuale- se onesto- abbia comunque una valenza didattica. Facciamo il caso del «nostro» D’Annunzio e del «nostro» Vittoriale: non sono esattamente sovrapponibili alla figura storica e a quella architettonica e tuttavia hanno una verità sostanziale. Ad esempio, non c’è nessuna pagoda giapponese come quella che noi descriviamo al Vittoriale, ma avrebbe potuto esserci. Gori, oltre ai nomi di persone vere ovviamente note, come D’Annunzio o Canaris o Bruers, il bibliotecario del Vittoriale, ci sono dei nomi di altri personaggi su cui si gioca di allusione? E chi è l’Andrea Battaglia che Dietrich incontra sulla nave nelle ultime righe del romanzo? Due personaggi prima di tutto: Schultz e Ehrhardt sono due nazisti del film Vogliamo vivere di Lubitsch, un film con Carole Lombard. E li ho messi nel romanzo come un modesto omaggio a quello che considero il più grande regista di tutti i tempi. Andrea Battaglia è realmente esistito con questo nome di battaglia e non vorrei dirne il nome vero. Vorrei lasciare che il lettore appassionato di storia contemporanea lo indovini quando legge della sua destinazione. Diciamo che è un grande personaggio storico del periodo fascista che fece una scelta molto coraggiosa. Il finale sembra quello di un film dei «telefoni bianchi»: è un’allusione voluta? I due personaggi lo dicono esplicitamente, è un’ammissione di colpa che fanno entrambi ed è anche un omaggio a Liala: volevo prendere quello di buono che c’è stato nella bassa letteratura, nel basso cinema, nel cinema dei telefoni bianchi e in Liala. Il fiore d’oro è nato come un grande feuilleton che mescolava avventura, fantascienza, thriller. di difendere certa ortodossia religiosa. Cosa l’ha portata a questa intuizione che non contrappone il tutto al nulla e viceversa, ma li articola in un sistema filosofico che, dall’irrazionale che governa il mondo, porta alla speranza dell’esistenza di Dio? Dalla convinzione che il Tutto, presentandosi eterno e infinito pur nel rinnovarsi delle sue parti, sia il solo universale e che il solo universale sia appunto irrazionale perché indefinibile, pena il ridurlo a parte. È facile il passaggio alla fede e all’esistenza di Dio sotto il punto di vista del mistero della fede stessa e della potenza divina: onnipotenza che ha riscontro solo nel Tutto, in cui tutto è possibile, anche l’impossibile (cioè il miracolo). Il Tutto può essere insomma l’immagine di Dio nella sua onnipotenza, ma può anche rivelarsi una sua incarnazione umana destinata a moderare gli uomini nella scelta fra bene e male come elementi del Tutto, in cui, appunto, tutto è possibile: scelta senza la quale l’uomo perderebbe la sua umanità. Finisterre S t los autori italiani ARNALDO COLASANTI I SOGNI DI LOMBARDO Il valore massimo della saggistica non è l’erudizione, l’intelligenza o la complessità della prospettiva. Un grande saggio, che sia letterario, filosofico o storiografico, lo riconosci solo per il suo essere un’azione, un convincimento: quella vera e propria persuasione a cui devi arrenderti. Giacomo Debenedetti fu un maestro, perché alla fine aveva sempre ragione e occorreva riconoscergliela. Pensava il lettore come un «tu», come il lato di una potente conversazione rabbinica. Imparò a sciogliere le sue interrogazioni in inesauribili risposte; svuotò la petulanza e la sottile fatuità di qualsiasi discorso letterario senza però nascondere quelle condizioni, perché solo nella persuasione della sua pagina la letteratura, il gusto, le causerie della mondanità restavano integre pur rivelandosi in una nuova vitale necessità. Gianfranco Contini, invece no. Certo, fu anch’egli un maestro. Ma la sua non fu una saggistica grande, perché la prosa si ritraeva (non dico per difetto, magari solo per pudore) all’atto della persuasione. Debenedetti, dunque, è ancora da «seguire»; Contini è solo da «imitare», quale la stenografia di un’intelligenza tragica tutta del Novecento, visto che nei lettori cercava allievi, conoscendo come Zarathustra il grande Stile, la solitudine sfolgorante dell’espressività, quella gabbia paralitica o quel castello a cui solo in nome della spiritualità (e non religione) della poesia uno scrittore come Debenedetti potè sottrarsi. È un piacere leggere La pietra di Eraclea (Quodlibet) di Giovanni Lombardo. Sono tre saggi sulla poesia antica. La pietra, secondo il racconto platonico, è il magnete, è la «dynamis» che rende reciproci lettore e scrittore, perché entrambi, devoti alla Musa, si innalzano alla «grandezza della mente di un dio». Lombardo segue questo «discorso amoroso» con la perizia e l’attenzione dell’innamorato. L’«enérgeia» degli antichi (e già dei romantici: centrale il riferimento prima a Humboldt, poi ai mitici precursori del formalismo russo, la «prekrasij» di Potebnja e Veselovskij) è certo per Lombardo una questione sia storiografica sia metodologica (la problemática contemporanea dell’«intertestualità», come dire il cerchio linguistico che distrugge le gerarchie e rende complementari scrittori e lettori). Tuttavia, non è di questo che vorrei parlare. Quello che risulta meraviglioso è vedere la passione di Lombardo (le sue note fitte fitte accolgono il sogno canettiano di un bibliotecario), è dunque riconoscere la cura con cui ci insegna e, al tempo stesso, ci conforta, rivelandoci, in defintiva, l’unica cosa che conti della letteratura. Certo, la grande critica ci sa mostrare ciò che leghi un’immagine di Callimaco a Montale e come questa vicinanza illumini, capovolga, sappia informarci di altre e inedite verità della storia. Ma la critica è entusiasmante soprattutto quando fa deflagrare l’erudizione in un nuovo scintillìo, dove tutto, le sillabe di un grande verso, diventano le parole che aspettavamo, quelle che volevamo sentire e seguire e a cui arrenderci. È vero, la grandezza espressiva presuppone la grandezza spirituale. Se non è commossa, scrive Seneca (ma ora per noi lo dice Lombardo) «la mente non può dire nulla di grande e di superiore a quanto sia stato già detto». Si comprende (insegna Lombardo sulla linea dei padri) «veramente un oggetto solo quando se ne preservino le condizioni di incomprensibilità». S t los autori italiani a Rizzoli ha da poco pubblicato il quarto di una serie di libri a firma di Sergio Romano, dal titolo I giudizi della storia. Il volume raccoglie alcuni degli articoli dello storico tratti da quotidiani e da riviste specializzate degli ultimi anni, utili non solo a ritrarre degli interessanti spaccati di alcune significative vicende di storia contemporanea, ma anche a tracciare una rappresentazione esaustiva della condizione della storiografia e del suo rapporto con i principali mezzi d’informazione. Stilos lo ha incontrato. «Nelle pagine culturali italiane la storia è diventata una specie di laboratorio dove i fatti, le versioni interessate e le interpretazioni eccentriche formano gli ingredienti di un discorso aperto e di un’opera incompiuta o, se si preferisce, di una minestra riscaldata che viene prontamente servita ogniqualvolta un memoriale, una ricorrenza, un nuovo documento o un libro revisionista ne forniscono l’occasione». Quali spazi ci sono per una divulgazione storica autorevole? Gli spazi si sono inevitabilmente allargati e lo storico può essere al tempo stesso agevolato e danneggiato. È senza dubbio agevolato perché la sua disciplina sembra avere assunto uno status maggiore; è però forse danneggiato perché questo «consumo» della storia non consente ricerche accurate. Per sua natura, infatti, lo storico ben difficilmente giunge a conclusioni draconiane. Questo consumo sulla stampa finisce invece inevitabilmente per promuovere le idee più semplificate. Quali sono le principali differenze tra il dibattito storico attuale e quello dei decenni passati? La storia è sempre stata utile a qualcuno. Non c’è mai stato un momento storico in cui il potere non abbia fatto un certo uso dell’interpretazione del passato per giustificare se stesso ed il proprio operato. Quando questo accade all’interno di uno Stato nazionale, per i fini che quello stesso Stato si propone, si assiste ad una situazione nella quale le versioni storiche, almeno all’interno dei singoli Paesi, sono generalmente concordi. Dopo il 1870, ad esempio, la Francia ha letto in un certo modo il suo passato e la sua storia europea; la Germania lo ha inter- L Interviste SERGIO ROMANO. Invale la logica della doppia SERGIO ROMANO "I giudizi della storia" pp. 519, euro 19 Rizzoli, 2006 lettura degli avvenimenti storici, dovuta alla diversa interpretazione che si dà ai fatti. Una volta invece la storia era fatta da chi era al potere Nella foto Sergio Romano, che da Rizzoli ha pubblicato I giudizi della storia zione, che diventa ciclicamente ricorrente soprattutto nel dibattito politico. Proprio per questo, diversi anni fa, Francois Mitterand dovette andare in televisione a spiegare la sua giovanile militanza nelle Croci di fuoco (la lega che faceva capo al colonnello La Roque vicino ai nazisti). È un trait d’union proprio di ogni Paese europeo. È naturale poi che all’interno di questo elemento comune esistono dei sottoproblemi di carattere nazionale e subnazionale. Con queste premesse, fino a che punto può essere fruttuosa una differenziazione nell’insegnamento della storia? Quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Berlinguer, inserì l’insegnamento dell’intero Novecento come capitolo conclusivo del programma di storia delle ultime classi della scuola media superiore, io scrissi che era una buona idea. Dopotutto il Novecento era finito ed anche gli storici potevano occuparsi di un periodo relativamente concluso. Col tempo tuttavia mi sono dovuto ricredere: gli insegnamenti della storia del Novecento all’interno di programmi scolastici delle scuole europee rischiano di essere un fattore di scontro. Mi rendo conto che non è neanche possibile tacerlo, ma ho l’impressione che non esistano ancora nelle scuole degli insegnanti che abbiano un tipo di formazione tale da poter affrontare questi problemi con un certo tipo di distacco. Recentemente è emersa tuttavia una certa condivisione storiografica, che fino ad una decina d’anni fa era inimmaginabile. Solo per fare un esempio, le interpretazioni di Renzo De Felice, prima considerato vero e proprio diabolicus animus di una certa storiografia, sono state accettate. Non si possono intravedere dei segnali concilianti? Ricordo anche io gli anni in cui De Felice era sul banco degli imputati. In occasione della pubblicazione di un volume sulla biografia di Mussolini, moderai un dibattito tra lo storico e Asor Rosa. Forse il fatto che già allora si potesse dialogare tutti insieme segnalava un qualche progresso rispetto alla situazione degli anni precedenti. Oggi evidentemente le cose sono cambiate anche perché i giudizi storici di certi intellettuali marxisti non possono che essere diversi. Ma al tempo stesso è successo anche qualche cosa d’altro in Italia. La storiografia non può più prescindere infatti dal contesto politico dei singoli Paesi. In questi ultimi dieci anni l’Italia è passata da una forma di centrismo a geometria variabile ad un sistema bipolare di cui la legge elettorale maggioritaria e la decisione di Berlusconi di entrare in politica sono stati i principali propulsori. Il leader di Forza Italia ha creato una coalizione recuperando tutto ciò che era recuperabile a destra. La sinistra, d’altro canto, si è trovata inizialmente impreparata e solo nel ’96 ha fatto la stessa operazione con Prodi, perfezionandola nelle ultime tornate elettorali. Ciò ha significato che ciascuno dei due blocchi ha dovuto in qualche modo individuare un imputato del Novecento proprio perché ne aveva bisogno. La logica bipolare vuole che ciascuno dei due blocchi affermi la propria identità rispetto all’altro e quindi, con un sviluppo per certi versi contraddittorio, ciascuna delle due coalizioni ha usato l’imputato dell’altro per squalificare l’intero rassemblement. Tuttavia le radici politiche ed ideologiche sono state spesso trascurate nella delegittimazione dell’avversario, preferendo polarizzare lo scontro sui leader degli schieramenti. Ciò conferma il carattere strumentale di questo tipo di accuse. Il bipolarismo della politica italiana permette che queste due categorie, fascismo e comunismo, continuino ad essere utilizzate quali categorie di lotta. Ed è naturale che le squalifiche siano più polarizzate sui leader che sui personaggi politici meno esposti o secondari. 815-1889: settantaquattro anni intercorrrono tra due eventi che CESARE DE SETA. Il secolo dell’«homo novus» travalicano la semplice portata storica e si connotano come spartiacque simbolici contenenti l’irruzione della borghesia, lo straripamento di una classe sociale che travolge la società e la cultura ottocentesca, spazL’ A U T O R E zando i detriti cristallizzati dell’Ancien VIVE A CATANIA. SVOLGE UN Régime. È una stagione di rovelli intelDOTTORATO IN GEOGRAFIA A lettuali, di intrecci prolifici tra pittura LINGUE E LETTERATURA STRAe letteratura, di contaminazioni cultuNIERA DI CATANIA rali, di stravolgimenti innescati dall’esplosione della «Modernità», di camTERESA GRAZIANO biamenti repentini che mutano il volCesare to delle città. Proprio questo secolo dividualistico anch’esso tipicamente De Seta scoppiettante e fecondo di innovazio- bourgeois. Docente di Storia dell’architettura all’università di Napoli Federico ni che va dal Congresso di Vienna al- A intrecciare i fili di questa matassa II, Cesare de Seta ha ampiamente sviscerato l’immagine dell’Italia l’inaugurazione della Tour Eiffel (em- variopinta concorrono il neoclassico e i suoi stereotipi, smentiti o confermati - nelle rappresentazioni leblema della francité, e di un’epoca in- Ingres, il maudit Géricault, Delacroix gate alla «moda» sette-ottocentesca del Grand Tour, sia quelle lettetera) è ripercorso da Cesare de Seta in l’engagé e il poeta del realismo Courrarie come in L’Italia del Grand Tour da Montaigne a Goethe, sia un’articolazione libera da asfissianti bet, fili che si sciolgono nella lenta quelle prettamente figurative, come in Vedutisti e Viaggiatori in Italia tassonomie storiografiche e da perio- agonia dei soggetti storici e si riallactra Settecento e Ottocento. Tra i suoi numerosi volumi, tradotti in didizzazioni rigide. L’autore spazia dal- ciano nell’esplosione irriverente delverse lingue, De Seta ha consacrato saggi alle contraddizioni archila pittura alla fotografia, dall’architet- l’Impressionismo: dalle ballerine di tettoniche - e non solo - della città partenopea (Napoli tra Barocco e tura all’urbanistica, per restituire Degas alla scandalosa Olympia di MaNeoclassico, Napoli fra Rinascimento e Illuminismo), all’evoluzione un’immagine sfaccettata di quello che net, dalla luce impalpabile delle Nindella città europea (La città europea dal XV al XX secolo). Collaboraè definito «il secolo della borghesia», fee di Monet ai tocchi leggeri di Retore di "la Repubblica", è autore dei romanzi Era di maggio, La diserpeggiando tra due sponde metodo- noir. E ancora, dalle suggestioni simmenticanza, Terremoti. logiche, quella «monografica per arti- boliste di Moreau alle nuove frontiere di Cézanne, dal sta, per nazioni e Revival di per ambiti artistiR e c e n s i o n i Gothic Ruskin all’esoti- cui angoli si annidano fucine di creati- poleonica e diventano vere e proprie ci» e quella - più smo di Gaguin, vità come l’atelier parigino di Rodin, istituzioni, radicate nel territorio con innovativa - «per CESARE DE SETA passando per le colorato dall’incessante andirivieni di coerenza programmatica. Se è vero generi e istituzio"Il secolo della infatti che il secolo della borghesia si Paris bohémien di artisti e modelle. ni». Non solo artiborghesia" sti e opere, dunpp. XIII-395, euro 24,50 Toulouse-Lautrec Nonostante la smania dilagante di af- connota per l’emergere dell’indivifino all’esaspera- francarsi dalle zavorre normative, è dualità creativa, non si può sottovaluque, ma anche il Tuet, 2006 proprio in questo secolo che le accade- tare la funzione di questi «cantieri» in zione milieu in ebollizione in cui si muovono «le esposizio- cromatica/drammatica di Van Gogh e mie si uniformano sotto la spinta na- cui il talento è forgiato, levigato e conni universali, i Salons, la metropoli al groviglio straziante di «simbolismo contemporanea di Charles Dickens e nordico ed espressionismo» dell’urlo di Emile Zola, non potevano restare munchiano. DANIELE MARCHESINI Se un’euforia creativa scuote dal torrelegate in una storia separata». "Carnera" Dal vortice che risucchia gli ismi del pore la pittura in un’Europa dilaniata pp. 216, euro 22 secolo in un unico fermento creativo dalle guerre napoleoniche, l’architettuIl Mulino, 2006 emergono così la drammaticità cruda ra sonnecchia invece in una stagnazioe allucinata di Goya, gli impeti rivolu- ne indotta da condizioni economiche C zionari degli eroi di David, ma anche poco favorevoli ai grandi investimen- A la quiete dei paesaggi di Constable e ti. Eppure non mancano i progetti viSono trascorsi cento anni dalla sua nascita e settanta dal titolo Turner, e lo spiritualismo inquieto di sionari di Claude-Nicolas Ledoux, o il T Caspar David Friedrich e Philip Otto trattato normativo di Jean-Nicolas Du- A mondiale dei pesi massimi e ancora oggi il nome di Carnera viene ricordato dal mondo che lo vide all’opera sul ring come il più Runge. È comunque la Francia il tea- rand, i cui exempla influenzeranno gegrande boxeur, figura leggendaria in questo sport che lo ritro principale dell’«Homo Novus», nerazioni di architetti. L’Ottocento è L scattò dalla povertà durante l’emigrazione. Il fascismo lo indicò che cerca nuove forme di espressione anche il secolo della scultura, «che nel romanzo, medium borghese per esce dalle chiese» e invade le città con O come l’incarnazione dell’uomo nuovo e modello della virilità. antonomasia, e in correnti filosofiche una funzione urbana inconsueta, a G Girò molti film. Fu anche campione di lotta libera e lo sport, grazie a lui, divenne cultura di massa. che gravitano intorno alla figura del- connotare i luoghi del potere e del sol’artista-intellettuale, in un trionfo in- ciale di uno scenario in evoluzione, nei O fezionato per il mercato dell’arte - e, alcune volte, non riconosciuto. Accanto alle Accademie si impongono, sempre sul solco francese, i Politecnici e, con essi, la nuova figura dell’ingegnere, «homme moderne par excellence», cui va riconosciuto il merito di aver rivitalizzato un’architettura agonizzante, nella contaminazione prolifica di competenze che culmina con la figura dell’ingegnere-architetto. In effetti le innovazioni tecnologiche, che si accavallano per rispondere alle esigenze di un’industrializzazione galoppante, cambiano le fondamenta stesse dell’«antica arte del costruire»: la proliferazione di ponti e strade, di dighe e ferrovie, le strutture in ferro e vetro come il Crystal Palace della Grande Esposizione di Londra del 1851, i grattacieli e l’architettura industriale rimodellano gli orizzonti urbani e ridefiniscono i parametri stessi dell’arte in generale: persino alla serialità dei beni di consumo, considerata lo svilimento stesso della creatività, è riconosciuta dignità artistica con l’affermarsi dell’industrial design. Non a caso, de Seta traccia l’evoluzione di tre città-simbolo della vecchia Europa come Londra, Parigi e Vienna, oggetto di un restyling urbano che investe anche gli assetti sociali, e diventa specchio in cui si riflettono le differenze culturali. Così, alla decorosa uniformità delle villette a schiera monofamiliari dell’Inghilterra vittoriana, baluardo della decenza e della moralità, si contrappone la sordida promiscuità dei palazzi parigini. Ma anche le case e i vicoli sudici del vieux Paris sono falciati dalle ruspe hausmanniane, che ripuliscono la città dalle scorie medievali e le rifanno il trucco con ariosi boulevards e parchi, veri e propri salotti en plein air. Vienna, invece, assume le fattezze di metropoli moderna senza demolizioni e sventramenti. L’affresco di de Seta si conclude con una delle più grandi invenzioni del secolo della borghesia, che non solo scompiglia il mondo della pittura, costringendolo a rincorrere nuove soluzioni, ma stravolge il modo stesso di percepire luoghi e persone, e persino la loro rappresentazione mentale: la fotografia, ultima tappa dell’autore tra i vicoli e i viali dell’arte ottocentesca. 1 Non si fa più storiografia fuori dal contesto politico VIVE A MILANO. DIRIGE LA RIVISTA "GLI APOTI". È CONSULENTE EDITORIALE DELLA FONDAZIONE DNART FILIPPO MARIA BATTAGLIA pretato in modo totalmente diverso, ma siccome le due versioni erano approvate dalla maggioranza dei rispettivi Paesi, le polemiche e i dibattiti erano piuttosto limitati. Oggi ci ritroviamo in una situazione assolutamente diversa da quella del XIX secolo. Nel corso del ventesimo secolo non vi è stato Paese dell’Europa continentale in cui non si sia combattuta una guerra civile. Dopo la Rivoluzione d’ottobre e la Prima guerra mondiale le società nazionali europee si sono tutte spaccate. Una parte di queste ha ritenuto che il nemico fosse ormai all’interno della propria società: per i socialisti e i comunisti il nemico era rappresentato dalle classi borghesi e capitaliste, per i liberali da una parte della classe operaia che faceva riferimento alla rivoluzione bolscevica. Questa frattura all’interno delle società nazionali è tipica di tutti i Paesi del vecchio continente. Per l’Europa continentale esistono quindi almeno due letture del proprio passato. Certo. È il caso ad esempio della Lituania, che non può non avere due letture europee del passato, perché per i lituani l’occupazione tedesca non ha assunto lo stesso significato che ha invece avuto per i francesi. Essa rap- presentava pur sempre, rispetto alla perdita della sovranità e all’annessione all’Unione Sovietica, un elemento di minore gravità. Sia pure con alcune variazioni, ciò vale anche per i singoli Paesi europei? Sicuramente. Anche per la Francia la storia europea può essere letta diversamente a seconda dell’appartenenza ad un gruppo ideologico e ad una classe sociale. Esiste una Francia, le cui origini sono da rintracciare nella rivoluzione francese, che si è riconosciuta in Petain ed in Moras e che ha addirittura considerato la sconfitta del 1940 come il minore dei mali in una situazione in cui riteneva il Paese pregiudicato dalla deriva comunista e socialista. Di qui l’inevitabile strumentalizza- La creatività è borghese Da anni studioso dell’Italia degli ultimi secoli Il più grande boxeur del mondo pagina 7 S C A F F A L E LUIGINA MORTARI, La pratica dell’aver cura, pp. 201, euro 20, Mondadori 2006 Fin dalla nascita si ha bisogno di cure ed attenzioni. Ogni essere umano ne ha diritto affinché crescendo anche lui potrà ricambiare tutto ciò che ha ricevuto. Luigino Mortari studia la filosofia di questo concetto e costituisce un legame con le modalità delle concrete pratiche di cura, cioè madre-figlio, ragazzoamico fino al rapporto pazientedottore e propone una mappa delle «buone pratiche». LIVIO GARZANTI, Amare Platone, pp. 124, euro 11, Garzanti 2006 La storia della filosofia è «una serie di glosse a Platone». Come leggere Platone? Il grande filosofo resta sempre iscritto nella volta celeste della nostra civiltà e non scende con le sue vesti tra di noi. La sua filosofia è amore della sapienza. Non è ancora la «filosofia» che sarà ancora dopo di lui. La sapienza resta con l’uomo nella visione del cosmo. Non bisogna fermarsi ai dialoghi ma trarre la vita dalla grandezza della sua opera. Il folle volo di Fedro ci porta dove ragione e follia si congiungono fino ai confini dell’iperuranio là dove ci trasporta il volo di Eros nel delirio d’amore. Garzanti ha pubblicato un libro al quale lavorava da molto tempo e che aveva accontonato. Un evento luttuoso lo ha spinto a concluderlo, quasi ad assumere Platone come autoterapia. STEFANO ZUFFI, Lo specchio infranto, pp. 158, euro 12,60, Longanesi 2006 La vita del pittore Rembrandt rivista da Stefano Zuffi che ci descrive una Amsterdam di quattrocento anni addietro cupa e malsana. È triste per chi ha vissuto una vita agiata subire il degrado e la povertà. Per Rembrandt la vita va in «briciole»", ma nonostante i disagi e la morte della moglie adesso è pronto a far guizzare il suo pennello per coprire di colori scuri e molti particolari la sua tela bianca. In seguito dipingerà persone immaginarie e anche reali come la sua seconda moglie e il figlio Tito. Finché negli ultimi anni la sua pittura diventa scandalosa e ce lo rende contemporaneo. FRANCESCA LONGO, Non gioco più, pp. 122, euro 12,50, Baldini Castoldi Dalai 2006 La vita è la palestra del «non gioco più». Allenandosi a questa palestra si conoscono i giochi affettivi, sociali e tutto il meccanismo automatico che devia negativamente la nostra vita e quella degli altri. Un figlio che chiede qualcosa alla madre riceverà una risposta negativa che il figlio non accetterà ripetendo la stessa richiesta e ottenendo la stessa risposta scontata ed irremovibile. Si entra così in una guerra con frasi pesanti rinfacciate a vita. MATTICCHIO, Esercizi di stilo, pp. 224, euro 12,50, Einaudi 2006 Un ragazzino scrive - niente di strano - ma scrive direttamente sulla superficie di un tavolo. Un naufrago malconcio va verso una spiaggia o verso una bottiglia d’acqua. No, va verso una libreria per prendere un libro. Matticchio ha un brillante talento nell’unire il disegno alla perizia di artista: nei suoi duecento disegni di lettura e scrittura usa una ironia tutta sua e strampalata. ERNESTINA PELLEGRINI (cura), Scritture femminili in Toscana, pp. 344, euro 22, Le Lettere 2006 Le «donne che scrivono» nella Toscana del Novecento, raccontano la loro vita, il loro lavoro. Sono raccolti 156 profili. Ve ne sono nel campo letterario e ci sono quelle che ravvivano l’editoria italiana. Ci sono le trapiantate e quelle di passaggio e ci sono nomi e volti meno sconosciuti. Si narra del razzismo, della Resistenza, del movimento studentesco e del postfemminismo. Una anagrafe provocatoria e bizzarra che mette in evidenza il movimento delle donne con attenzione al contesto socio-culturale. 8 PATRIZIA DANZÈ ’è tutta la voglia di divertirsi e di divertire nell’ultimo libro di Lorenzo Licalzi, una esilarante storia in cui è ancora di scena un simpaticissimo Andrea Zanardi, già «eroe» di Il privilegio di essere un guru. L’adorabile mascalzone, infermiere genovese quarantenne, emblema di una complessa mediocrità, si racconta in un’avventura tutta esotica. Si trova in Giappone dove la sua vacanza si trasforma in un’esperienza mistica, per come il misticismo viene inteso da Zanardi. Ritrovata la fiducia in se stesso in un monastero buddista, grazie al suo maestro zen, ha finalmente il coraggio di guardarsi dentro e di analizzare quello che per lui è diventato come un destino da dongiovanni: non riuscire a stringere un legame duraturo con una donna dopo averla conquistata. Stilos ha intervistato Licalzi. Torna Andrea Zanardi. Che Andrea Zanardi è? Cresciuto, maturo? Quali consapevolezze ha raggiunto e quali illusioni ha messo da parte? Una premessa: il libro vuole essere divertente, intelligentemente leggero, di facile lettura, e anche se a tratti potrebbe perfino far riflettere un po’, non era mia intenzione scrivere qualcosa di chissà quali contenuti psicologici. Volevo scrivere un romanzo che mettesse buonumore, tutto qui. Quindi, per le serie non prendiamoci troppo sul serio, regola aurea che molti scrittori hanno perso di vista, non prenda neppure troppo sul serio le mie risposte, né i contenuti del libro. Detto questo però le risponderò seriamente, e dunque le dirò che Andrea Zanardi tutto può essere tranne che un uomo maturo, anzi in qualche modo rappresenta la parte immatura che c’è in ogni uomo. In conseguenza di ciò, consapevolezze ne ha pochine, a meno che non si intenda per consapevolezza la consapevolezza, appunto, per un uomo tutto sommato normale come lui, di quanto sia complicato conquistare una donna. Cosa si aspettano da Andrea Zanardi i fans del suo funclub? Io credo che i suoi fans si aspettino di divertirsi leggendo un romanzo, vale a dire divertirsi, consentitemi il termine, in modo almeno un pochino letterario, e cioè grazie a una storia ben scritta, che possa piacere di per sé e dove siano le situazioni, più che le battute fini a stesse, a far ridere. Situazioni che, seppur a volte grottesche, siano sempre credibili. Insomma, i miei due romanzi di cui è protagonista Zanardi vorrebbero rientrare in quel genere letterario che è la letteratura umoristica, così rara da trovare oggi in Italia, a meno che non si voglia considerare, facendo un errore madornale, come appartenenti alla categoria i libri dei comici. Il fatto di collezionare donne è l’unico vezzo di Zanardi o ha anche altre qualità? Direi di si, credo che tutta la sua vita, C ANGELO O. MELONI he dark side, raccolta curata dall’agente letterario Roberto Santachiara, si propone lo scopo di mettere insieme autori di crime fiction americani e italiani: King, Ellroy e Deaver accanto a Lucarelli, Vinci, Wu Ming eccetera. Come spiega l’introduzione, i racconti non seguono una linea tematica e l’unico criterio di selezione è stata la qualità. Criterio prettamente estetico che salva dall’eccesso di speculazione che sta facendo ingobbire la stessa crime fiction. Ma se l’unico progetto presente è quello di assemblare buoni racconti e nulla più (come se poi fosse obiettivo da poco), cos’altro potremmo offrire noi se non che una panoramica sui testi? Cominciamo perciò dagli italiani, che con alti e bassi se la cavano tutti, evidenziando mestiere. E facciamo l’esempio di Eraldo Baldini, da cui ci si aspetta sempre il meglio, alle prese con un colpo di scena davvero abusato, scritto però con mano sicura, cosciente dei propri, notevoli mezzi espressivi. Tra gli americani invece, se la qualità media è più che soddisfacente, e ci fa piacere leggere le pagine caustiche di Ed McBain alle prese con un cagnetto odioso (troppo poche!), duole notare come Robert Silverberg ci proponga un raccontino indegno del suo curriculum. Infine, se a lettura ultimata ogni lettore avrà modo di farsi la sua idea e stilare il suo indice di gradimento, qui ci limitiamo ad aggiungere che se tra gli anglosassoni non mancano esempi di humour (come in Ian Rankin), gli italiani hanno preso l’incarico molto sul serio, regalandoci una serie di storie che più ne- LORENZO LICALZI . Ritorna Andrea Zanardi in un romanzo umoristico che contribuisce a colmare un vuoto nella tradizione italiana. Un vortice di spiritualità si innesta in un radicato sentimento del materiale e del concreto: per riflettere ridendo sulle vie dell’amore Misticismo buddista per l’amore di Maria almeno fino ad ora, sia stata finalizzata a quello. Andrea e le donne: qual è il problema? Le donne! No, in realtà il problema è lui, vittima come è di una sorta di sindrome di Casanova che lo costringe a cercare sempre nuove conquiste, forse per riaffermare, almeno a livello inconscio, la sua virilità, insomma un classico. In questo romanzo-confessione Zanardi fa un vero e proprio outing. È un atto di coraggio? Oppure è un modo di riaffermare la sua normalità? Beh, entrambe le cose, dichiara la sua normalità avendo il coraggio di ricordare il «rimosso» delle sue tragiche esperienze con le donne prima di diventare quel grande tombeur de femmes che poi è diventato. Cerca di capire, in buona sostanza, da dove nasca la sua idiosincrasia al fidanzamento. Perché il suo autore «mette le mani avanti» e avverte il lettore che Andrea magari sarà un mascalzone maschilista, ma è simpatico, allegro e pieno di sorprese? Col precedente romanzo dedicato a Zanardi, qualcuno ha parlato di libro maschilista; invece il mio intento, come in questo romanzo del resto, era proprio quello di prendere le distanze dal maschilismo ironizzandoci su: un po’ come fece la Wertmuller con Travolti da un insolito destino…, per intenderci. Così volevo mettere bene in chiaro che l’indubitabile maschilismo di Andrea Zanardi, talmente conclamato da essere perfino ingenuo, è molto meno dannoso di quello subdolo e sotterraneo tipico di molti uomini. Insomma, il libro è così dichiaratamente maschilista che finisce per non esserlo affatto, e Zanardi poveraccio, finisce per diventare simpatico anche alle donne più agguerrite. In realtà, per come si racconta, Andrea non sembra molto un tipo sorprendente, ma piuttosto uno che viene sorpreso dagli altri. Invece lo è, ma qui mi riferivo soprattutto al libro precedente, dove per conquistare Maria, segretaria tutto presa dalla filosofia zen, si trasforma, lui che è l’uomo più materialista del mondo, in un uomo tutto compenetrato nel IL LIBRO LORENZO LICALZI "Vorrei che fosse lei" pp. 219, euro 16 Rizzoli, 2006 Zanardi sotto analisi va in un monastero Andrea Zanardi va in psicanalisi. In realtà si autopsicanalizza in un monastero buddista in Giappone. E così, alle pendici del monte Fuji prova ad andare indietro con la memoria, fino agli anni dell’adolescenza, quando con le ragazze era piuttosto imbranato. misticismo e trascorre le quattro settimane più spirituali della sua vita, perché Zanardi ha questa straordinaria capacità di diventare ciò che la donna vuole che sia, si trasforma camaleonticamente nell’Uomo Perfetto, che naturalmente è diverso per ogni donna. A suo modo quindi è un tipo ricco di sorprese, mai uguale a se stesso. Come è nato il suo personaggio e qual è il tratto del suo carattere (la Sostanza dell’Uomo) che gli ha guadaganto il successo letterario? Il personaggio è nato dall’osservazione della variegata ma in fondo costante natura maschile. Io credo che il segreto del suo successo sia dovuto a una sorta di processo di identificazione, perché in ogni uomo c’è un po’ di Andrea Zanardi, con la differenza che Zanardi è un personaggio estremizzato, dunque sempre così, mentre è auspicabile che gli uomini come Zanardi lo siano stati magari per un breve periodo della loro vita o forse anche con una donna soltanto. Per le donne il successo è garantito dal fatto che ogni donna ha incontrato sicuramente qualche Andrea Zanardi nella sua vita, vale a dire un uomo che fa finta di interessarsi alla «persona», mentre il suo scopo in realtà è ben altro, e che dunque, ottenutolo - sempreché ci riesca, ma Zanardi di solito ci riesce -, si volatilizza. Andrea e il misticismo, Andrea e la meditazione: qual è il loro rapporto? Riesce alla fine a trovare, comunque, se stesso? Per lui inizia come un gioco, finalizzato appunto alla conquista di Maria, ma poi a poco a poco scopre che in fondo, ma proprio in fondo eh, la sua natura forse così materialista non è, e che anzi questo suo materialismo esasperato forse lo difende proprio dal la- GIOVANNI ARDUINO. Racconti neri in "The dark side" Il lato oscuro dell’antologia IL LIBRO AA. VV. "The dark side / Il lato oscuro" A cura di Roberto Santachiara pp. 520, euro 16,50 Einaudi, 2006 Florilegio noir Stati Uniti-Italia The dark side è un’antologia che unisce alcuni tra i più grandi nomi della crime story americana con alcuni autori italiani che si sono fatti notare nell’ultimo decennio. re e cupe non si poteva. Stilos ha parlato di The dark side con Giovanni Arduino, già autore di romanzi come Mai come voi e Chiudimi le labbra, uno degli italiani presenti nella raccolta. Come sei stato aggregato alla compagine? Risposta semplice e veloce e sincera: apparteniamo tutti allo stesso agente, Roberto Santachiara, che ha voluto e curato questa raccolta (una fatica mica da ridere) per festeggiare in gloria i quindici anni della sua scuderia. Poi con la crime fiction probabilmente io non c’entro granché, ma non sono l’unico. Con chi, tra gli autori contenuti in questa raccolta, senti di avere qualche affinità (se non veri e propri debiti)? Di Stephen King ti sei occupato più volte. È stato divertente tradurre Stephen King [il racconto Il sogno di Harvey, presente nella raccolta] e infatti sto continuando a farlo: una novella in uscita da Sonzogno il prossimo autunno. Non troppo facile, però mi sono tenuto lontano dalla tentazione di appesantirlo con orpelli, di renderlo ridondante e barocco. A parte King, comunque, James Crumley ed Ed McBain. Due grandi. Lucarelli, Vinci, De Cataldo eccetera contro Deaver, King, McBain eccetera. Chi vince? Vince una buona antologia da slurparsi lesta sotto l’ombrellone o con i piedi a mollo in una tinozza d’acqua gelata. Però, ripeto, nel suo genere lo scherzetto di McBain sbaraglia tutti. Ora che la polemica sulla sovrapproduzione del giallo-thriller sta cominciando a stancare quanto la sovrapproduzione stessa (per tacere dell’esaltazione cieca del genere), come inquadreresti una raccolta di questo tipo? Mi viene in mente l’episodio del Decamerone firmato Pasolini in cui un popolano apprende con gioia che fare l’amore non è poi un peccato così grave. Basta. Punto e basta. Basta con le frecciatine su carta e i commenti su internet. Genere o non genere, libro od oggetto narrativo, io popolare d’avanguardia e tu letterato incomprensibile di nicchia, ma chi se ne fotte. È umano, come tutte le beghe da cortile di questo mondo, ma chi se ne fotte. Almeno la fuffa in questione sortisse un effetto qualsiasi nel mondo reale. Inve- Nella foto superiore Lorenzo Licalzi, autore per Rizzoli di Vorrei che fosse lei. Sotto Giovanni Arduino, uno degli autori di Il lato oscuro (Einaudi) to spirituale, e assolutamente rimosso, del suo carattere. Se trova se stesso non si sa, ma certo che la frase con cui si conclude il romanzo «Vorrei che fosse lei», per lui è un segno di grande cambiamento, direi che quasi potrebbe essere una frase catartica. Un pensiero così, cioè di desiderare che una donna con cui era stato ritornasse da lui, Andrea Zanardi in vita sua, prima di allora, non l’aveva mai avuto. La polemica verso il «misticismo integralista e modaiolo» è uno dei motivi del suo libro, tanto che lei non esita a metterlo in ridicolo. Crede davvero che certo misticismo sia integralista e modaiolo? E di quale misticismo parla? Assolutamente si, mi riferisco a tutta quella deriva mistica d’importazione che non ha nessuna reale base filosofica, ma è solo frutto, appunto, di una certa moda. Dentro c’è di tutto: new age, buddisti dell’ultima ora, macrobiotici integralisti, gente che si cura con qualsiasi cosa tranne che con le medicine normali ecc. ecc. Alla fine della sua analisi Andrea capisce che se riesce ad essere se stesso, può risolvere i suoi problemi. Basta veramente per recuperare fiducia in se stesso? La fiducia in se stessi è fondamentale, senza di quella non si va da nessuna parte e per certi versi se non si ha fiducia in se stessi non si riesce neppure ad essere se stessi. Ma poi, naturalmente, tutto questo è un po’ un gioco, una scusa per mostrare lo Zanardi adolescente, che, al contrario di adesso, è così impacciato da far tenerezza, uno Zanardi imbranatissimo alle prese con le sue prime avventure sentimentalsessuali che mi ha permesso, tra l’altro, di raccontare scherzosamente una fase della vita che, soprattutto gli uomini, ricordano come tragicomica. Se Andrea approda alla fine ad un nuovo rapporto sentimentale, quali saranno le sue avventure letterarie? Non ce ne saranno. Beninteso, mai dire mai, ma credo proprio che le avventure di Zanardi finiscano con «Vorrei che fosse lei». Se ridere vuol dire emozionarsi, questo libro, che strappa tante risate, dunque fa emozionare. È questo l’intento della sua scrittura? Io passo per uno scrittore di ironia e sentimento, tre dei miei cinque romanzi (Io no, Non so e Che cosa ti aspetti da me?) fanno sorridere, a tratti magari ridere, ma ad un certo punto scartano e si fanno seri, in due casi addirittura tragici, tanto che molti lettori mi hanno scritto di averli chiusi con le lacrime agli occhi. Tutti e tre i romanzi suscitano forti emozioni. Nei due libri dedicati a Zanardi invece, non ho difficoltà a ammettere che non c’è sentimento, ma fanno ridere, e secondo me, se leggendo un libro si scoppia in una bella risata, vuol dire che in qualche modo ci si è emozionati, e pazienza se le lacrime agli occhi verranno dal ridere, anzi no, forse è anche meglio. ce, niente. A chi scrive polemiche simili interessano - o dovrebbero interessare - poco. Io ne vengo attirato, nei limiti, solo quando sono dopato o ubriaco. In quanto ai lettori, poi... Chi è interessato, compri la raccolta, magari dopo averla adeguatamente compulsata in libreria, e si faccia un’opinione. Per essere chiari e andare sul personale: io scrivo e ho la fortuna di essere pubblicato. Scrivo quello che voglio. Mi fa stare male, non la considero una terapia, anzi, ma dàgli e ridàgli ho capito che è una delle due o tre cose che so fare meglio. Un po’si perde e un po’ si vince. Con Francesca sta con me [il racconto presente in The dark side, ndr] non sono state rose e fiori, ma il risultato mi soddisfa. Sono contento di questo racconto, e pure delle pagine fitte fitte sul mio taccuino, ora, adesso. Stop. In questa raccolta i trucchi, il mestiere, si vedono tutti. Ciò nonostante alcuni racconti rimangono come scolpiti nell’immaginazione, altri scorrono via innocui. Da scrittore, pensi che il racconto offra meno possibilità per rimestare nel torbido? Secondo me ne offre di più. Bisogna arrivare al sodo, e in fretta, con un misto di ispirazione e mestiere, chiamiamoli così. Un racconto o viene o non viene, subito, fin dal primo momento. Non lo puoi aggiustare poco per volta come un romanzo, come alcuni fanno con i romanzi, io non ci riesco. Con un racconto sei lì e hai un’occasione, solo una. O sferri un pugno da knock out alla prima ripresa o vieni messo al tappeto. O uccidi o vieni ucciso. Vedi che nel torbido si rimesta, alla fine? Diogene pagina T S t los autori italiani SOSSIO GIAMETTA CONTANO LE DERIVE L’utopia, in quanto aspirazione a un traguardo ideale, è positiva, come la lotta stessa che si fa per raggiungerlo o avvicinarvisi, dunque corrisponde a una bella disposizione umana. Quando è sana. Essa può essere infatti anche malsana. Quando? Quando salta l’ordine razionale delle cose, entro il quale dovrebbe essere concepita e perseguita; quando cioè, nel bramare e perseguire la meta, non si tiene conto dei condizionamenti della vita e della complessità del reale; quando si pecca insomma, per superficialità, presunzione o fanatismo, contro la realtà. Qualunque cosa si faccia allora, si può essere sicuri che la vendetta delle cose, del mondo per la maldestra manomissione non si farà attendere. Le rivoluzioni, che per quanti nobili ideali incarnino e anche realizzino o avviino alla realizzazione sono sempre esplosioni di violenza provocate da tali brame e fanatismi, mettono sempre capo a un mattatore, che si chiami Cromwell, Napoleone o Stalin. E ciò per la stessa ragione per cui una palla scagliata contro il muro rimbalza all’indietro con la stessa forza. È dunque errore ritenere, come per esempio ritengono molti comunisti odierni, che l’avvento di Stalin, affossatore a loro avviso della rivoluzione comunista, sia stato un caso, un incidente che si sarebbe potuto anche non verificare. Stalin, come già Napoleone, è stato un restauratore dei diritti della realtà, che non concede all’uomo più di tanto. Almeno immediatamente. Si può sperare nel futuro: a ciascuno di stabilire se la spesa valga l’impresa, sebbene poi le cose accadano per forza propria e non per la conclusione che se ne trae. Comunque qui sta davvero la differenza tra comunismo e fascismo e in particolare nazismo, che viene di solito riposta in tutt’altre cose che non c’entrano affatto: i disastri provocati dal fascismo-nazismo esprimono una fine, una chiusura, mentre quelli provocati dal comunismo esprimono un’apertura, un nuovo cominciamento, sono una promessa per l’avvenire. L’errore che ad ogni modo si commette in questi casi consiste nell’ignorare l’esistenza autonoma, cioè relativamente indipendente dagli accadimenti esterni, dei grandi organismi che sovrastano gli uomini, come ad esempio la specie, le civiltà, le società e via discendendo. Per questa fatale subordinazione l’uomo non è sui compos, non è padrone di sé come ingenuamente crede di essere e di potere come tale cambiare il mondo se solo lo voglia, ma è soggetto a forze e derive storiche che passano al di sopra della sua testa e rimangono in genere ignorate, sono subìte, ma ciò nonostante ignorate. Per esempio non si capisce che le due guerre mondiali della prima metà del Novecento sono i colpi di coda, gli spasimi finali di una civiltà (Kultur e non Zivilisation) che è cominciata e si è sviluppata col cristianesimo, trasformandosi poi nella civiltà degli Stati europei emancipatisi a poco a poco dallo strapotere della Chiesa; non si capisce che sono state frutto di una crisi fatale collegata ad avvenimenti di duemila anni prima. Così anche non si capisce che l’Europa ha ormai perso il ruolo di protagonista, esercitato appunto fino alla Seconda guerra mondiale, e non è capace di organizzarsi, reagire e funzionare, per esempio, al modo degli Stati Uniti, come tanti si illudono che essa possa ancora fare, e ciò sebbene tutte le vicende storiche susseguitesi dalla fine di tale guerra dimostrino il contrario. autori italiani on ci sono dubbi. Ci sono scrittori che quando chiudono i rapporti col mondo esterno per delle ore sanno che racconteranno di una persona che conoscono bene. Ovvero, se stessi. Tra questi, Alberto Bevilacqua vi rientra a pieno titolo. Il suo ultimo libro di poesie, dal titolo epifanico, Tu che mi ascolti, mette a nudo i recessi più remoti della sua coscienza. Una elegia dedicata alla madre Elisa, scomparsa un anno e mezzo fa, in cui emergono gli elementi di una complicità tra madre e figlio uniti da un amore drammatico e appassionato, che ha rasentato con accenni accesi la morbosità e il desiderio. Lei che resta incinta e per quattro anni, ancora non sposata, difende la vita di Alberto in un ambiente per nulla famigliare. Si ammala di depressione a causa del non-rapporto con Mario, giovane ufficiale dell’aviazione che gira il mondo sorvolando i cieli e conquistando donne belle e appariscenti. Lui che non accetta la paternità, che la vive come un incubo da cui è complicato risvegliarsi. E così Alberto, da figlio non voluto, si trova a vivere senza l’affetto del padre. E a fare poi i conti con la malattia della madre, alla quale ha potuto dire solo «frasi a metà» per non ferirla, come gli consigliavano i medici che la tenevano in cura. Con questo libro, lo scrittore parmense ha dischiuso il suo confessionale privato e ha cominciato a parlare con sua madre, credendo possibile tutto ciò anche con l’aldilà. Stilos lo ha intervistato, e Bevilacqua si è dimostrato un autore che (oltre ad odiare le etichette letterarie) è sicuramente dalla parte di chi sostiene che i libri vadano letti e non raccontati, tanto che alle domande ha cercato di sviare, forse anche per superare una emozione lunga tutta vita. Lisa e Mario, i suoi genitori: che rapporto aveva con l’una e con l’altro? Questa domanda è fortissimamente profetica. Ad ottobre, infatti, uscirà un libro (il titolo deve essere ancora deciso, ndr) che riguarderà i rapporti avuti sia con mio padre che con mia madre. Fino a qualche anno fa, devo confessarlo, avevo sempre rifiutato l’idea di raccontare i dolori della mia infanzia e della mia adolescenza. Io che sono stato un figlio non voluto. Ho vissuto, del resto, assieme a mia madre una vita durissima. Quasi in agonia. La lunga depressione che l’ha colpito mi ha costretto a vivere lontano da lei per lungo tempo. Ho vissuto una vita da misantropo senza alcuna possibilità di uscita. Se a ciò aggiungo che mio padre, da ufficiale dell’aviazione, e che ha considerato la mia nascita come un brusco risveglio dalla sua sorridente gioventù, era sempre fuori a inanella- N aniele Piccini sembra a suo agio in più case, così come lo è in più forme della scrittura, da quella critica a quella poetica. Così si divide tra la casa di Milano e quella di famiglia, a Sansepolcro, dove trascorre i periodi festivi e di riposo. È molto giovane (è nato nel 1972), ma già noto come critico: nel 2005 ha pubblicato in questo ambito un testo importante, un’antologia critica in cui ha realizzato un consuntivo della poesia italiana del secondo Novecento: La poesia italiana dal 1960 a oggi (Rizzoli). Poi è uscito un bel libro di poesia, non una raccolta di testi preesistenti ma un compatto volume di versi dedicato al padre scomparso precocemente: Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book). Adesso con Altra stagione (Aragno) Piccini propone la propria voce matura e piena, in cui il passo della tradizione si nutre ancora di autobiografia, ma con una più tenace volontà di apertura ai temi del mondo, con un respiro più ampio e profondo. Stilos ha parlato con lui di tutti i motivi della sua scrittura. È più facile, o più difficile scrivere poesia quando si è come te nella posizione ufficiale di critico di poesia? Nello scrivere un testo poetico non ho mai percepito interferenze con l’attività critica: voglio dire che sono due tipi di scrittura che seguono leggi e meccanismi profondamente diversi. Credo insomma di essere un poeta come gli altri, di non essere né facilitato né ostacolato dal fatto che in altre sedi svolgo anche una riflessione di tipo critico. Anche perché i poeti sono quasi sempre anche critici (magari non pubblicamente), o comunque lettori, ruminatori di testi che in qualche modo li formano se non al pari, almeno insieme all’esperienza del mondo. Un poeta è tale anche perché lettore di testi: impara a scrivere leggendo, come si impara a parlare il linguaggio D S t los ALBERTO BEVILACQUA. «Ho amato mia madre come nessuno al mondo e il nostro distacco forzato ha rafforzato in me il sentimento di fusione perfetta che abbiamo concretizzato negli ultimi anni. Grazie a lei, la mia immaginazione e la mia creatività si sono acuite» IL LIBRO ALBERTO BEVILACQUA "Tu che mi ascolti" pp. 219, euro 8,40 Mondadori, 2006 Nuove lettere alla madre: in versi Già uscito nel 2005 da Einaudi, arriva negli Oscar Mondadori un libro centrale della produzione di Bevilacqua, perché centrale fu nella sua vita la figura della madre. Proprio alla madre nel 1995 Bevilacqua dedicò Lettere alla madre sulla felicità, componendo missive mai spedite e scritte a fini autoterapeutici. Adesso riscrive alla madre, scomparsa da poco meno di due anni, tornando a parlare di sé. La vita con mia madre così simile a un’agonia VIVE AD AVEZZANO. "SENZA (PENDRAGON, 2004), "MARE NERO" DELL’ARCO, (EDIZIONI 2006) NUMERO CIVICO" GIANNI PARIS re allori e riconoscimenti, potete benissimo immaginare come sia stata per me la vita di figlio. Suo padre che tipo era? Era un personaggio particolare. Sicuramente era un uomo di successo, sia professionalmente che nella sua vita mondana… Lui che ha avuto una vita sempre da protagonista. Una vita a dir poco privilegiata. E, come in una sorte di equazione matematica, il suo privilegio si è trasformato per me e mia madre in una vita terribile. Ci manca- va sempre qualcosa. Volevamo respirare la sua stessa aria, ma questo ci erano negato o reso impossibile dagli eventi e dalla sua non-volontà di marito e padre. Preferisco però non raccontare ora il rapporto - tra delusione, aspettative e rabbia - avuto con mio padre, visto che il libro che uscirà in autunno vedrà al centro la sua figura e chiuderà un ciclo. Bene, torniamo a Lisa. Cosa l’affascinava di sua madre? Come ho scritto, lei era una persona molto intelligente, con un forte senso ironico. Aveva poi il culto del sorriso. Il suo volto, dopo la guarigione dalla profonda depressione, e sebbene fosse già avanti con gli anni, era ancora vitale, senza segni di abbrutimento. I suoi occhi erano ancora capaci di ammaliare. Ho amato mia madre come nessu- no al mondo e il nostro distacco forzato ha rafforzato in me il sentimento di fusione perfetta che abbiamo concretizzato negli ultimi anni. Grazie a lei, la mia immaginazione e la mia creatività si sono acuite, diventando sempre più invasive, assorbenti. Anche da bambino avevo subito capito che lei era una donna infelice, piena di ferite. L’unico mio rammarico è stato quello di non aver potuto far nulla per cercare di cambiare il corso della sua e della mia esistenza. Quale coefficiente di difficoltà attribuisce alla scrittura di questo libro intimistico e confidenziale, che possiamo definire auto-fiction? Non sono in grado di attribuire coefficienti, posso dire però che in Tu che mi ascolti ho messo insieme tutta la mia capacità scrittoriale, sia narrativa che Nella foto superiore Alberto Bevilacqua che da Mondadori ha pubblicato Tu che mi ascolti. In basso Daniele Piccini, autore per Aragno di Altra stagione poetica. Sappiamo bene che i critici non vedono l’ora di affibbiarci le etichette. E che senza etichette uno scrittore non riesce ad essere identificato. Per quanto mi appartiene, io guardo ad una letteratura alta che spazi dalla narrativa alla poesia, senza paletti convenzionali di sorta. Credo soprattutto nella parola mai abusata, in grado di scuotere l’attenzione del lettore. E questa parola può essere eloquente sia in una frase lunga che in un verso brevissimo. Riguardo la difficoltà delle 219 pagine del libro, ammetto che ho avuto molti freni perché mi sentivo sempre più nudo, provavo freddo, anche se con la nudità uno scrittore deve farci subito i conti. Lei dunque è un poeta narratore? Esattamente. Prediligo questa definizione. È come se indossassi il mio vestito, quello che brillava in vetrina, quello che non ha bisogno di ritocchi, quello che mi dà il giusto risalto. In Italia, lo sappiamo, se non ti schieri, se non stai da una parte o dall’altra, sei considerato un cane sciolto. Per me, la dicotomia narratori-poeti non esiste. Anzi, la considero una stupidità tutta italica. In realtà, bastano tre poesie belle ad un narratore e dieci pagine di prosa perfette ad un poeta per abbattere gli steccati che la critica pone intorno alla letteratura. Quale ricordo non scorderà mai di sua madre? Non mi rassegnerò mai alla sua assenza. Non dimenticherò mai la mattina del 26 giugno, il giorno precedente il mio compleanno, quando una voce di una infermiera incaricata di assisterla, per telefono, mi urlò il suo nome. Un grido che era già una risposta. Pensando a lei sorridente, mi piace invece ricordare il suo intuito, la sua capacità sensitiva. Lei che sentiva le cose viventi. Lei che aveva la capacità di superare ogni avversione. Da quando Lisa non c’è più, Bevilacqua è un uomo più visionario? Rispondo per quello che sento. Mentre prima io chiedevo una conduzione alla sensitività, oggi riesco a viaggiare in mondi immaginati senza alcuna patente. Mi è capitato, ad esempio, di aver scritto dieci o più pagine con una estraniazione inconsapevole che il giorno dopo mi ha fatto chiedere se le avevo scritto davvero io. Il cosiddetto transfert non lo ha mai analizzato nessuno. Questo transfert è come una presenza all’interno dello scrittore che sostituisce o si sovrappone alla sua voce d’inchiostro. Ecco, da quando mia madre non c’è più, sento questa presenza sempre più spesso. Nella dedica, ha scritto: «A mia madre, dopo il suo addio». Sembra però che il vostro legame continui. È vero. Mia madre fa parte del buongiorno e delle mie notti ad occhi aperti. Fa parte di me. DANIELE PICCINI. La nuova raccolta di liriche del critico letterario Alla fonte di nascita e giovinezza VIVE TRA VIGEVANO E MILANO. HA CURATO L’EDIZIONE RINNOVATA DEL COMMENTO ALLE TRE CANTICHE DELLA "COMMEDIA" (BOMPIANI) BIANCA GARAVELLI «materno» ascoltando. Però nel momento in cui ci si sporge verso la formulazione di una parola poetica propria, vergine e mai prima formulata (se si ha questa ventura), o comunque accostandosi a un simile tentativo, lo si fa in una condizione di apparente palingenesi, come scrivendo su un palinsesto: tutti i segni letti, conosciuti, appresi, le formule e i modi, le riflessioni e le categorie, sono «in sonno», attendono di riprendere vita in forme non note ma coinvolte e sconvolte nella nuova necessità di dire. Tutto funziona, ma entrando (se misericordiosamente ciò accade) in un accadimento non riproducibile a freddo, non programmabile, come può essere invece il lavoro su testi altrui: la critica, la saggistica, l’analisi appunto, attività che peraltro non escludono lo scatto di una scintilla rivelatrice, però di altro grado e segno. Questa, almeno, è la mia esperienza. Poi, certo, è probabile che la lingua dei poeti amati e studiati scavi solchi profondi, lasci semi e tracce anche al di là della propria autocoscienza e consapevolezza. Senti di far parte di un gruppo di «giovani poeti» oppure percepisci il tuo come un lavoro isolato, in solitudine? Io credo che ogni poeta, tanto più nella modernità, lavori all’oscuro di quel- IL LIBRO DANIELE PICCINI "Altra stagione" pp. 144, euro 14 Aragno, 2006 Un movimento di accoglienza del mondo Un libro d’amore in poesia, una dedica al mondo: "Altra stagione" è la sezione conclusiva e ne determina la fisionomia. Piccini affida alla poesia un interrogativo esistenziale che non necessita di alcuna risposta. Spia di questo movimento di accoglienza del mondo è l’interesse per tutto ciò che è naturale, libero da razionalità, da leggi umane: dalle stagioni agli animali che coi loro «fuochi» illuminano non solo il mondo, ma anche i ricordi, le scelte stesse di chi li osserva e li ama, in un’accettazione rituale del mistero della vita e della morte. lo che sta maturando. E quindi anche, necessariamente, che lavori accanitamente e tenacemente dietro una via che non è uguale a quella di nessuno, sentendosi in parte isolato e in parte, naturalmente, immerso in una comunanza di usi, risorse, forme. Più che altro il senso di comunione scatta nei confronti del grande fiume, del grande circuito sanguigno della tradizione, per cui ci si può sentire fratelli, se non proprio contemporanei e coetanei, di poeti anche lontani. Il paradigma della fraternità nella letteratura è per me fissato dalla grande lettera di Machiavelli al Vettori. Naturalmente più di un autore contemporaneo (non necessariamente giovane) ha fatto scattare in me dei meccanismi di riconoscimento, magari di comunione, ma di solito queste agnizioni si risolvono nella spinta ad essere ancora più profonda- mente quello che si deve essere. Il lavoro di ognuno ha una sua necessità non derogabile o intercambiabile, affondata nelle sue proprie ragioni. La coesione può essere negli intenti, nelle presupposizioni operative, nei modi di sentire, ma davanti alla pagina si è soli e insieme affollati di voci, magari lontanissime. Altra stagione sembra il libro della maturità raggiunta. È per questo forse che la parola «nascita» è così ricorrente: che cos’è il nascere per te? In realtà anche nel libro precedente, Canzoniere scritto solo per amore, dedicato alla figura paterna, baluginava il tema della nascita. In uno dei testi di quella raccolta, parlando del «chiamare» del padre, scrivevo: «Punto del tempo e crepa / che comincia la storia, incrina il nulla». C’è nel nascere il concorso di un coraggio e di una necessità. La nascita ha qualcosa di grande e sacro, e insieme di minutamente materiale, anche perché si lega al mistero (in essa incluso) del morire, ed è un punto su cui la mia poesia indugia e scava come può, con i suoi strumenti, con una sensibilità, spero, non edulcorata ma nemmeno banalizzante. Uno dei temi portanti del libro è la giovinezza, che tende a fondersi con la vitalità degli animali. Quali analogie fra l’umanità e la natura? Gli animali sono le creature in cui il mistero della vita, la sua sostanza, il suo segreto si concentrano senza il riparo di una fede, di una certezza ulteriore, di una garanzia. Sento i loro occhi come un’interrogazione infinita. pagina 9 S C A F F A L E LUIGI GUICCIARDI, Occhi nel buio, pp. 349, euro 17, Hobby e Work 2006 Una torbida atmosfera di provincia per scandagliare i misteri del crimine. A metà tra giallo simenoniano e mystery thriller, il libro di Guicciardi vede ancora all’azione il commissario Cataldo alle prese con un’indagine complicata: nel corso di un’estate rovente, nelle campagne intorno a Modena, un serial killer fa strage di coppiette TIZIANA BETTO, Zuppa di pesce, pp. 224, euro 13, Fermento 2006 La vita è come una zuppa di pesce e gli uomini insaporiscono il brodo. Così pensa Zara, inguaribile sognatrice e protagonista del romanzo d’esordio della Betto. Una storia dove il tema dominante è l’amore, in tutte le salse, e dove sfilano ritratti di uomini-pesce: dal tonno che è il padre, al piranha, cioè l’ex marito, allo squalo, che è un petroliere, alla sogliola, cioè un farmacista. DOMINGA CARRUBBA, Cimeli di organza, pp. 63, euro 13, Ateneo di poesia 2006 Parole veloci che scorrono su un pentagramma breve: così è la poesia della messinese Dominga Carrubba, una sinfonia di nenie complici, un volo di chimere sospese, immagini e suoni che, evocati, si succedono, versi che scavano nell’abisso per riportare in superficie la parola pura: che punta, nella interessante poesia della Carrubba, sull’essenzialità espressiva e sull’analogia ermetica. LAURA BALBO, In che razza di società vivremo?, pp. 149, euro 11, Bruno Mondadori 2006 L’Europa, i razzismi, il futuro: in quale società vivremo? È quel si chiede la Balbo, docente di Sociologia all’università di Padova, nonché presidente dell’Associazione italiarazzismo, già parlamentare e ministro per le Pari opportunità, partendo dalla necessità di definire i linguaggi comuni non meno di accogliera nella nostra sfera la terminologia della ricerca scientifica. Attrraverso la determinazione di queste tappe è possibile interrogarsi sui razzismi e sui fondamentalismi di casa nostra, ciò che diventa indispensabile per immaginare e provare a costruire «altre Europe». Che cosa sanno, essi, del mondo? Come percepiscono la realtà, il tempo, lo scorrere della propria e dell’altrui vita? C’è una sovrabbondanza e un dispendio assoluto, c’è il punto oscuro del pullulare della vita nella loro presenza. I miei libri, da Terra dei voti a questo Altra stagione, sono popolati di bestie, di figure animali, in forma domestica e in forma, come qui ho cercato di dire, filosofica: i cani, i cavalli, i gatti… In una poesia di quest’ultimo libro si parla anche dei «lupi», appaiati a Francesco, che è naturalmente il santo. Colui che, secondo la leggenda, sapeva intrattenere gli animali, parlare con essi, superare la barriera delle specie. Il «passo» di Francesco e dei lupi, si dice nella poesia, è quello che lascia un segno, che va interrogato, che forse nasconde un senso. Altro tema importante sono le donne, e il mistero della fedeltà a una sola donna. Che cosa sono state e sono le donne nella tua vita? Mi piacerebbe, si parva licet, ripetere per me quel che diceva Montale per sé in una celebre poesia: di fare un falò di tutto quello che è stata la biografia. Penso cioè di poter al massimo dire che cosa sono le donne nella mia poesia: che è anche, credo, l’unica cosa minimamente interessante per un lettore. Ho sentito sempre la donna come una sorta di enigma, di augure o sibilla, di misteriosa detentrice della forza vitale, in contatto con scaturigini e gorghi che al mio genere restavano preclusi. Una figura capace di dedizione e anche di scarti fulminei, dominata da un sentimento profondo della vita. Ci sono figure del femminile molto varie nell’ultimo libro: colei che sistema i fiori tutte le mattine perché nemmeno un altare rimanga disadorno, colei che accende e infiamma senza promettere possibile futuro, colei che si accompagna a un istante, a un’occasione. pagina 10 n contatto con l’ambiente culturale fiorentino almeno dalla fine anni Venti, intorno agli anni Trenta l’ebrea americana Irma Brandeis è già affermata italianista, francesista, anglista, nonché instructor di lingua e letteratura italiana al Sarah Lawrence College. Complice lo sfortunato e cosmopolita Leo Ferrero, che all’amica d’oltreoceano aveva letto nel 1931 alcuni versi degli Ossi di seppia, Irma, in soggiorno a Firenze due anni dopo, vuole conoscere Montale: va al Gabinetto Vieusseux di cui il poeta è allora direttore e lo incontra. Se ne innamora, ricambiata (ma da chi, nel 1934, le confesserà d’essere affetto da maltollerato eppure ineliminabile «platonism», «capace di vivere per un’idea anche per anni e anni e di anticipare un minuto per secoli e di prolungarlo senza fine»); riparte quindi alla volta degli States. Pochi gli incontri seguìti al primo, e invece fitto il carteggio fin da subito avviato tra l’americana e il «cattivo epistolografo» Arsenio, che le invia, fra il 1933 e il 1939, almeno 155 missive, scritte parte in italiano, parte nel suo «bad» inglese - un inglese spesso italianizzato e malfermo, ma dove l’invenzione e il gioco di parole assumono un ruolo decisivo forse più dell’incertezza grammaticale. Nel frattempo, Montale continua a dirigere il W.C. (così, scherzosamente, il Gabinetto Vieusseux nelle lettere del poeta a Irma e agli amici) e proprio nei freddi locali della biblioteca si dedica perlopiù alla corrispondenza. Promette e spera solidi ricongiungimenti con Irma; è presto costretto a discutere il ruolo rivestito dalla Mosca (la Drusilla Tanzi indicata nelle lettere con una X); mai cessa d’assicurare alla donna lontana assoluta dedizione, con movenze che per molti versi preparano la sua trasfigurazione poetica in Clizia, ma che pure non eludono i classici e complimentosi stilemi del linguaggio amoroso. Nel 1934, parlando d’una amica di Irma, Giovanna (recuperata poi in Interno/esterno, una lirica degli Altri versi, del 1980), Montale scrive: «È certamente la donna più somigliante ad Eva che io abbia mai conosciuto. Una specie di "prima edizione della donna". Irma: 48a edizione: di quelle che si leggono». Tutte perdute (o più probabilmente distrutte dallo stesso Arsenio) le lettere spedite dalla Brandeis (l’unica superstite, una reazione alle minacce di suicidio della Mosca, non venne mai spedita) e invece tutte conservate da Irma (da lei stessa consegnate all’allora direttore del Gabinetto Vieusseux Alessandro Bonsanti nel 1983) e pubblicate oggi nel preziosissimo volume Lettere a Clizia quelle inviate dal poeta: a formare un epistolario che s’interrompe appunto nel 1939, quando la guerra, soprattutto - unita però alle ripetute promesse d’incontro non mantenute, queste ultime solo parzialmente I GIANNI BONINA EUGENIO MONTALE. Raccolte in un volume commentato le lettere scritte dal Nobel a una studiosa statunitense che lo incontrò a Firenze e se ne innamorò. E che sarebbe diventata «Clizia», una eponome duratura e ossessiva per un autore incapace di amare se non platonicamente IL LIBRO EUGENIO MONTALE "Lettere a Clizia" pp. 376, euro 25 Mondadori, 2006 Saggio introduttivo più le note al testo Il volume con le lettere di Montale propongono un saggio introduttivo di Rosanna Bettarini (che di Irma e Clizia, d’Eusebio-Arsenio-Montale, sul filo delle lettere e oltre, segue ogni mossa) e le note al testo preparate dalla studiosa insieme con Gloria Manghetti e Franco Zabagli. Venerazione del poeta per una donna virtuale VIVE A CINGOLI NELLE MARCHE E SVOLGE UN DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA ELENA FRONTALONI motivate dalle gelosie autolesionistiche di Drusilla - rende difficili e «inutili» ulteriori comunicazioni, e tra i due scende il silenzio. Spezzato però nel 1981, quando l’ultraottantenne senatore a vita Eugenio Montale prende uno dei suoi fogli (in filigrana la dicitura «Repubblica Italiana / Senato della Repubblica») e, con grafia «tremolante e quasi indecifrabile», vi scrive sopra: «Irma, you are still my Goddes, my divinity. I prie for you, for my. Forgive my prose. Quando, come ci rivedremo? Ti abbraccia il tuo Montale» (è la 156a e ultima lettera inserita del volume). La minima trama amorosa delle Lettere a Clizia è tutta qua: un coup de foudre, sette anni d’attesa, alcuni brevi incontri e un intenso dialogo epistolare - consigli di lettura e spedizioni incrociate di libri annesse -; poi la guerra e il silenzio. Ma pure, immutata, una lunga fedeltà, che riprende parola da parte di Montale a pochi mesi dalla morte, e che, al di là dell’Atlantico, spinge Irma a conservare gelosamente le missive per tutta la vita. Il resto della storia - della storia della Brandeis nella poesia del nostro - è noto, ma (è uno dei principali motivi di fascino del volume) per nulla indipendente da quanto troviamo nelle lettere: sul profilo di Irma, Montale modulerà una delle sue figure più luminose, persistenti e terribili: la visiting angel «imperiosa», armata di ghiacciati fuochi e bagliori, di frangetta e di orecchini che già invade le Occasioni (di cui «I.B.» diventa dedicataria solo nell’edizione del 1949); la Clizia chiamata a suggellare con fermo splendore la meravigliosa Primavera hitleriana della Bufera (1956) e che raggiunge, per nulla invecchiata, gli Altri versi (1980). Dove, tirando le somme dei suoi commerci con la «luce-in-tenebra» apportatrice di salvezza, Montale scrive qual- cosa di molto simile a quanto ripetuto poi nella senile missiva del 1981: «Non era amore quello /era come oggi e sempre /venerazione» (Clizia nel ’34). Basterebbero forse questi dati, uniti al banale fatto che ci troviamo davanti a una corposa mole d’inediti montaliani, a rendere assolutamente imperdibile Lettere a Clizia. Ma guardare alle missive con la lente dell’epistolario amoroso o magari con l’occhio rivolto alla produzione in versi e in prosa (quando pure, si noti ancora, nel volume troveremo in merito una serie ragguardevole e importantissima di segnali: le prove generali per il tono medio versato in Farfalla di Dinard; non poche dichiarazioni di poetica; qualche autocommento; perfino una versione autografa d’uno dei Mottetti «dedicati» a Irma: Il ramarro, se scocca…) risulta alla fine riduttivo. Perché in queste pagine si intrecciano pure altre, non meno importanti storie: la direzione del Vieusseux, innanzitutto, per cui il poeta sborsa spesso di tasca propria e appronta un’oculatissima politica, che STEFANO D’ARRIGO. La riproposta di Walter Pedullà a riproposizione di Cima delle nobildonne (mentre risponde all’accanito impegno di Pedullà volto a salvare - come un barone di Münchhausen che si sollevi tirandosi per i capelli - un autore cui non è bavalutazione di qualità e una questione stato l’entusiasmo di uno Steiner per di scelta. Così del resto hanno fatto guadagnargli spazio e meriti) torna tutti, non sfuggendo nessuno alla logiutile a riprendere l’irrisolta questione ca che è stata propria dello stesso se sia in rapporti, e quali, con HorcyHorcynus Orca, sottoposto a misuranus Orca. Neppure lo stesso Pedullà è zioni e confronti con I fatti della fera del tutto convinto che si tratti di un roin un ricorsivo esercizio al quale manzo diverso se quando lo legge per D’Arrigo provò in tutti i modi a sotprimo in bozze si munisce della suptrarsi. La verità si è che, per la sua posizione che non possa trattarsi di un enorme presenza, il capolavoro di «prototipo», come pure lo stesso D’arD’Arrigo si staglia sulla stessa figura rigo immaginava dovesse essere un dell’autore aduggiando o illuminando romanzo (ancorogni sua creazioché adesso saptanto da oscupiamo che lavoR e c e n s i o n i ne rare del tutto, rasse negli ultimi agendo à rebours, STEFANO D’ARRIGO anni a un roman"Cima delle nobildonne" il poeta del Codizo monstre sugli ce siciliano, l’artipp. 183, euro 18 effetti delcolista free lance Rizzoli, 2006 l’Alzheimer nella e il critico d’arte, creazione letterale note del quale ria e a un romaninsieme con il vasto epistolario rimazo di mafia del mare ambientato in Sisto inedito e in gran parte ignorato cilia: e dunque intendendo tornare da nessuno ha mai pensato (colpa anche un lato al tema scientifico di Cima dell’indolenza della vedova D’Arridelle nobildonne e da un altro a quelgo), contro il costume sempre più inlo naturalistico e siciliano di Horcynus valente, di raccogliere in volume. Orca). Forse, per aspirare a un giudizio autoInvitato da D’Arrigo a leggere in un nomo e a una visibilità non riflessa, a paio d’ore il suo nuovo libro, Pedullà Cima delle nobildonne sarebbe convefinisce in realtà per ricredersi e deve nuto nascere prima di Horcynus Orca, constatare di essere di fronte a un fatma non sarebbe stato lo stesso romanto nuovo e inatteso quanto a materia, zo che abbiamo né Horcynus sarebbe ambientazione, «montaggio» e sopratvenuto com’è: al fondo delle ragioni tutto lingua. Purtuttavia non riuscirà che hanno mosso la penna e la tenacia mai a tenere in una mano Cima delle di D’Arrigo opera infatti una strategia nobildonne senza avere nell’altra personale ispirata al tempo in cui l’auHorcynus Orca soppesando questo e tore vive: contrario alle mode speriquella per farne continuamente una mentalistiche e alle avanguardie del L S t los Una Cima che sa di Orca momento (ancorché, come nota Pedullà, finirà per essere il narratore più sperimentale dei suoi anni), detrattore dei «romanzetti» che escano uno l’anno e dunque delle influenze dell’incalzante gusto postmoderno che premia il mercato, difensore di un rigore formale e di un crisma della tradizione che nulla concedono alla scuola della contemporaneità e della insorgente vena testimoniale, assertore pugnace dell’idea che si possa dare nella vita un solo libro, D’Arrigo si dispone a scrivere Cima delle nobildonne dopo il disinteresse che Horcynus suscita nel pubblico e nella critica; e ciò fa per dimostrare che anch’egli è capace di scrivere romanzetti brevi che assecondino la voga della lingua mimetica, della ipotassi, dello stile piano e del significato manifesto. Se dunque Cima delle nobildonne non può non venire dopo Horcynus è a Horcynus Orca che resta in più modi legato come escrescenza di una placenta originaria, proprio questa essendo il motivo ossessivo posto alla base del romanzo: la placenta come forma di imprinting del destino di ogni uomo, tema certamente assunto a sorpresa, ma fino ad un certo punto se del destino, nel senso debenedettiano, si fa l’elemento di impianto del romanzo, il predicato dell’operazione di reductio ad unum che Pedullà vede come pietra di volta dell’intera costruzione darrighiana. Non possiamo leggere Cima senza Horcynus, sebbene non ci sia nulla, apparentemente, in Cima che rimandi a Horcynus, vertiginoso essendo il salto dal plurilinguismo al monolinguismo e altrettanto abissale risultando il cambio stilistico, che da espressionistico si fa, come osserva Pedullà, neoclassico; ma non si può non supporlo come antecedente e vedere in esso un processo larvale che muove da una personale autobiografia e prolunga risonanze da una sfera immaginativa all’altra. Il retrosuono autobiografico non è il solo elemento di tutta evidenza che ricorra qui e là: Pedullà è stato abile in questa chiave a individuare incontrovertibili liaisons, a volte anche inquietanti, tra D’Arrigo e il suo alter ego, Amedeus Planika, eletto a narratore autodiegetico, l’io narrante che riunisce le fila delle storie di per sé dipanate. Altri sono i punti di scambio, a cominciare dall’astrazione spazio-temporale che integra prolessi e analessi e svia verso una dimensione acronica involgendo un’arcaicità del mito che tutto tende a rendere primordiale col riportare la parabola umana quale che sia a una equazione elementare e d i base tra vita e morte, nascita e perenzione. Ancora più probante riesce però la tecnica compositiva che intreccia vicende e personaggi in un polisindeto sul quale, sebbene pesi a lungo uno stato di incomprensione e di vaghezza che mette a disagio e disorienta il lettore, l’epifania della rivelazione torna a fare luce per gli effetti di un senso palindromico e di circolarità del tutto Nella foto Eugenio Montale, del quale Mondadori ha pubblicato Lettere a Clizia s’incaglia ingloriosamente nel dicembre 1938 sull’inasprirsi del regime fascista. Quindi i rapporti di Montale con gli amici Contini, Palazzeschi e Saba («un poeta difficile» - scrive con bonario strabismo Montale - «è un popolano che crede di essere raffinatissimo, e lo è, a modo suo»); con lo stimato Arturo Loria e col poco amato Dino Bigongiari, con Praz e Piovene (rispettive e ferocemente dileggiate signore incluse). È insomma anche un pezzo di storia letteraria, quello raccontato a Irma nelle lettere. Un’immersione dentro ai locali del Caffè Giubbe Rosse, leggendario ritrovo degli intellettuali della Firenze anni Trenta; un buon osservatorio per guardare i rapporti tra le italiche lettere e l’altra sponda dell’Atlantico (con i non pochi riferimenti a personaggi ruotanti attorno alla Casa Italiana della Columbia University); infine un’ottima cartina di tornasole per fissare la posizione dell’antieroico, ma sempre vigile Montale, dentro al fascismo e alla cultura italiana del suo tempo. Il Montale che scrive a Irma ne ha per tutti: non lo convince il romanzo Tre operai di Carlo Bernari; accenna alle difficoltà economiche dell’«unica rivista seria» di quel periodo - si parla di "Solaria", a cui abbona Irma e che non pochi guai deve passare per Il garofano rosso di Vittorini («non dev’essere molto bello, ma abbastanza vivo», avverte il poeta); bacchetta impietosamente premi letterari, critici, poeti accademici e accademici poeti («come ho fatto scrivere la recensione a Prezzolini? È semplice: da una parte la stupida illusione di poter essere aiutato un giorno, dall’altra la considerazione che Gianfalco (Pavolini) è moralmente molto più in basso»). Descrive anche con beffardo orrore il 18BL, il grande e fallimentare «spettacolo di massa» voluto dal regime sulle rive dell’Arno. Né si risparmia valutazioni amare sul destino d’Italia: nel 1934 scrive che «non esiste oggi una cultura antifascista» e sempre più velenosi e criptati saranno i riferimenti al «ballett» e al «Brass Scroundrel» o «Cardinal»: rispettivamente il fascismo e Mussolini, nel linguaggio cifrato che Montale usa con Irma per sviare temibili voyeurs in camicia nera che avrebbero potuto, con l’agio della legalità, controllare le missive. L’intelligenza degli elementi fin qui accennati (e che non esauriscono di certo la gamma dei rimandi e delle vicende racchiuse nel dettato delle lettere, trascritte con sorvegliatissimo criterio filologico dalla curatrice Rosanna Bettarini) deve moltissimo all’opera dei curatori. Perché, come si diceva, quelli direttamente pronunciati da Montale sono poco più che ammiccamenti, sussurrati all’orecchio di una donna a lui contemporanea, di una appassionata connivente, d’una privilegiata amica peraltro molto attrezzata sul versante culturale. voluto e ricercato che in Cima delle nobildonne funziona quasi come colpo di scena e che rivela la diligente e intelligente manovra dell’autore, sicché la guazza informe di quelli che potrebbero sembrare racconti disarticolati e scomposti appare in figura di una tela pazientemente ricamata e lucidamente armonica. Così è anche in Horcynus Orca, un mastodontico apparato di affastellazioni narrative che spinse a suo tempo Citati a vedere nella sua giapetica germinazione «un corpo inghiottito da un altro corpo, un’anima prigioniera di un’altra anima». In questa stessa luce Pedullà parla di adinoplosi, ma vede una qualità dove Citati scorgeva un limite, cosicché stabilisce un segno di fedeltà e di continuità tra Horcynus e Cima per via della «frase che avanza come un ponte di molte arcate sulle quali il discorso si appoggia prima di ripartire verso la conclusione che spesso è una rivelazione». La parentela tra i due titoli è per altri nomi comprovata da alcuni addendi comuni, già indicati da Manacorda: il periodare lungo e complesso, il ricorso a espressioni non canoniche, l’uso quasi ieratico della terminologia medica, la proiezione dell’attualità in una prospettiva metempirica. D’Arrigo voleva riscattarsi dall’insuccesso di Horcynus con un libro di denuncia sui temi attuali del cambiamento di sesso, dell’embrione, dell’identità genetica, esplorando i confini tra scienza e società, fede e coscienza. Ma non voleva allontanarsi troppo dal suo campo arato a gurgiti mitografici. Quel che ha fatto è un ibrido che solleva gli stessi dubbi di Horcynus, ma che letto oggi appare nella sua sostanza più attuale di quanto non potesse esserlo nell’85. Eccebombo autori italiani AURELIO GRIMALDI QUANTI MORSELLI? Trentatrè anni fa, dunque nel 1973, lo scrittore Guido Morselli si suicidò dopo aver ricevuto l’ennesima missiva che conteneva l’ennesimo rifiuto, da parte dell’ennesima casa editrice, alla pubblicazione del suo settimo romanzo Dissipatio H.G.. Le sei opere precedenti avevano subito l’esatto medesimo destino. Ma due anni dopo quel suicidio, anno 1975, la casa editrice Adelphi di Milano, che aveva a sua volta e a suo tempo respinto tutte le opere di Morselli, le pubblicò integralmente, creando un caso letterario che coinvolse molti lettori. Poi, lentamente, l’oblio. Un ritorno sulla scena tre anni fa, al trentennale della morte. Ora, di nuovo, il truce silenzio. Occorre essere molto espliciti: il tributo coccodrillesco elargito post-mortem al povero Morselli è considerabile proporzionale al suo talento o va solo archiviato come ipocrita e insincera apologia del caro estinto? La mia ponderata idea è che Morselli, secondo la nota legge del contrappasso, subì una calcolata (e quindi cinica) sopravvalutazione riparatrice. Quello stesso mondo editoriale che l’aveva metodicamente respinto per un decennio ne decretò l’improvviso trionfo. Ma superata la sbornia dell’entusiasmo riparatore, più grave fu il secondo oblio, secondo me doppiamente ingiusto. Tra le sette opere annoveriamo difatti un ottimo romanzo, un altro più che buono, e un paio discreti. L’ottimo romanzo è per noi Il comunista, che conobbe una certa gloria perché presentato come romanzo ideologico «anticomunista» al punto che, quindici anni dopo, con la caduta del muro di Berlino, fu persino rilanciato e ripubblicato in quest’ottica. Fatica inutile. Il comunista è il ritratto dolente di un modesto parlamentare emiliano, catapultato a Montecitorio piuttosto casualmente, nella sua mesta vicenda, sia ideale che personale, di - bellissima e indimenticata definizione - uomo parabolico. Ovvero di uomo troppo discreto, troppo onesto, troppo sincero - un vero «sfiorato» - per poter trionfare nella Vita con la v maiuscola. Un grande romanzo, credetemi! Che ha ancora bisogno di essere riscoperto e studiato, una buona volta, nella sua vera matrice interiore e puramente letteraria. Il romanzo molto buono è invece Contropassato-prossimo. Ma prima di brevemente descrivervelo, occorre rammentare al lettore che il povero Morselli, dopo ogni romanzo regolarmente respinto, e dopo un periodo di comprensibile depressione interiore da riscattare, ricominciava sì a riscrivere ogni volta una nuova opera, ma mutando clamorosamente stile e registro! Con l’illusione di compiacere il gusto respingente degli editori. E così, dei sette romanzi che Morselli ci ha lasciato, non ne troverete nessuno minimamente somigliante. E se potremmo definire Il comunista un romanzo esistenziale, Contropassato-prossimo è definibile invece con la voce «romanzo storico»; ma con un punto di partenza clamorosamente originale. Il romanzo racconta infatti la storia dell’umanità come se la Prima guerra mondiale fosse stata vinta dai Tedeschi. Stupore? Sana preoccupazione? Scarsa voglia di cimentarsi in una consimile lettura? Sentimenti tutti ben giustificati. Il romanzo è curioso, anche pesante, farraginoso, ma abilissimamente congegnato. Un’operazione intellettuale colta ma anche letteraria. Un romanzo, infine, tutto da riscoprire. Guido Morselli: Il comunista (1964; pubblicato da Adelphi nel 1976) e Contropassato-prossimo (1966; pubblicato nel 1975) S t los storia e storie pagina Il sacco di Roma da parte dei Visigoti in un dipinto romantico. La battaglia di Adrianopoli aprì le porte dell’Impero romano alle orde barbariche ro proprio finito in mezzo a un gruppo di inguaribili tiratardi: sulla terrazza dell’hotel Lido, a Silemi, alle due di notte suonate, ancora si chiacchierava allegramente di fronte a una bottiglia di vino bianco siciliano, di quelli che fanno impazzire i capellidistoppa del Nord, italiani, celoduristi e teutonici. Dopo un brindisi che credevo fosse l’ultimo, Giuseppe, con fare misterioso, propose: «Procediamo?» Tutti aderirono circospetti e anche io che non sapevo nulla mi accodai. Venne sistemato un grande tavolo tondo al centro del quale improvvisamente apparvero cartelle di cartone sulla quali erano disegnate le lettere dell’alfabeto. Sedemmo tutti intorno, e non appena stringemmo le mani la luce si spense. Aspettammo. Aspettammo a lungo, forse dieci minuti, finché una specie di bagliore apparve sulla lettera A. Qualche attimo dopo, si accese, diciamo così, la lettera D e via di questo passo sino a farci intendere che la parola che gli spiriti ci suggerivano era Adrianopoli. Guardai il datario dell’orologio: era il 9 agosto e capii. Sembrava un’estate come le altre: una calura umida, insopportabile, in attesa che il temuto vento di Nord-est, il Meltemi, arrivasse a mitigarla, mettendo i mari in tempesta, costringendo i contadini a serrare porte e finestre per evitare che prevalesse la polvere, il flagello che il Signore dei cristiani e gli dei avevano inventato per indurre gli uomini a riflettere sulla propria finitezza e imperfezione. Ad Antiochia, la capitale che preferiva a quella ufficiale, Costantinopoli, Flavio Valente, imperatore romano d’Oriente, aveva messo al bando le indecisioni che lo tormentavano, stabilendo di affrontare i Goti in modo risoluto, verso un accordo stabile o, in mancanza, una battaglia campale. Da quattordici anni, da quando cioè suo fratello Valentiniano lo aveva nominato, governava con mano insicura, sia per la sua fede religiosa - ariano, era una specie di fondamentalista ante litteram - sia per un carattere fragile, volto comunque a utilizzare più i mezzi del palazzo che quelli della politica chiara e percepibile. In precedenza aveva ottenuto un certo successo proprio con i Goti, il popolo barbaro che, incalzato a oriente dalle orde unne, s’era avvicinato all’impero e aveva chiesto d’essere ammesso nel suo territorio - grosso modo nell’odierna Bulgaria - a causa dell’estrema miseria e, soprattutto, della fame. Era 9 agosto 378 . Il primo grande disastro dell’Occidente nella millenaria ungo dorso di drago addormentato, stagliato contro il nitido cielo d’estate, l’Appennino, che ha per «placche» il diroccato matildico castello di Carpiteti e, davanti a Castelnuovo ne’Monti, il dantesco «cacume» di Bismantova… Calanchi come vene discendenti al Secchia, fiume iroso talvolta e simile ad un lungo serpente scintillante. È questo l’Appennino della mia infanzia, da Milano in vacanza dai nonni materni nell’adorata Argentina di Cavola (Toano, Reggio Emilia). Anni dopo, altre età, altro versante d’Appennino: Toano, Casabonci nella casa in pietra dei miei nonni paterni. In vetta alla collina la medievale Pieve di Matilde di Canossa - colonne e suggestivi capitelli - a destra il Monte Cusna, di fronte Montefiorino «Repubblica della Resistenza» 1944/18 giugno. Dorso boscoso questo dell’Appennino lambito dalla valle del Dolo. IL CANTO DEL MONDO. In Toscana la seconda edizione del Festival E L sfida contro l’Oriente. Ad Adrianopoli si decidono in un giorno soltanto i destini della più grande potenza della storia. Uno scrittore, Domenico Cacopardo, rievoca la data in una specie di allucinazione spiritica Se la fine del mondo è un incubo d’estate VIVE A PARMA. CONSIGLIERE DI STATO. ULTIMO ROMANZO "L’ACCADEMIA DI VICOLO BACIADONNE" (BALDINI, 2006) DOMENICO CACOPARDO stata negoziata una buona intesa: regolarizzazione della presenza gota nei confini dello Stato, fornitura di cibo e servizio nelle milizie imperiali. Una politica ormai antica per i romani, abituati ad accogliere guerrieri barbari, a utilizzarli nell’esercito e ad assimilarli. Molti di loro erano diventati generali e qualcuno aveva raggiunto la suprema magistratura. Ma un destino perverso era in agguato: le difficoltà finanziarie dell’impero e la corruzione diffusa avevano impedito la distribuzione del cibo secondo gli impegni assunti: la fame era diventata così acuta da costringere i capifamiglia ad alimentarsi anche con le carogne dei propri cani e a vendere i figli come schiavi in cambio di grano e altri cereali. La zona nella quale i Goti erano ristretti era diventata una polveriera. Il governatore romano, Lupicino, aveva deciso di trasferire i profughi verso l’interno del paese, là dove i funzionari imperiali stavano allestendo quei campi, Cept ante litteram, che avrebbero, nelle sue intenzioni, attenuato le tensioni. Ma non era stato così. Giunti in prossimità di Marcianopoli, i Goti, al cui comando era Fritigerno, non avevano trovato nulla di ciò che era stato loro promesso. Anzi gli abitanti della città si erano asserragliati dentro le mura come se avessero di fronte pericolosi nemici da cui era necessario difendersi. Così, dall’inefficienza della burocrazia e dalla paura della cittadinanza era stata innescata la più sanguinosa ribellione che si fosse mai vista. La sedizione si era allargata e consolidata. Ogni tentativo di raggiungere un compromesso era fallito, costringendo l’imperatore Valente a lasciare Antiochia per affrontare di persona la crisi. Il 9 agosto, di fronte ad Adrianopoli, sull’odierna linea di confine tra Turchia e Bulgaria, i due eserciti si schierarono. Da un lato le orde barbare, tumultuanti e poco disciplinate, dall’altro più di venti reggimenti romani, in perfetto ordine di battaglia. Nitrivano i cavalli trattenuti per le cavezze, gli occhi coperti da drappi scuri, le narici dilatate per gli umori eccitanti del campo di guerra. Fritigerno e gli altri capi barbari proposero all’imperatore un negoziato e inviarono una delegazione. Ma Valente, constatando come i plenipotenziari goti fossero guerrieri di basso rango, si offese e chiese un’ambasceria più qualificata. I suoi generali, che dalle alture avevano effettuato una ricognizione, gli avevano intanto riferito che le forze in campo erano nettamente in suo favore. La giornata stava ormai declinando e il tempo passava tra le discussioni. Il caldo torrido, però, accese fuochi nella pianura riarsa. Spontanei o indotti dai soldati delle due parti, impazienti di farla finita, gli incendi divamparono. Gli eserciti ineluttabilmente si avvicinarono e iniziarono a ingaggiare le scaramucce che presto si trasformarono nella battaglia vera e propria. I romani, forti di nutrite squadre di arcieri appiedati e a cavallo, presero il sopravvento. C’era, però, una brutta sorpresa in agguato: i generali dell’impero non avevano capito che la cavalleria barbara che avevano visto dalle alture era solo una minima parte di ciò di cui i nemici disponevano. Il più era impegnato in ricognizioni alla ricerca di cibo e di buone razzie. Richiamata dal clamore degli scontri, mentre imbruniva, una immensa schiera di cavalieri spuntò sul campo di battaglia, spazzando via d’impeto i reggimenti romani. Come a Canne con Annibale: la fanteria, mentre avanzava in perfetto ordine chiuso, venne investita di fronte, di fianco e di spalle da migliaia di cavalieri armati di daghe, pugnali e picche. E si sbandò, permettendo così agli assalitori di dilagare. L’imperatore, che combatteva coraggiosamente insieme ai generali più importanti, una volta che la sua guardia venne spazzata via, si rifugiò tra le schiere dei fanti… Quattordici reggimenti vennero distrutti, quaranta generali caddero sul campo. Dell’imperatore Valente non si seppe più nulla, anche se è probabile che fosse morto insieme ai fedelissimi. Non riconosciuto, fece di sicuro la fine degli altri le cui teste rimasero sui pali più alti dell’accampamento goto sino alla completa distruzione a opera di corvi e avvoltoi. La seduta era finita. L’imperatore Valente aveva inviato il suo criptico messaggio: «Ego fuit.» Mi sentii stanco e indispettito, s’erano fatte le quattro. Una pendola batté le ore del mio fastidio. Mi consolai subito, però, pensando: il disastro non fu la fine dell’impero. Sopravvisse sino al 1453, per oltre mille anni, assorbendo ribellioni e barbari, governandosi con la mano conciliante dell’illuminata saggezza di governo dell’antica Roma, sino ai tempi dello sfacelo e dell’esaurimento. Da Romolo a Bisanzio, una lunga marcia attraverso la storia, la cui attualità può essere anche oggi rivendicata, tenuto conto delle difficoltà in cui si dibatte l’impero occidentale, al quale sarebbe bello poter augurare altri mille anni di vita. L’Appennino della mia infanzia ATTRICE. DOPO "DISTRETTO DI POLIZIA" RECITA IN "INCANTESIMO". IN TEATRO È HELGA IN "LO ZIO", LONGHI REGIA CLAUDIO IVANA MONTI Qui non magie di draghi ma canti e storia. Primo filo conduttore la ineguagliata voce di tenore leggero di mio padre, tornato in pensione da Milano a Toano per cantare con lo splendido Coro Valsolo del Maestro Fontanesi. Altre voci Renzino Martinella, storico di Toano e Andrea Barbato, il mio sposo (1934/1996), che fu pieno di LA KERMESSE ESTIVA Poeti e cantafole insieme a rinverdire la tradizione orale Il Festival «Il Canto del mondo", alla seconda edizione, è nato da un’idea di Maurizio Maggiani e Alba Donati e si tiene tra luglio e agosto nel quadrilatero del Parco dell’Appennino, che comprende i territori della Garfagnana, della Lunigiana, del Parco del Gigante e il versante appenninico parmense. Si incontrano scrittori, poeti, attori, musicisti, maggianti, cantafole e cantastorie, tutti uniti da una passione: la narrazione orale. «Il Canto del mondo» consente di far conoscere il Parco dell’Appennino con i suoi castelli, i mulini, i borghi, i boschi di castagni, i laghi, le pievi. Tra gli ospiti, ci saranno Ascanio Celestini, Alba Donati, Ivana Monti, Elisabetta Salvato- ri, Lisetta Luchini, Marco Cattani, Vincenzo Pirrotta, Mauro Chechi, la Compagnia del Maggio della Val d’Asta e Andreino Campoli detto «Tatone il Contafole». Molti hanno posto la narrazione al centro del loro lavoro, sia esso di tipo testuale, sia musicale che teatrale. Alcuni di loro (come Maggiani, Donati, Monti) hanno anche un legame biografico con l’Appennino, essendovi nati o avendo scelto di viverci. In occasione del Festival, la Provincia di Lucca inserisce nel programma un’appendice fuori dal parco: Maurizio Maggiani ha elaborato, con la collaborazione di David Riondino e Dario Vergassola, un programma di due giorni sul racconto epico. V 11 O C I PREMI GIOVANE CRITICA CONCORSO A BERGAMO L’Associazione Premio nazionale di narrativa Bergamo ha bandito la prima edizione del Premio «Giovane critica». Il comitato scientifico è formato da Marco Belpoliti, Mario Barenghi, Andrea Cortellessa e Daniele Giglioli. Possono partecipare giovani critici, collaboratori stabili o saltuari della carta stampata periodica italiana con particolare attenzione per le testate giornalistiche quotidiane, settimanali e mensili. Il candidato dovrà avere meno di 35 anni alla data del 9 novembre 2006. Gli aspiranti al Premio devono inviare alla segreteria un massimo di cinque articoli comparsi nei due anni precedenti l’uscita ufficiale del bando in copia originale (così come stampati sul periodico). Sono ammessi a partecipare solo articoli o brevi saggi di argomento letterario (letteratura italiana o straniera) apparsi come recensione su periodici italiani non-specialistici. Il materiale dovrà pervenire entro la data del 30 settembre 2006 (farà fede la data del timbro postale) al seguente indirizzo: Flavia Alborghetti, Segreteria organizzativa Premio nazionale di narrativa Bergamo, Via G. Paglia, 19, 24122 Bergamo. La cerimonia di premiazione si svolgerà il 9 novembre nell’ambito di un convegno appositamente organizzato. Quest’anno il tema è «La crisi della Critica». SCRITTURA CREATIVA MYSTERY E NOIR IN ESTATE A CASINA Torna quest’anno la Scuola di scrittura residenziale «Alla ricerca dell’ombra» promossa al Castello di Sarzano dal Comune di Casina (Re). Dal 30 agosto al 3 settembre si affronteranno temi di letteratura e altri linguaggi espressivi, con particolare attenzione al genere mystery-noir, sotto la guida del direttore Davide Bregola. L’appuntamento si incrocia con il concorso letterario che vedrà la premiazione dei vincitori proprio il 30 agosto. Informazioni all’indirizzo www.castellodisarzano.it. commossa ammirazione per la Repubblica di Montefiorino e per la Resistenza dell’Appennino Ligure-Tosco-Emiliano sulla linea gotica. I suoi pensieri…li ho studiati…e li ho scritti in Mia cara madre… E anche io, come lui, oggi sono piena di commossa ammirazione per i protagonisti coraggiosi dell Resistenza: «La battaglia degli Appennini è vinta dal Tirreno all’Adriatico con il contributo con il contributo decisivo dei partigiani… il fatto è raccontato dagli Alleati» (così Roberto Battaglia). Ma, aggiungo io, con il contributo altrettanto decisivo di chi li aiutava, i partigiani, nelle case, senza armi, di chi, a rischio della vita e di stragi ahimè consumate - ha dichiarato l’autorità di una fede e di un’appartenenza. Care genti dell’Appennino, già propositori, in Lunigiana, di una ancora impensata eguaglianza nell’Italia del censo post unitario. pagina 12 rivaru - curtu e amaru, si dice dalle mie parti. Quest’anno febbraio, oltre che amaro, è volubile; nei giorni di sole la tramontana soffia il freddo e il gelo del nord, nei giorni di pioggia lo scirocco alita vorticosamente il fiato umido e appiccicoso del sud. Qui in casa mia, inoltre, spira il vento dell’est; non avrei mai immaginato di poterlo accogliere come ospite fisso. Sì, in gioventù e anche un po’ oltre, avevo ceduto al fascino slavo, da Dostoievski a Tolstoi, quest’ultimo grazie soprattutto alle pagine più belle da me lette nella mia lunga vita, quelle dedicate alla morte di Ivan Il’ic; ma è un mondo che serbo in biblioteca dopo averne ricavato tutte le emozioni e turbamenti possibili. Forse mi è rimasto più vicino, insieme con Cecov, Gogol ora che l’Ucraina abita in casa mia e ha sparso fiori nel mio giardino. Attraverso i vetri appannati dello studio vedo il vaso dei ciclamini giganti che Roma, la badante venuta dall’oriente, ha deposto sul tavolo bianco del giardino, una grande macchia di sangue vivo sulle sfumature tornate intorno autunnali. Sono ciclamini avuti in regalo a Natale da Ciccì la zia di mia nuora, ancora dritti e gagliardi nonostante gli acquazzoni e le grandinate che li avevano abbattuti e dati per morti più volte. E se aguzzo lo sguardo riesco a notare i piccoli ciclamini spontanei di un colore anemico, nascosti tra i folti fili d’erba del prato. Abbasso gli occhi e vedo sul davanzale della finestra fiori stagionali nei vasi lunghi di terracotta, macchie colorate ohimè effimere. Roma me ne dice i nomi, in ucraino, lingua di cui so dire solo dobre e petruscha, mi pare di riconoscere però la viola del pensiero, volgarmente panzè, subito mi viene in mente una canzoncina e me la canto in silenzio: «Oh!, che bella panzè che hai, me la dai, me la dai, me la dai la tua panzè?!» In tarda età i ricordi richiamano spesso le canzonette che scandirono i capitoli della giovinezza, anche e forse soprattutto quelle scurrili. Ora comincia a cadere una precoce pioggerellina di marzo e, immalinconito, distolgo lo sguardo dal giardino. D’improvviso mi accorgo che fiori dominano l’interno della casa e me ne consolo. Nel soggiorno vedo gli arbusti delle bocche di leone che ho regalati a Silvana per il San Valentino, Roma li tiene in vita al massimo tagliuzzandone le punte inferiori perché inspirino meglio l’acqua del vaso. Ai piedi di un mobiletto antico è un fascio di tulipani, portati in dono da Alessia, la nipote di Roma: hanno strani colori antichi simili a quelli, sfumati, di una vecchia stoffa da parato. Davanti alla tenda si fa notare l’alberello di azalea di Annalisa mia nuora; sul mobile bar Roma ha messo un bouquet di belle rose vermiglie che mia sorella Francesca ha scelto dal fioraio egiziano qui all’angolo; sul tavolino si inchinano le campane di fiori gigliacei portate da mia figlia Carla e a cui Roma ha reciso i pistilli - una vera e propria castrazione - perché macchiano indelebilmente chi li tocca. Mai tanti fiori tutti insieme in casa mia! E dire che quando abitavamo a Monte Mario Alto, in una villetta stile littorio con l’orto dietro e il giardino davanti, dove a maggio e ad ottobre esplodevano sui cespugli e gli alberelli mille rose variopinte, avremmo potuto tappezzarne tutta casa, e invece mai ne staccammo una. Mia moglie che le curava ci impose di lasciarle sfiorire sui rami. «I fiori non si tagliano» diceva e la frase mi piacque tanto che la adottai come titolo di una mia commedia. Per Silvana era commettere sacrilegio e assassinio non lasciare che i rami fossero culle e bare della fioritura. E ora invece eccoli qui tutti intorno i cadaveri della nostra coscienza perduta tra la sopravvenuta indifferenza di Silvana. Solo nel mio giardino i ciclamini e gli altri fiori nascono e muoiono indisturbati. Oltre ai fiori hanno invaso la mia casa le ucraine, che vengono in visita o che telefonano a Roma, di cui, mi pare, esse riconoscano l’autorità di un capo colonia. Io favorisco questo insediamento; capisco che, lontane dalle loro case, dai loro cari, provino conforto a trovarsi di tanto in tanto insieme. Sono qui a lavorare duro e spesso umilmente per fare soldi da mandare alle famiglie rimaste in patria. L’Italia, dove a torto e a ragione piangiamo miseria, è per loro il paese di Bengodi; solo che la loro povertà è portata con dignità, nobile povertà. Le due nipoti di Roma, per esempio, sono giovani signore di gradevole e civile aspetto, dotate di buona educazio- F S t los primo piano 13 «Roma» è la badante ucraina che vive in casa dando esempio di umanità, sacrificio, amore familiare, dedizione. Una testimonianza dal vero, frutto di sensazioni quotidiane ed emozioni I fiori non si tagliano in Ucraina VIVE A ROMA. PRODUTTORE CINEMATOGRAFICO. "LA VALIGIA DI FIBRA" (SELLERIO, 2002), "GIÒN" (PIRONTI, 2000) TURI VASILE ne, hanno lasciato a Leopoli mariti e figli a cui sono affezionatissime, per strofinare pavimenti, lavare piatti, accudire e pulire vecchi. Eppure sono sempre a posto, si muovono con leggerezza come farfalle che invece di pulire water suggono nettare dai fiori. I mariti laggiù lavorano per salari che fanno inorridire persino chi da noi ha la pensione minima; i figli studiano e sostituiscono nei lavori domestici la madre lontana. Cristina, per esempio, è una giovane robusta che aiuta Roma nei lavori pesanti ed è sempre allegra, cinguetta, forse per nascondere la tristezza che a volte fa capolino tra le pieghe. Un mattino si è presentata con un maglione di uno squillante giallo canarino. «Cip! Cip!» mi è venuto di esclamare. E da quel momento lei ha perso il suo nome per chiamarsi Cip-cip, e talvolta Cippina. Legge molto, ha sempre con sé un dizionario italoucraino e si appassiona alle vicende politiche del suo paese che da secoli cerca il riscatto e il riconoscimento della sua indipendenza. Durante la rivoluzione arancione le fornivo le pagine dei giornali con le cronache degli avvenimenti del suo paese; lei le leggeva e le commentava con le sue amiche. Mi diceva ridendo che io ero diventato il capo dell’ufficio stampa d’Ucraina distaccato a Roma. E Roma annuiva anche lei divertita, sentendosi doppiamente coinvolta. Pensare che fino a ieri l’Ucraina era per me poco più di una espressione geografica, richiamava ricordi scolastici tipo quello dei bersaglieri in Crimea. Poi l’Unione Sovietica l’aveva inghiottita e io frequentavo suoi scrittori come se fossero russi. Di Gogol ho già detto, per di più mi sembra di riconoscere in lui alcune affinità con la narrativa siciliana; ma è la sua farsa metafisica Il Revisore a interessarmi maggiormente, l’ambiguità dell’inquietante autoinchiesta sulla nostra sporca coscienza. Di Babel - altro oriundo - resto affezionato a quelle pagine de L’armata a cavallo in cui si narra del successo strepitoso ottenuto a Sanpietroburgo da Giovanni Grasso recitando l’Otello di Shakespeare in siciliano. Non è per sfoggio che dico queste cose ma per significare che l’Ucraina ha in questi ultimi tempi occupato la mia curiosità. A tal punto, per passare dal dilettevole all’utile, che avendo bisogno di un idraulico per far riparare le condutture del bagno e avendo invano inseguito l’artigiano romano che conoscevo, mi sono rivolto ai tecnici del condizionamento d’aria che ho sentito parlare in ucraino con Roma il giorno che son venuti a convertire gli apparecchi dal freddo al caldo «Ucraini, no - dissero - polacco sì». E fu così che il mitico idraulico polacco fece ingresso a casa mia. Gli aprii io stesso; nel vano della porta apparve un uomo grande e grosso, dal testone pelato, con la borsa dei ferri a tracolla. «Sono Bobbo - disse - l’idraulico». Lo guidai nel bagno e lo lasciai solo a lavorare. Di lì a poco lo sentii cantare, un motivetto infantile. Incuriosito, tornai in bagno; Bobbo lavorava in ginocchio e cantava giulivo. «Gente allegra, - il Ciel la aiuta!» mi venne da dire scherzosamente perché pagina il mio non sembrasse un rimprovero. Ammutolì, e voltò verso di me un faccione che mi ricordò quello di mio cugino Santo idrocefalo che aveva un viso d’angelo e occhi ridenti color cielo. Bobbo mi sorrise e con un vocione rimbombante disse: «Aspetto bimbo!» Aveva appena saputo che la sua compagna era rimasta incinta e lui ne era così felice come se avesse ritrovato qui la sua patria. Questa gente mi è parsa attaccata alla vita che nasce. Più la loro vita è grama, più desiderano tramandarla. La domenica sostituisce Roma una sua compatriota che ha aria di brava donna di casa e un comportamento rispettoso. Disse di chiamarsi Miroslava, per comodità Mira. E io, per quella botta di stupidità con cui tento di distrarmi dall’angoscia, mi misi a cantare l’inno della processione del mio paese, di solito accompagnato dalla banda municipale: «Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien di giubilo oggi ti onora!» Mi guardò interdetta e io le chiesi il permesso di chiamarla, per mia comodità, «Mira-il-tuo-popolo». Accettò, e, presa confidenza, mi disse di essere preoccupata per la malattia di sua madre e di sentirsi molto triste per non aver potuto assistere alle nozze di sua figlia. Il ritardo nel rinnovo del permesso di soggiorno glielo aveva impedito e ora trepidava da lontano per la gravidanza della sposina. Così ne ho seguito, attraverso i suoi racconti settimanali, tutto il decorso, dalle nausee fino al terzo mese al suo ristabilimento, dagli allarmi per false doglie all’ansia per il trasporto della priella mia vita non lascerò tracce, né figli, né opere. Soltanto una parola. La inventai al liceo, in un’epoca non troppo remota. Allora fare lo studente significava sacrificio. Mattinate tolte al libero girovagare per i vicoli, il corso e i giardini pubblici di una cittadina che conteneva tutto quanto poteva servire a tirare la giornata senza stancarsi. Occhi obbligati a fissarsi su facce di coetanei bolsi e butterati di acne. La mano costretta alla penna ed impedita nel gesto più spontaneo di tutte le generazioni: la sega. La mia oasi era il cesso del liceo. Qui si gridava, si sbadigliava e ci si esibiva in oscene piroette che finivano in spintoni e colpi a tradimento sullo scroto. «Dammi una zigomaffia» chiesi una mattina d’inverno ad un grumo maleodorante, qualche anno più giovane di me. Per zigomaffia intesi sul momento sigaretta. Ma non volevo che lui capisse. Il piacere più sottile del linguaggio è propinarlo agli altri come una sfida e una minaccia. Assaporai, dunque, la perplessità del malcapitato e gli chiarii l’oggetto della mia richiesta portando due dita sulle labbra. La parola «zigomaffia» fu immediatamente riconosciuta come il segno di un avvento già avvenuto: quello del sottoscritto. Le mie quotazioni balzarono alle stelle, dalle stalle di cui odoravano le classi del liceo. I ragazzi scoprirono in me una levatura che io per primo ignoravo. Le ragazze presero a cercare il mio sguardo, o solo a sperarvi, mentre continuavo ad evitarle, preferendo alla loro scarsa opulenza odorosa di mestruo le statuarie immagini femminili che evocavo nelle mie masturbazioni. Mi si invitò a festini tra sconosciute comitive, dov’era tutto un circolare di zigomaffie. Egregio Zigomaffia, avrei potuto scegliere di chiamarmi, gettando il mio vero D mipara. E finalmente il bimbo è nato! Si chiama Dimitri, pesa tre chili e mezzo, è alto cinquantatre centimetri, è calvo perciò sarà biondo: «Mira-iltuo-popolo» è alle stelle e al tempo stesso non si dà pace, perché si sente esclusa, emarginata. La domenica scorsa mi accorgo che Roma non ha preparato, come fa sempre, il pranzo da consumare in sua assenza; sospetto che se ne sia, per la prima volta!, dimenticata. «Mira-iltuo-popolo» mi dice: «Non si preoccùpa, signòr, ho portato tutto io». Insalata russa che da loro mi sembra che si chiami insalata italiana, due filetti di bue, una bottiglia di vino, una torta al cioccolato. Sento montarmi addosso la contrarietà, «Come si permette, Mira!» quasi grido. Lei mi guarda umiliata e io ho il tempo per pentirmi del mio scatto di superbia. Cerco di modulare la voce: «Non voglio, Mira, perché lei si sacrifica a lavorare anche la domenica per mettere insieme i soldi da mandare ai suoi, e lei li spreca così». Mira apparecchia in silenzio; io fingo di interessarmi alla televisione. Infine lei si decide a domandare, sommessa: «Arrabbiato, signòr?» «No, no - le assicuro - arrabbiato no, dispiaciuto sì». È che... - confessa - è che ieri battezzato Dimitri e non avevo cuore di festeggiare da sola». Mi sono sentito un verme, avrei voluto abbracciarla, chiederle perdono. «Evviva! - esclamo con improvvisata euforia - Stappi subito la bottiglia!» Mira esegue; io riempio due bicchieri. «No, no, signòr... io non bevo». «Ma io non ho cuore a brindare da solo! - dico facendole il verso. Si convince; leviamo in alto i bicchieri. Benvenuto tra noi, Dimitri!» A lei si inumidiscono gli occhi. Ora so già che cosa accadrà; attraverso i bollettini di sua nonna, Dimitri crescerà anche in mezzo a noi; assisteremo al suo svezzamento, alla sua prima pappina; esamineremo il colore della sua cacca; lo vedremo muovere i primi passi, qui, nel mio giardino, e Chiara, la mia pronipotina che avrà allora due anni lo guiderà; e magari, chissà, all’allegra brigata si unirà il bimbo di Bobbo, l’idraulico polacco che ormai accorre puntuale a ogni nostra chiamata. Tutto si svolge come in un sogno da cui ho paura prima o poi di risvegliarmi e di ritrovarmi solo con Silvana. Lei mi guarda con gli occhi sbarrati, parla sempre meno, ma continua a cantare appena io intono - si fa per dire perchè sono stonatissimo - un motivo dei tempi andati. Per l’occasione abbiamo cantato insieme tutto l’inno «Mira il tuo popolo, o bella Signora...»; e la domenica recitiamo ancora, insieme, il «Padre Nostro» che il cele- S RACCONTI DELL’IO brante dice durante la messa televisiva; ma la sua voce è sempre più incerta e sempre più tremante è il braccio che tenta di alzarsi per segnarsi alla benedizione del Papa per l’Angelus. E io non so se lei sotto la sua maschera di indifferenza da cui sempre più raramente sgorga una lacrima, si renda conto dell’ultimo sogno della nostra vita. Non so se sia accorta che il vento dell’Est, impetuoso, ha spalancato la porta di casa nostra e si aggira nelle nostre povere stanze e sul nostro splendido giardino dove ha sparso il suo polline. Il vento, demone invisibi- le, che mi insegue da una vita e di cui udii nella mia più remota infanzia la voce contorcersi sui fili del telegrafo di Capo d’Orlando, soffiando dalla sua reggia in mezzo al mare. E Roma si aggira silenziosa, prevede tutto, previene tutto, anche il più muto dei nostri desideri, principalmente quelli della sua bella Signora che continua a dire: «Grazie, Bianca» ad ogni sua attenzione. Ed è tanto l’amore che Roma ci mette da averne ancora per travasarlo nel piccolo giardino dove i fiori non si tagliano, divenuto un’oasi grazie alle sue cure e di cui va tanto orgogliosa da mostrarlo a tutti come fa un anfitrione che illustra agli ospiti il suo castello incantato. E tutti ne restano ammirati, non per compiacenza ma per convinzione, perchè sentono che quel pezzetto di terra è concimato con l’amore. Oggi, 23 febbraio 2006, cade il sessantesimo anniversario del nostro matrimonio. Di primo mattino Roma torna dal mercato con due grandi rami fioriti di pesco dai petali rosati e trasparenti. «Uno per te, signor Turi, e uno per Signora Silvana». La compagnia della zigomaffia parola gli aveva ricordato tutto ciò che non sapeva del mondo. «Sì, una zigomaffia, no, non ce l’ho…» e fece cenno agli altri di seguirlo verso lidi più adatti alla meditazione. Tornai in provincia dopo aver imparato che in città non c’è nulla da imparare, semmai da insegnare, come avevo dimostrato nel confronto con quei giovani sprovveduti. Intravidi dunque la mia vocazione e decisi di fare il concorso a cattedra. Lo vinsi affascinando la commissione con un tema assolutamente privo di significato e un esame orale in cui sfoderai comportamenti da lobotomizzato. Ciliegina sulla torta, una mia lapidaria risposta al presidente del collegio esaminante, che per mettermi a mio agio esordì: «Può accendersi una sigaretta, se crede». «Grazie, no. Fumo solo zigomaffie». Il caso, che non è mai casuale, mi volle insegnante in quello stesso liceo dove fui studente. Un nuovo preside mi accolse con la cordialità del primo giorno, pronta a divenire astio e bile man mano che i rapporti fossero divenuti più assidui. Nel corso dell’incontro monologò sul concetto: «In questa scuola vige la democrazia, perciò comando io». Poi protese un portasigarette, offrendo: «Gradisce una zigomaffia?» «Come?» «Già, lei è nuovo». La zigomaffia non rimane tra queste mura. Altri germi si aggiungono a quelli che io ho già sparso e continuo a spargere per il mondo. Così, forse, un giorno tutti si scorderanno del termine sigaretta, avendolo sostituito con la parola «zigomaffia». Potrei pensare ad altri neologismi. Ma me ne basta uno. L’umanità è troppo stupida per meritare il dono di un nuovo linguaggio. « VIVE A FOGGIA. TRADUTTORE, INSEGNA SCRITTURA CREATIVA. ULTIMO TITOLO "IL COMPLOTTARIO" (AVAGLIANO, 2006) ENZO VERRENGIA nome nel cesto. Ma vinsi la tentazione, sapendo che avrei rischiato di entrare nella leggenda sotto mentite spoglie. Sul palcoscenico della scuola, in quell’era perduta nelle brume del tempo, un telegiornale dopo l’altro, il ruolo più ambito non era di applicato di segreteria, come ora accade. Esisteva una carica che soverchiava per prestigio perfino quella del preside: il capoclasse. Il capoclasse era l’insostituibile intermediario tra la feccia appollaiata nei banchi e l’empireo dei poteri forti, che sedevano in cattedra. Metà alunno, metà borghese già cresciuto e marcio dell’immoralità adulta, iniziato all’arte dell’ammanicamento. Il capoclasse non poteva che essere un personaggio, ed io, inventore della zigomaffia, mi qualificavo per diritto naturale a divenirlo. Sarebbe stato come rendere compartecipi della sua origine i miei compagni. Mi offrirono di fare il capoclasse a suffragio universale. Votarono anche gli insegnanti, entrati nella spirale della parola e sempre pronti ad appropriarsi del successo di alunni che, al contrario, lo avevano ottenuto andando dritti per la loro strada, in barba alle regole scolastiche. Ma ri- tavamo in camera da letto, dai nonni. In piedi sul comò mio cugino Vito arringava il pubblico: un pubblico costituito da me, da mio fratello Ninni e da Ginetta, la figlia dei vicini. Ed è vero che ogni tanto dalla cucina veniva ad affacciarsi alla porta Maria Consiglia, cameriera di casa e confidente di noi bambini, e diceva: «Per carità di Dio, creature mie, non date retta al signorino Vito. Lui mica è come noi, lui è siciliano, perciò è di testa fantasiosa, e vi conta solo bugiarderie». Ma lo stesso noi eravamo affascinati. Perché mio cugino - che all’epoca di cui parlo d’estate se ne tornava in Sicilia, dovete sapere che era nato dal matrimonio tra la sorella di mio padre e un avvocato di Palermo, ma l’inverno lo trascorreva intero, e a suo dire con gran disagio, in un famoso collegio vicino Napoli- mio cugino quella domenica con arte di consumato affabulatore ci stava raccontando di un suo antenato, Gesualdo faceva nome, al quale da un angelo del Signore era stato comunicato giorno, ora e minuto della propria morte. Così, all’alba del dì fatale, assieme al prediletto tra i suoi cani, si era chiuso nella stanza più appartata. Fuori, nelle sale, negli atri, negli androni, attendevano congiunti, famigli, villani, e le donne a voci alterne raccomandavano il morituro alla celeste misericordia. Ma si erano taciute, tutte, quando all’orologio della torre era battuta l’ora designata. Dopo l’ultimo tocco, il silenzio. In quel silenzio, la più vecchia delle nutrici aveva aperto la porta, e, eccolo, Gesualdo era lì, al suo posto, devotamente genuflesso: con mani giunte e occhi sbarrati. Davanti a lui, sul pavimento di cotto, una crepa bruna: indicava il punto in cui, dopo avergli squarciato il cuore, si era confitto il fulmine di Dio. «Vedete, vedete la morte come fa? Rispetta con puntiglio i termini prefissi. Avete capito, bambocci?» Così aveva concluso Vito, saltando dal comò. «Ma perché ci chiami bambocci? Siamo grandi quanto te!» «Vi chiamo bambocci perché a Napoli vi terrorizzate della morte. In Sicilia invece ci stiamo in confidenza.Quanto a me, poi, la fisso negli occhi. State a vedere!» Un nuovo balzo, e, oplà, eccolo sul davanzale del balcone, che, in bilico sul vuoto, stavamo al quinto piano, ballava uno scatenato tip tap, lanciando baci a me e a Ginetta. Noi assistevamo paralizzati. Finché io scoppiai a piangere. Allora lui saltò giù, e, traendomi in disparte, «Davvero, Mariù disse - davvero avresti avuto tanto dispiacere se cadevo? Senti: ti confido un segreto. Io, come il nobile Gesualdo, non verrò colto dalla morte di sorpresa. Sarò preavvertito. Per cui, finché non arriva l’avviso dall’aldilà, fiutai. La modestia è la miglior forma per far sentire agli altri la propria superiorità. «Dammi una zigomaffia» era la mia unica pretesa, che sfoderavo quando mi girava. Proseguii gli studi all’università, lasciando la provincia confusa e insensata per una città confusa e insensata, che non merita esser nominata, perché non si appare gratis negli annali della zigomaffia. I nuovi professori tracciavano frettolosi voti sul mio libretto senza accorgersi della mia presenza. Le donne, ignare della parola di cui ero portatore, preferivano esemplari del mio sesso dalle doti molto più appariscenti. Il resto dell’umanità mi attraversava con lo sguardo come fossi invisibile. Ma sorridevo del trattamento riservatomi dal mondo, ben conoscendo ormai il mio potere. Le file, i bar, gli autobus: qui lo esercitavo. E dovunque pronunciassi la parola, restava il segno. Una sera in metropolitana fui circondato da un nugolo di teppistelli. «Gleba» pensai, tremando. Ancora prima di diventare l’oggetto dei loro lazzi o peggio, chiesi a quello che sembrava il capo: «Ce l’hai una zigomaffia?» La migliore difesa, avevo sentito dire, è l’attacco. «No, non ce l’ho una… una…» «Zigomaffia» ripetei. Il ghigno ferino sul volto della belva si era tramutato in umana perplessità. La maschera gli era caduta e si era ritrovato moccioso fra mocciosi. La mia ai qual è la prima cosa che fa la polizia quando arriva sul posto per i rilievi dopo un incidente grave?». Scuoto la testa. L’eco delle sirene dei pompieri che sale dal fondo della strada si mescola con il basso continuo e insistito di uno stereo acceso poco più in là. Giù alla via, dietro i palazzi alti sullo sfondo, una tetra colonna di fumo si allunga, nera e grigia sul cielo chiaro. L’officina è grande e luminosa, piuttosto pulita e soprattutto incredibilmente silenziosa. La macchina sta su una piccola torre di metallo, una costruzione lucida di grasso e illuminata da numerose fonti di luce che splendono a intermittenza come piccole esplosioni di lampi imbottigliati. «Il cambio. Vanno subito a vedere la marcia inserita. Perché, dopo che si è schiantato con la macchina, nessuno pensa a metterlo in folle o a inserire una marcia bassa. E puntualmente la polizia trova la quarta o la quinta in tratti dove la terza è già esagerata. E l’assicurazione così ti fotte e non ti paga». Da una sedia vuota addossata al muro raccolgo una rivista di motori. All’interno un centinaio di pagine patinate dedicate a elenchi fitti e minuziosi con marca dei prodotti, descrizione dei colori e dei materiali, prezzo, anno di messa in vendita e statuto ufficiale delle quotazioni. La serie delle cuffie per la leva del freno a mano è più ricca e accurata del catalogo di uno stilista milanese d’alta moda. La sezione centrale, intervallata da numerosi riferimenti al Codice della strada, è costituita da un lungo servizio dedicato ai neon da installare sotto la scocca: il pacchetto che va per la maggiore - e che vale uno stipendio pieno di un operaio - contiene due neon blu, una coppia di spruzzini lavavetri con led dello stesso colore e quattro tappini coprivalvola per pneumatici che si il- S Mi ha sentito dire, non so in quale occasione, che preferisco offrire a Silvana ad ogni nostro anniversario piuttosto che fiori, rami fioriti, presagio di primavera. E infatti un’ora dopo il ragazzo della mia fiorista porta i rami che ho ordinato io. Roma, eccitata, li spartisce in due fasci, lascia il suo nel soggiorno contro la tenda vaporosa e ne sistema uno nel mio studio-letto, l’altro nella camera di Silvana. Lei guarda senza espressione, lontana, quindi finalmente farfuglia: «Stu-pen-do...». E mi si allarga il cuore. Officine a Napoli specialità lavoretti VIVE A NAPOLI. COLLABORA CON L’EDIZIONE CAMPANA DEL "CORRIERE DELLA SERA" ED È REDATTORE DELLA RIVISTA ON LINE "NAZIONE INDIANA" PIERO SORRENTINO luminano quando le ruote girano e formano piccoli e intensissimi cerchi colorati. «Ma stiamo provvedendo anche per quello» sorride il carrozziere che ha deciso di chiacchierare un po’con me. Con quella faccia a punta, un po’ affilata sul mento nero di barba e grasso, l’uomo - chiamiamolo Enzo - caccia da una tasca della tuta un piccolo congegno a molla corta che termina con un uncino ricurvo, un manufatto di una semplicità tale che per un momento dubito della sua vera funzione. «Si mette qua», indica un punto della scatola del cambio «e se la macchina sbatte, tac !, quello si chiama la leva indietro e la mette a folle». Due Smart assolutamente identiche entrano piano nell’officina. Parcheggiano una dietro l’altra con una elegante manovra nel poco spazio a disposizione. I guidatori non hanno più di 19 anni, maglie firmate, occhiali da sole costosi, scarpe da 200 euro. «’O kit» dice uno dei due indicando le automobili con un impercettibile arco del mento prima di andarsene. Non è una richiesta, è un ordine. «’O kit» è la novità del momento per le Smart a Napoli, e sta tutto in una scatola di car- tone grossa quanto una confezione da 6 uova; un piccolo computer coi pulsanti rossi dal nome pretenzioso: Powergate. L’elaboratore agisce direttamente sulla centralina di iniezione e permette al guidatore, comodamente seduto al volante, di modificare le prestazioni del motore riprogrammando - con tre file a scelta di diversa potenza - la centralina dell’automobile. A questo si abbinano le prese d’aria superiore per la ventilazione e i parafanghi allargati, i gruppi ottici posteriori e un nuovo spoiler all’altezza del tettuccio. «Poi c’è la questione dei vetri oscurati» dice Enzo mentre riprende a smanettare sulle portiere dell’auto issata sul ponte «li chiedono tutti, ma non sempre si possono fare. Quelli dietro sì, davanti invece devono essere visibili per legge, ai posti di blocco devono poter guardare chi c’è dentro l’abitacolo prima che la polizia sia a tiro di pistola». Chiedo anche delle targhe delle moto, se è vero che esiste un congegno che - azionato da un pulsante sotto la manopola del gas - solleva il portatarga quel tanto che basta da impedire all’occhio elettronico dell’autovelox o a quello umano degli agenti di registrarne il numero. Enzo si ferma, si pulisce le mani con un panno che gli spunta dal taschino della tuta come una laida pochette e mi dice «Vieni». Mettiamo i piedi sopra un velo bianco di vernice polverizzata che riempie i solchi del pavimento e camminiamo Un presagio, quasi una profezia. Un patto con la morte e un’assicurazione sulla vita. Da vivere nella sua pienezza fino alla fine segnata dal destino in una Sicilia epifanica ed esiziale La morte manda un avviso VIVE A NAPOLI. DA AVAGLIANO "QUELL’ANTICO AMORE" (2004), "LAVINIA E L’ANGELO CUSTODE" (2003) GIOVANNA MOZZILLO qualunque cosa mi salti in mente di fare, stai sicura, non mi succederà niente». Insomma,Vito era fatto a modo suo. Per esempio, le cose o gli piacevano da impazzire o gli ripugnavano. A sentir lui, i professori erano un branco di cretini e le materie roba da voltastomaco, invece per i palazzi d’epoca stravedeva, e passava le notti nel bagno della camerata a contemplarne le sagome sui libri d’arte che trafugava al nonno. «Com’è possibile? - gli chiesi - per te non ci sono vie di mezzo. Sei un esagerato cronico». Lui rise. «È perché son siciliano. La Sicilia è la terra dell’iperbole». «Dell’iperbole? E che significa?» «Ma come? Sei la prima della classe, la cocca delle professoresse, e non sai che significa iperbole?» Aperse il vocabolario, e recitò. «Iperbole: figura retorica che amplifica o sminuisce, fino all’inverosimile, la verità delle cose». Avvenne così che la Sicilia facesse ingresso nel mio immaginario. La Sicilia: entità anomala, eccentrica, dove tutto era eccessivo, e la morte stava di casa e, complice, acconsentiva a rivefino a un armadietto metallico tappezzato di calendari e fotografie di bolidi da centinaia di migliaia di euro. Questa zona dell’officina ha l’aria di essere stata appena svaligiata, con i cassetti di una scrivania aperti e i fogli buttati qui e là, tute abbandonate sul pavimento e maglie maculate di grasso secco ammonticchiate negli angoli. Nella parete, nascosta dal mobile, una nicchia rettangolare ospita un sacco della spazzatura zeppo di viti, rondelle, piccole pulegge gommate e fili elettrici con l’anima di rame nuda. «Mezz’ora di lavoro e passa la paura» sorride Enzo. Prezzi? «180, 200 euro. Ma più per il rischio che per il lavoro effettivo». Tuttavia, mi spiega, il vero pezzo forte e assolutamente legale che va per la maggiore di questi tempi si fa sulle macchine. Anzi, su particolari modelli, e solo su quelli: Alfa 156, Punto, Subaru, Fiat Marea e Brava. «Si fa una piccola sostituzione dell’antenna: al posto di quella normale, di serie, si mette un’antenna cromata, grossa e visibile, che nella parte centrale si attorciglia a spirale e torna dritta sulla punta. È l’antenna delle auto-civetta della polizia e dei carabinieri. Con quella, e magari una paletta bianca e rossa senza insegne, basta slacciarsi le cinture di sicurezza e la trasformazione è perfetta: puoi scorrazzare dove ti pare, nelle corsie preferenziali e in quelle riservate sotto gli occhi degli addetti dell’Anm, parcheggiare nei posti riservati alle forze dell’ordine, entrare nelle zone a traffico limitato…». Quante officine fanno questi lavoretti a Napoli? Enzo posa lo straccio, si porta una mano al mento e finge di pensarci. Stacca le labbra come per dire qualcosa, poi ci rinuncia e fa solo un sorriso storto. In lontananza, il cielo coperto divampa di una luce arancione annacquato. L’incendio continua. lare il suo mistero. Era ammaliante questa arcana Sicilia, ammaliante come Vito. Poi in Sicilia ci andai: due anni dopo, in autunno. Dovete sapere che intanto Vito era tornato a Palermo. E pareva avesse messo la testa a partito in quanto, mi aveva scritto, si era persuaso che, sebbene la scuola gli ripugnasse, doveva sopportarla per realizzare il suo intento: fare l’architetto. Come fu che ci andai? Fu perché il padre di Vito, avendo acquistato una casa su un’isola, al largo di Marsala, ci teneva a mostrare al cognato la nuova proprietà. Arrivammo di sera: una sera di novembre, anzi di novembre inoltrato, in cui l’aria era quieta, profumata, incredibilmente tiepida. E, lo sapete, le sere d’autunno, quando sono tiepide, possono riuscire struggenti: quanto quelle d’estate, ma con in più come un senso di sfinimento, di resa persuasa, di languore vischioso e dolce che impania l’anima e i nervi. Dunque, Vito. Me lo trovai di fronte appena scesa dal treno. Era cresciuto, portava i calzoni lunghi, aveva, mi sembrò, un’ombra di pelurie sul viso. Lo guardai interdetta. Lui si accostò ridendo, al suo solito. «Allora, Mariù? Cosa c’è? Ti faccio soggezione?» e mi sussurrò all’orecchio: «Sai, ho fatto l’amore con una femmina». Poi ci fu la cassata. Arrivò in tavola la cena era stata lunga, con brindisi, discorsi, battimani. E io avevo bevuto, un bicchiere o poco più, ma al vino non ero abituata e mi sentivo stordita - arrivò, e subito mi abbagliò: superba, sontuosa, ingioiellata. Mio Dio, ma era un trionfo, un’apoteosi. E Vito, all’altro lato del tavolo, rideva del mio stupore. Ma fu al primo boccone che rimasi trasecolata: un sapore così non l’avevo mai sentito, mi sdilinquiva i visceri, mi portava in Paradiso. Vito non smetteva di ridere. E l’isola. Con quel mare a sorpresa, un mare in cui si poteva nuotare e sguazzare, sguazzare a lungo senza aver freddo, eppure eravamo in pieno autunno: un’atmosfera sospesa, fuori del tempo. Ricordo un masso a strapiombo su una piccola insenatura. L’acqua lì dentro era alta mezzo metro, forse anche meno, e vibrava, trasparente, su un fondo roccioso in cui si incastonavano i ricci. Improvviso, Vito vi si tuffò di testa, a pelo d’onda si girò con un agile scatto di reni, e rapido emerse burlando il mio terrore. «Vito, sei pazzo. Potevi spezzarti l’osso del collo!» «Ma no. Tutt’è essere pronti a capriolarsi. E poi, fin quando non mi recapitano la chiamata, io sono invulnerabile, te l’ho detto». I ricci. Ne aperse uno col coltello della merenda. Me lo porse. «Prova». Provai. «Allora, ti piace?» Mi piaceva, altroché. Ma ero turbata. Ancora un sapore insospettato, un sapore invasivo, che mi catturava, mi metteva i brividi a fior di pelle: un sapore impudico. «Oh Dio, Vito, ma perché, quando mangio una cosa, mi guardi a quel modo?» «Perché, Mariù, è uno spettacolo la cauta curiosità con cui ti accingi a sperimentare un gusto nuovo. Il fatto sta che, con questa faccia di brava bambina, tu sei in realtà una vorace cacciatrice di sensazioni». Mi mortificai. Mi avevano insegnato che non sta bene essere «voraci». E forse fu la mia mortificazione a intenerirlo. Cert’è che mi baciò. Io avevo quasi quattordici anni, lui sedici. Ecco: nella mia vita in seguito ci sono stati, com’è normale, molti altri baci. Baci di uomini la cui fisicità mi ha intrigato. Ma a tutti, in confronto a quel primo bacio, mi è sembrato mancasse qualcosa. Gli è mancato, credo, il retrogusto del riccio, e il fremito della risata repressa che sussultava sulle labbra di Vito. Infine, il momento dei saluti, alla partenza del postale. Si accostò la sorella di Vito, una bambinetta più adulta della sua età. «Tu - mi disse all’orecchio - che ti credi tu?, ti ho visto che all’isola ti baciavi con Vito. Ma devi stare attenta. Perché con Vito siete cugini stretti, e se fate l’amore sta a sentire che succede: dopo nove mesi da qui, dalla pancia, ti viene fuori un mostro. Li sai i mostri? I mostri come quelli di Bagheria?» Io a Bagheria non c’ero stata. I mostri però li avevo visti, nelle figure dell’enciclopedia. Poi, per anni, in Sicilia non son tornata. Però gli autori siciliani li ho letti tutti: come diceva Vito, nelle curiosità sono insaziabile. E sempre a farmi da battistrada nella scoperta della sicilianità c’era Vito. Con il suo charme e la sua risata. Per cui la Sicilia, pur assumendo ai miei occhi una identità via via più definita, mai ha perso per me i connotati acquisiti durante l’apprendistato emozionale a cui ero stata sottoposta al tempo di quell’indimenticata vacanza. Ha continuato a essere terra di orrori e dolcezza, disorientamento e fascinazione. Quanto a Vito, fece faville: a tempo di record, si laureò, divenne architetto e scenografo. Ma sua madre, a telefono con la mia, si disperava perché passava da una donna all’altra, e non pensava a metter su famiglia. Io, quando mia madre riferiva queste lamentele, sorridevo. Perché Vito mi aveva scritto: «Mamma vorrebbe i nipotini. Ma, poverina, aspetterà invano. Lo sai, la mia fidanzata impossibile sei tu». E invece si fidanzò. Quando lo seppi, piansi. Piansi, vergognandomi di piangere. Ma due mesi dopo ci telefonarono. Ecco: la fidanzata di Vito era in macchina col fratello - il quale, si era fatta sfuggire mia zia, pareva avesse intralciato gli interessi di gente pericolosa - e la macchina era esplosa. Vito,da quando, due giorni prima, era avvenuto il fatto, non mangiava, non parlava. Alla mia telefonata però acconsentì a rispondere. «Sai, Mariù, sono in attesa dell’avviso. Senonché dall’aldilà non si decidono a mandarlo. E allora, ma tienilo per te, ho pensato di sollecitarlo». «Non dir sciocchezze,Vito». «Non dico sciocchezze: è che sono coerente con me stesso. Lo sai, non sopporto di annoiarmi. E allora, siccome senza di lei questo mondo per me è solo noia, noia infinita, come vuoi non abbia fretta di lasciarlo? Però, Mariù, a te voglio avvertirti. Quando sarà il momento, ti chiamerò…» «Vito!» Aveva riattaccato. Forse chiamò davvero. Ma a rispondere non feci in tempo. Vedete, era una domenica pomeriggio, stavo stesa sul divano, impigrita dal pranzo: quando alzai il ricevitore, non c’era più nessuno. Che era morto lo seppi il lunedì. Si era schiantato con la motocicletta: dalle parti di Mondello. Recentemente son tornata a Palermo. Di nuovo era novembre, di nuovo era sera. E come tanti anni fa il tepore dell’autunno siciliano mi ha sorpreso e incantato. A lungo, senza fretta, ho camminato nel centro antico. Poi, non so come, mi son fermata: avanti a un antiquario. C’erano in vetrina, su un drappo rosso porpora, due pupi. Antichi, preziosi. Avevano duellato - è logico, essendo paladini - e ora il vincitore con una mano levava in alto la spada, con l’altra per i capelli impugnava il capo dell’avversario. Vi dirò: era come se in quella testa mozza l’artefice avesse infuso una fervida vita, e negli occhi si leggeva una sorta di gaio stupore, e le guance, tonde e rosate, parevano in attesa di una carezza, e poi c’erano le labbra:le labbra, mio Dio, carnose, invoglianti, appena dischiuse in un accenno di sorriso. Era tenero e atroce quel volto, e mi straziava e incantava, e a lungo l’ho contemplato. Immobile, davanti alla vetrina, mentre i passanti mi spintonavano, nella mite sera autunnale che sapeva di salmastro e di zagare. pagina 14 ee Child, nato a Coventry nel 1954, vive dal 1998 negli Stati Uniti. Dpo aver lavorato per due decenni come autore in una televisione inglese, decide nel 1997 di dedicarsi alla narrativa. Diventa così l’apprezzato creatore del detective «seriale» Jack Reacher, ex poliziotto militare e investigatore solitario sempre alle prese con casi complicati e intriganti. Autore molto ammirato per la capacità di costruire storie avvincenti e nello stesso tempo poetiche, Lee Child conta numerosissimi fans in tutto il mondo. Stilos lo ha intervistato Jack Reacher, al contrario di molti protagonisti di gialli e thriller seriali, non è alcolista, non si droga, non è in generale un disadattato, ma una persona normale, semplice anche se con qualche mistero. Come mai questa scelta un po’ in controtendenza, quando sappiamo che conferire ai personaggi qualche caratteristica borderline assicura loro fascino e attira lettori? Sì, è vero che il mio detective è un po’ in controtendenza; l’ho voluto così perché, vede, inevitabilmente quando nei libri si mettono in atto delle tendenze come l’alcolismo, la droga, la violenza gratuita, queste tendenze poi subiscono un’escalation inarrestabile. Per esempio, di solito quando si scrive di serial killer, si parte nel primo libro con 3 vittime, poi nelle storie successive diventavano 20, delle quali la maggior parte magari bambini, e via dicendo. C’è sempre un crescendo terribile di violenza e di «dannazione». E lo stesso è sempre avvenuto con le caratteristiche dei personaggi. Si creano i personaggi, questi cominciano ad avere qualche problema, poi diventano talmente problematici da essere grotteschi. Diventano disfunzionali, persone che non sono più quasi capaci di stare in piedi perché troppo ubriachi o troppo drogati o troppo depressi. Io non volevo andare avanti su questa strada così di moda e continuare su questa tendenza; volevo ritornare a una persona che si comportasse in maniera più normale. Soprattutto volevo ritornare a un tipo di eroe più nobile e più puro per riagganciarmi anche a una tradizione più antica rispetto a quella di questi «eroi» contemporanei così compromessi. Non volevo un eroe che si commiserasse, ma che comunque avesse qualcosa di misterioso, come Reacher ha; senza però fare di questa indeterminazione una caratteristica troppo importante. Visitando il suo sito si coglie un particolare rapporto che lei ha con il suo protagonista, un rapporto molto stretto, quasi lo considerasse una persona vera e propria più che un personaggio letterario. Corrisponde a verità? Sì, corrisponde a verità; ho un rapporto molto stretto con lui. Credo che molti scrittori abbiano un rapporto del genere con il proprio protagonista, un po’ come se fosse un fantasma che è sempre presente. Condivido con lui parecchie cose: certo, Jack Reacher a differenza di me può fare delle cose che io non sono in grado di fare e può anche permettersi di commettere delle azioni che, se le facessi io, mi condurrebbero direttamente in carcere. Questo perché lui vive in un libro e io no. Ma solo queste sono le differenze; per tutto il resto è praticamente come me. A proposito appunto delle azioni che Reacher si permette di fare: lui è abituato a quanto pare a farsi giustizia da solo e ad arrivare come una sorta di «esecutore» dove la legge non riesce ad arrivare. Ha mai avuto problemi, non so, reazioni di contrarietà da parte della critica o dei lettori in generale per questo detective che esercita giustizia sommaria e che spesso si pone bellamente al di sopra della legge? Posso dire che le reazioni variano moltissimo a seconda degli Stati nei quali i miei libri escono. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia è abbastanza accettato il fatto che possa esserci una legge diciamo più «naturale» rispetto alla legge scritta. In altri Paesi, soprattutto per esempio nel Nord Europa, penso alla Scandinavia e ai Paesi Bassi soprattutto, per quanto il personaggio di Jack Reacher sia apprezzato, c’è più preoccupazione per questi suoi metodi. A prova di killer narra del sistema di sicurezza americano ed è infarcito di tantissime nozioni che riguardano le procedure, le armi, nozioni di medicina e via dicendo. Che ricerche ha effettuato per riuscire a essere così preciso? La risposta davvero pretenziosa a questa domanda sarebbe che tutta la S t los autori stranieri L Nella foto Lee Child, autore per Longanesi di A prova di killer IL LIBRO LEE CHILD "A prova di killer" Trad. Adria Tissoni pp. 469, euro 18,60 Longanesi, 2006 Ci sono pure crimini che valgono un test Considerato il più riuscito tra i numerosi libri dell’inglese Lee Child, questo thriller dal ritmo sostenuto e concitato vede ancora il detective Jack Reacher, alle prese con i complicati sistemi di sicurezza presidenziali Usa. Un’affascinante addetta alla difesa del vicepresidente americano contatta Reacher e senza mezzi termini gli chiede di commettere un crimine: cercare di violare il sistema di sicurezza dell’uomo politico. Naturalmente è solo un test, un sistema per appurare la sicurezza dell’apparato difensivo; ma al vicepresidente cominciano davvero ad arrivare misteriose lettere anonime che lo minacciano di morte. Chi è il mittente? Fino a che punto arriverà? LEE CHILD. Un intrigo che coinvolge la presidenza degli Stati Uniti e che mette a dura prova il protagonista dei thriller seriali dello scrittore inglese sul quale gli Stati Uniti esercitano un fascino maggiore dell’Inghilterra anche per la deregulation delle norme di comportamento Il detective Jack Reacher ha la sua legge naturale VIVE E LAVORA A MILANO. COLLABORA CON DUE IMPORTANTI SITI ITALIANI SULLA NARRATIVA NOIR MADDALENA BONACCORSO vita di uno scrittore è ricerca; quindi tutto quello che si legge, tutto quello che si vede nella vita, tutto ciò di cui si viene a conoscenza è in qualche modo utile. In effetti io per anni ho letto varie cose che riguardano questo àmbito, dalla biografia di Kennedy alla storia dell’attentato di Dallas, l’attentato a Reagan, le varie procedure, e anche storie di agenzie federali. Quindi questo costituisce l’informazione di base. Poi ci sono delle informazioni specifiche che ho avuto, nel caso particolare, da alcuni agenti di sicurezza che hanno lavorato nella protezione di Bill Clinton e che hanno acconsentito a fornirmi alcune informazioni in cambio della promessa di non rivelare alcuni dettagli cruciali; io ho pensato che fosse un buon accordo. I suoi lettori hanno mai trovato errori nei suoi libri? Sì, è successo soprattutto nei primi libri della serie. E quasi esclusivamente per quanto riguarda le armi; perché io, provenendo dall’Europa, non avevo una conoscenza approfondita delle armi, soprattutto dal punto di vista pratico, cosa che invece moltissimi americani hanno. Quindi mi sono stati segnalati errori riguardanti appunto l’uso delle armi. Ma ironicamente a volte quelli che sono ritenuti errori e quindi segnalati come tali, in verità non lo sono. Per esempio, senza voler svelare troppo della storia di A prova di killer, a un certo punto la vita di C’è anche C un Cristo A raffreddato T A L O G O Reacher viene salvata da un’arma che non funziona come dovrebbe. Qualcuno in America mi ha detto che una cosa del genere non è possibile così come l’ho descritta. Che non succederebbe mai. In realtà questo è un dettaglio che mi è stato raccontato da un ex militare britannico delle forze speciali, pluridecorato e ormai in pensione; un vero esperto di armi. Mi ha raccontato questo episodio, io gli ho creduto e credo proprio che in questo caso chi ha segnalato l’errore si sia sbagliato! Quali sono state le sue influenze letterarie? In A prova di killer c’è per esempio una citazione di Dostoevskij… Sicuramente molto importanti per me, anche dal punto di vista proprio personale, sono stati gli autori russi del diciannovesimo secolo. Inoltre ho amato molto la mitologia greca e romana, ma anche le saghe norrene. I romanzi epico-cavallereschi mi hanno pure molto influenzato. E per passare a grandi classici più moderni, sicuramente mi ha molto segnato La scelta di Sophie di William Styron. Quanto alla citazione del libro, è un po’ strategica; questo libro potrebbe esistere tranquillamente anche senza quella citazione, ma vede, quando si spera di avere un pubblico ampio bisogna anche considerare che parte di questo pubblico sarà fatto di lettori abituali e altra parte di gente che non legge poi così tanto. Mi piace mettere questi riferimenti, che danno soddisfazione a chi li riconosce e possono essere ignorati tranquillamente dagli altri. In questo senso è come se fosse un cd a doppio strato, ci sono diversi livelli di profondità. Come mai, lei inglese, ha scelto per DAVID MEANS "Il pesce rosso segreto" Trad. Silvia Pareschi pp. 188, euro 13 Einaudi, 2006 Una raccolta singolarissima ed extravagante di racconti in cui Means opera esplorando tutte le possibilità di fusione di modelli narrativi eterogenei combinando impensate invenzioni come quella di immaginare un Cristo che parla al vento raffreddatissimo o un pesce che è testimone della disgregazione di una famiglia. Il micro ed il macro in un disposto che conserva naturalità. Tra pastiche e horror la saga di Jack Reacher un’ambientazione americana e un «eroe» americano? È stata una scelta di cuore, o di mente? Perché è risaputo che in questo tipo di romanzi l’ambientazione americana attira molti lettori. È una decisione presa con il cuore per una mia personale preferenza. Ma lei ha ragione; e d’altro canto non ci vedo una contraddizione con l’attenzione al pubblico, le due cose non si escludono. Qualsiasi prodotto di intrattenimento, e sicuramente un libro lo è, è una transazione che avviene tra diversi soggetti; quindi se una persona scrive un libro e nessuno lo legge, viene spontaneo chiedersi «Questo libro esiste?». Quindi ecco, io penso che il pubblico non sia una sorta di premio o di lusso, ma che sia veramente essenziale. Come ha fatto ad appropriarsi in modo perfetto del linguaggio americano, così diverso da quello inglese, dei tempi narrativi d’oltreoceano, dei dialoghi soprattutto; caratteristiche queste che appaiono in modo palese a chi legge il libro in lingua originale? Io conoscevo molto bene l’America, c’ero già stato svariate volte nei vent’anni precedenti al momento in cui mi sono messo a scrivere. In più sono sempre stato appassionato di film americani. Quindi difficoltà enormi non ne ho avute. E devo dire che è proprio questo che mi piace di più nello scrivere, l’attenzione al linguaggio. Trovo che sia una cosa non semplicissima ma anche estremamente divertente. È un piacere lavorare con la lingua. Solitamente nei thriller le donne ricoprono ruoli marginali. In A prova di killer e nei suoi libri in genere in- JOE R. LANSDALE "In un tempo freddo e oscuro". Trad. Luca Conti e Luisa Piussi pp .231, euro 13,80. Einaudi, 2006 Mai immaginato un coniglio di un metro e ottanta che corteggia un turista in un cimitero egizio. O un uomo che si sveglia legato a una sedia di fronte a un doberman scatenato. Lansdale non si lascia intimidire dall’esorbitanza della capacità inventiva. Racconti tanto improbabili quanto più realistici tra horror e pastiche umoristico in una salsa che mantiene lo schietto gusto lansdaliano. vece troviamo caratteri femminili molto belli e di primaria importanza. Si tratta anche in questo caso di una reazione a ciò che non le piace nel filone letterario del thriller? Un po’ è proprio una reazione a queste figure che sono presenti nei romanzi del genere. Nei thriller le donne sono appunto sempre figure deboli, viste un po’ come un peso. Sono sempre lì in attesa di essere salvate e basta. Reacher è un postmoderno, per lui una persona è una persona; gli capita di incontrare delle persone forti, delle persone interessanti e nel 50% dei casi queste persone sono donne. Poi c’è anche da dire che a me, come uomo, piacciono le donne forti e intelligenti; e siccome quando scrivo un libro mi trovo a condividere con i miei personaggi sei mesi di vita, preferisco che questi personaggi siano come piacciono a me. Per questo i miei libri hanno sempre delle donne che rappresentano dei «buoni esempi» in questo senso; e so che questa cosa piace anche ai lettori. Quindi impiega sei mesi per ogni libro, regolarmente? È molto metodico? Sono molto metodico perché scrivere è un’attività artistica e creativa ma è anche un lavoro, una professione; quindi come qualsiasi altra persona creativa e professionista considero le scadenze parte del processo, una parte importante. Non serve a niente scrivere un libro bellissimo se poi arriva con dieci anni di ritardo. Io impiego in genere sei mesi, regolarmente, per scrivere un libro e questo mi lascia nell’arco dell’anno abbastanza tempo a disposizione per promuovere il libro e anche per le vacanze. Non sente il desiderio di prendersi una pausa dal detective Reacher e magari di dedicarsi a un altro personaggio? A volte mi capita, scrivendo un libro, che mi piaccia molto un altro personaggio a parte Reacher. Per esempio, in A prova di killer c’è questa poliziotta, Frances Neagley, che mi piace molto. Certo sarebbe divertente scrivere una storia con lei come protagonista; ma poi continuo sempre con Reacher, perché è come se avessi fatto una promessa implicita ai miei lettori e a questa promessa non voglio venir meno. A proposito di lettori: lei ha un rapporto molto diretto con i suoi fans e questo appare evidente dal suo sito web. Molti autori così famosi, se non tutti, non sono così disponibili. Cosa le piace di più nel contatto con i suoi lettori? In effetti la cosa che non siano poi tanti gli autori disponibili con i propri fans mi ha sempre sorpreso. A me piace avere un rapporto con loro, e poi considero internet un mezzo molto sicuro; non si dà il numero di telefono, non si dà l’indirizzo, e quindi si è molto tutelati. Poi c’è anche da dire che, essendo quello dello scrittore un mestiere solitario, io sono sempre molto contento di avere qualche possibilità di interazione umana. Interazioni che in questo caso sono molto preziose perché avvengono con persone che sono lettori e lettrici; sono le persone «migliori», con le quali è divertente e molto costruttivo avere un rapporto. Naturalmente poi si parla anche di molte altre cose, non solo di libri. Devo dire che qualche volta ricevo critiche e spesso ricevo anche storie particolari dalle quali potrei prendere spunti interessanti. Ma il più delle volte questo è un po’ difficile perché le storie più interessanti mi arrivano dai carcerati che leggono i miei libri; e in genere queste idee non possono essere usate per tutte le problematiche legali che racchiudono. Reacher pur nella sua contemporaneità ci appare come un eroe western, un cavaliere senza macchia e senza paura. E ho letto che soprattutto il suo primo libro è un vero e proprio western. Che rapporto ha con questo genere? Non sono un esperto di questa tradizione, ma sicuramente mi ricollego anche io, come appunto il western, al filone del «cavaliere errante», lo straniero misterioso che viaggia da solo e non ha niente di stabile, nella sua vita. Era una tradizione popolare anche in Europa quando non c’era ancora una densità di popolazione così alta e il continente aveva quindi delle società dove c’era più spazio per il mistero. Quando poi l’Europa è, diciamo, «maturata» e la popolazione è aumentata a dismisura, non c’è stato più spazio per questo mito. Che si è trasferito nella tradizione western degli Usa. Io faccio numerosi riferimenti a questo filone letterario perché è stato un elemento davvero centrale nella storia della narrativa. S C A F F A L E MICHEL BOUNAN, Logica del terrorismo, trad. Elena Paul, pp. 75, euro 9, Duepunti edizioni, 2006 Scritto con lo stile stringente del pamphlet, il libretto di Bounan, medico, francese, già autore di saggi oggetto di vivaci polemiche in Francia, mostra con un nuovo tentativo di classificazione e di definizione del terrorismo come l’interpretazione comune del fenomeno promossa dalle istituzioni e dai media tenda a nasconderne le reali implicazioni. Postfazione di Gian Carlo Caselli e nota di Giusto Catania. MARCEL SCHWOB, I mimi, trad. Silvia Baroni, pp. 76, euro 9, Duepunti edizioni, 2006 Filologo, romanziere, traduttore, scrittore eclettico e prezioso, grande viaggiatore, Schwob (18671905) è stato uno degli intellettuali più attivi e celebrati del XIX secolo. I suoi mimi, in risposta all’esile ombra infernale inviata dal poeta Eronda, che viveva nell’isola di Kos all’epoca di Tolomeo, sono impregnati, come quelli, del profumo dei lividi fiori degli inferi e di quello delle erbe selvatiche della terra. Postfazione di Roberto Speziale. EMILY MAGUIRE, La bestia a due schiene, trad. Massimo Gardella, pp. 334, euro 16,50, Rizzoli, 2006 Un erotismo torrido e disperato per lo scabroso romanzo d’esordio della australiana Maguire. La storia di Sarah, quattordicenne di Sidney, coinvolta in una storia di passione sfrenata con il suo insegnante d’inglese. È lui che trasmette a Sarah la voglia di vivere esperienze estreme di sesso, quella «bestia a due schiene» senza freni, oltre ogni barriera, che divora la vita stessa. PIERRE ARNAUD JONARD, Il paradiso del sesso, trad. Marco Rinaldi, pp.175, euro 8,90, Newton Compton 2006 Pierre è un conoscitore di tutti i piaceri della vita. Non potrebbe mai farne a meno e sono tanti: sesso con uomini e donne, droga, abiti firmati, il cinema di Truffaut, Céline e Pasolini. Egli stesso parecipa a dei film in cui interpreta il bisessuale di turno. È sempre festa e lo squillo del telefono significa un invito ad una serata o ad organizzarne una. Forma orge nelle quali si fanno interessanti conoscenze di uomini e donne. Ma se durante una di queste orge conoscesse la donna della sua vita? Allora cambierebbe il suo stile diventando un romantico? FRED HALLIDAY, Cento miti sul Medio Oriente, trad. Piero Arlorio, pp. 100, euro 15, Einaudi 2006 Fred Halliday prova a smontare tanti luoghi comuni sul Medio Oriente che sono stati tramandati come un lascito del passato, frutto dell’immaginazione. Non è scontato infatti che quella popolazione non abbia il senso dell’umorismo o che le donne debbano portare il velo obbligatoriamente o che gli arabi siano un popolo del deserto o che esista una lingua unica dall’Iraq al Marocco. Halliday ha elaborato una mappa intellettuale e non gli risulta che il Medio Oriente sia un’area nella quale il passato politico e religioso vi spadroneggino. Gli stati compresi nella definizione di Medio Oriente sono anzi entità moderne con la moderna civilizzazione occidentale si misurano in un rapporto paritario e competitivo. JONATHAN SMITH, Finestre di morte, trad. Emanuela Cumbo, pp. 332, euro 9,90, Newton Compton 2006 Il presidente Patrich Balfour è rispettabile nella sua normalità, separato e due figli. Per un equivoco viene accusato di un furto di benzina ma vengono fuori indizi per indirizzi e fotografie di siti di pedofilia. Si ritrova senza amici e parenti che lo sfuggono mentre emergono particolari che lo inchiodano. Qualcuno lo ha incastrato per assumerne l’identità impeccabile. Dovrà smascherarlo e farsi giustizia da solo contro un ignoto nemico che gioca con la sua identità seminando indizi e false piste. S t los utto cominciò con Il cerchio di pietre. Claire Randall, infermiera inglese in viaggio in Scozia con il marito dopo la Seconda guerra mondiale, vi si imbattè casualmente e in breve si trovò catapultata nel Settecento nel pieno della rivolta giacobita contro lo strapotere inglese, rivolta politica e religiosa. Ma non tanto da ignorare l’amore e la passione, che travolsero e spinsero Claire nelle braccia del nobile Jamie Fraser, bello, coraggioso e all’occorrenza anche amante da non buttare via. Da quel momento - era il 1991 - la scrittrice americana Diana Gabaldon, che allora aveva 35 anni, è andata avanti e indietro nel tempo, un po’XVIII secolo, un po’ gli anni Duemila (compresi Beatles e Rolling Stones) scrivendo la saga di Claire e Jamie. Sei romanzi, che in Italia sono raddoppiati (vedremo perché), quattordici milioni di copie vendute, storie di fantasy, su cui molto si potrebbe opinare, ma che sono storicamente documentatissime e stracariche di avventure e colpi di scena. Che sono piaciuti ad americani e australiani, a tedeschi e russi, a spagnoli e italiani culturalmente globalizzati. Diana Gabaldon, che nel frattempo ha 50 anni, conserva occhi castani vividissimi, una faccia da messicana-tedesca e la capacità tutta americana di ridere di cuore quando le si fa una domanda imprevista, è venuta a Milano per il lancio italiano del nuovo capitolo della saga Tamburi d’autunno in cui compaiono due grandi novità, l’arrivo di un’altra protagonista, Brianna, frutto dell’amore tra Claire e Jamie e perciò figlia del ventesimo secolo con facoltà d’ingresso nel XVIII, e lo spostamento della scena sulla Nuova America degli esuli, rifugio di libertà ma anche fonte di segreti, entro i quali la fanciulla entrerà per ritrovare mamma e papa, Jamie & Claire. Stilos l’ha intervistata. Jamie e Claire ritornano. Per un esigenza d’autrice o a grande richiesta? Nessuna delle due cose, in realtà è la storia che vuole essere raccontata. Ci sono ancora altre cose che devono succedere e quindi devo scriverle. E poi per fortuna piace anche ai lettori. Come nasce una saga e soprattutto come si forma nella mente di chi la scrive? Comincio da piccoli frammenti. Non ho mai in mente una storia pianificata fin dall’inizio. In genere parto da un’idea che muove da uno spunto qualsiasi, una musica, un’immagine, una persona, una frase. In genere è un’immagine molto vivida che mi è rimasta impressa o anche una frase. Mi chiedo chi l’ha detta, in quale periodo dell’anno, e tante altre cose. È come un’ostrica che si forma uno strato dopo l’altro. Così le scene cominciano a prendere forma. Nel frattempo, faccio ricerche per cercare altri spunti e man mano comincio a mettere gli eventi in relazione tra loro. È un processo molto organico, che dura due-tre anni prima che si completi un libro. Nei suoi titoli di studio non c’è niente di «fantastico». Allora come si forma il fantasy in una zoologa? Si pensa spesso che gli scienziati siano esseri logici, lineari e un po’ più creativi. In realtà scienza e arte sono facce della stessa medaglia e alla base di entrambe sta la capacità di estrarre dal caos dei modelli. Per la scienza il caos è il mondo naturale nel quale con l’osservazione si identificano schemi che si ripetono e da cui si formano ipotesi che vanno testate e validate. L’artista fa una cosa analoga. Il caos è quel che gli sta intorno, quello che vede dentro di sé e all’interno di questo mondo in cui si trova immerso cerca anch’egli modelli e forme. Così scaturisce un’opera d’arte, come l’ipotesi dello scienziato che viene poi messa alla prova del pubblico. Come si sta in alto nella classifica delle vendite? E questo che responsabilità dà alla scrittrice? Nella foto l’americana Diana Gabaldon, autrice per Corbaccio di Tamburi d’autunno T Biografia C senza A i fatti T A L O G O DIANA GABALDON . La fantascienza declinata nelle forme del thriller e dell’ucronia. Spazio e tempo che si confondono in una sola «realtà»: dove i sentimenti e le passioni mantengono un loro stato di intangibilità e di dominio. Vendutissima negli Usa, torna in Italia la saga dei Fraser La mia vita divisa tra oggi e il mondo di due secoli fa VIVE A GENOVA, DOVE SVOLGE PROMOZIONE CULTURALE. PER IL LIBRO DIANA GABALDON "Tamburi d’autunno" Trad. Valeria Galassi pp. 606, euro 18,60 Corbaccio, 2006 MOLTI ANNI CAPO DELLE PAGINE CULTURALI DEL "SECOLO XIX" SERGIO BUONADONNA È una buona sensazione. Innanzitutto un’opera d’arte esiste in quanto raggiunge l’utente finale. Se è un best-seller è chiaro che raggiunge molti lettori e questo dà molta soddisfazione. Che cosa piace di più delle sue storie? Le avventure meravigliose e sorprendenti, la miscela tra presente e un passato cavalleresco, il sesso, l’intrattenimento, la magia? Naturalmente tutte queste cose. Ma dai lettori ricevo i commenti più svariati. Qualcuno ama la sensazione di essere trasportato in un mondo e in un tempo diversi, proprio perché ci si lascia trasportare nella storia e questo porta via da se stessi. Un altro motivo è imparare qualcosa perché le ricostruzioni storiche sono precise e accurate. Ad altri piacciono l’avventura e i legami dei personaggi. Ma viaggiare nel tempo la fa sentire una donna di oggi, una donna di duecento anni fa o la divide a metà? Per me è stato sempre naturale lavorare su livelli diversi contemporaneamente. E comunque una prerogativa delle donne è che dovendo occuparsi dei figli contestualmente sanno fare anche altro. Lo facevo già a scuola, leggevo un romanzo mentre l’insegnante spiegava, ma ero pronta a intervenire quand’era il mio turno. Per cui non mi viene tanto difficile stare nel mondo di due secoli fa e qui nello stesso tempo. Perché a base delle sue storie ha scelto il movimento giacobita riesumando la battaglia di Culloden in cui il movimento fu distrutto e disperso? È stato un caso. Volevo scrivere un romanzo per fare pratica, per verificare come funziona visto che avevo scritto già cose di vario genere - fumetti per Walt Disney, testi, articoli -, e mi sono chiesta quale fosse la forma di roman- FERNANDO PESSOA "Il libro dell’inquietudine" Trad. Piero Ceccucci, Orietta Abbati pp. 321, euro 6 Newton, 2006 Pubblicato per la prima volta in una versione inedita, curata dal lusitanista Piero Ceccucci, questo «libro dell’inquietudine» raccoglie le tante riflessioni sparse in una sorta di zibaldone, del più noto eteronomo dell’autore, Bernardo Soares. Pensieri tragici e ironici, sulla vita e sulla morte, sull’anima e sul tempo, sulle emozioni e sulla memoria, una specie di diario esistenziale che si snoda per sentieri impervi molto più di un’autobiografia. Alla ricerca nel ’700 dei genitori perduti Brianna, la figlia di Claire Randall e Jamie Fraser (che si sono conosciuti e amati nel Settecento dopo che la prima è tornata nel passato del secondo), ha scoperto il segreto dei propri genitori e vuole tornare nel passato per salvarli e cambiare il destino. Va in Scozia dove si trova un magico cerchio di sei pietre che funziona come macchina del tempo. zo più adatta a me per fare questa prova. Ho pensato che il più semplice fosse il romanzo storico perché non ha confini, può assumere svariate forme, può essere una biografia o un romanzo storico leggero, difficile, impegnato. Quel che è certo è che i dettagli devono essere accurati, realistici. Ma su questo non avevo difficoltà essendo già una ricercatrice scientifica, ma non avevo una preparazione specifica in storia e perciò cercavo un luogo adatto per ambientare il mio primo romanzo. Ed è capitato che ho rivisto una replica di una vecchia serie televisiva britannica che si chiamava "Doctor Who", un Lord che veniva da un altro pianeta e viaggiava nel tempo, raccogliendo personaggi. In un episodio in particolare trovava un giovane scozzese nel 1745 che indossava il kilt. E questo è diventato il mio spunto: la Scozia del XVIII secolo. Così ho cominciato le ricerche, mentre avevo una certezza: che per alimentare l’interes- Crisantemi di Hollywood se del lettore ci vuole un conflitto. E i conflitti certamente non mancavano in quel periodo in Scozia. Il principale era appunto la rivolta dei giacobiti contro il principe Carlo. L’America è rifugio e libertà, e il suo Tamburi d’autunno si apre laddove La collina delle fate si chiudeva. Brianna, la figlia di Jamie e Claire che vive nel nostro tempo, cercherà di penetrare nel cerchio magico che le aprirà le porte del passato per impedire che il destino compia la sua terribile profezia. Qual è il significato? Una difesa della libertà, della famiglia, dell’amore, del matrimonio attraverso una fiction da grande schermo? Tutti i miei libri potrebbero essere trasformati in film ma sono abbastanza complessi, quindi ci vorrebbe un lavoro di adattamento particolare e ben fatto. Si vedrà. Ognuno di questi libri poi sviluppa di più un particolare tema. In Tamburi d’autunno il tema che emerge è quello della comunità, dei doveri che regolano i rapporti tra persone, la convivenza, i contratti sociali. E quindi gli obblighi di una persona verso se stessa, la famiglia, il passato, il futuro. Per la maggior parte delle persone forse non c’è questo senso del dovere verso il passato ma per chi viaggia nel tempo sì. I dogmi della Chiesa spuntano nel personaggio di Jamie come a sottolineare l’incrollabilità della fede. C’è qualcosa in questa scelta che può far dire che lei si oppone agli autori altrettanto fantasiosi come Dan Brown? No, non ho nemmeno letto Il codice Da Vinci e non ho intenzione di leggerlo perché se n’è già parlato tanto, però non scrivo mai con riferimento ad altri autori. La questione della fede che ritorna nei miei libri sta un po’sotto le storie di superficie, cioè le avventure, le vicende d’amore che attraggono la maggior parte dei lettori. Ma c’è anche chi vuole approfondire. C’è un lettore, per esempio, che mi ha detto di aver letto ventitrè volte Tamburi d’autunno. Estremi a parte, io spero che i BRUCE WAGNER "Il palazzo dei crisantemi" Trad. Mariangela Pizzera Rosa pp. 284, euro 16,50 Baldini Castoldi Dalai, 2006 Nell’immaginario del romanzo di Wagner, «il palazzo dei crisantemi» è ad Hollywood ed è Hollywood stessa. Una sorta di città straniata, vista con gli occhi dei ricchi e famosi: come Bertie Krohn, figlio della famosa serie televisiva di fantascienza «Starwatch: i Navigatori», Clea, figlia di una star del cinema e Thad Michelet, figlio di uno scrittore pluripremiato. L’amara visione di Hollywood, alla maniera del Grande Gatsby. Il mistero di Pico a Firenze miei libri si possano rileggere, che ci sia qualcuno che facendolo scopra qualcosa in più, come questi aspetti di spiritualità che ci sono sempre. Il mistero è per lei una trama da portare alla luce. È così che ha cominciato 15 anni fa? Diciamo che in tutti i buoni romanzi c’è del mistero, c’è qualcosa di ambiguo che si cerca di capire leggendo. Nei gialli c’è una domanda a cui bisogna rispondere, ma per ora i miei soggetti possono e devono lasciare aperte tante risposte. Però col mio editore ho un contratto per scrivere dei gialli, sto lavorando anche a quelli. Però prima deve concludere la saga. E già ad agosto uscirà il prossimo capitolo di Jamie and Claire, Passione oltre il tempo. Sì, va detto che l’editore italiano suddivide in due parti ciascuno dei miei volumi perché sono molto lunghi. Quindi quello che uscirà ad agosto in realtà è la fine di Tamburi d’autunno. I miei romanzi di questa serie scritti finora sono sei, ma in Italia ne sono usciti quattro. Negli Stati Uniti ce ne sono fuori già altri due, "The Fiery Cross" e "A Breath of Snow and Ashes". Quindi possiamo immaginare che in Italia dovranno uscire ancora cinque titoli. Questo accade perché gli editori italiani sono più furbi o perché il lettore italiano non regge il romanzone? È una questione culturale, gli editori italiani ritengono che così vadano di più. Io ho proposto la stessa cosa negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e mi hanno risposto che lì invece i lettori preferiscono libri più spessi. Ma probabilmente avrò ancora da scrivere uno o due romanzi per concludere la saga perché devo giungere al termine di quel periodo storico. Lei ha detto di avere cominciato con i comic, ma un comic e un romanzo di ottocento pagine che cos’hanno in comune? È una cosa molto elementare in realtà, hanno in comune i principi basilari. Gli editori di Walt Disney mi hanno spiegato in tre minuti come devono essere strutturati i fumetti. E di fatto io non so nient’altro a livello formale del modo in cui deve essere un’opera di narrativa. In genere nella prima pagina di un fumetto c’è un riquadro più grande e tre piccoli. Nella prima scena si vede il protagonista della storia, mettiamo Paperino, collocato in una situazione che già annuncia l’avventura che l’aspetta: non so Paperino che legge un giornale con un’ape che gli ronza attorno. Vuol dire che prima o poi arriveranno altre api. Le altre tre vignette devono spiegare l’incipit. Nella prima pagina cioè i personaggi devono essere pronti per lo sviluppo dell’avventura. E in effetti qualsiasi buon romanzo funziona così. All’inizio c’è qualcosa che aggancia il lettore, soprattutto il protagonista della storia. Dopodiché non c’è bisogno di tornare indietro, non so ai suoi genitori, alla sua infanzia, come altri fanno per dare più informazioni al lettore. Come si concludono i fumetti? Con due vignette che riportano alla situazione iniziale. Hollywood s’è interessata alle sue storie? Di film della serie "Fraser" magari con un Russell Crowe protagonista? Sì, l’interesse c’è, ci sono sempre richieste da parte di società di produzione cinematografica. L’opzione sui diritti di tutta la serie è stata già ceduta quattro volte ma non se n’è fatto nulla per la difficoltà di trovare i finanziamenti. Anche De Niro si è interessato ma poi ha fatto marcia indietro. Chi sono i suoi maestri, quali autori l’hanno influenzata di più? L’ultimo mio romanzo, "A Breath of Snow and Ashes", l’ho dedicato appunto ai miei cinque punti di riferimento letterari, visto che avevo esaurito tutte le dediche ai miei familiari. E sono Charles Dickens, Robert Louis Stevenson , Dorothy L. Sayers, John D. Mc Donald e P.G. Woodehouse. Caspita. E li legge sempre? Sì, e dentro di me chiedo loro aiuto. ÉRIC DESCHODT JEAN-CLAUDE LATTÈS "Vita segreta di Pico" Trad. Cristina Cavalli pp. 312, euro 16,90 Barbera, 2006 Tutti i misteri attorno alla morte di Pico della Mirandola, morto per avvelenamento il 17 novembre del 1494, in un romanzo storico e poliziesco, autore Deschodt, giornalista, romanziere e biografo, e di Lattès, dell’omonima casa editrice. Un romanzo «fiorentino», giacché i due autori hanno trascorso diversi mesi a Firenze, a cercare e scoprire nelle biblioteche documenti inediti che gettano una nuova luce sui fatti. pagina 15 Capoverso autori stranieri IDOLINA LANDOLFI MATTEO MARCHESINI, I CANI ALLA TUA TAVOLA, PP. 60, EURO 7,50, EDIZIONI ATELIER, 2006 Seconda raccolta poetica del ventisettenne bolognese, dopo Asilo (Edizioni degli Amici, 2003), ne ripropone alcune liriche, tra cui quella che era allora l’epigrafica, La città della polvere: sorta di microepopea padana fatta di non luoghi, di un tempo sospeso «tra incuria e redenzione». Epopea del «no» appena sussurrato («Ma non si parla come non si dorme / e non si dorme come non si ama»), è questa di Marchesini, del teatro polveroso di memorie infantili, di infatuazioni letterarie, di fuggevoli indizi seguiti con mente appannata. Talvolta il dolore sordo riaffiora, ed è quando si preferisce ritrarsi in una zona apparentemente franca, un’intercapedine tra il pensiero e il gesto, dove tutto è ancora di là dal cominciare. Giustamente scrive Paolo Febbraro nella prefazione ad Asili, citando una poesia qui ripresa: «Il mondo si schiude appena, come altrove il corpo desiderato nell’atto d’amore, ma per far uscire la voce che parla dei nostri dubbi. Troppo spesso la potenza disegna, promette ma non precipita in atto: in Ci sono cose la mente "si fa prendere / dai ritardi e dalle accelerazioni / scambia la volontà col fatto / il coltello col sangue / gli oracoli con le inclinazioni"». Dosatura sapiente, aggiungerei, tra vita e ammutinamento segreto ad essa, tra l’abbandono al «quieto incantamento» delle cose e la perplessità, l’inciampo. Ne I cani alla tua tavola l’autore dimostra innanzitutto di conoscere la scienza della versificazione, di avere un senso forte della scansione ritmica e dei metri: fatto che non va dato per scontato, in giorni in cui si dà nome di poesia ai più prosastici esperimenti. Il libro, poi, è diviso in tre sezioni, legate da quello che è il Leitmotiv della raccolta: l’atmosfera rappresa, come abbiamo detto, il tempo bloccato per sortilegio; quasi una morte che si desideri avere accanto in eterno, infinitamente protratta, non rigettata e non consumata. La prima sezione, "suite del tamburo", è un lungo dialogo con un imprecisato (ma spesso scoperto) «tu»: e vi si disegna, in nove frammenti, la geografia di anime che recano in sé le tracce di qualcosa di innominato, di perduto, sul quale costruiscono la loro sottile mitografia: «un dolore che non ha memoria / di se stesso, ma ferite soltanto / uguali a segni senza più la chiave / della lingua in cui furono scritti». Ancora i paesaggi padani fanno da sfondo a modeste peripezie interiori, un «carnevale misero» per chi «non smette di morire». Il seguito dell’epica minimale nella seconda sezione, "i mendicanti", coi suoi personaggiombra dalle labbra dischiuse per impossibili parole, e dai sonni grevi (non basta un conforto di madre a riscuoterli dal loro infermo torpore, frutto della raggiunta consapevolezza: «Quieto si chiede / dove sia il suo posto […]: Infanzia); con le dimore fantasmatiche in cui si aggirano creature vittime di giorni sempre uguali, straniate tra le parvenze più familiari; e immagini simboliche come quella del pagliaccio, ribaltata nella feroce confessione dell’aridità del cuore, del possesso lontano di spettatori ignari e complici al contempo ("Discorso del pagliaccio"). Non manca l’incontro con la poesia, e l’allusione a certo proprio apprendistato nella lirica dedicata a un Pasolini disincarnato, colui che ha perduto gradatamente il suo corpo, per divenire un oggetto da esposizione, una figura sacrificale nelle mani di abili necrofori. Il libro si chiude con i sette sonetti della terza sezione, "corona per un ballo". S t los autori stranieri pagina 16 PATRIZIA DANZÈ icono che la «Jackie Collins» dell’India, la bella Shobhaa Dé, giornalista e scrittrice affermata, abbia cambiato la faccia del romanzo popolare indiano, ma anche che abbia scandalizzato l’opinione pubblica. Tutti i suoi tredici libri, tra fiction narrative, testi autobiografici e non-fiction, hanno ottenuto un grandissimo successo, al punto da essere oggetto di studio nei corsi universitari di letteratura comparata. La spiegazione di questo fenomeno letterario sta nel fatto che Shobhaa ha raccontato il suo paese senza infingimenti, cogliendo un’altra Bombay e soprattutto facendo parlare e agire la donna, anche nei territori proibiti della sessualità, del matrimonio, dell’adulterio. La scrittrice indiana è stata a Milano, dove Stilos l’ha intervistata. La sua è una storia di famiglia ma anche un affresco spietato della società indiana. Le due cose sono connesse, perché è impossibile raffigurare i rapporti familiari senza il contesto. Il neo-materialismo che caratterizza la società contemporanea sta portando alla violenza nei rapporti; per questo il ritratto è spietato: mi disturba, mi addolora, perché sono cresciuta in un ambiente gentile. I suoi romanzi sono molto popolari nel suo paese, benché lei non sia tenera con il suo mondo. Come si spiega? Le persone di solito reagiscono positivamente alla verità, che uno scrittore ha la responsabilità di raffigurare. Cercare di vedere i nostri difetti e le nostre debolezze può aiutare, perché l’immagine sgradevole di noi stessi può indurci a cambiare. In genere gli uomini preferiscono, come direbbe Freud, il diniego, dicendo che la cosa riguarda altri, non loro. Allora tocca alle donne costringerli a fare i conti con questi loro aspetti negativi. Per contro, le donne stanno copiando gli aspetti più negativi degli uomini, diventando «pseudo uomini», cosa che potrebbe portare a una pessima parità. È anche vero che si dice che lei abbia scandalizzato l’India e messo sottosopra la scena letteraria del suo paese. Qual è stato lo scandalo: aver parlato liberamente di sesso o aver dipinto la società indiana? Il primo libro che ho pubblicato, "Socialite Evenings", non descriveva scene di sesso esplicito, ma portava l’idea che una donna potesse rompere il matrimonio perché voleva qualcosa di più. Questo è stato motivo di scandalo. Ma hanno gridato allo scandalo i critici, mentre le lettrici erano pronte a quanto avevo scritto. La storia che lei racconta in Sorelle è a metà tra tradizione indiana e Occidente. Sembra la prima però a farne le spese con i suoi intrighi e gli odi radicati. L’Occidente sembra invece un’isola felice. È questo che pensa? Non è una situazione bianca e nera, né una lotta tra Occidente e tradizione indiana. In realtà si tratta piuttosto del desiderio che la società contemporanea trovi la giusta misura e non si comporti come un pendolo che passa da un estremo all’altro. L’Occidente non è un’isola felice e sarebbe stupido per i giovani pensarlo; ma, soprattutto riguardo agli aspetti professionali, ci sono molte cose a cui ispirarsi. Una persona in gamba sa quali caratteristiche respingere e quali adottare. L’errore più grande sarebbe respingere del tutto la tradizione. Al centro della sua storia stanno due donne che, benché moderne e occi- Nella foto l’indiana Shobhaa Dé, autrice per Tea di Sorelle IL LIBRO D SHOBHAA DÉ "Sorelle" Trad. Susanna Sinigaglia pp. 283, euro 8,50 Tea, 2006 L’impero di famiglia e la sorella ritrovata Dopo la morte dei suoi genitori in un incidente aereo, Mikki Hiralal si trova improvvisamente a dirigere l’impero industriale del padre. Catapultata dalla realtà dorata di New York, dove studia, in quella intricata di Bombay, la sua città, si trova alle prese con la bancarotta del padre e finisce per sposare un uomo senza scrupoli. Tra le sorprese non manca quella di ritrovare una sorella, l’affascinante Alisha, figlia illegittima di suo padre, che si è presentata al funerale. È l’unica che può veramente aiutarla nella conduzione dell’impresa. Ma Alisha odia mortalmente Mikki. SHOBHAA DÉ. I temi dell’amore, della famiglia, della società, dell’emancipazione femminile in un romanzo che coniuga intrigo e passioni e che soprattutto si offre come specchio di un continente dove le classi emergenti vagheggiano la ricchezza e uno stile di vita di tipo occidentale India, nuova ossessione per il successo materiale dentalizzate, sono tuttavia sottomesse all’uomo. Rispecchia una realtà vera? Sì, è vero, perché le due donne sono intrappolate tra due mondi completamente opposti, in mezzo ai quali cercano la dignità personale. Non è facile stare tra questi due fuochi, ma la struttura familiare continua ad avere così tanta importanza in India che credo possa dare sostegno e attutire le cadute che dovessero verificarsi in questa situazione di particolare difficoltà e confusione. Se la donna appare vittima, l’uomo, almeno nella sua storia, appare prepotente, criminale, libertino o sciocco. Non c’è speranza che ci sia una Gioiello C sparisce A e ritorna T A L O G O figura maschile positiva? Sto cercando di creare spunti per un personaggio maschile positivo. Ma finora ho perso la battaglia… Vorrei essere generosa nei loro confronti, perché meritano la nostra solidarietà collettiva, visto che presto diventeranno vittime. Sarà interessante vedere questa inversione di ruoli. Il lieto fine conclude una vicenda amara e terribile. L’amore è al primo posto nelle sue storie? L’amore non è forse la cosa più importante al mondo? Nei miei romanzi forse non c’è l’amore convenzionale o romantico, ma comunque, sì, c’è l’amore. Nella nuova India da lei descritta EMMANUELLE DE VILLEPIN "Tempo di fuga" pp. 288, euro 16,60 Longanesi, 2006 Ricchi ebrei fuggono al tempo del nazismo verso la Svizzera, due giovani orafi si amano in Russia, un vuoto ménage coniugale a Torino degli anni Settanta: qualcosa lega questi episodi. Un gioiello a forma di uovo, incastonato di rubini, viene strappato dal collo di una donna da un ufficiale nazista e ricomparirà dieci anni dopo in una sera di intriganti risvolti sensuali. Il passato che non passa quali sono i valori che contano? I soldi, i soldi, e ancora i soldi. Lo stile di vita, il fare colpo sugli altri, avere una casa più grande, un’auto più bella, un vestito più elegante. La borghesia indiana si è dimenticata di tutto quello che ci ha reso quello che siamo. È una società con l’ossessione nei confronti del progresso materiale. La famiglia, almeno, continua ad essere la spina dorsale di questa società. Preoccupata, mi chiedo per quanto. Nel suo romanzo non manca la suspense che si scioglie solo in conclusione, con la punizione dei «cattivi» e il trionfo dei «buoni». Secondo lei è una linea di demarcazione definita quella tra buoni e cattivi? ANDREI MAKINE "La donna che aspettava" Trad. Anna Maria Ferrero pp.133, euro 11 Einaudi, 2006 Un giovane scrittore lascia Leningrado e si reca a Mirnoe in una lontana regione del Nord nell’intento di raccogliere materiale per la stesura di una satira anti-sovietica. Ma s’imbatte ancora nel passato che non passa: la guerra che ha distrutto villaggi e che ha consegnato vecchie a morire nella solitudine. Incontra Vera che vuole ridare a quelle vecchie le loro case in rovina. Sì, forse senza rendermene conto, continuo la tradizione mitologica indiana, che divide nettamente il bene e il male. Sesso, amore e intrighi: sono gli ingredienti che preferisce nelle sue storie? Credo che del sesso non sia stata riconosciuta l’importanza che riscuote in un rapporto. Per la società tradizionale il sesso è un argomento che viene tenuto nascosto e alle donne non è concesso parlarne in pubblico. Ma non credo nei tabù nella narrativa, quindi è mia prerogativa concentrarmi su questo argomento come elemento importante. L’amore, come ho già detto, non è forse la cosa più importante al mondo? Per quanto riguarda gli intrighi, credo che la vita sarebbe noiosissima senza. Anche nelle famiglie più semplici, sotto la superficie c’è sempre un gioco di strategie, a volte anche inconsapevolmente, ma magari con conseguenze disastrose. Questo mi affascina. Matrimonio e amore non sembrano camminare di pari passo nelle sue storie. Come è vissuto il matrimonio nel suo paese? In tutto il mondo le donne stanno riscrivendo l’equazione del matrimonio cambiandone le regole. Oggi ci sono maggiori donne che lavorano, c’è più mobilità, più opportunità. Così c’è il rischio che non rimangano più passive, né soddisfatte con il vecchio modello di valori. Sono più esigenti e, dando un contributo economico alla famiglia simile a quello dell’uomo, possono richiedere uguali diritti, cosa che ha portato a un nuovo bilanciamento dei ruoli. La stabilità della nostra società dipende dalla stabilità della famiglia. L’istituzione del matrimonio e della famiglia è sacra. Senza di essa, la società crollerebbe. In India la versione moderna del matrimonio combinato non è come crede l’Occidente. È più un accordo sociale. I giovani vengono fatti incontrare dalle famiglie, ma non sono obbligati. Questo, però, è un fenomeno contemporaneo delle città, dove le ragazze sono anche giovani cacciatrici che spesso prendono l’iniziativa. Nei villaggi, invece, le femmine non hanno scelta. Nella mia esperienza, nell’India di oggi anche i matrimoni per amore hanno la stessa probabilità di fallimento di quelli combinati. I personaggi protagonisti del suo libro appartengono alla classe alta. Perché questa scelta? È la classe che conosco meglio, la realtà che capisco. So che riguarda solo una piccola realtà dell’India, ma non per questo non dev’essere raffigurata o sentita. Tra i personaggi di questo romanzo, tutti con qualche ombra, ce n’è uno estremamente positivo: Amy. Chi rappresenta Amy? Un modo equilibrato di vedere la vita, dotato di buon senso e personalità spiccata. Ed è presente anche il motivo degli odi di classe. Tutto quel che succede infatti a Mikki ed Alisha è per una questione di invidia di classe. O di altro ancora? In una società di contrasti così evidenti e radicali tra ricchi e poveri, è inevitabile che si guardi attentamente l’altro e si provi risentimento. Spesso le classi alte sono un bersaglio, a cui fare sentire un senso di colpa e da portare a scusarsi per i loro privilegi. Le classi medie oggi hanno maggiore disponibilità economica che in passato, e il boom economico sta facendo venire meno il contrasto con le classi alte. Tra le classi medie e le povere invece c’è un divario enorme, che ha più a che fare con l’istruzione. S C A F F A L E ORHAN PAMUK, Il castello bianco, trad. Gianpiero Bellingeri, pp. 172, euro 9,80, Einaudi 2006 Un gentiluomo veneziano viene catturato dai pirati e poi venduto ad un astrologo turco. Due culture diverse, che coltivano però gli stessi interessi e collaborano insieme a delle ricerche, studiano e progettano orologi parlando sempre di astronomia. Si assomigliano come fratelli ma si guardano sospettosi vivendo a stretto contatto per anni. Maometto affida loro la costruzione di una grande macchina durante la guerra in Polonia, ma la macchina non funziona. Si dividono e solo uno dei due tornerà in Turchia. Ma chi? Romanzo che è metafora del legame tra Oriente ed Occidente. RHIANNON GUY, Portala al cinema, trad. Luigi Giacone, pp. 175, euro 10, Einaudi 2006 L’interesse del libro sta nelle mille curiosità e nelle domande che gli appaffionati del cinema si pongono: troveranno una risposta banale o interessante. Quanti Martini ha bevuto James Bond o qual è il film più lungo? Il libro è ricco di opinioni ed informazioni che si possono accettare o discutere. Comunque riuscirà a soddisfare il più fanatico amante di film il quale amplierà la sua conoscenza divertendosi. PAUL SIMPSON, Elvis Presley, trad. Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pp. 376, euro 14,50, Vallardi 2006 Il libro è dedicato a colui che ha rivoluzionato la storia della musica popolare del Novecento, con il rock’n’roll, nell’America uscita dal conflitto mondiale. La sua vita è costellata di successi e delusioni fino alla morte misteriosa e prematura. Questo libro è un almanacco dei suoi album, amori, amici, film, essendo Elvis Presley una icona della cultura popolare pop mondiale. STEFAN GLOWACZ, On the rocks, trad. Valeria Montagna, pp. 319, euro 19,60, Corbaccio 2006 La passione di Stefan Glowacz è arrampicare. Nel 1993 conclude la sua carriera come vice campione mondiale. Ama le pareti più impegnative della Terra. Con i suoi compagni non usa aiuti esterni e insieme trasportano da soli viveri e attrezzature. In questo libro «sulla punta delle dita» Glowacz racconta le sue avventure giovanili di salite e cadute e i luoghi meravigliosi di Patagonia, Canada, Kenya, Antartide e Messico. CHRIS INGHAM, Frank Sinatra, trad. Barbara Ponti e Vanna Lovato, pp. 367, euro 14,50, Vallardi 2006 Questo libro è una guida completa per conoscere Frank Sinatra. Narra l’incredibile storia del cantante di My Way, Strangers in the night e i successi cinematografici dove si guadagnò un Oscar con il film Da qui all’eternità. Quel ragazzo mingherlino di origini italiane cominciò calcando le scene di piccoli locali del New Jersey diventando «the Voice». S t los RONLYN DOMINGUE. Il tema metafisico del Un primo romanzo nato da un racconto Ronlyn Domingue è nata nel 1969 a Baton Rouge, in Louisiana, negli Usa. Laureata in giornalismo alla Louisiana State University, ha lavorato come project manager, consulente di organizzazioni no-profit e insegnante di scrittura creativa, pubblicando nel contempo racconti su alcune riviste specializzate e non. La grazia dell’aria sottile è il suo primo romanzo, nato dallo sviluppo di uno di questi racconti. Venduto in dieci Paesi, ha ricevuto l’unanime plauso della critica statunitense che lo ha paragonato per la sua forza evocativa al bestseller Amabili resti di Alice Sebold e per la romantica e «soprannaturale» storia d’amore che è intrecciata alla «ghost-story» al film Ghost. I miei fantasmi d’amore D VIVE A MILANO DOVE ESERCITA ATTIVITÀ DI INSEGNANTE. DIRIGE LA SEZIONE SUI LIBRI DEL PORTALE SUPEREVA LIDIA GUALDONI no al 1998-99. Allora frequentavo un corso di scrittura per racconti e in questo ambito ho scritto una storia con protagonista Raziela e con diversi assi temporali. Un racconto però che è nato già come romanzo vero e proprio, perché ne conteneva tutti gli elementi. Spesso mi è stato chiesto come mai non ho scelto di scrivere un romanzo con uno sviluppo lineare della trama, piuttosto che con tutti questi assi temporali che si intersecano. Io ho risposto semplicemente che è sempre stato così, che fin dall’inizio l’ho pensato in questo modo. Persino in quel primo racconto c’era uno schema simile. Io ho scritto aiutandomi con uno «storyboard», praticamente ho messo su un pannello tutti i segmenti della trama, dando ad ogni periodo un colore diverso e controllando che tutti si intersecassero in modo logico. Nonostante questi accorgimenti, il romanzo si è un po’ scritto da sé e tutti gli assi temporali si sono connessi da soli, quasi come se avessero vita propria. Di fatto quindi c’è stato uno sviluppo organico, cioè ho scritto la trama dall’inizio alla fine, controllando che tutto avesse un nesso logico, ma non sono intervenuta molto, perché è stato come un fluire della mia scrittura. Probabilmente questo è avvenuto perché gran parte di quello che scrivo, dopo un lavoro di preparazione molto accurato, io ce l’ho già tutto in testa. Non ha mai pensato che la struttura della trama potesse invece disorientare il lettore? Credo che ogni storia, ogni romanzo, possieda una propria natura, che si manifesta man mano che la narrazione procede. Non ho mai pensato che La grazia dell’aria sottile potesse venir raccontato diversamente. Per catturare l’attenzione del lettore ho cercato sempre di dare il riferimento temporale ad un anno preciso o ad un periodo particolare all’inizio dei capitoli. È anche vero che, per mantenere il coinvolgimento emotivo, un po’di disorientamento è necessario. E questo avviene nella prima parte del romanzo, nelle prime cinquanta, sessanta pagine. Poi la storia prende avvio e qui la struttura che ho descritto si impone. Una struttura che ho scelto anche in relazione al funzionamento del nostro cervello, perché noi non pensiamo sempre in modo lineare: siamo qui, ora, per questa intervista e ci ricordiamo improvvisamente di qualcosa che abbiamo fatto ieri o quando avevamo dodici anni… Ad ognuno di noi vengono in mente fatti differenti ed è quindi molto importante l’idea del passato che ritorna nel presente, che ha un impatto sul futuro e che crea una connessione a livello emotivo fra il lettore e la storia. Mi sembra allora che questa struttura le sia congeniale: la userà anche per il prossimo romanzo? Quando frequentavo il corso Nfa di specializzazione per migliorare come scrittrice ho avuto diversi diverbi con un professore che odiava i flash-back, odiava i ritorni al passato: era convinto che la narrazione dovesse avere uno sviluppo lineare. Io non sono mai stata d’accordo con lui, perché ritengo che nella nostra vita il passato è molto importante: influenza il presente e il 17 L’ A U T R I C E revenant associato a quello di una love story tutta terrena. Un esordio, lungamente studiato, che risveglia il genere storico del gotico romantico efinire La grazia dell’aria sottile una ghoststory, sarebbe alquanto riduttivo; così come definirla una storia d’amore e d’amicizia. È vero, c’è il fantasma di Raziela Nolan, che è in grado di usare olfatto, udito e vista come mai avrebbe immaginato, che può muoversi liberamente in questo mondo e che usa i suoi trucchi a casa di Amy e Scott gli oggetti vengono risistemati o spostati, le stazioni radio cambiano da un momento all’altro, i libri rimangono aperti in luoghi insoliti, strani colpi alla porta disturbano il silenzio e le biglie cadono dal condizionatore d’aria rotolando sul pavimento in leggere pendenza -, ma i due, almeno all’inizio, sembrano più divertiti che spaventati. E poi c’è l’appassionante storia d’amore vissuta settantacinque anni prima e ricostruita per il lettore pagina dopo pagina, dai ricordi di Razi, che è anche la voce narrante di tutto il romanzo. Ci sono cioè tutti gli elementi classici di questi due generi, cui si aggiungono sentimenti di nostalgia per ciò che si è perduto, di sofferenza per i segreti che non abbiamo avuto il coraggio di confessare, di compassione per chi condivide i nostri stati d’animo, ma anche di speranza per la possibilità di riallacciare un legame con le persone scomparse. Temi e situazioni che la Domingue però propone in una dimensione del tutto moderna, a partire dalle due principali figure femminili, impegnate, anche se a distanza di anni, nell’affermazione dei diritti per l’uguaglianza fra i sessi. Attraverso l’amicizia di Amy e di Chloe, Raziela rivive il legame con la fedele Twolly, mentre il ricordo di Andrew e il rimpianto per la vita che avrebbe potuto avere la spingono a salvare il loro matrimonio, in crisi a causa di un dolore antico e mai confessato. Da sottolineare anche la complessa struttura del romanzo che non si sviluppa linearmente, ma attraverso il sovrapporsi di almeno due piani temporali: la vita di Raziela negli anni ’20 e le vicende attuali che legano Amy a Scott e all’anziana zia Twolly, ovvero a quella che era stata la migliore amica di Raziela stessa. Il finale, pur consegnando gli avvenimenti ad una logica interna al romanzo, lascia aperte tutte le interpretazioni che la sensibilità del lettore saprà e vorrà dare: dopo una lettura di questo genere chiunque sarà portato a considerare molti aspetti della vita, propria e altrui - il più leggero cambiamento dell’aria che ci circonda, il riaffiorare di un profumo che credevamo dimenticato, un brivido improvviso sulla pelle - in modo diverso. Stilos ha inetrvistato l’autrice. La grazie dell’aria sottile è un romanzo dalla struttura molto particolare, in cui vicende narrate in tempi diversi si intersecano e i personaggi sono legati gli uni agli altri da rapporti che a volte essi stessi ignorano: ce ne vuole parlare? L’idea è nata molti anni fa, circa dodici. All’epoca lavoravo in una società di consulenza ed ero responsabile di un’équipe di circa venti persone, tutti uomini. Un giorno mi è capitato di avere uno scambio piuttosto vivace con uno di loro, perché era un collega che mi stava mettendo sotto pressione. Così gli ho detto: «Se non la smetti, mi farai morire, dopodiché ritorno e non ti lascio più in pace: ti perseguito come fantasma». Quest’idea del fantasma è rimasta da allora, ma l’ho messa su carta solo molti anni dopo, cioè intor- pagina Nella foto Ronlyn Domingue, che da Sonzogno ha pubblicato La grazia dell’aria sottile Trovarobe autori stranieri IL LIBRO RONLYN DOMINGUE "La grazia dell’aria sottile" Trad. Michele Piumini pp. 340, euro 17 Sonzogno, 2006 Promessa mancata se la morte arriva prematura Raziela Nolan è morta la mattina del 10 luglio 1929, a ventidue anni, prima di poter dare una risposta ad Andrew O’Connell - al quale era legata da profonda passione e da sincero amore -, che le aveva chiesto di sposarla. Ora, dopo tanto tempo, la sua essenza spirituale, che ha voluto rimanere in una dimensione di mezzo per ritrovare Andrew, si rende conto di aver seguito una vita che non era quella del suo amato, ma di un omonimo, uno sconosciuto. Di nuovo sulle sue tracce grazie ad una libreria che gli era appartenuta e che nasconde preziosi ricordi, Razi decide di stabilirsi presso una coppia, Amy e Scott, che l’ha appena acquistata. Ma la loro convivenza non sarà priva di qualche inconveniente. nostro futuro, le reazioni e i comportamenti. Il passato è fondamentale e continua a ritornare. Per quanto riguarda il mio romanzo, come ho detto, non avrebbe potuto avere una struttura diversa, mentre il secondo, che è in preparazione e su cui sto lavorando, sarà un libro diverso, con una struttura diversa, ma posso dire che ci saranno sempre questi ritorni della storia al passato, perché i personaggi, soprattutto il protagonista maschile, sono influenzati dal passato così come sono influenzate dal passato le loro azioni nel presente. Non sarà forse una trama altrettanto complessa, ma ci saranno ancora questi interludi. Leggendo la sua biografia, lei sembra avere molto in comune con Razi: si riconosce in lei o, piuttosto, in un altro dei personaggi femminili? Potrei dire che capisco profondamente Razi, un po’ perché questo personaggio è un’attivista ed anch’io lo sono stata negli anni ’90. Inoltre posso dire che, grazie al rapporto che mi lega al mio partner Tod, io sono riuscita a raccontare l’amore fra Razi ed Andrew, un rapporto profondo ed esclusivo. È vero però che sono anche molto diversa da lei e che ho molto in comune con Twolly. Capisco profondamente vari aspetti dei caratteri di ogni personaggio, sia maschile, sia femminile, altrimenti non sarei stata in grado di descriverli. C’è un po’ di me in ognuno di essi. Quindi, per descrivere un rapporto ed una passione così esclusivi l’immaginazione non è sufficiente, oc- Bambino C prodigio A e bugiardo T A L O G O corre anche l’esperienza? Sicuramente l’immaginazione è importante perché, di fatto, il rapporto che c’è fra Razi e Andrew non uguale a quello che io ho con Tod, però posso dire che nel mio caso l’esperienza è stata importante per rappresentare il nucleo di questo sentimento e della sua profondità. Vedremo che cosa succederà nel prossimo romanzo, dove il narratore è un uomo - e io non sono mai stata un uomo! - e dove, quindi, l’esperienza non potrà aiutarmi: dovrò basarmi sulla capacità di empatia, sull’intuito; cosa che del resto ho fatto anche per quanto riguarda i personaggi maschili di questo libro. Ricorre nel romanzo il tema dell’emancipazione femminile, soprattutto sessuale, dell’uguaglianza fra i sessi, dei rapporti uomo-donna. Le stava a cuore parlare di queste problematiche o era semplicemente un argomento funzionale alla trama? Sono tematiche che mi interessano fin da quando ero più giovane. Ricordo che quando ero alle medie, avevo circa dodici anni, il mio professore di storia ci aveva permesso di organizzare un dibattito in classe su una legge che riguardava l’uguaglianza dei diritti fra uomini e donne, un emendamento che poi non stato ratificato, ma di cui si parlava molto. A dodici anni ero forse un po’precoce, ma capivo questi argomenti e mi rendevo conto di come si inserissero in un contesto più vasto che andava oltre quella legge. Sono questi i temi che si ritrovano nel romanzo, ma che io non ho imposto ai STEFHEN FRY "Il bugiardo" Trad. Marco Rossari pp. 310, euro18,50 Baldini Castoldi Dalai, 2006 La storia di un incredibile bugiardo, Adriano Healej, bambino prodigio che vive per strada e le cui bugie escono dalla sua bocca con voce ipnotica di verità. La sua infanzia è tutta piena di macchie e oscurità fino all’università dove con le sue strategie potrebbe fare carriera ma viene smascherato da un professore che lo convince a usare il suo diabolico genio per alcune operazioni nei servizi segreti. È pure un genio nel proporre un pornografico Dickens. Healej muove tutto tra comico e drammatico. personaggi. Razi è nata figlia di una suffragetta ed è stata così fin dall’inizio. È chiaro che volevo anche trovare un elemento di connessione fra Razi e Amy, ed ho riproposto preciò le problematiche legate al rapporto fra i sessi. Parlando di rapporti fra i sessi, oltre all’amore, il romanzo è pervaso da forti legami di amicizia, sia fra persone dello stesso sesso, sia fra uomini e donne… Sicuramente quella dell’amicizia è una componente molto importante. Negli Stati Uniti abbiamo un detto che suona pressappoco così: «gli amici sono la famiglia che ti scegli». È fondamentale la ricchezza che gli amici portano alla nostra vita, perché se è vero che i familiari ti conoscono in maniera più profonda perché c’è un legame di sangue, gli amici ti danno dell’altro. Nel romanzo ci sono forti amicizie fra Amy e Chloe e fra Razi e Twolly e, in questo caso, con un affetto che dura dopo la morte a distanza di decenni. Nessuno prima d’ora mi aveva fatto questa domanda sull’amicizia, cosa che trovo sorprendente, proprio perché è un tema che ricorre. Io, ad esempio, ho amici di lunga data,che conosco fin da quando ero bambina, ed altri che ho incontrato successivamente. In entrambi i casi, gli amici mi hanno dato molto ed hanno giocato un ruolo molto importante nella mia vita. Nel romanzo ci sono diversi riferimenti a religioni, credenze, teorie scientifiche, ma alla fine Razi dichiara di essere un’anima. Può approfondire questo aspetto? Quando stavo elaborando il personaggio di Razi, il mio mentore mi ha fatto una domanda. Mi ha chiesto: «Che cosa pensa di essere Razi?». Io sapevo che questo personaggio era più empirico, orientato verso la scienza e non avrebbe mai creduto nella vita oltre la morte, almeno nel modo in cui viene tradizionalmente spiegata e descritta. Quindi ho fatto ricerche, anche nell’ambito della fisica quantistica, per cercare di contestualizzare in maniera diversa questo concetto. Razi, allora, è arrivata a vedersi come anima in senso scientifico e non solo religioso. Storicamente, se ritorniamo a Platone e via di seguito, scienza e religione sono sempre state in stretta connessione. Solo più di recente è stata operata una netta divisione fra i due ambiti, che qui vanno a ricongiungersi. Anima, dunque, ma non in senso esclusivamente religioso. Io sono stata educata nell’ambito della religione cattolica, ma mentre scrivevo, ho capito che c’era un modo diverso di intendere l’anima, che poteva essere vista contemporaneamente anche in senso scientifico. È solo una questione di linguaggio: non si ascrive ad un ambito piuttosto che ad un altro, ma semplicemente è un modo diverso di descriverla a parole. Visto che la fine non è chiara e che a lei possiamo chiederlo: che cosa stanno facendo adesso Razi e Andrew? Dipende da come si legge e si interpreta l’ultimo paragrafo del romanzo! Mi è capitato di ricevere e-mail di lettori che mi chiedevano: «Ma che cosa succede davvero alla fine?», e mi hanno scritto la loro versione. La mia risposta è stata che se per loro la fine era quella, andava bene così. Ho voluto scrivere la parte finale tale da non supportare un modo di credere o un altro, ma da lasciare il lettore libero di pensare ad un proprio finale. La cosa importante è che rimanga un senso profondo di connessione con la storia. GIULIO MOZZI CARTA E TAVOLETTE È l’8 luglio. Sono a Tortona. L’articolo che avevo spedito a Gianni Bonina ieri, da Milano, non è arrivato a destinazione. Non è la prima volta che succede. Forse c’è un destino che si accanisce su di me. In questo momento sto dettando un nuovo articolo all’amico Demetrio Paolin. Demetrio è di Torino, ma in questo momento è a Bologna. Tra un quarto d’ora, quando avremo finito, spedirà l’articolo alla redazione di Stilos che è Catania. Per molti anni s’è parlato di morte del libro: si profetizzava che in breve tempo saremo tutti andati in giro con delle tavolette elettroniche contenti centinaia o miglia di testi, e che il risparmio di carta sarebbe stato grandioso. In realtà l’esperimento degli e-book è stato fino ad oggi fallimentare. Il libro di carta è un oggetto troppo comodo, troppo tecnologicamente perfetto, troppo fissato nella nostra idea di che cos’è la lettura e di che cos’è il mondo. Niente potrà convincermi che questo piccolo parallelepipedo di fogli sfogliabili sia meno adatto alla lettura di una tavoletta elettronica. Come tanti grandi viaggiatori o pendolari io uso il treno come sala di lettura. Non c’è un luogo più comodo per leggere di una poltrona di un Eurostar, e si impara abbastanza in fretta a focalizzare l’attenzione su di un testo, lasciando fuori le chiacchiere dei vicini, gli strilli dei bambini e gli annunci del capotreno. La lettura per me è una esperienza delocalizzata ed è proprio la disponibilità del libro di carta alla delocalizzazione che me lo fa preferire a qualunque altro supporto della lettura. Tuttavia, in questo preciso momento, sto facendo l’esperienza di una scrittura completamente delocalizzata. Io non sono a casa mia, Demetrio non è a casa sua, il testo che sto dettando si materializzerà in una città distante mille chilometri da dove sono io e da dove è Demetrio, e poi sarà distribuito per tutta l’Italia. Potrei domandarmi, a questo punto, che cosa c’è di materiale nella mia scrittura, in questo testo che non potrò rileggere, che non sto scrivendo con le mie dita, che viene scritto da Demetrio con le sue dita su un supporto elettronico e che io potrò vedere solo quando, con i tempi lunghi delle Poste, Stilos mi arriverà a casa. E mi rispondo: non c’è quasi niente di materiale. L’atto di scrittura di questo articolo somiglia più alla lettura di un testo su una tavoletta elettronica che alla lettura di un libro. Non è allora che il mio pregiudizio verso le tavolette elettroniche è appunto un semplice pregiudizio? Non è che io stesso così appassionato alla carta la sto già tradendo e abolendo nel dettare questo articolo? Certo: per decenni e decenni i corrispondenti dei giornali hanno scritto i loro articoli dettandoli al telefono, soprattutto quando si trovavano a fare cronaca dell’emergenza. Questo, peraltro, è un articolo scritto da me che sono «uno scrittore» e scritto anche da Demetrio, che è anche lui «uno scrittore». Questo articolo, benché sia un articolo, dovrebbe essere comunque un «oggetto letterario». Però non ha né tempi né modi di scrittura di un oggetto letterario. Si può dire: anche Dino Buzzati, che era «uno scrittore» molto più di me e Demetrio messi insieme, quando mandava certe sue corrispondenze al Corriere della Sera, le dettava al telefono. Eppure oggi quelle corrispondenze sono raccolte in libri e sono sicuramente letteratura. Come spesso mi succede, sono capace delle domande, ma non ho idea di dove stiano di casa le risposte. Magari ne parliamo un’altra volta. 18 ’omaggio a E.M. Forster è palese fin dalle prime righe del romanzo Della bellezza di Zadie Smith e i lettori che conoscono Casa Howard saranno deliziati di seguirne le tracce, riconoscendone i segni pur modificati e arricchiti per inserirli nel nuovo contesto del secolo XXI. La lettera di Helen Schlegel alla sorella con cui iniziava il libro di Forster è qui sostituita da una e-mail di Jerome Belsey a suo padre; una Helen estatica annunciava il fidanzamento con Paul Wilcox, un Jerome esultante annuncia il suo con Victoria Kipps; là un telegramma e qui un messaggio di posta elettronica, che smentiscono quanto detto, non arrivano in tempo per fermare l’intervento di un parente che si precipita sul posto. «Non siamo più nel 1910!», dice Kiki Belsey, e infatti l’opposizione tra il mondo «dei telegrammi e della rabbia» dei Wilcox e quello dell’intelletto delle sorelle Schlegel è sostituito nel romanzo della Smith dal contrasto tra i liberali Belsey e i conservatori reazionari Kipps; le classi sociali nettamente distinte nel romanzo di Forster sono scomparse nella società multietnica dalle molte possibilità che Zadie Smith ritrae così abilmente, come già nel primo romanzo che l’ha resa famosa, Denti bianchi. È come se Leonard Bast, il misero impiegato con ambizioni culturali di Casa Howard, ce l’avesse fatta ad elevarsi, perché l’inglese bianco Howard Belsey, figlio di un macellaio, è diventato un accademico e sua moglie Kiki, la cui trisavola era una schiava, è direttrice d’ospedale, nonché proprietaria della bella casa in cui abitano, lasciata in eredità alla nonna da un dottore bianco (forse un tentativo di mettere a tacere i sensi di colpa?). Ma c’è sempre un Leonard Bast in ogni società e in Della bellezza il suo posto viene occupato da un giovane di colore, Carl, poeta e musicista di strada che i Belsey incontrano ad un concerto - e qui Zadie Smith prosegue nel suo gioco con il testo di Forster: i risvolti comici del furto dell’ombrello di Leonard da parte di Helen Schlegel si ripetono in quello del lettore di cd preso per sbaglio da Zora Belsey. I Belsey contro i Kipps, dunque, in tutti i campi, ad iniziare da quello dell’arte: il pittore Rembrandt, soggetto di studio sia di Howard Belsey sia di Monty Kipps, viene glorificato da Monty e visto da Howard come un semplice artigiano per niente trasgressivo o originale; in contrasto con Howard, Monty Kipps è strettamente religioso e sostiene che l’uguaglianza è un mito, che la società multiculturale è un sogno, che le minoranze esigono una parità di diritti che non si sono meritata. Per non dire che lui - il nero che «è arrivato» - continua a parlare con disprezzo dell’«uomo di colore», come se si compiacesse a guardare gli altri dall’alto del suo successo, escludendoli. Ed è a questo punto, al di là dei vari episodi in comune che hanno il romanzo inglese di un secolo fa e quello della giovane Zadie Smith, che ci interroghiamo sulla possibilità dell’utopistico desiderio espresso nel motto introduttivo di Casa Howard che è poi anche la chiave di lettura di tutti i romanzi di Forster: «Only connect». Fino a che punto è possibile connettere due mondi, due diverse concezioni di essere, due interpretazioni del proprio posto nell’ordine delle cose? Il quadro che rappresenta la Venere Nera o la Vergine Violenta - l’eredità discussa che nel libro della Smith sostituisce l’ambita casa di Mrs. Wilcox in Forster - è forse la risposta della giovane scrittrice, figlia di padre inglese e madre giamaicana: l’immagine è quella di una donna nera, interamente nuda, circondata da piante e uccelli tropicali. Rappresenta tutto, l’amore ma anche la gelosia, la bellezza e la purezza ma anche la vendetta e la discordia, la fortuna, la buona volontà e S t los Nella foto Zadie Smith, autrice per Mondadori di Della bellezza L La moda C double A face T A L O G O ZADIE SMITH. «Nella mia vita ci sono l’arte e mio marito. Per molti scrittori l’arte ha preso il primo posto, ma per me l’amore è la cosa più importante. Credo nell’amore e nell’apprezzamento del mondo. Ma rinuncerei a tutto per amore. Spero di non doverlo fare. La bellezza è la bellezza dell’amore» Prove di connessione tra due mondi opposti LIGURE, VIVE A MILANO, IL LIBRO DOVE HA INSEGNATO INGLESE ZADIE SMITH "Della bellezza" Trad. Bernardo Draghi pp. 514, euro 19 Mondadori, 2006 NEGLI ISTITUTI SUPERIORI. SI OCCUPA DI TRADUZIONI MARILIA PICCONE la salute. Sono temi che appaiono tutti nel romanzo di Zadie Smith che incominciava con la storia d’amore abortita tra l’ingenuo Jerome e l’esperta Victoria per poi esplorare l’unione coniugale di Howard e Kiki, sostenuta dalla generosità di lei, indebolita dai tradimenti di lui e definitivamente affossata dalle sue menzogne - pari a quelle del suo ipocrita rivale, Monty Kipps. Stilos ha intervistato Zadie Smith, che ha appena ricevuto l’Orange Prize per questo romanzo, il maggior premio inglese per un libro scritto da una donna. Della bellezza è il suo terzo romanzo: come ci si sente ad essere così giovane ed avere già scritto tre romanzi? A volte mi sento soddisfatta e a volte mi sembra di avere fatto poco tra i 20 e i 30 anni. Anche scrivendo solo 500 parole al giorno, avrei potuto scrivere chissà quanto: sembra molto lavoro, ma non lo è. A volte mi pare che 10 anni della mia vita siano andati in fumo. Ho scritto tre romanzi ma, nella vita reale, è come se io non avessi fatto niente. Quando scrivo non mi occupo d’altro, tutto resta in attesa, sembra proprio che non faccia nulla e può essere irritante per chi mi sta vicino. Passo il tempo a rimuginare: forse sarebbe stato meglio avere una vera e propria occupazione per passare il tempo. Casa Howard è il romanzo che preferisce di Forster o l’ha scelto perché le offriva il materiale migliore per sviluppare il suo romanzo? No, paradossalmente Casa Howard non è il mio libro preferito di Forster, quello che preferisco è Maurice. Mi è YUNIJA KAWAMURA "La moda" Trad. Maria Luisa Bassi pp.161, euro 11,50 Il Mulino, 2006 Nella moda si distingue il prodotto materiale che è il capo d’abbigliamento dall’idea culturale. Ciò porta a sfatare il mito dello stilista come creatore e artista che viene oscurato dal sistema delle istituzioni, della pubblicità, del giornalismo ecc. Un gioco di successi e sconfitte il cui svolgimento sfugge ai consumatori per i quali la moda risulta un fatto sociale e culturale e si risolve in un fenomeno appariscente e tutto sommato incomprensibile. Professori universitari in stato di rivalità Howard Belsey, inglese, studioso di Rembrandt, vive in una cittadina americana assieme alla moglie, l’afroamericana Kiki, e tre figli. Quando un altro accademico suo rivale, il caraibico Monty Kipps, arriva dall’Inghilterra per insegnare nella sua stessa università, scoppia tra di loro un conflitto su ideali e professione, coinvolgendo le famiglie in una crisi di identità di coppia. Eppure, quello che emerge dai contrasti è il valore della bellezza della vita umana. difficile rispondere, anche perché, da quando è stato pubblicato il romanzo, la mia passione per Forster è andata scemando, credo che non lo leggerò mai più. Originariamente sono stata attratta dall’empatia di Forster, dalla sua volontà di esprimere simpatia verso gli altri. Forster non è un esteta come Henry James, non è un moralista come Jane Austen, è un inglese della periferia, è un uomo di compagnia, è socievole. Mi piace Virginia Woolf, ma supponiamo che io potessi incontrarla e chiederle di prendere una tazza di tè insieme: lei mi direbbe certamente di no, mentre Forster direbbe: «Sì, con piacere». Forster era una persona molto generosa che amava stare con gli altri, sentiva che la vita vera è quella intima: avrebbe tradito il paese per un amico. Questa volta solo una piccola parte del romanzo si svolge in Inghilterra e la maggior parte negli Stati Uniti, come mai? L’ho fatto anche per mettermi alla prova. In parte c’è stata, alla base, la mia paura di diventare troppo inglese, il prossimo libro, però, sarà ambientato di nuovo a Londra. Mi piaceva l’idea di variare, di descrivere un altro paesaggio, una diversa maniera di sta- Cia, da cacciatore a preda re nel mondo. E poi l’America è, oltre all’Italia, il paese straniero che conosco di più e che amo. Quando è stata per la prima volta in Italia? L’Italia è stata il primo paese straniero che ho visitato, quando avevo 14 anni e sono stata invitata dalla famiglia di un’amica ad andare con loro nella casa che avevano affittato a Tellaro. E a novembre verrò a vivere a Roma per un anno, perché voglio imparare l’italiano. Le mie letture mi avevano dato un’idea romantica dell’Italia e ho trovato che la realtà coincidesse appieno con quell’idea. Per un inglese è un sollievo gustare la gioia cattolica del piacere. Perché qui la gente si diverte e poi chiede perdono, non si macera nella colpa. Bisogna aver vissuto nella cupezza dell’atmosfera protestante per capire che cosa voglio dire. Uno dei punti più discussi nel romanzo è il diritto allo studio a cui si oppone Monty Kipps. Come pensa si possa gestire questa esigenza messa in luce di recente dal numero di volontari per la guerra in Iraq che non avevano altre alternative? Il diritto allo studio in un’epoca in cui praticamente moriremo tutti sul BARRY EISLER "Rain Storm, Pagato per uccidere". Trad. Gianni Pannofino pp. 361, euro 16,50 Garzanti, 2006 Jihn Rain ha chiuso con la Cia ma la sua esperienza in fatto di uccisioni gli fa accettare un ultimo incarico. In Medio Oriente dovrà eliminare un tafficante d’armi. Qualcun altro ha il suo stesso incarico e capisce allora che lui è il bersaglio di quella missione insidiosa. Diventa la pedina di un gioco pericoloso tra cacciatore e preda. Rain Storm. Pagato per uccidere ci mostra un Oriente nero, violento e cospiratore. Assassino con alte protezioni posto di lavoro è una priorità: quei tre anni dedicati allo studio sono una necessità per tutti, rappresentano una libertà di cui tutti dovrebbero godere. Ed è demoralizzante vedere che non sia la meritocrazia il criterio di ammissione alle università. In America c’è questa legge dell’azione positiva, ma è demoralizzante dovere l’accesso all’università al fatto di essere nero. Penso che ci dovrebbe essere una procedura selettiva caso per caso. Quando feci domanda a Cambridge, era chiaro che la mia preparazione non era buona quanto quella degli altri e che i miei voti non sarebbero stati uguali ai loro, ma i miei esaminatori hanno fatto una scommessa su di me. Non si possono basare le ammissioni su una legge: una legge è troppo rigida, non può andare bene per un procedimento selettivo del genere. Il romanzo è anche l’anatomia di una coppia: è essenziale la fedeltà nel matrimonio? Sono sposata da troppo poco tempo per sapere come reagirei in caso di tradimento. Chiunque sa che ci sono diverse maniere per non essere fedeli. Il mio impegno spirituale e mentale è una cosa molto profonda, non tradirei mai, come non tradirei un amico. Nella coppia Kiki-Howard, Kiki sopravvivrà sempre, il problema è quale vita avrà Howard, se imparerà qualcosa. Kiki resta nel matrimonio per amore di lui, perché le donne sono emozionalmente più indipendenti. I Kipps contro i Belsey: i Belsey ci piacciono di più, anche se Howard è il meno amabile di loro e Levi il più simpatico. Levi assomiglia a qualcuno che conosce? Il personaggio di Levi è basato sul mio fratello minore. Da bambina ero solita pensare che la mia vita sarebbe stata più felice, che avrei trovato le risposte a tutto, che avrei capito tutto, quando avessi avuto più cultura, quando fossi stata più istruita. E poi ti imbatti in qualcuno come Levi che non ha alcuna idea della cultura, non gliene importa niente ed è felice lo stesso. Mi interessa il mondo in cui si muove mio fratello, così limitato e in cui lui si trova così bene. Faccio un esempio, forse ne parlo anche nel libro. Stavamo aspettando insieme un treno sul marciapiede della stazione e io leggevo un libro su Enrico VIII. Mio fratello mi ha chiesto perché lo leggessi e gli ho risposto che mi interessava la storia. Di rimando lui mi ha chiesto «Perché?». Ecco, mio fratello è tutto lì, eppure anche in questa vita limitata può trovare felicità e soddisfazione più di altri. C’è una scena in cui Carlene Kipps dice che quello che importa nella vita è per chi si è vissuto - e lei ha vissuto per l’amore. Non le è mai importato del mondo ma le è importato della sua famiglia. Kiki Belsey, così generosa in tutto, è un passo avanti a Carlene? Sì, penso di sì. Mi stupisce sempre osservare come ci siano donne con una grande famiglia che si dedicano con amore ai figli derivandone grande felicità e ce ne siano altre che invece si dedicano alla politica, ad esempio, e tutto il resto è secondario. Kiki è più completa di Carlene e forse, poi, Carlene appartiene ad un’altra generazione, è sottomessa all’idea della maternità. Kiki sembra avere una capacità più ampia di affetti e di interessi. Il romanzo termina con la descrizione di un ritratto della moglie di Rembrandt dipinto dal pittore: è questo che significa il romanzo Della bellezza? Che la bellezza dell’arte coincide con quella dell’amore? La mia vita è molto esplicita riguardo a questo: nella mia vita c’è l’arte e il mio rapporto personale con mio marito. Per molti scrittori l’arte ha preso il primo posto, ma per me l’amore è la cosa più importante nella vita. Credo in quello, nell’amore e nell’apprezzamento del mondo. Ma rinuncerei a tutto per amore. Spero di non doverlo fare. La bellezza è la bellezza dell’amore, prima di tutto. RENNIE AIRTH "Marea rossa" Trad. Stefano Bortolussi pp. 403, euro 17 Longanesi, 2006 L’ispettore Madden, dopo dieci anni, rimuove la morte della moglie e della figlia risposandosi con una dottoressa che gli ridà la serenità. Ma si ripresentano delitti di vittime innocenti che risvegliano in lui l’istinto della caccia che gli aveva permesso tempo prima di catturare un criminale introvabile. Ricerca l’assassino di bambine ma si presenta una spiacevole verità: l’assassino è protetto dai servizi segreti inglesi, ma Madden non desiste. Altro pagina autori stranieri WALTER PEDULLÀ ATTENTI AL FIATO Da alcuni anni, forse decenni, mi capita di far parte, o persino presiederle, di almeno cinque giurie di premi letterari (ma potrebbero essere il doppio). Così succede che io incontri una cinquantina di critici letterari, narratori o professori di letteratura contemporanea. Anzitutto un’occasione per parlare di narrativa, poesia e critica come sempre più raramente capita di fare altrove. Un luogo di confronto, una delle ultime spiagge della conversazione culturale. Il meglio dei premi è quello che c’è dietro. Una volta si litigava molto. Ci si collocava su versanti opposti: neorealisti o neoermetici, sperimentalisti o nostalgici, neoavanguardia o tradizione del nuovo, gaddiani contro moraviani. Ora invece il clima è più disteso: conta il libro in sé, fuori corrente, che non tira più da nessuna parte. Meno attenzione alla struttura (lo scheletro, che è fattore di dinamismo culturale), più orecchio verso la scrittura (che non ha più fretta di andare altrove). Molti libri sono scritti bene ma non leggi più di cinquanta pagine. Si comincia col dire quasi sempre: «Brutta annata! C’è poco da leggere, fatico a indicare un titolo, comunque non più di uno o due, altra cosa i narratori stranieri, ce ne sarebbero tanti tra loro da segnalare». Al che qualcuno giustamente obietta che tra i candidati c’è un bravo scrittore finlandese (per esempio, Paasilinah), un turco (Pamuk), uno spagnolo (Marias), un portoghese (Antunes), i due soliti israeliani, un francese (per esempio, Houellebecq), due inglesi, tre americani del Nord e qualcuno del Sud (in verità sempre di meno), un tedesco (Timm), un paio di giapponesi (Ishiguro?) e di cinesi. Insomma narratore in rappresentanza di una nazione o di una lingua. Se però ci si potesse limitare a qualche narratore, due o tre li avremmo pure noi italiani negli ultimi dieci anni degni di essere esportati. Si impara molto alle riunioni delle giurie, se non si passa subito ad elencare i propri autori. C’è qualcuno che propone un testo noto e un’interpretazione notevole. Ho cambiato opinione dopo aver ascoltato un collega, e qualcuno potrebbe averla cambiata per aver sentito le ragioni per cui sostenevo un altro libro. Cadono spesso le candidature di comodo o di necessità, il regalo a un amico, la gratitudine a un editore. Chi ha messo in conto tutto ciò non si scandalizza. D’altronde nei piccoli e medi premi, gli editori esercitano una pressione minore, diciamo proporzionale agli effetti sul mercato. E ci sente più onesti e incorruttibili. Non essendoci quasi più il conflitto culturale, esplode lo scontro dei gusti personali. Dopo le impressioni buttate lì, si entra nel merito e si motiva il parere: il gusto è ancora una buona chiave per entrare in un testo. Quando si passa da trenta libri a tre, il fiuto individuale diventa un’altra cosa. Così, partendo da percorsi diversi ci siamo incontrati, c’è stata convergenza, anzi unanimità, o quasi. Tutte le strade conducono ancora a Roma? Facile mettersi d’accordo su Caos calmo di Veronesi (Bompiani) o Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti.(Feltrinelli): li spingevano le recensioni favorevoli. La sorpresa maggiore ci fu quando scoprimmo che a tutti erano piaciuti i racconti di Piero Grossi, specialmente il primo della raccolta che si intitola Pugni (Sellerio). In tal caso il gusto è ancora deperibile o possiamo tornare a chiedergli di aiutarci a distinguere un libro bello da uno brutto? A chi esalta il fiuto, qualcuno risponde: «Attenti al fiato!». « a politica culturale egiziana manca di credibilità» ha dichiarato Gamal Ghitani in un’intervista al settimanale egiziano "al-Ahràm Weekly". Non sorprende dunque che nel 2004 abbia rifiutato di rappresentare il ministero della Cultura alla Fiera del libro di Francoforte, e non abbia ceduto, lo scorso anno, alle lusinghe del premio della Conferenza del romanzo arabo del Cairo. Ghitani è scrittore raffinato, vicino al premio Nobel Mahfuz - al quale peraltro lo lega un’antica amicizia - per temi e temperatura stilistica, e dirige al Cairo la prestigiosa rivista letteraria "Akhbar al-adab", dopo essere stato impegnato per anni come corrispondente sul fronte dei conflitti araboisraeliani. Intellettuale disorganico, sempre critico nei confronti del potere, nel 1966 fu incarcerato con l’accusa di aver aderito a un gruppo marxista clandestino. Di questo periodo della storia egiziana non è difficile ravvisare echi in Schegge di fuoco, suggestivo libriccino di racconti scritti tra il 1992 e il 1996 e pubblicato lo scorso anno da Jouvence, per il quale ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera. Stilos lo ha intervistato. Lei è il primo scrittore arabo - o meglio, il primo arabofono - a ricevere il Premio Grinzane. Pensa che questa occasione possa rappresentare per l’Italia una vera prova di apertura nei confronti di una letteratura ancora pressoché sconosciuta? Sono molto contento di questo premio perché sono convinto che sia un’occasione importante, sia per la cultura italiana, sia per quella araba. Perché le due culture - ma in generale la cultura islamica e quella occidentale - negli ultimi dieci anni si sono notevolmente allontanate l’una dall’altra. Nel passato un simile distacco non s’era mai dato, e anzi i contatti, anche quando erano soltanto quelli commerciali, sono sempre stati molti. La letteratura in questo senso può costituire un ponte tra Oriente e Occidente. Non solo la letteratura. Io sono uno scrittore ma mi ritrovo a rispondere ai giornalisti a domande riguardanti l’Islam, il terrorismo. Come se la nostra cultura si fondasse sul terrorismo. Siamo in parte responsabili come arabi, ovviamente, di questo atteggiamento, ma siamo, al contempo, anche vittime di un pernicioso pregiudizio. Siamo diventati tutti terroristi o esperti di questioni religiose e politiche. Edward Said in una intervista disse L EMILIA PAGLIANO arrone, giallo, azzurro: ogni capitolo del romanzo La Madonna di Excelsior del sudafricano Zakes Mda si apre con la tavolozza dei colori di padre Claerhout, singolare prete cattolico che dipinge scure madonne nude. Il marrone della terra e della pelle dei nativi del Sudafrica, il giallo dei girasoli che occhieggiano al sole, l’azzurro dei mantelli delle madonne sulle forme nude e quello degli incredibili occhi di Popi, la protagonista che racchiude in sé la storia tormentata di un paese. Popi è una dei bambini comparsi a giudizio con le madri di colore in un processo che verrà ricordato come dei «19 di Excelsior»: 14 donne nere e 5 uomini bianchi erano stati imputati di aver infranto l’Immorality Act, la legge che proibiva rapporti sessuali o relazioni di qualunque tipo tra le due razze. Il processo, nodo centrale della prima parte del romanzo, diventa una grande farsa, il trionfo dell’ipocrisia, la glorificazione dell’immoralità dell’Immorality Act: tutti sanno che è tradizione che i giovani afrikaner perdano la verginità sotto le gonne delle loro «tate» nere, che è difficile resistere all’attrattiva sensuale delle donne di colore, che è ancora più difficile per le donne sottrarsi alle voglie dei bianchi, la prova che rapporto carnale c’è stato è davanti agli occhi di tutti, in quei bambini per cui si inventa la denominazione di «colorati» e che verranno disprezzati da ambo le parti («tutte queste cose discendono dai peccati delle nostre madri», viene spesso ripetuto, con triste ironia). Eppure gli uomini provano a discolparsi, adducendo la trita giustificazione avvallata dalla Chiesa - è il demonio che ha sempre usato le donne nere per tentare gli afrikaner -, finiscono per pagare la cauzione delle donne, tutto si conclude ma niente viene dimenticato. I quadri del sacerdote pittore per cui posano come modelle Popi e sua ma- M GHAMAL GHITANI . L’amore per Buzzati derivato dalla concezione del tempo, della vita e della morte: «Questi sono da sempre i miei temi. L’impossibilità di porsi un obiettivo raggiungibile al di là della nostra condizione di esseri viventi. Ogni grande scrittore si concentra su un tema» Immagino me stesso come Giovanni Drogo VIVE IN PROVINCIA DI SASSARI. DOTTORANDA A LINGUE. COLLABORA A "DIARIO", "L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE" E "LA NUOVA SARDEGNA" SILVIA LUTZONI una volta che il suo celebre libro Orientalismo è stato letto più approfonditamente in Occidente piuttosto che nei Paesi arabi, dove la parola «orientalismo» ha appunto finito per essere utilizzata come un insulto. Penso che avesse ragione a pensarlo. Edward, oltre ad essere un mio personale amico, ha anche scritto la prefazione alla traduzione inglese del mio romanzo intitolato Zaini Barakat. La sua era una coscienza davvero pura, la sua prospettiva veramente originale, se è vero che la sua conoscenza dell’oriente e dell’occidente era una conoscenza dall’interno. Edward è morto ormai da tre anni circa e la situazione è notevolmente peggiorata. La contrapposizione tra culture è diventata sempre più aspra, se è vero che quotidianamente assistiamo alle sortite di una Oriana Fallaci e a criminali che strumentalizzano addirittura i nomi dei primi musulmani - e Abu Mussab, il nome scelto da Zarqawi, era uno di questi - per presentarsi al mondo nel nome dell’Islam. Il problema allora è l’ignoranza. Sì, ci dovrebbe essere uno scambio che porti a una maggiore conoscenza reciproca. L’Occidente spesso dimentica che la cultura araba sta nei suoi stessi fondamenti. Come arabi, allo stesso modo, non possiamo dimenticare che quella occidentale è parte di noi stessi, pensiamo soltanto alla scienza, alla tecnologia. Io credo di avere conosciuto l’Italia prima di tutto attraverso la sua letteratura. Noi, da parte nostra, continuiamo ad essere aperti alla cultura italiana: continuiamo a tradurre libri italiani e, attraverso l’Accademia egiziana di Roma, incoraggiamo i nostri studenti a studiare la vostra cultura, così come allo stesso modo incoraggiamo gli italiani a conoscere la nostra. Quali sono gli autori italiani che ha letto nella sua vita? Ovviamente l’imprescindibile Dante. Anche se devo dire che ci sono alcuni autori contemporanei ai quali mi sento particolarmente vicino, come ad esempio Dino Buzzati, del quale sono stati tradotti in arabo diversi titoli, non solo il più famoso Deserto dei tartari, che ho letto negli anni Sessanta e ho pubblicato nella mia casa editrice per ben due volte. Non esagero quando dico che a volte penso a me stesso come a Giovanni Drogo. Sono molto affascinato anche dai suoi racconti: il mio preferito è, in assoluto, I sette piani. Che cosa la accomuna a Buzzati? La concezione del tempo, della vita e della morte. Questi sono da sempre i miei temi. L’impossibilità di porsi un obiettivo raggiungibile al di là della nostra condizione di esseri viventi. Penso che ogni grande scrittore si concentri, nei suoi libri, su un unico tema, al quale di volta in volta tenta di assegnare un diverso colore. Per Buzzati penso fosse il tempo. Nei suoi romanzi la storia ha un ruolo molto importante. Uno fra tutti Zaini Barakat (edito in Italia da Giunti) tradotto in ventiquattro lingue. Ma, vista e considerata la consolidata tradizione che questo genere ha in Egitto, possiamo parlare di romanzi storici? In realtà Zaini Barakat è quanto di più lontano dal romanzo storico possa esistere. Sebbene sia infatti ambientato nel periodo dei Mameluchi, e sebbene io abbia svolto approfonditissime ricerche riguardo a quel periodo storico, l’ho fatto con il proposito chiaro di modificarlo, quel periodo storico, apportando una specie di contaminazione nel romanzo tra passato e presente che è risultato, pare, il punto di forza del libro. La mappa del Cairo, i nomi delle ZAKES MDA. Sesso e morale in Sudafrica Un processo imbarazzante dre Niki segnano il passare del tempo in Sudafrica: quando il viso di Popi traspare nelle sembianze sia del bambino sia della madonna si avvicina la liberazione di Mandela e la fine dell’apartheid, e la storia personale di Niki - la donna con la pelle deturpata dalle creme sbiancanti - e quella di Popi che pregava perché le lentiggini sulla sua pelle si unissero, per poter sembrare nera come gli altri bambini della township, diventano la storia dell’evoluzione politica di un paese in cerca di un nuovo equilibrio. Stilos ha intervistato Zakes Mda. La Madonna di Excelsior è un libro molto diverso da quello precedente. Verranno dal mare era pieno di storie del passato, di tradizioni e di folklore, La Madonna di Excelsior è colmo di dolore e di rabbia, è un libro più realistico: qual è la causa di questo cambiamento? Semplicemente mi piace adottare uno stile diverso per ogni romanzo che scrivo, ogni romanzo segna un passo nel mio progresso come artista. Così nell’ultimo che ho scritto, che non è ancora pubblicato in Italia, "The Whale Caller", adotto uno stile ancora differente. E tuttavia spero che, anche nella diversità, si senta sempre traccia della mia voce. Ogni capitolo de La Madonna di Excelsior inizia con la descrizione di un quadro: perché? Quando ho deciso di scrivere un romanzo sul processo di Excelsior, ho scoperto che un prete che conoscevo e di cui avevo ammirato i quadri sin da bambino - sono anche io un pittore abitava proprio lì. Ho riguardato i suoi quadri, mi sono reso conto che descrivono perfettamente il paesaggio e la gente del luogo e mi sono detto che, se lui lo aveva già fatto per me, io IL LIBRO ZAKES MDA "La Madonna di Excelsior" Trad. Maria Baiocchi e Anna Tagliavini pp. 298, euro 16,50 Edizioni e/o, 2006 Cittadini di Excelsior davanti ai giudici Nel 1971 diciannove cittadini di Excelsior, nel Sudafrica, furono processati per aver avuto rapporti sessuali tra neri e bianchi. Il bianco che ha sedotto Niki si suicida per la vergogna. potevo descrivere i suoi quadri invece del paesaggio e della gente. I quadri hanno anche un altro intento: possono guarire i miei personaggi, servono nel processo di guarigione dei miei personaggi. Ecco perché ho usato un quadro ad introdurre ogni capitolo. Chi è questo prete-pittore, Frans Claerhout? Forse un simbolo, l’uccello dorato che ha dipinto per lei e al quale lei dedica il suo libro? Non so perché il pittore abbia scelto di dipingere quell’uccello dorato per me: sono andato a trovarlo con mia figlia, aveva uno studio pieno di quadri, mi ha dato un catalogo delle sue opere e poi ha dipinto per me quell’uccello. Frans Claerhout è un pittore molto noto in Sudafrica, ora è molto anziano, è nato in Belgio ma vive in Sudafrica dal 1947. C’è stato veramente, dunque, il processo da cui prende l’avvio il suo romanzo? Il processo c’è stato e si è svolto proprio come racconto nel romanzo. Anche le conseguenze sono state quelle di cui parlo nel libro: un uomo si è ucciso per la vergogna, uno si è sparato in un occhio ed è sopravvissuto. Era un processo imbarazzante per il governo, perché le persone coinvolte erano membri del partito al potere e quindi avevano infranto quelle leggi dell’apartheid che loro stessi avevano promulgato. Ecco perché il processo venne chiuso frettolosamente per insufficienza di prove. Molti romanzi di scrittori del Sudafrica trattano dell’apartheid: è una ferita che si può rimarginare? La fine dell’apartheid è di dodici anni fa, questa è una ferita che stiamo cercando di curare. È ancora troppo recente- basta pensare alla tragedia degli ebrei, avvenuta mezzo secolo fa e ancora sempre presente nella mente di tutti. Parleremo dell’apartheid per molti anni ancora. L’apartheid era il discorso dominante nella società per- pagina Nella foto sopra l’egiziano Gamal Ghitani. In basso il sudafricano Zakes Mda, autore per e/o di La Madonna di Excelsior strade, le tradizioni, i colori dei vestiti, il cibo (nel libro non si parla per esempio del caffè, che in quel periodo era ancora in discussione se fosse permesso dall’Islam oppure no), appartengono al sedicesimo secolo. Ad essi ho aggiunto elementi di finzione ed elementi riconducibili all’epoca di Nasser. La sconfitta di cui si parla, per esempio, non è quella di Sultan al-Ghuri, ma la nostra sconfitta del 1967. Anche per quanto riguarda la lingua sono andato a studiare antichi manoscritti dai quali ho tratto la lingua che ho deciso di utilizzare. È un romanzo metaforico allora. Sì, un buon modo per parlare dell’epoca contemporanea. Quando il libro uscì a puntate sul settimanale indipendente "Rose El-Youssef" tra il 1970 e il 1971, ho dovuto subire le quotidiane visite della censura che, però, non poté che constatare che fosse innocuo dal momento che era, o che poteva essere niente più che un vecchio manoscritto. Nei suoi libri, anche nella raccolta di racconti Schegge di fuoco, un importante ruolo gioca la tradizione mistica sufi. Sono nato e cresciuto vicino alla moschea di al-Husein, una moschea che prende il nome dal nipote martire del Profeta, personaggio molto amato da noi egiziani, nonostante non siamo sciiti. Ho scritto un romanzo di mille pagine, tradotto lo scorso anno in Francia nel quale parlo della storia di al-Husein, di Nasser e di mio padre, il cui titolo è "Kitab at-tagialliyat", libro delle illuminazioni. In questo libro si vede chiaramente quanto la mia visione del mondo sia vicina a quella dei mistici islamici, che si riflette nella lingua stessa che ho utilizzato (sono contro i clichés ogni romanzo porta in sé la sua forma specifica, il suo specifico stile). Questo non significa che mi sento disancorato dalla realtà - sono socialista -, ma negli ultimi anni, essendomi trovato tra la vita e la morte, ho cominciato ad avvicinarmi al sufismo, partendo dall’insegnamento del grande poeta mistico Ibn Arabi, che nelle sue poesie ci ha dato la più grande lezione di tolleranza e di pace. Basti ricordare una delle sue famose poesie nella quale afferma: «Il mio cuore s’è aperto a tutte le forme: è un pascolo per gazzelle, un chiostro per monaci cristiani, un tempio per gli idoli, la Ka’ba del pellegrino, le tavole della Torah e il libro del Corano». Il problema nasce quando si rifiutano le differenze e certi interpreti dell’Islam, per esempio quelli che si richiamano al Wahabismo, considerano se stessi come gli unici portatori di verità e rifiutano le differenze tra i mussulmani. ché toccava ogni aspetto della vita: nella vita privata l’apartheid ti diceva chi potevi amare, in che luoghi potevi entrare, che lavoro potevi fare, quale autobus prendere, in che scuola andare. Era impossibile scrivere una storia ambientata in Sudafrica senza parlare dell’apartheid, neppure una storia d’amore poteva prescindere dall’apartheid. Adesso le cose sono cambiate, molti nuovi romanzi non ne parlano, neppure io ne parlo nel mio ultimo romanzo, "The Whale Caller". Ma ci saranno ancora storie con riferimenti all’apartheid perché continua ad influenzare le nostre vite. Parliamo della riconciliazione tra neri e bianchi e tra gli stessi neri, ma non ci sarebbe bisogno di nessuna riconciliazione se non ci fosse stato l’apartheid. L’apartheid ha creato delle fratture anche all’interno della comunità nera perché c’erano i neri che si avvantaggiavano delle leggi, quelli che le facevano rispettare, quelli che erano scelti dai bianchi per governare gli stessi neri. E la riconciliazione è necessaria anche all’interno della società bianca, perché c’erano i bianchi che sostenevano la lotta dei neri. L’apartheid era il sistema del «dividi e impera». E l’eredità dell’apartheid si farà sentire per molti anni nel futuro. Popi, la bambina che odia i suoi occhi azzurri, è l’opposto della bambina del romanzo L’occhio più azzurro di Toni Morrison che, invece, prega ogni sera per svegliarsi con gli occhi blu: è perché una vive in una società nera e l’altra vive tra i bianchi? D’altra parte Niki, la mamma di Popi, si sbianca la pelle… È vero, è una contraddizione. È così, anche se adesso le donne nere non si sbiancano più la pelle, solo nei villaggi l’uso persiste. Anche perché già il vecchio governo aveva proibito l’uso delle creme sbiancanti, perché nocive. E Popi vorrebbe gli occhi neri per essere come tutti i bambini intorno a lei: forse solo crescendo sarà felice di quel colore diverso che la rende straordinaria. 19 Occidente S t los autori stranieri VANNI RONSISVALLE SUDATE CARTE 2006. Amori, passioni, amplessi focosi. «Due sudori che si mescolano» secondo Whody Allen, ma qualcosa del genere circola anche nell’Ars amandi di Ovidio. Sudori ai riti letterari dell’estate. Sudori, passioni (malcelate, scomposte) telefonate quasi in punto di morte di autori in lizza, timori e tremori che esorbitano dalla letteratura e dilagano come i Cavalieri Mongoli nel deserto del Gobi in territori psicoanalitici, eccitazioni e depressioni. Scrittori sono celebrati, scrittori celebrano, non vi è tempo per passare da una parte o dall’altra del lungo tavolo ora in un ruolo ora in un altro. Come il balletto di Joos ispirato alla Società delle Nazioni nel ’36, statisti in finanziera e braghe a righe del tight che danzano di qua e di là dal tavolo delle trattative. Sudori d’estate. Nessuno si stima, comunque non tanto quanto spergiuri. I luoghi sono belli, ma per quanto tali non compensano gli sfaceli interiori dei partecipanti. Dame tribolate da perversioni sadomaso siedono da decenni imperterrite in prima fila annuendo onnicomprensive qualunque sciocchezza si elabori da parte degli oratori, a loro persino ammiccando. Non ricambiate. Bah! I luoghi sono belli in città monumentali: il grande architetto che disegnò Villa Giulia che ne poteva sapere dello Strega? Sandali dai tacchi acuminati e mocassini di politici che non si sa perché passino da qua, scavano solchi nei vialetti ghiaiosi, sollevano polvere che si deposita sulle basse siepi di bosso, nelle narici più delicate di intellettuali che muovono il capino a scatti, guardinghi come i passeri sui fili del telefono, narici di intellettuali: da cui il fulminante emunthae naris, colpo di genio di un grande critico (Gianfranco Contini) che ad ogni modo non ne era esente egli stesso. Scenderà mai dal cielo una pioggia purificante? Quest’anno è accaduto. Luoghi di mare, cinquine (come alla tombola di Natale benché si sia a luglio, ad agosto, a settembre), finalisti come ai Mondiali del calcio e finaliste ma con sudori meno innocenti nei décolletés abissali e bitumati dal sole… Luoghi di montagna, come non farvi una capatina anche se i migliori degli habituées sono stramorti e raccogliere funghi nei boschi intorno a Cortina costa multe salatissime? Ma una volta si era sparsa la voce che vi crescessero allori sub specie aeternitatis… 1910. Tra carte di famiglia (l’altra, quella etnea) un biglietto da visita di ringraziamento dopo una visita a Zafferana, antico casino di campagna di nullafacenti rentiers a cui Oblomov avrebbe fatto un baffo. Convenevoli autografi alla padrona di casa e data (Catania, 3 luglio 1910) nel margine superiore del cartoncino; e sotto stampato: «Mario Rapisardi non iscrive nei giornali; non accetta nomine accademiche, né candidature politiche; non vuol essere aggregato a nessun sodalizio; non ha tempo di leggere tutti i libri che gli mandano. E di ciò chiede venia ai discreti». Oh sì, il caratteraccio si addice agli scrittori, anche se mediamente importanti. Rapisardi, al di là delle pochezze o grandezze letterarie, ne aveva dignitose ragioni: l’insulto del vate Carducci (…tenorino di provincia…) ma di più, di più per gli infortuni coniugali imputabili a Giovanni Verga, lui già drappeggiato nel successo nazionale… Così si vociferava in quella rovente Catania, il demone meridiano che si intrufola sotto sudaticce lenzuola: allettante sì, ma mai come abbandonarsi alle calunnie, agli odii, ai rancori: oh, letterati! pagina 20 S t los autori stranieri R e c e n s i o n i ENRIQUE SERNA . Dai documenti di un processo ENRIQUE SERNA storico nel Messico del Seicento una storia che "Angeli dell’abisso" combina realtà e finzione per raccontare Trad. Raul Schenardi pp. 521, euro 18 l’Inquisizione come sarebbe piaciuto a Borges Edizioni e/o, 2004 Nella foto sopra Enrique Serna, autore per e/o di Angeli dell’abisso. Sotto Hans-Georg Behr, che da Einaudi ha pubblicato Quasi un’infanzia odia con tutto se stesso il teatro, considerandolo un luogo di perversione diabolica, e teme come la peste l’attrazione che invece la figlia prova verso quel mondo. Si inserisce a questo punto una scena che è forse una sorta di chiave della storia: quando, verso l’inizio del romanzo, il padre sorprende la piccola Crisanta addormentata, ed accanto a lei scopre un libro sulla vita di Santa Teresa. La bambina lo stava leggendo come un copione di teatro per trovare ispirazione in vista di una recita scolastica, ma il padre crede che la figlia sia sulla via di una esaltazione religiosa da lui tanto desiderata. Nasce a questo punto un equivoco di portata strutturale ai fini della narrazione: Onèsimo pensa che la bambina abbia finalmente abbandonato il suo amore peccaminoso per il teatro, quando invece sta succedendo esattamente l’opposto. Poco dopo infatti Onèsimo sorprende la figlia mentre prova in segreto la parte e si convince che sia veramente in preda a crisi mistiche. Crisanta capisce l’equivoco, ma decide di approfittarne: «Aveva scoperto che il teatro poteva burlarsi dei suoi nemici». Siamo nel pieno di una situazione barocca e da questo punto in poi la storia gira a spirale con un movimento «a doppia elica», come quello delle colonne berniniane. Ci si inoltra sempre più nel «giardino dei sentieri che si biforcano» e il ritmo monta in un avvicendarsi di personaggi e situazioni innestati in un quadro storico efficacemente ricostruito: gli intrighi di pote- re, la corruzione della Chiesa, le città attraversate dalla miseria, le vessazioni a cui sono sottoposti gli indios, tutto questo è raccontato con passione e volontà di denuncia, ma anche con il rigore che compete ad un romanzo storico. Del romanzo storico infatti Angeli dell’abisso ha il respiro corale, la dimensione dell’affresco, ma questo è solo uno dei mille volti di una scrittura cangiante che ingloba elementi del romanzo picaresco, mima gli schemi della commedia degli equivoci, echeggia i toni del melodramma, si inoltra nel racconto psicologico e nel finale a sorpresa ricalca persino il modello della fiaba con tanto di deus ex machina risolutivo. La sua cifra più profonda però è forse nella dimensione erotica. Un’accesa sensualità pervade la narrazione intera. Dalle erezioni incontrollabili dell’adolescente Tlacotzin agli amplessi selvaggi che i due protagonisti vivono con gioiosa innocenza, alle depravazioni solitarie che il maligno fra Juan Càrcamo pratica con terribili sensi di colpa, all’esaltata passionalità della giovane Leonor, alle fiammate di eccitazione del vecchio poeta Sandoval Zapata: è una corrente di erotismo che filtra a fatica, arde come brace tenuta al coperto, intrecciandosi ai pregiudizi e alla repressione religiosa, ma che nello stesso tempo attraversa le pagine come una ventata di sano vitalismo. A scene dure, impressionanti per il crudo realismo, si alternano momenti di fresco lirismo, di calcolata suspence, di ironico divertissement, affiorano inserzioni colte che rivelano quando meno te l’aspetti le vastissime conoscenze dell’autore. I personaggi prendono forma con naturalezza e senza schematizzazioni, partecipano del bene e del male, attraversano i confini fra le fedi e le morali, scavalcano conversioni e ricadute, vivono e «recitano» in un immenso palcoscenico barocco. Serna, che è uno tra i maggiori scrittori del Messico contemporaneo, mette in moto una macchina narrativa complessa e geometricamente perfetta. Sapienti colpi di scena, alternanza di comico e drammatico, un ritmo perfettamente calibrato sul respiro, rendono questo romanzo travolgente e leggibile d’un fiato, nonostante la mole. e solite cose: com’è ovvio tutti i luoghi, le persone e gli av- HANS-GEORG BEHR. Una testimonianza dal nazismo venimenti sono liberamente inventati. Casuali somiglianze sono volute». Questa è la nota dell’autore che appare alla fine di Quasi un’infanzia di Hans-Georg Behr. Una nota che dovrebbe sgombrare il campo da equiloro cugini del nord. VIVE A MILANO. "CATTIVO voci sulla quantità di autobiografia Spostandosi con la madre per conSANGUE" (BALDINI, 2005), contenuta nel testo, se non fosse che, a certi il ragazzo conosce Furtwaen"LE COSE COME STANNO" leggerla e a rileggerla, a me è parsa gler, compromesso col nazismo e (BALDINI, 2003) sottilmente ironica soprattutto nel finaquindi fuori gioco, e l’ebreo Bruno le, quando si indicano «causali somiWalter, che invece può riprendere in FRANZ KRAUSPENHAAR glianze volute». La lettura di questo piena forma la sua sfolgorante carrieromanzo sulla guerra e il dopoguerra ra; questi nomi già allora molto famoosservati attraverso gli occhi prensili di traerea ad Amburgo. E il suo capo per si e passati alla storia della musica di un bambino, egregiamente tradotto da il bambino si chiama zio Hermann ogni tempo al ragazzo non dicono Silvia Bortoli, mi ha condotto alla con- (Goering), e oltre a lui ci sono stati in niente, egli è come un fantasma balclusione che Behr abbia voluto gioca- visita altri «zii berlinesi» piuttosto bettante ma intelligentissimo che vere con il lettore ma senza prenderlo in simpatici, come zio Josef (Goebbels), de e annota tutto nella sua mente con giro in nessun modo, mescolando e zio Albert (Speer). innocenza mista a una certa spavaldecom’è giusto verità e una certa dose di Il bambino odia il mondo da subito ria; e quella che per molti sarebbe ecfinzione romanzesca ma basandosi perché è troppo diverso da quello dei cezionalità per lui è solo normalità, proprio su di una solida verità che sol- libri che comincia a sfogliare con famentre soltanto qualche sgranare tanto una sottile ironia, che fa da scor- melica curiosità; e fuori dall’avita di- suicidi, si regolano i conti, ci si ridi- d’occhi, ogni tanto, lo fa un poco sobrevole impalcatura a tutto il romanzo, mora dei nonni nei dintorni di Vienna mensiona nella paura mischiata al sol- balzare dal suo involucro mentale, da poteva a mio avviso rendere capace di c’è gente che marcia restando tutto il lievo per una guerra, ancor più che quella spugna di sensazioni e sentidiluirne la portata alquanto scomoda. giorno in «pigiama». Il KZ per la non- perduta, deflagrata. Eppure il bambi- menti che trattiene tutto; ma niente di Il bambino - così viene chiamato il na del bambino è un posto «dove pri- no, nonostante i divieti, non si sottrae speciale lo colpisce davvero, niente protagonista, senza cognome e nem- ma ti picchiano in modo terribile e poi a certe esperienze: il suo primo in- che gli procuri una particolare gioia o, meno un nome- non può avere alcuna voli attraverso il camino». Nella sua contro col sesso avviene con un pri- all’inverso, un particolare fastidio. colpa se la sua famiglia è stata com- innocenza, il bambino pensa che vola- gioniero russo, tempo dopo assiste al- Gli americani, la prima Coca Cola promessa col regime di Hitler; ha cin- re attraverso il camino, come potreb- l’incontro carnale tra un maniaco ses- che non gli piace, la gomma da mastique anni nel pieno be fare una strega, suale e la dodicenne Elke, che prima care che invece gli piace, la madre che della Seconda dev’essere poi di darsi allo sconosciuto adulto stava deve arrangiarsi e trasformarsi in loR e c e n s i o n i non guerra mondiale, così male. Il nobile per mostrare al quasi ragazzo le sue candiera per «cafoni pieni di boria». fa parte di una fanonno, padre della intimità; la ragazzina verrà in seguito Il ragazzo viene mandato a studiare in HANS-GEORG BEHR miglia aristocratimadre del bambi- uccisa dal maniaco seriale. un collegio di preti e lì conosce vessa"Quasi un’infanzia" ca (Behr è effettino, è un vecchio li- La madre dell’ormai ragazzo, nono- zioni a non finire, soprattutto a caratTrad. Silvia Bortoli vamente figlio di berale che ha sem- stante le perdite (il marito viene giusti- tere omoerotico. Nonostante quel pp. 324, euro 18,50 una cantante d’opre disprezzato i ziato a Norimberga), tenta di tornare al puzzo infernale d’incenso e di ipocriEinaudi, 2006 pera discendente nazisti. La nonna suo vecchio mestiere di cantante d’o- sia, il ragazzo resiste, va avanti, regida una nota famiglia dell’aristocrazia spesso fa le veci della figlia nel pic- pera, fa sfoggio di serate liederisti- stra come sempre tutto anche in queaustroungarica, la Esterhazy-Galaton, chiare il bambino se non ottempera ai che, alterna nevrotiche risa e dispera- st’opera di «rieducazione», sorta di e il padre era un importante industria- suoi doveri, o se, specialmente, balbet- ti pianti; e intanto si procede alla dena- paradossale lavatura dalle macchie di le tedesco) vive nella villa dei nonni ta, cosa assolutamente imperdonabile. zificazione a tappeto dell’Austria, nel- un passato per il quale non ha alcuna mentre il padre è altrove, in Germania, Passano pochi anni e finalmente si ar- la quale è divenuta un’onta essere te- responsabilità. Per i preti del collegio occupato in faccende che a lui, il bam- riva alla disfatta del Terzo Reich: si deschi, per cui gli austriaci ci tengono è un ragazzino viziato, testardo, e conbino, non possono che risultare del cerca di salvare il salvabile, il fratello a separarsi - in tutto e per tutto, anche tinua a balbettare, e quello rimane il tutto incomprensibili. Fare il bambino più grande del bambino, che ormai è per mezzo del ricorso al dialetto - dai suo vizio, la sua mancanza tuttora ima quei tempi e in quel tipo di famiglia quasi divenuto un ragazzo, crede anera compito arduo, o meglio terribile cora nella «vittoria finale» e muore condizione, e non c’era niente da fare: schiacciato da un carroarmato russo gli adulti stessi erano stati picchiati al- vicino a casa. La sorella ingoia una paSenso vietato lo stesso modo dai loro genitori e co- stiglia di cianuro per sottrarsi alla viodi Massimo Onofri sì andava il mondo e ancor di più del lenza dei soldati nemici, il padre litiga mondo, in un certo senso, così si tra- con «zio Hermann», torna in Austria, PREMIO STREGA 2006 smetteva una tradizione inesorabile. poi riparte. Dalla grande casa passa di La madre del bambino - dal cuore tutto: soldati della Wehrmacht in ritiTra i giovani c’è la nostra spesso tarato a temperatura ambiente- rata e in pausa di rifocillamento, e poi più baldi Rimoaldi è «l’addetta alle botte» perché il padre i russi dell’Armata Rossa e i socialisti è sempre via, comandante della con- della nuova Austria. Si consumano perdonabile. Il tempo passa, il ragazzo ha ormai quattordici anni, sta per finire il collegio, le sue sensazioni maturano; e nell’«epilogo» ci sarà una sorta di riassunto che ci porterà a capire che per il bambino divenuto da tempo adulto, sebbene sia finita da un pezzo una lunghissima epoca tragica, al fondo delle cose umane nulla è destinato veramente a cambiare. Ecco dunque cosa ha fatto Behr in questo romanzo di lenta e inesorabile masticazione: attraverso gli occhi vigili ancorché spesso sognanti del bambino-ragazzo, ha mostrato con l’abilità di un affrescatore puntiforme le tragedie di un mondo condannato alla disfatta in un tono del raccontare spesso ironico e puntigliosamente svagato; e in questo modo le stesse tragedie, agli occhi del lettore, come magicamente si ridimensionano. Questo resoconto particolareggiato fino all’ossessione scritto da un adulto quasi anziano (Behr è del 37) sta tutto in una campana protettiva nella quale - tramite il raccontare dell’adulto che filtra con grande abilità lo sguardo d’innocenza del bambino - si attutisce spesso in una configurazione ironica e persino grottesca della realtà patita in un mondo affollato di follia. Per Behr si è trattato, con ogni probabilità, del raccontare la sua storia - e quella della sua famiglia - nel delicatissimo svolgimento di un’infanzia che è, non a caso, quasi un’infanzia. È proprio quel quasi, posto forse per serio gioco davanti alla parola che indica la fase della vita che ci condiziona traendoci tutti verso il nostro destino, che segna il senso di un romanzo fluviale, che macina senza tregua piccoli sbalordimenti, colpi d’occhio, fraintendimenti continui, sensazioni in formazione, sentimenti sfumati, in un meccanismo narrativo che ingrana nomi, dettagli anche minimi, persone di ogni condizione sociale, un refolo di vento e una giornata di sole e una di pioggia battente, tutto quello che il bambino infine divenuto ragazzo ha per la più parte, in un pervasivo dolore, stoicamente visto e vissuto e registrato, e che sostanzialmente è stato il tramonto di un breve periodo di follia collettiva posto all’interno di un tramonto ancora più grande e ora divenuto veramente definitivo, quello dell’impero austroungarico nei suoi decennali singulti d’agonia. ’è un quadro della pittrice messicana Frida Kalho intitolato "Le due Fride" che è un doppio autoritratto, sgargiante e dolente, nel quale l’autrice si scinde in due figure femminili speculari e diversissime. L’artista vuole certamente raffigurare la collisione delle sue due anime, ma forse più in esteso allude alla tormentata convivenza delle diverse identità, i doloranti cocci rotti, di cui si compone l’universo messicano, così divaricato e irto di contraddizioni che affondano le loro radici nella storia più remota, i tempi della colonizzazione, quando l’invasione spagnola si è abbattuta con violenza sulle millenarie civiltà precolombiane originando ferite non ancora sanate. Proprio per questa sua forte valenza evocativa il quadro di Frida Kalho avrebbe potuto benissimo figurare nella copertina di Angeli dell’abisso, romanzo fiume del messicano Enrique Serna ora pubblicato in Italia dalle Edizioni e/o nella cristallina traduzione di Raul Schenardi (che ne è anche il curatore). Ambientata nel Seicento più sulfureo, ai tempi di un Messico ancora fresco di colonizzazione, l’opera di Serna racconta infatti questa natura doppia dei territori colonizzati. Romanzo sontuoso e labirintico (se è vero, come sostiene Borges, che il labirinto è un «giardino dei sentieri che si biforcano», dunque figliolanza del doppio), narra dell’aspirante attrice Crisanta Cruz, che si rassegna a recitare la parte di una «finta beata» in preda a estasi mistiche per sopravvivere in un mondo che la respinge con violenza, ricavando vantaggi d’ogni genere dalla sua messa in scena (alla quale tutti, dal popolo alle famiglie spagnole più potenti, prestano fede come se fosse una vera manifestazione del divino). Realtà e finzione, vita e teatro si intrecciano nel racconto sino a quando Crisanta cade nella rete della Santa Inquisizione ed è condannata a morte. La storia si ispira a un processo reale istituito nel secolo XVII dall’Inquisizione della Nuova Spagna contro Teresa Romero, meglio conosciuta come «la falsa Teresa di Gesù». Tuttavia nel romanzo di Serna non resta quasi nulla del processo reale, il racconto C La donna che si finse beata per sopravvivere VIVE A BELLUNO. "PICCOLO INVENTARIO DEGLI SPECCHI" (STAMPA ALTERNATIVA, 2003) E "UN BELLUNESE DI PATAGONIA" (STAMPA ALTERNATIVA, 2005) ALFONSO LENTINI prende un corso immaginario (e persino il nome della protagonista da Teresa diventa un più sensuale Crisanta). La struttura a specchio è evidente soprattutto nella prima parte, sin nella disposizione dei capitoli che oscillano nella presentazione di due vicende parallele attraverso una sorta di montaggio alternato grazie al quale la storia della bimba Crisanta, stuprata in un clima di impressionante sfacelo morale dal padre alcolizzato, si affianca a quella del ragazzo Tlacotzin, un indio combattuto fra la fedeltà alla religione ormai clandestina dei padri e le suggestioni della nuova fede imposta dai dominatori. Il doppio percorso a sua volta presenta due esperienze di sdoppiatura: Tlacotzin è incerto fra le due fedi ed è scisso in due sofferte identità sino ad assumere un doppio nome (Tlacotzin per i nativi, Diego per gli spagnoli), Crisanta è contesa tra le fascinazioni del teatro (che le derivano da una madre attrice da lei mai conosciuta) e il mondo degradato e corrotto verso il quale vorrebbe instradarla il padre Onèsimo, che a sua volta oscilla fra gli eccessi alcolici e le crisi religiose più o meno sincere che lo sospingono sull’orlo del fanatismo. Nella sua confusa esaltazione Onèsimo L’ A U T O R E Romanzi, racconti ma anche elzeviri Nato a Città del Messico nel 1959, è uno tra i maggiori scrittori e saggisti messicani. Ha pubblicato cinque romanzi, due raccolte di racconti e un volume di saggi, e collabora con importanti testate giornalistiche. È stato tradotto in Francia e negli Stati Uniti e ha ricevuto importanti premi. « L I mostri di un bambino S C A F F A L E DANIEL ARASSE, L’ambizione di Vermeer, trad. Valeria Zini, pp. 153, euro 22, Einaudi 2006 Libro di successo in Francia, L’ambizione di Vermeer è stato eltto anche come uno strumento di approccio all’arte quando si costituisce come «religione della pittura» dallo studioso francese. È il caso di Vermeer del quale Arasse dimostra l’intento di fondo nel creare un effetto voluto in ciò che sembra il risultato ineffabile di una poetica: visibile e invisibile, precisione e indistinzione sono espressamente ricercati dall’artista. JAMES ROLLINS, Amazzonia, trad. Andrea Molinari, pp. 482, euro 8,60, Tea 2006 Quando padre Garcia, sacerdote nella missione di Wauwai in Amazzonia, incontra un uomo emaciato e ricoperto di piaghe che si accascia ai suoi piedi e muore non sa che faceva parte di una spedizione scientifica poi svanita nel nulla. Per la Cia l’uomo è invece Gerald Clark, un ex agente delle Forze Speciali, la cui carriera era stata stroncata dalla perdita di un braccio durante una missione in Iraq. Ora, però, Clark ha entrambe le braccia e per scoprire il mistero il governo incarica Nathan Rand di organizzare una nuova spedizione nella giungla. JAMES PATTERSON, Maximum Ride, l’esperimento Angel, trad. Emanuela Cervini, pp. 496, euro 18,60, Nord 2006 Una nuova storia dal padre del detective Alex Cross: Max ha quattordici anni e vive con cinque ragazzi con i quali non ha legami di sangue, tutti svegli, simpatici, tosti, ma soprattutto tutt’altro che «comuni». Max, Fang, Iggy, Nudge, Gasman e Angel, infatti, sono stati creati da alcuni scienziati e sono cresciuti in un laboratorio-prigione. Ma un giorno riescono a scappare. MATTHEW RELLY, Area 7, trad. Gorge Maag, pp. 459, euro 18, Nord 2006 Il giovane australiano Relly ha un sito frequentatissimo giacché le sue storie appassionano molti. Come quella che vede in azione Charles Russell, nome in codice «Caesar», un ex generale dell’Aeronautica accusato di tradimento che ha fatto installare nel cuore del presidente Usa un microchip per trasmettere segnali ai fini di un attentato. JAENNE KALOGRIDIS, Alla corte dei Borgia, trad. Marina Visentin, pp.290, euro18,60, Longanesi 2006 Alla fine del XV secolo la famiglia Borgia è al centro di insidie, gelosie, divisioni tra signorie e territori della chiesa. Vige la lussuria ed il disordine. Savanarola invoca la fine del mondo. Protagonista assoluta è Lucrezia Boria che sposerà Alfonso, fratello di Sancia, dolce fanciulla che presto però dovrà imparare a difendersi per sottrarsi dagli inganni con l’unica arma che possiede: uno stiletto e la «cantarella», famoso veleno dei Borgia. PENELOPE LIVEL, Un’ondata di caldo, trad. Corrado Piazzetta, pp.223, euro 14,50, Guanda 2006 Pauline è una redattrice freelance, trova concentrazione nella campagna dalla figlia Teresa, il genero Morice ed il nipotino. Anche Morice scrive incontrando spesso il suo editore. A Pauline non sfuggono lo sguardo ed i sorrisi dell’editore diretti a Teresa e rivive l’angoscia di una sua esperienza passata. Nessuno parla, le labbra sigillate. Pauline dovrà risparmiare alla figlia il dolore e trovare la soluzione in quel silenzio assurdo. ARTURO SCHWARZ, Il mondo accanto, pp. 41, euro 10,50, Book 2006 Nella grammatica del suo corpo è segnata la poesia, cui si dedica da sessant’anni. Schwarz, nato ad Alessandria d’Egitto, ma da sempre italiano di Milano, parla il linguaggio di un amore durevole come quello poetico, rinnovato e riscritto quotidianamente dal suo corpo e dalla sua mente. Nel testo due acqueforti di Sandro Chia. S t los schede libri LAVANYA SANKARAN, Il tappeto rosso, trad. Gioia Guerzoni, pp. 220, euro 14, Marcos y Marcos 2006 Lavanya Sankaran, indiana di Bangalore con una formazione accademica targata Usa e una carriera nel mondo dell’alta finanza, ha sempre coltivato la passione per la scrittura letteraria, quasi per compensare l’immediatezza e la rigidità cui è stata a lungo «costretta» come firma del "Wall Street Journal". Il tappeto rosso è il suo libro d’esordio: in otto racconti ambientati nell’India moderna si dipanano come fili colorati gli umori, le sensazioni, le idee di una India moderna, tecnologica, competitiva, dove l’antica danza del kathakali brilla di stelle accanto a quelle più giovani di Bollywood, e dove all’immagine di una India rurale povera si contrappone quella supertecnologica facendo di città come Bangalore le Silicon Valley del subcontinente indiano. Bangalore, la «musa errante» come la definisce la stessa Sankaran, fa da sfondo a un paese in continua trasformazione, mutevole, nomadico nella sua erranza protesa verso la definizione di una nuova identità tra sacro e profano, tra vecchio e nuovo, tra mito e realtà. Lo sguardo migrante di Sankaran legge attraverso prospettive nuove l’esperienza di un mondo femminile che sta contribuendo a svelarsi in un’India dalle infinite potenzialità. Attraverso i suoi personaggi femminili, tratteggiati con una prosa morbida e immediata, Sankaran afferma che la vera «terra promessa» dove tutto è possibile è l’India, che pur continuando a cullarsi nelle calde braccia della tradizione e per contro nelle innumerevoli disparità sociali, vede sorgere mode e tendenze. (Valentina Acava Mmaka) 21 ALMANACCO LOREDANA MAGAZZENI E ANDREA SIROTTI l volume raccoglie una selezione ricca e dettagliata della sensualità e dell’amore nella poesia delle maggiori poetesse contemporanee di lingua inglese. Il testo prosegue l’indagine di Sirotti sulla presenza del maschile nella poesia femminile inglese (si ricordi il bellissimo volume di traduzioni Men/Uomini. Ritratti maschili nella poesia femminile contemporanea, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, 2004, pp. 202, euro 15), selezionando le voci più interessanti del panorama internazionale. La diversa grana di questa poesia sta nella tensione narrativa, quasi che i versi raccontassero storie: sono trame liriche, che tessono scene in cui si affaccia l’umorismo, la tenacia, un realismo che non è mai crudo né mai completamente trasfigurato. Le parabole per declinare l’amore le donne le prendono da mondi tangenti e spesso concreti, così da rendere la passione cerebrale anche corpo, anima che si cucina lenta nel ribollire del tormento, estasi olfattiva, palato insaziabile: «Vorrei rivestire / ogni tuo membro / di una seconda pelle zuccherina. / Voglio sciroppare ogni / dolcissimo pezzo di te. / Voglio amarti / finché i denti mi faranno male» (Gayle Brandeis, Confetto). Il visionario prende l’anima più innocente e perturbante delle favole, nella reinterpretazione giocosa del travestimento fem- I L’umanità secondo le genti nomadi JACQUES ATTALI "L’uomo nomade" Trad. Luciana Brambilla pp-544, euro 25 Spirali, 2006 FELICE PIEMONTESE Escursioni per le strade dell’attualità Nelle poesie di Felice Piemontese, raccolte in questo volume, c’è una scelta meditata e coraggiosa, che è causa ed effetto dell’essere nel tempo, osservatori e protagonisti, dolenti e cinici, speranzosi e senza speranza. È la scelta d’una rappresentazione ontologicamente sommessa che, pur provenendo da una terra spagnoleggiante, tutta scoppiettii e orpelli come Napoli (la città delle carrozze funebri a otto scalpitanti cavalli impennacchiati), rifiuta anche le maiuscole per appiattirsi col mondo dei nostri giorni. Un appiattirsi che tuttavia non cela il sentimento alto che le percorre e le anima, quel sentimento alto leggibile in tanti pensatori-scrittori della Napoli alta, espressione di una grande storia tormentata, capaci di nulla concedere alla rettorica dei luoghi per concentrare il proprio volto serio sulle questioni fondamentali. Oggi Gerardo Marotta, ieri Benedetto Croce e Francesco De Sanctis. Felice Piemontese, con la sua poetica asciutta, imbevuta di implicanze e risonanze che mutuano esperienze maturate con profitto in ambito soprattutto giornalistico, ci conduce per le vie dell’attualità commovendoci, epperò invitandoci a vedere: «Con un piccolo / binocolo, che cercava / di allontanare le metafore», «Questo disastroso naufragio / lo trovo necessario», «C’è stata la guerra, / del resto. Si va a giocare / tra le macerie, tra / gli scheletri dei palazzi / sventrati. Cercano archetipi, / ir- FELICE PIEMONTESE "Il migliore dei mondi" pp. 80, euro 10 Manni, 2006 ridendo la tua verginità / tanto al lungo preservata / di memorabile c’è una gita / a Pompei, in una barca / azzurra, molti anni prima / della catastrofe». E un effetto imprevedibile si avverte subito al termine dell’ultima pagina di Felice Piemontese: la sensazione d’avere attraversato l’allucinata esperienza dei giorni nostri, d’essere amareggiati e consapevoli, ma non scontenti, non demoralizzati, quasi addolciti dal sapore della parola piana sconsolatoria despagnolizzante, quella parola che avevamo già letto nel suo Dottore in niente, ora riproposta: «Un vento selvaggio / ci impedì di passeggiare sulla spiaggia, così inutile il mio / cappello da marinaio appena acquistato, con foto antiche / di Sant-Malo. Sparavano petardi, per tenere lontani / gli animali. Lì di fronte, ad alcune migliaia / di chilometri». Se, come diceva Lenin e ripeté Piemontese, non si può fare la frittata senza rompere le uova, il valore della parola poetica permane anche in una padella nella quale olio rancido e morchioso frigge la sua puzza quotidiana. Domenico Cacopardo EVELIO JOSÉ ROSERO Lettera a una ragazza in bicicletta Un uomo solitario sente il bisogno improvviso di scrivere una lettera per colmare la sua solitudine o forse per sentirsi più solo rimarcando il suo isolamento. Ma a chi scrivere? Camminando nel parco, incontra una incantevole ragazza in bicicletta; è per lei che scriverà. Le parabole per declinare l’amore minile, da sempre caro alle artiste: «Dico solo che vado dalla nonna. / Il cestino è un pretesto furbetto, / una scusa per incontrarlo / nella parte più scura, più profonda del bosco» (Renee Carter Hall, Rosso). Queste scritture franche suonano fresche nelle pagine come spudorate dichiarazioni di pienezza di vita, che spesso s’incrociano con la grandezza di concederla, di poterla mettere al mondo: «Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una donna incinta / al quarto mese? (...) Chi capisce la logica / dietro questo desiderio?» (Sujata Bhatt, Asparago bianco). Alla routine dell’amore quotidiano, fatto di premure e ottemperanze, di riflessioni e sparecchiamenti, contrapposta al gesto estremo del viaggio, della creatività, dell’impulsività sentimentale, è dedicata molta dell’opera poetica di Erica Jong, LOREDANA MAGAZZENI ANDREA SIROTTI (cura) "Gatti come angeli. L’eros nella poesia femminile di lingua inglese" pp. 232, euro 21 Medusa, 2006 da noi conosciuta per i suoi dissacranti romanzi, ma in America celebre poetessa e studiosa del Settecento: «Quest’è il canto della biancheria sporca - / dacché viaggiammo di città in città / accumulando intimo macchiato & camicie sudate / & jeans incrostati & coagulati dei nostri fluidi / & T-shirt raggrinzite dalla nostra gloriosa confusa passione» (Erica Jong, Il canto della biancheria sporca). Segue, nella declinazione di questo iter sull’erotismo femminile, la descrizione della prima volta, così naturale e ar- LORETTA MARSILLI "Il sole è un cowboy" pp. 105, euro 10 Franco Puzzo Editore, 2006 La dipendenza impedisce la libertà li antichi chiamavano gli schiavi «pendagli da forca» e li consideravano dei bugiardi per natura; in realtà era la condizione in cui si trovavano a vivere che li costringeva spesso a una natura infida. Anche le donne, nella storia dell’umanità, sono state spesso costrette a una doppia natura per garantirsi la sopravvivenza. Sembra dunque che la parola «verità» mal si coniughi con la parola «donna»: ad esserne convinta pare l’autrice di questo sfizioso libretto, Lorella Marsilli. Giornalista televisiva e traduttrice, già autrice di novelle per "Intimità" e "Love story", la Marsilli racconta la storia di una donna che ha incentrato i suoi affetti sugli uomini della sua vita e ora, arrivata al suo quarantottesimo compleanno, si volge ad osservare il suo passato per fare il punto e cercar di trovare un nuovo equilibro. Ma la possibilità di vivere in modo sereno le è inficiata da una condizione di base, il rapporto di incompiutezza che si tramanda di donna in donna, di madre in figlia per cui la donna deve sempre vivere «in funzione di» «in rapporto a» e così via. Un legame profondamente condizionante con la madre ha bloccato la sua crescita interiore e in qualche modo ha segnato la sua esistenza. Nonostante una vita abbastanza libera, una discreta fortuna e una certa dose di cinismo, Lella, la protagonista di Il sole è un cowboy ha dei pesanti condizionamenti che producono insoddisfazione e solitudine. Sottilmente la madre le ha insegnato a non essere se stessa, ad apparire più che a essere, a darsi sempre un contegno «perché gli altri ti vedono dall’esterno e ti giudicano». Ma poi, smessi i panni della donna brillante, quando ritorna nella sua casa, Lella è sola con se stessa. E la casa diventa complice delle sue profonde insoddisfazioni. Ne diventa quasi lo specchio. Nel percorrere la propria esistenza la protagonista crede di aver trovato più volte il bandolo della matassa, di esser riuscita a capire perché - pur dopo una vita nell’insieme abbastanza fortunata - si ritrovi per così dire svuotata, nonostante la condizione per lei nuova e felice di futura nonna. Poi comprende che la sua infelicità ha radici lontane. «Per quanto mi sforzassi non riuscivo a staccarmi dalla malefica catena simbiotica che mi teneva legata alla mia famiglia, a mia madre soprattutto». Il legame con la famiglia d’origine viene visto come un limite che ha impedito alla protagonista di esistere in modo soddisfacente. «Nemmeno il matrimonio era riuscito mai a staccarmi. Non diventai mai una moglie. Rimasi per tutti, - me compresa, - la figlia che si era sposata». Marco, il marito, non si sarebbe mai permesso di staccarla davvero dalla sua famiglia. Mentre lei - dice la protagonista - avrebbe avuto bisogno «di una mano barbara e senza scrupoli che mi strappasse a quella roulette estenuante di interdipendenze per tenermi poi prigioniera nel buio, finché il tempo non fosse trascorso mettendomi davanti l’evidenza che, anche con me lontana, erano sopravvissuti tutti». La dipendenza quindi impedisce la libertà. Di madre in figlia, sostiene l’autrice, ci si palleggia una condizione che impedisce autonomia e crescita. Come venirne a capo? Curiosamente nel capitolo finale un’umanità primitiva che vive nella condizione di felici e «buoni selvaggi» viene vista come l’unica possibile condizione di felicità. Se all’interno del percorso storico la pista seguita dalle donne è stata perdente, e anche le vittorie degli ultimi decenni non sono che delle mistificazioni, secondo la Marsilli bisognerebbe liberare la parte istintuale di noi, quella che affiora nei sogni, con la sua carica di aggressività e di libertà per ridisegnare confini che la società civile ha bloccato entro margini troppo stretti. Marina Torossi Tevini G JACQUES ATTALI L’umanità divisa tra nomadi e stanziali. I primi sono gli inventori delle forme tecnologiche e della democrazia; i secondi delle fortezze, dello Stato, delle tasse. La storia dell’uomo ricostruita dal punto di vista e dagli interventi delle popolazioni che non hanno fatto casa. pagina EVELIO JOSÉ ROSERO "L’uomo che voleva scrivere una lettera" Trad. Antonella Aversa pp. 77, euro 6,50 Salani, 2006 FARIAN SABAHI tificiosa insieme, nell’estasi dell’indicibile, che in questa poesia di Sujata Bhatt diviene quasi una pioggia nel pineto: «Ha il sole negli occhi, lei / e si avvicinano alla pineta. (...) Dove finisce la terra / e comincia lei?» (Il Kama Sutra ridetto). Nel rapporto a due, l’eros è solo la prima parte di un’unione intima e quasi cosmica, del femminile terragno con l’afflato verso il cielo dell’uomo, come si evince dalla splendida orazione all’erezione di Jane Hirshfield: «Se fossimo angeli, / e noi lo siamo, e voglio di te tutte le parti capaci di sollevarsi» (Di gravità e angeli). Altri temi indagati, il rapporto con le madri degli uomini, la frequente incomprensione che ne consegue, lo sfaldarsi del corpo nella vecchiaia, che non elimina il desiderio ma lo trasforma: «Quando ero giovane / amavo uomini spinosi con ghigni ascetici / tutti gomiti e parole e cartilagini (...) Ora cerco uomini le cui pance serene / mostrano piacere per la carne e per la tavola (...) che non pensano che a pelare patate / gli diventi piccoli; uomini con dita larghe / e palle violette come fichi» (Marge Piercy, Gatti come angeli). Leitmotiv è scoprire che in queste cartografie l’eros non è mai tormento, inquietudine, sublimazione, ma leggerezza, humour, il sapore accogliente di un piatto cucinato bene. Chiara Cretella ROBERTO GIARDINA. Pizza con crauti, pp. 355, euro 15, Mondadori, 2006 È davvero un giallo atipico quello in cui, a parte un omicidio/suicidio subito risolto all’inizio, i «veri» morti, quelli cioè su cui indagare, fanno la loro apparizione solo a pagina 170, ovvero a metà del romanzo. Il libro in questione è Pizza con crauti, il primo noir di Roberto Giardina, palermitano, giornalista, che ha lasciato da tempo la Sicilia per Torino prima, per Amburgo, Parigi poi e, infine, per Berlino, dove è rimasto anche come corrispondente de "Il Resto del Carlino" e "La Nazione". Il protagonista, Federico, ha fatto fortuna in Germania, dove si è trasferito da ragazzo in cerca del padre, emigrato prima di lui, di cui si erano perse le tracce. Federico ora possiede un ristorante, «Le Due Sicilie», frequentato da tedeschi famosi e da italiani nostalgici, che gli assicurerebbe una vita agiata e tranquilla, se non fosse per la grande famiglia di cui si deve, suo malgrado, occupare. La madre, accanita e sfortunata giocatrice d’azzardo; una sorella con troppi amanti e un’altra timida intellettuale; la giovane nipote, attiva protagonista di una squadra di calcio multietnica… Senza dimenticare la ex moglie, una «parrina», ovvero una donna prete, e l’amica commissaria Martina. Lo sguardo di Giardina ha saputo cogliere tutte le sfumature di quel complesso rapporto italiani/tedeschi in Germania e italiani/tedeschi in Italia, più precisamente, in Sicilia, dove Federico è tornato dopo molti anni, per concludere le sue ricerche. Ci sono ancora tutti gli stereotipi e i vecchi pregiudizi, da una parte e dall’altra, e l’autore si rivela attento conoscitore di entrambe le realtà. (Lidia Gualdoni). DOROTHY L. SAYERS Ricca eredità dietro un doppio delitto Un generale novantenne muore in un club e la sorella a poca distanza nella sua casa. Lord Peter Wimsey indaga per passione su un caso dietro il quale balugina una ricca eredità. Nuova prova di eleganza narrativa della signora inglese del giallo, Dorothy Leigh Sayers. DOROTHY L. SAYERS "Lord Wimsey e il mistero del Bellona Club" pp. 224, euro 21 Donzelli, 2006 LUCA CANALI Guerra di anime al tempo della guerra Nella pagina rivelatrice del bel romanzo di Luca Canali, la pagina in cui il delirio ecolalico del nazista Hans Brot, il colto e spietato tenente delle SS di stanza, nel 1943, nella famigerata via Tasso di Roma, divaga su colpe oscure e infinite da scontare per giustificare la mostruosa anànke della guerra, è racchiusa tutta la fatalità dell’inestricabile intreccio del bene e del male della storia, il congegno diabolico dell’«innocenza dei colpevoli». «Quid faciam?» urla, mentre guida febbrilmente verso Fregene, il giovane aguzzino tedesco, dotato di un grande potere in quell’anno terribile della storia italiana, ma anche misero relitto di quel mega kakòn, di quello sporco affare che è la guerra. Anànche, fatum, monstrum, la guerra, la storia: è lì che si giocano i destini dei popoli, ed è nei loro marci interstizi, nell’abbandono ai fantasmi infernali dei pensieri scomposti barattati per ideologie coerenti e convinte, che le ragioni degli altri diventano il male abietto e ineluttabile. Una guerra meno che mai giusta e necessaria nell’L’innocenza dei colpevoli, romanzo né politico né storico e neppure «tendenzioso», come avverte Canali nella postfazione, ma certamente - intende ricordare l’intellettuale e il fine traduttore - di evidente spirito «resistenziale» in un periodo in cui è in corso un revisionismo filofascista che ha punte letterarie di indubbio valore e ricerche storiche «og- LUCA CANALI "L’innocenza dei colpevoli" pp. 171, euro 14 Manni, 2006 gettivamente» antipartigiane. Linea costante di questo libro è piuttosto, continua Canali, quella dell’individuazione delle motivazioni (non però delle giustificazioni) sottese alle azioni del «nemico», cioè alla «ragione degli altri». Ma sulle ragioni del protagonista, il conte Luigi Corsieri, di cui seguiamo la vita nella narrazione rigorosamente realistica di Canali (tutt’altro che immaginaria, eccettuati alcuni dettagli, alcuni personaggi e la conclusione), non ci sono che delle date (unici «titoli» dei cinque diseguali capitoli che costituiscono il romanzo) illuminanti per la storia che è principalmente una guerra di anime. «Domine non sum dignus», sembrano gridare i filofascisti Luigi Corsieri, Guido Nutria, Olga, e ancora il tenente Brot, la spia Silvana e Furiani, il severo fabbro comunista, in quel limbo maledetto del 1943, annus horribilis per tanti, troppi italiani. Il povero Luigi si riduce svuotato e scorato a vagare per una Roma straniata, non c’è chi possa dire parola per sanare anime guaste forse sin dall’infanzia. Patrizia Danzè MICHEL ONFRAY La polveriera iraniana e le ultime micce L’amore (libero) è una cosa meravigliosa Uscito tre anni fa, questo libro ritorna in una edizione aggiornata fino alla scorsa primavera dando così conto degli ultimi avvenimenti sullo scacchiere orientale. Sabahi è considerato un’autorità e insegna a Scienze politiche di Torino. Alle questioni islamiche ha dedicato più libri. FARIAN SABAHI "Storia dell’Iran" pp. 298, euro 15,50 Bruno Mondadori, 2006 Dopo avere scandalizzato con Trattato di ateologia, l’intellettuale francese destruttura l’amore come portato del matrimonio e della fedeltà. Ispirandosi a idee settecentesche, Onfray scristianizza l’etica e propone una teoria dell’amore basata sul desiderio e la libertà contrattuale. MICHEL ONFRAY "Teoria del corpo amoroso" pp. 209, euro 14 Fazi, 2006 pagina 22 Ultime vicende politiche messe in scena MARCO BOCCIARELLI "Orfani del muro" pp. 128, euro 12 Tracce diverse, 2006 arco Bocciarelli è un regista teatrale indipendente che ha più volte esercitato la scrittura scenica tratta o ispirata da opere letterarie. Interessato al teatro di narrazione e al teatro civile, opera da anni un recupero della memoria storica su temi scottanti della nostro recente passato come il terrorismo, l’istituzione carceraria, la stagione delle stragi. In questo lavoro editoriale Bocciarelli mette in scena un lungo pezzo teatrale che può essere benissimo letto sotto forma di poema. Il testo ripercorre molte delle vicende politiche degli ultimi anni: le guerre, gli scandali politici, la situazione italiana. Il risultato è un monologo corale, quello di un uomo con una valigia di sogni che cerca a tentoni nella giostra del nulla i riferimenti ormai scomparsi della sua identità. Le precauzioni d’uso di Orfani del muro sono come la luce del sole nel mito della caverna. Siete state avvertiti, liberi lettori del cielo, ogni schianto sulla materialità della cruda realtà sarà a vostro rischio e pericolo. L’orfano del muro è colui che non si rassegna all’indistinto magma del buonismo politico occidentale. Tutta questa bontà non è che la maschera del marketing capitalistico che si presenta al migliore offerente nella sua veste truccata. L’orfano del muro non si rassegna alla realtà così vicina della guerra, declinata come un’epopea distante in cui eserciti arcaici si fronteggiano per motivazioni che al telespettatore appaiono completamente estranee. L’orfano del muro conosce i gradi sulle spalline dei soldati, le divise e le stragi. E sa chi li ha pagati. L’orfano del muro non si rassegna, e come lui altri reietti, alla riduzione della lotta di classe a semplice espressione di disagio generazionale, reinserito nell’indistinta inquietudine dei giovani borghesi: «Arrivano da lontano. Dritti dritti dagli anni della rivolta. Arrivano con la pancia piena di ideologia e su di essa hanno faticosamente, con un ardore che fa loro onore, costruito il rudere ormai abbandonato della loro vita». L’orfano del muro capisce che esiste un principio fisico per cui ribellarsi è giusto, e nessuna immobilità col suo carico di odiosa pulizia, potrà fermare questa marea di persone, di popoli che si mischiano, nella ricerca della comune felicità. L’orfano del muro è stanco: gli hanno confuso le categorie come carte su un tavolo da gioco, e credono che lui possa continuare a giocare, ma stavolta a loro favore. L’orfano del muro non cerca spiegazioni, cerca l’azione. Gli specialisti del disagio, loro, il volto buono della polizia, gli dicono che lui è semplicemente pazzo. Ma stavolta, visto che è matto, le carte le darà lui. Scoprirà che poesia è il folle volo verso una verità luminosa. Non basteranno ali di cera ma scarpe ben modellate per percorrere il viaggio della memoria, alla ricerca di quel piccolo grumo di energia, quell’entropia, che soffierà di nuovo via le carte. Ecco, sul palcoscenico della realtà, cala il sipario vero. Il buco nel cielo, con le sue torri di carta. Chiara Cretella M L’AUTORE. Regista e sceneggiatore teatrale, in arte usa lo pseudonimo di Item Maestri. Dopo una stagione di impegno politico si è occupato assiduamente di scrittura e teatro civile secondo una pratica d’inchiesta sulle storie: diversi testi sono stati il frutto di una stesura collettiva con gli autori di quegli anni. Con la Cooperativa Macchine Teatrali ha realizzato Don Gennaro in Blues (insieme con Michele Santeramo) con le Opere Spontanee concesse da Lawrence Ferlinghetti; Requiem scirocco da un testo di Oscar de Summa; Una piazza d’Italia tratto da Piazza d’Italia di Antonio Tabucchi. In collaborazione con Barbara Balzerani e con il Centro di Cultura Popolare del Tufello ha scritto e messo in scena lo spettacolo Rumore, storia dei movimenti contestativi dal ’68 al G8 di Genova raccontati da quattro generazioni di donne. mare le scale, più di ogni altra cosa: sostare sul pianerottolo e nel silenzio ascoltare i rumori, le voci, oltre la porta, della domestica intimità; incrociare chi scende o chi sale salutandolo con un gran sorriso; aiutare la vecchina a raggiungere la propria porta. Oppure amare, smodatamente, la roba d’altri: al punto da non comprare mai le sigarette riuscendo sempre a chiederne una; e usare per dire - il rasoio elettrico solo quando si è fuori di casa, meglio ancora se sul treno; quando si è ospiti in casa di qualcuno, poi, usare il suo shampoo, il suo sapone e così sempre: una forma di rivincita, dentro una vita da perdente, nei confronti degli altri. O ancora, l’amore ossessione per i libri di cucina, o per il tubetto dell’aspirina. L’amore - è la costante - per gli oggetti del nostro quotidiano. Sono alcuni degli amori, comici e amari, raccontati da Gilles Ascaride: una godibilissima lettura. Ma non solo: anche una indagine, dietro lo schermo del riso, dell’uomo contemporaneo di fronte all’amore, tra solitudine e ossessione. L’autore è per la prima volta tradotto in Italia; in Francia, dove è nato una A S t los schede libri cinquantina di anni fa, al suo attivo già una decina di libri, gode di una discreta attenzione. Per la vivace casa editrice di Ravenna è questo il primo libro di narrativa straniera: un battesimo fortunato, che lascia ben sperare per il futuro. I racconti più belli e avvincenti, in Amori moderni, sono quelli dalla misura più breve, spietati nella loro perentoria quanto ossessiva dichiarazione d’amore. La voce del narratore si rivolge in modo diretto, senza mediazioni, al lettore, di cui ricerca (con un’ostinazione che si rivela irresistibilmente comica) una forma di consenso, comprensione, conforto alla propria solitudine. Pare dire al lettore: «Ora ti convinco quanto il mio amore, contrariamente alle apparenze, è grande, è - come tutti gli amori - impareggiabile e unico». Il personaggio-narratore vive i suoi amori in maniera totalizzante, fino ad annullarsi in essi; non c’è niente o nessuno che riesca a distrarlo dalla sua ossessione, anche solo per poco. E così - pare di capire sarà per sempre. Le storie dei suoi amori sono tante volte della serie come volgere a pro- ALMANACCO Mario Bocciarelli / Marco Ercolani / Lucetta Frisa / Gilles Ascaride / Anacleto Verrecchia MARCO ERCOLANI LUCETTA FRISA "Anime strane" pp. 160, euro 11 Greco & Greco, 2006 Malati psichici sottoposti a introspezione ono un mistero, io. Ma, se vuoi sapere cosa nascondo, te lo dico subito. Dentro di me puoi guardare finché vuoi: non c’è niente». Questo è quello che dice al suo dottore una delle voci che affollano Anime strane. Marco Ercolani e Lucetta Frisa hanno collezionato le «visioni del mondo» di decine e decine di persone affette da problemi psichici e ne hanno fatto un libro, perché - come dice lo stesso Ercolani nella quarta di copertina - il pudore nel renderle pubbliche è stato superato solo dal timore del silenzio in cui sarebbero cadute in assenza di un narratore che le divulgasse. E in effetti non si può accusare gli autori di avere strumentalizzato la sofferenza in nome della gloria. Marco Ercolani e Lucetta Frisa hanno invece sentito il dovere di dare corpo a queste parole, ai desideri, agli incubi, alle urla dei diversi, degli zombi (come si definisce uno di loro) rincretiniti dai farmaci, di fare da testimoni alla follia senza lasciarsi andare a compiacimenti letterari. Servendosi di uno stile asciutto e controllato, i due autori hanno dato vita a un tenero ma allo stesso tempo straziante libro sulla deviazione mentale, che non lascerà indifferente chi ha amato le opere di Oliver Sacks (citato espressamente da Ercolani). La lettura di Anime strane può essere paragonata a una gita, ma non nei paraggi di un lago costellato di belle ville abitate da uomini azzimati (sensazione che ci assale a volte leggendo alcuni libri alla moda); bensì come una spedizione verso una terra primitiva, verso una landa deserta ai confini del mondo, fino ad arrivare nei pressi di uno sprofondo e, una volta giunti ai margini dell’abisso, guardare in giù e ascoltare gli echi delle persone che vi sono cadute. Echi che corrispondono a lamenti, confessioni di delitti spaventosi, odio per sé e per gli altri, per i propri cari come per gli estranei, per l’umanità e per il suo pianeta, voglia di distruggere e di annichilirsi, di partire per gli spazi sconosciuti e lasciarsi la realtà alle spalle, di cancellarsi nel nulla da cui non c’è ritorno. Eppure, in mezzo a tanta desolazione gli autori non arretrano e non mancano mai di farci sentire il soffio della grazia, il lampo che illumina sia le nostre menti sia quelle dei protagonisti di Anime strane. «Lo psichiatra, durante il colloquio del pomeriggio, non vuole rivelargli che non esiste nessun gin, che le sue dita non suonano le corde, che i suoi occhi vedono perfettamente tutto perché sono perfettamente sani. "Se quel pensiero basta a fargli vedere almeno delle ombre, non sarò io a negarglielo", sostiene di fronte ai membri dell’équipe, che lo accusano di rinforzare un’illusione». La letteratura che indaga sulla pazzia, e sul rapporto tra arte e pazzia, tra le nostre «legittime» illusioni e quelle affascinanti e sconsiderate perché deliranti, fuori dal solco, dei diversi, si è oggi arricchita di un nuovo testo. Angelo Orlando Meloni S « GILLES ASCARIDE "Amori moderni" Trad. di Elena Battista pp. 96, euro 10 Fernandel, 2006 L’amore in tutte le forme come un’autodifesa prio vantaggio le avversità della vita. Una forma di difesa. Si prenda il primo episodio, intitolato "Amo il mio museo": il protagonista è stato lasciato da sua moglie, dopo dieci anni si ritrova così in una casa vuota e piena di ricordi, ogni angolo gli rinnova il dolore dell’abbandono. Fino a quando comincia a fare di quella stessa casa un museo da illustrare ai suoi visitatori: qui c’è la credenza dove la sua ex moglie gli fece trovare il biglietto d’addio, questo è il divano dove si guardava assieme quel certo programma in televisione, illustrando nel dettaglio le tecniche che avevano per stendere la biancheria o per lavare i piatti, nonché quelle che adottavano pezzo forte della visita guidata - in camera da letto. Le visite al «museo della mia vita» si svolgono tutti i giorni eccetto il martedì, giorno di chiusura, a gruppi di quattro persone al massimo. Una felicità perfetta, solo il ritor- L’AUTORE. Gilles Ascaride, ultracinquantenne marsigliese, ricercatore all’università della Provenza, psicologo, si è guadagnato una certa notorietà in Francia a seguito di una decina di romanzi perlopiù umoristici e costruiti nei modi della commedia. Proprio per il teatro ha scritto testi che sono stati rappresentati anche in Belgio. Anche da Amori moderni è stata tratta una pièce. Complicazioni italiane in soggiorno ANACLETO VERRECCHIA "Schopenhauer e la vispa Teresa" pp. 212, euro 14 Donzelli, 2006 nacleto Verrecchia è un filosofo e germanista, autore di pochi libri ( tra i quali vale la pena ricordare La catastrofe di Nietzsche a Torino, 1997 e Giordano Bruno: la falena dello spirito, 2000,) che non consentono mediazioni o titillamenti: la sua scrittura caustica e livorosa sembra incarnare l’antica massima secondo la quale solo dall’indignazione può generarsi la (grande) letteratura. Si astengano dunque dalle sue pagine coloro che preferiscono le plaghe malmostose del politically correct o l’ipocrita prudenza dei moralismi mainstream perché la sua prosa ondeggia tra il luciferino ed il fumantino, agitata da furibonde invettive. Questo «gioco» replicato in maniera parossistica nel corso dell’intero libro consiste nell’infilzare, sottoponendoli agli strali di una critica velenosa, personaggi celebri e famosi, che vengono svillaneggiati e vilipesi: che Verrecchia sia contagiato da una specie di sindrome di Erostrato? Saint-Beuve, comunque, a suo confronto, pare un monaco trappista. Basti leggere, in questo libro, il trattamento riservato ad Hegel o a Nietzsche: il primo, colpevole di lesa maestà in quanto avversario, ideologico e nella carriera universitaria, di Schopenahuer, viene sbeffeggiato per tutto il libro e persino post mortem non gli viene risparmiato l’ultimo affronto («Sulla sua [di Schopenhauer] nel cimitero di Francoforte ho sempre visto fiori, mentre su quella di Hegel, che somiglia d un paracarro e si trova nel cimitero di Berlino est, ho visto l’erbaccia»); del secondo viene detto che, durante il suo viaggio in Italia, non sapeva distinguere un silos dal pantheon, che utilizzava una «prosa franta e sincopata che sta a quella di Schopenhauer come una fontana intermittente ad una cascata»: insomma, erano due «lasagne fredde» per dirla con l’autore. Tutto il libro è comunque incentrato attorno ad un episodio biografico che riguarda direttamente Schopenhauer, ovverosia la permanenza in Italia del filosofo tedesco divisa in due soggiorni, contrassegnati da una serie di complicazioni sentimentali ed incanti erotici, talvolta però solo congetturarti dall’autore in base ad una serie di sillogismi e ricostruzioni che rimandano più alla tipologia del romanzo giallo che ad una ricerca che si vorrebbe più rigorosa e scrupolosa. In realtà, di certo c’è solo l’affare amoroso del filosofo tedesco con la veneziana Teresa Fuga, di cui rimane una lettera, riportata integralmente, scritta in uno sgrammatico, ma melodiosissimo italo-veneziano. Sinceramente, la cronaca di queste relazioni amorose, ipotizzate o reali che siano, sembrano costituire solo un pretesto narrativo tale da poter offrire a Verrecchia la possibilità di poter snodare la lunga sequela delle sue idiosincrasie e avversioni, messe all’incanto ed in bella mostra, senza pruderie o timore alcuno. Già dalla prima pagina della prefazione, quando ancora si è ben lungi dall’entrare in medias res, Verrecchia si scaglia contro i suoi colleghi, rei di avergli copiato un titolo senza citare la fonte («in nessun campo, come in quello letterario, si ruba tanto») e, appena qualche riga dopo, attacca a testa bassa l’ipertrofia egotico-compulsiva-grafomane di tanti autori: «Nietzsche incominciò a scrivere autobiografie fin da ragazzo; Goethe si prese un segretario che raccogliesse tutto ciò che gli usciva di bocca,[…] Thomas Mann ci ha inondati di diari in cui descrive perfino il colore delle sue scarpe, come se la cosa fosse di capitale importanza per la posterità; Wittgenstein annota anche i suoi sacrifici alla Venere solitaria». Nel leggere questo catalogo di odi e furori, si è colti da una specie di vertigine anacronistica, come se stessimo sfogliando un vecchio numero di "Lacerba" dove il gusto di épater les bourgeois si sostenta dell’irriverenza di una prosa sempre al calor bianco, quasi teppistica: Nel finale il libro poi sembra sfilacciarsi e perdere di unitarietà, con aperture verso il gineceo di casa Schopenhauer, la madre-matrigna e la sorella Adele che, assieme alle sue amiche Ottilie von Goethe e Sybille Mertens-Schaaffhausen, sembrano offrire l’immagine di Muse di raro decoro. Linnio Accorroni A no della ex moglie - sia mai! - potrebbe infrangerla. Il narratore-protagonista talora appare come un novello Marcovaldo, per l’ingenuità ostinata dei suoi gesti, come ad esempio - la cornice urbana serve a fare più stringente il richiamo - nel racconto intitolato "Amo la campana del vetro": dove il protagonista, che conduce una vita senza scopo dopo la morte della moglie, si affeziona a tal punto alla consuetudine di gettare il vetro nell’apposito contenitore, che rinnova quanto più frequentemente gli è possibile questa incombenza, recuperando tutto il vetro che gli riesce. La sua ormai è una vera vocazione, che coltiva col fervore del devoto più zelante. Quale meraviglia, per lui, scoprire un giorno una seconda campana del vetro, sorta accanto alla prima: nuovo alimento al suo amore smisurato. L’amore sensuale, nel racconto dei suoi amori-feticcio, non è mai del presente, al più appartiene al passato; oppure, e in maniera emblematica, è custodito dentro l’album fotografico, che tra i suoi amori in forma di racconto è quello posto in fondo al volume e riepilogativo di tutti: l’album in- fatti raccoglie le foto delle donne con cui ha fatto l’amore (o, per dirla altrimenti, con cui ha consumato un rapporto: perché con l’altro sesso sempre i rapporti si consumano; diverso è l’amore per i suoi oggetti-feticcio, che recano in sé l’anelito all’eternità). Donne che sono poi le medesime - si scopre - cui ha dedicato i suoi racconti d’amore; e a ciascuna donna il racconto dedicato è legato per qualche sottile ma tenace rimando. La frase conclusiva del racconto ultimo, nonché chiusa del libro, si riferisce al suo amatissimo album di fotografie, e dice così: «Ebbene, che arrivino pure, i tempi moderni! Io ho i miei amori». Il richiamo al film di Chaplin, Tempi moderni, è perseguito fin dal titolo: come in quello il protagonista era vittima e cavia delle macchine che letteralmente lo mangiavano, così negli amori di Ascaride il protagonista rischia d’essere inghiottito dalla moderna società che condanna alla solitudine, salvo trovare una via di fuga negli oggetti-feticcio della quotidianità, ad esempio il telefonino, gli orologi, il tubetto dell’aspirina. Marcello D’Alessandra S t los schede libri a nessun’altra parte si è esasperato il sogno di diventare grandi scrittori fino a capovolgerlo in un incubo come negli Stati Uniti. Un Paese condannato dalle sue stesse origini a non poter mai nutrire i suoi intellettuali dello spessore europeo. Richard Yates, quindi, persegue la stessa ricerca vana ricerca che prima di lui ha dannato Hemingway, Miller e le due generazioni succedutesi a raffica: la lost e la beat. Lo si capisce scoprendo a oltre quarant’anni dalla prima uscita il suo secondo libro, Undici solitudini. Il bestiario americano di questa antologia è la riproduzione scritta dei quadri di Edward Hopper: disadattati che si scambiano per grandi solo perché intorno a loro vorticano folle di idioti con cappelli e vestiti grigi in uscita dagli uffici di Manhattan dove all’inizio si produce il benessere della classe media e poi la distruzione della medesima con il liberismo privo di regole. Tutti i personaggi di Yates appartengono a un simile universo alienante e alienato, che può produrre solo disagio e isolamento. Anche quando, come nel racconto "Un buon pianista di jazz", la scena si sposta addirittura a Cannes, sulla Costa Azzurra, per una specie di omaggio a Fitzgerald, lo scrittore che più influenzò Yates. Il quale, come altri connazionali, tara sempre il meccanismo narrativo alla scansione liquida dell’alcool, quello trangugiato a fiumi per attivare il circuito delle idee. Mai una volta che, al di là dell’Atlantico, chi vorrebbe produrre letteratura sospetti la possibilità di un’altra fonte ispirativa: la cultura autentica, la persistenza di un lungo apprendistato fatto di assimilazione e rielaborazione. Perciò Undici solitudini manderà in visibilio le miriadi di emuli di Carver, a sua volta imitatore di Yates. Saranno loro a bearsi con le piccole discese nel limbo di un alunno disadattato, che nella civilissima Italia d’oggi avrebbe l’insegnante di sostegno e nella barbara America degli anni ’50 deve competere con l’ostilità dei compagni, in "Il dottor Geco". O con il reduce dell’artiglieria che tenta il linciaggio di un comunista in "Il mitragliere". Più ancora, con l’aspirante, frustrato, scrittore di "Costruttori", autobiografia in miniatura dello stesso Yates, che si raffigura squattrinato e disposto a tradurre in storie gli aneddoti di un tassista pur di trovare una via all’affermazione. Lo si era già visto in Chiedi alla polvere, di John Fante. Almeno, il figlio di emigrati abruzzesi esprimeva con più folklore il retaggio di inadeguatezza portato nel retaggio caratteriale della terra paterna dinanzi alle frivole complessità della metropoli americana. Yates, al contrario, come Hemingway vuole raccontare l’impossibilità di raccontare, anziché sfornare un qualcosa che abbia la forma della narrazione compiuta. Lo stesso per gli altri pezzi dell’antologia. Le paure di una promessa sposa già certa di convolare a nozze con un mediocre ("Tutto il bene possibile"), la tempra di un sergente che non cerca di attirarsi simpatie dalla truppa ("Jodi ha il coltello dalla parte del manico"), l’ipocrisia di una moglie che tradisce il marito tubercolotico subito dopo averlo visitato all’ospedale ("Nessun dolore"), un individuo che trasforma il fallimento in stile di vita ("Una gran voglia di punizione"), il giornalista che non si piega alle mezze misura ("Contro i pescecani"), un’insegnante refrattaria finanche al Natale ("Il regalo della maestra"), tubercolotici che festeggiano Capodanno ("Abbasso il vecchio"). Le solitudini descritte da Yates sono connaturate alla civiltà che partorisce se stesso e la sua scrittura. Sebbene l’autore abbia vissuto a più riprese in Europa, nel vano inseguimento di carenze strutturali della cultura americana, quest’ultima finisce per impregnarne le frasi scarne e smozzicate, la riduzione forzata delle psicologie alle mere spinte di base. Bisognerebbe rileggere certi modelli narrativi alla luce di tutto quanto è stato fatto in Italia, particolarmente, dagli anni ’60 all’inizio degli anni ’80, per riavvicinare il romanzo a quello che era prima del montaggio cinematografico, quando scorrere i capitoli significava immergersi nel riepilogo degli strumenti cognitivi, grammatica compresa. Oggi, tuttavia, un mezzo ancora più fuorviante del film, la trasmissione televisiva, ha fatto parecchio per uniformare l’esistenza peninsulare alle peggiori imitazioni americane. Perciò gli alcolisti e gli «spostati» di Yates rischiano di somigliare parecchio ai nuovi abitatori dei condomini, ormai estranei l’uno all’altro e degni di figurare in una galleria di solitudini. Enzo Verrengia D eniale pittore dell’ipermoderno, David Foster Wallace alterna la scrittura di opere narrative a deliziosi e bizzarri ritratti della cultura americana pop»: così si legge sulla quarta di copertina della prima edizione di Considera l’aragosta, raccolta di «reportage, indagini erudite, pezzi di costume, diari intimi». Dall’11 settembre all’influenza di Kafka sugli studenti universitari statunitensi, da un viaggio nel mondo della pornografia da Oscar al tragico destino delle aragoste: Wallace in quest’ultimo pamphlet ci offre una sorta di talk show di carta condotto da un autore idolatrato e da molti considerato, oltre che un genio, uno scrittore reazionario. In realtà David Foster Wallace è un classico autore da esibire: più commentato che letto, più osannato che amato, è un fenomeno che dice molto sull’attuale situazione della letteratura giovane non solo americana e, soprattutto, sulla misera condizione nella quale sono obbligati a barcamenarsi lettori e critici. È un mondo senza memoria il nostro: e fa bene Wallace ogni volta a ricordarcelo riproponendo, come nuove, idee che con un eufemismo si potrebbero definire obsolete. Sempre rinchiuso tra le gabbie da definizione, passando agevolmente dall’essere il «portavoce di una rinnovata metanarrativa» ad «ultimo esponente del postmoderno» sino a «punta di diamante dell’avant pop più estremo», Wallace non è altro che un prodotto, un logo da esportazione sinonimo di una qualità narrativa più ventilata che effettiva, di una ricerca più vicina al marketing intellettivo che all’intelletto. La sua prosa, poi, è quasi sempre siderale, quasi sempre autoreferenziale, sicuramente sempre noiosa: tant’è che leggendo il saggio «E unibus pluram» (inserito nella raccolta Tennis, tv, trigonometria, tornado, pubblicata da minimum fax) viene quasi da pensare G « 23 RICHARD YATES "Undici solitudini" Trad. Maria Luciani pp. 264, euro 10 minimumfax, 2006 Antologia del bestiario americano ALMANACCO Régis Burnet / Franco Mondini / Christian Rocca / Richard Yates / David Foster Wallace L’esistenza? Necessità di suonare FRANCO MONDINI "Fuck Fiction" pp. 165, euro 13 Pendragon, 2006 a vostra lunga giornata è finita. Il dovere lo avete messo da parte, e adesso arriva il momento per godervi un po’ di sano relax. Dunque, sedetevi su una comoda poltrona e ricordatevi di prendere due cuscini. Sollevate bene le gambe, per stare più comodi. Il vostro film di carta sta per cominciare. Fuck Fiction, signori, non vi deluderà. Parola di Franco Mondini, il regista. Solo se siete deboli di stomaco e avete studiato ad Oxford, potrete chiudere gli occhi e cancellare dal vostro cuore alcune scene, quelle cosiddette forti. Il protagonista, cari avvertiti, è un vecchio jazzista. Lo vediamo seduto dinanzi la sua macchina per scrivere. Ah, non vi illudete. Il volto del protagonista non si rivelerà mai. La sua schiena sarà sufficiente a farvi comprendere le peripezie di una esistenza vissuta senza risparmi. Con Fuck Fiction entrerete in molte camere, constaterete la consistenza dei materassi a molle. Annuserete l’odore delle stanze e i profumi delle donne. Di molte donne: tutte diverse l’una dall’altra. Capirete soprattutto che per raccontare il proprio fallimento non è necessario essere dei falliti. Questa sarà una pellicola avara di dialoghi: parole misurate e mai abusate. Partirete da lontano, e non vi sentirete contemporanei. Il 1935, per gli uomini con il telefonino incollato all’orecchio, non che voi lo siate, è lontano anni luce. Il pregio di questo intreccio è dato dal ritmo, che trasmette pulsioni continue. Vedrete situazioni che vi divertiranno e in sottofondo non potrete non ascoltare (e riconoscere) la musica di Chet Baker. Tra le «parole misurate», forse vi rimarrà nella mente qualche frase. A chi il film di carta già lo ha visto è rimasta incastrata nel cervello questa: «Era una vita spericolata, come dice quel buffone di cantante che ha fatto troppi soldi sulla buona fede di tanti giovani sballati». So che non vi occorre la carta d’identità… Il jazz che rimbomberà in ogni cambio di scena sarà invadente e i vostri piedi, inconsapevolmente, si muoveranno per seguire le note. Non mancheranno gli espedienti per sbarcare il lunario. Sentirete forte, sempre più forte, l’odore sgradevole delle auto di lusso dalla parte di chi le ha solo guardate partire. Sì, perché quella che narra Mondini è una vita sempre sulla strada, una vita di locali fumosi e pieni di atmosfere, di auto stipate di strumenti e di bottiglie vuote. Avrete modo persino di odorare la droga, in questo Fuck Fiction. Sia che si chiami morfina, sia che si chiami Palfium. Il protagonista tenterà di uscirne, tra disperazione e metodi di recupero a dir poco violenti: vedasi il vocabolario sotto la voce «elettroshock». Nel tortuoso e liberatorio sentiero seguito da Mondini per arrivare alla fine, non mancherete di conoscere la storia della musica, e quindi verrete a sapere della supremazia dei jazzisti rispetto ai rocher. La pellicola - che sa di inchiostro - si avvicinerà agli ultimi fotogrammi ma prima vi consentirà di mettere piede a Torino e di respirare l’aria di montagna della Val Pellice. Le parole più ricorrenti sono «Mi ricordo…». Qui Mondini ha dichiarato il suo amore, indirettamente, per Georges Perec e per il pittore americano Joe Brainard. E allora perché non chiudere il pezzo allo stesso modo?… Mi ricordo di aver conosciuto un uomo che ha vissuto con la necessità di suonarle, a tutti. Mi ricordo che quest’uomo si chiama Franco Mondini. Gianni Paris L che Wallace prenda in giro il lettore rimarcando la sua distanza proprio dall’autoreferenzialità. In "Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso", invece, dietro la maschera di «scrittore difficile» - nient’altro che una copia sterile e mal riuscita del peggiore Barthes - si vuole vedere l’esperimento di «un racconto che usa le tecniche alla metafiction per operare una critica feroce alla metafiction stessa» perché, per Wallace, la metafiction ha raggiunto ormai «un rassicurante status istituzionale». E allora? Forse esiste ancora qualcosa che non sia diventato istituzionale? Forse bisogna leggere Wallace per capire che «la cultura di massa è la grande ninna nanna che culla gli Stati Uniti d’America col suo affettato la la la»? Che «la realtà diventerà fiction che diventerà realtà» è forse una scoperta? Bisogna leggere Wallace per capirlo? Non basta guar- L’ultima esibizione della noia ambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori è un pugno allo stomaco, un libro che provocherà quasi certamente un vivace dibattito culturale e qualche inevitabile strumentalizzazione politica. Il saggio di Christian Rocca ruota attorno alla critica al pacifismo antiamericano, responsabile - secondo l’inviato del "Foglio" - di compromettere qualsiasi approccio costruttivo nella difesa e nella diffusione della democrazia e dei diritti umani. «Il paradosso è che l’idealismo, la promozione della democrazia e la chiarezza morale nelle relazioni internazionali oggi sono entrati nella retorica di destra. E il cinismo, il mantenimento dello status quo e la difesa di fatto delle dittature sono diventate parte integrante della politica estera di una sinistra illiberatrice». Di qui prende le mosse la requisitoria di Rocca sulla politica estera della sinistra dell’Europa continentale, colpevole di dimenticare, se non di rinnegare, gli ideali democratici che pure era- Un pamphlet troppo ideologico C pagina M libro che paralizza la critica e spiazza il lettore: i recensori, impallidendo davanti alle mille e passa pagine del romanzo, hanno preferito incensarlo (evidentemente senza leggerlo) e seguire ciecamente quegli intellettuali americani, soprattutto la lobby underground capitanata da Larry McCafferry&Co, che considerano questo libro come un capolavoro di originalità; il lettore invece impallidisce perché, non solo a libro chiuso, si rende conto di essere stato preso in giro, di trovarsi di fronte ad una lettura banale, dispendiosa e soprattutto inutile. Infinite Jest non è altro che una sorta di blob cartaceo a bobina impazzita dove di originale non c’è proprio nulla, anzi: è una sorta di remix usurato che non cita nemmeno le fonti e che si vuole spacciare come esempio di «nuova frontiera della metanarrativa». Dell’idea chiave di tutto il libro - la de- CHRISTIAN ROCCA "Cambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori" pp. 254, euro 14,50 Einaudi, 2006 porre un raffronto tra Mussolini e Saddam per il solo fatto che quest’ultimo abbia citato il dittatore italiano in uno dei suoi ultimi discorsi. Sarebbe stato interessante approfondire gli aspetti più controversi dei neoconservatori americani, il loro legame culturale ed ideologico con la religione ed una certa iattanza identitaria ben rappresentata dalle parole dall’editorialista del "Washington Post", Charles Krauthamer, che in un editoriale si è chiesto: «Abbiamo il Grand Canyon, la Silicon Valley e South Beach. Abbiamo tutto. Di che altro potremmo mai avere bisogno?». Questi limiti, insieme con quelli sull’omissione del campo di prigionia di Guantanamo Bay e sulla ricostruzione storica delle relazioni tra Pci ed Unione Sovietica, non offuscano tuttavia gli indubbi meriti del libro di Rocca, capace di scardinare, come un astuto cambrioleur d’altri tempi, alcuni stereotipi pacifisti ormai totalmente obsoleti. Filippo Maria Battaglia le occidentale, qui Rocca sembra richiamare Il contratto sociale di JeanJacques Rousseau e Per la pace perpetua di Immanuel Kant. Nonostante la verve polemica e brillante, Rocca non si pone tuttavia il problema dei limiti agli interventi di ingerenza umanitari e non cita alcuna alternativa all’attuale sistema di cooperazione del diritto internazionale. Poco convincente appare la tesi - già sostenuta da alcuni intellettuali americani ed europei come Paul Berman, Cristopher Hitchens ed André Glucksmann - che la guerra irachena sia antifascista perché «l’assenza di democrazia è già fascismo». Così come sembra azzardato e strumentale pro- RÉGIS BURNET "Maria Maddalena. Dalla peccatrice pentita alla sposa di Gesù" Trad. Argia Michettoni pp. 136, euro 9 San Paolo, 2006 aria Maddalena è una figura modellata dalla mistica, dalla pietà, dall’agiografia; è una creazione della letteratura cui si aggiungono sermoni, meditazioni, racconti storici e, con Dan Brown, romanzi. Una tesi, quella contenuta in Maria Maddalena. Dalla peccatrice pentita alla sposa di Gesù del francese Régis Burnet che, di fronte ad un accumularsi di testimonianze sulla santa, cerca di focalizzarsi sulla figura contemporanea, non prima di aver esaminato su quale substrato evangelico si fondino le sue rappresentazioni. Solo dopo aver definito i tratti messi in valore e i tratti rifiutati nel corso dei secoli, avremo tutti gli elementi per rispondere alla domanda iniziale: com’è stato possibile l’identificazione di Maria Maddalena con il Graal? Le donne che vengono menzionate nei Vangeli non solo non sono ben individualizzate come gli uomini, ma spesso, quando hanno un nome, si chiamano «Maria». E se risulta facile distinguere Maria, la madre di Gesù, le altre sono circondate da una certa confusione: almeno tre donne sono state assimilate al personaggio che sembrava più importante, l’amica di Gesù. Esse sono Maria di Magdala, Maria di Betania e la peccatrice. Ma se ripercorrendo tutta l’agiografia della santa, risulta evidente l’esitazione fra due estremi, l’assimilazione e la dissociazione delle tre Marie, l’elemento più caratteristico della Maddalena dei nostri giorni è un ritorno alle origini, alle fonti. Per i moderni, la figura centrale è Maria di Magdala che gioca un ruolo fondamentale grazie alla testimonianza portata dopo la scoperta della tomba vuota: di colpo essa diventa indispensabile per la fede cattolica e la sua trasmissione, diventa apostola apostolorum, apostola degli apostoli. Perché, allora, pur essendo stata accertata la presenza delle donne, e in particolare di Maria di Magdala, presso la tomba, e il loro ruolo determinante nella costituzione della futura religione cattolica, esse hanno poco spazio nei Vangeli e, successivamente, nella Chiesa? Si tratta forse di un complotto ordito innanzitutto dagli apostoli? Ma il ragionamento può spingersi ancora più in là: Maria di Magdala possiede un ruolo differente nei tre vangeli sinottici rispetto al Vangelo di Giovanni. Questo infatti tenta di svalutare la figura di Pietro a favore del discepolo prediletto e, di conseguenza, anche a favore del ruolo delle donne, e di Maria di Magdala in particolare, come testimone della resurrezione di Gesù. Ci sono autori dunque che seguendo questa interpretazione arrivano a intravedere nel brano del Vangelo di Giovanni dedicato all’apparizione di Gesù risorto la rivendicazione secondo cui Maria Maddalena sarebbe stata il suo successore; altri, la sua identificazione con il discepolo che più amava. L’esumazione della Maddalena non passa però solo attraverso i Vangeli: essa utilizza anche altri testi. Frutto di un cristianesimo non maggioritario, spesso di tendenza gnostica, dove alla donna viene attribuita un’importanza maggiore rispetto ai vangeli canonici, essi sono i cosiddetti «apocrifi»: il Vangelo secondo Tommaso, la Sophia di Gesù Cristo, la Pistis Sophia e, infine, il Vangelo di Maria, un vangelo attribuito proprio a Maria di Magdala. A questo punto ci sono ormai tutti gli elementi perché, gnostica, amante, iniziata e doppio di Cristo, la Maddalena ritorni ad interessare i nostri contemporanei. Certo, per arrivare fino a noi sotto queste spoglie, ha dovuto attraversare il Medioevo, durante il quale la sua biografia, diventata ormai leggenda, si è arricchita di particolari, e i secoli successivi, che hanno visto la sua strumentalizzazione e il rovesciamento brutale del suo ruolo, dovuto anche alle raffigurazioni artistiche della santa. Citazioni e riferimenti a testi di storia della religione e della società sono alla base del percorso lungo il quale l’autore ci guida. In conclusione, egli stesso ammette che la decodifica contenuta nel libro non convincerà certo i sostenitori della Maddalena «graalica», ma essa riesce almeno a spiegare come nel romanzo di Dan Brown questa identificazione si basi «su alcuni legami ipotetici, certe manipolazioni della realtà e una discreta dose di malafede». È il destino di un personaggio che, a causa di un’estrema discrezione dei vangeli e della confusione di cui è stata oggetto, si è sempre prestato a tutte le strumentalizzazioni: «Come uno specchio condotto lungo le strade della storia, essa rimanda l’immagine dell’epoca che se ne è appropriata. Essa fornisce indicazioni sui disegni, le manipolazioni, i sogni dei suoi adoratori più che su di sé». Dan Brown è avvertito. Lidia Gualdoni DAVID FOSTER WALLACE "Considera l’aragosta" Trad. Giovanna Granato pp. 388, euro 15,50 Einaudi, 2006 dare fuori dalla finestra o, al limite della fiction, leggere uno Shopenhauer di due secoli fa per capire che «la vita è una tragedia recitata da commedia»? Forse il filosofo tedesco aveva bisogno delle coordinate morali dettate dalle sit com a stelle e strisce o delle pirotecniche trovate di Wallace? La realtà è che il più delle volte David Foster Wallace è di un tedio e di una scontatezza intellettuale che sconvolge e che tutte le sue teorie si potrebbero riassumere in dieci pagine: una di testo e nove di citazioni delle fonti. Infinite Jest, ad esempio, è il classico no costitutivi della sua nascita e della sua diffusione. Per tirarsi fuori da questa rovinoso cul-de-sac non resta che «favorire la creazione di società democratiche e ribaltare la politica estera americana ed europea degli ultimi anni», che «in nome della stabilità ha tollerato e scusato l’oppressione poliziesca in Medioriente». Il ripudio del realismo americano degli anni ’70 diventa così inevitabilmente funzionale ad una visione «progressista» in difesa della democrazia e la guerra in Iraq una sfida mancata per la coalizione progressista italiana. Piuttosto che lo Spirito delle leggi del barone di Montesquieu, livre de chevet di buona parte della destra libera- Lo strano ruolo di Maria di Magdala nuncia di una società ormai cancrenizzata dalla «metastasi del guardare» - , ad esempio, ne parlava già nel 1800 (ma è solo il primo dei tanti) un certo William Wordsworth (d)enunciando in versi profetici la «tirannia dell’occhio corporeo». Dell’altra idea guida - i pericoli di una società che ha il suo unico credo nel divertimento - ne hanno invece scritto in modo sicuramente più incisivo Aldous Huxley nel romanzo Il mondo nuovo (1932) e Neil Postman nel saggio capolavoro Divertirsi da morire. Che dire poi di quella che Wallace definisce «la propria polifonia linguistica che rappresenta l’impazzimento della società»? Prima di lui (sempre qualche anno prima…) ci erano già arrivati il Robbe-Grillet di Progetto per una rivoluzione a New York (1970) e persino l’Andy Warhol di "From A to B and back again" (tradotto in italiano con il titolo A). E ancora: l’idea di una società dominata dalla pubblicità non è forse mutuata da I mercanti dello spazio di Fredrick Pohl e C.M. Kornbluth (1953)? Della merce «imbevuta di una traccia utopica» non ne aveva forse già parlato Walter Benjamin? Che dire, infine, delle imbarazzanti somiglianze con molti passaggi de Le perizie di William Gaddis (1955), del Limbo di Bernard Wolfe (1952) o di Uno zoo lungo la strada di Tom Robbins (1971)? Più che un «geniale pittore dell’ipermoderno» Wallace ci appare così: un abile miniatuirista, un furbo riciclatore capace di mettere la testa di lettori e critici in centrifuga. Un radical chic, scampato agli anni ’70, e inghiottito da quell’idrovora ipno-televisiva che ha ridotto la carta in una succursale di pixel catodici. Si possono cambiare le pagine certo, ma non canale: le sue frequenze sono sempre le stesse. Così potenti da incantare il mercato editoriale. Così basse da incatenare alla noia del già (a) letto. Gian Paolo Serino pagina 24 iamante non sapeva che potesse esistere una donna poeta. L’unico poeta che conosceva era Dante Alighieri - la testa virile coronata d’alloro, il naso adunco, l’espressione grifagna. Invece la poetessa romana aveva il sorriso timido e gli occhi di un daino. Le labbra carnose, le sopracciglie scure, l’espressione malinconica. Sembrava piuttosto una madonna - come quelle dei musei. «Io mi chiamo Iole e tu?» diceva la ragazzina. «Lo sai già. Charlot», rispose Diamante, inchinandosi. La bruna Emma nascose il sorriso dietro una manina guantata di pelle. Una poetessa di vent’anni? Possibile? «Sei un marinaio?», chiese Iole, ammiccando alla divisa. «Più o meno», rispose, vago. Iole volle sapere su quale nave. Diamante cercò di darsi importanza. Si vantò di aver navigato sull’Atlantico. In fondo, era vero. Raccontò delle onde alte venti metri. Raccontò dei delfini che seguono le navi. Delle costellazioni estive. Dell’odore di salsedine che impregna la pelle dei marinai. Iole-Vita lo ascoltava a bocca aperta. La sua spontaneità lo incantava. Se non avesse avuto dodici anni, si sarebbe dannato per lei. A dodici anni, Vita lo ascoltava così: con illimitata fiducia. La madonna bruna non apriva bocca. O era incredibilmente timida o lo giudicava un povero cristo. A un tratto, volle piacerle. Le offrì l’ombrello e lei afferrò Iole e gli camminò accanto mentre attraversavano i giardini. I suoi capelli profumavano di violetta. Erano così vicini che le sfiorò più volte, inavvertitamente, il braccio. Lei non evitò il contatto. E anche se non pioveva più, non lo fece notare e gli si strinse accanto sotto l’ombrello. L’inquietudine che lo aveva attanagliato per tutta la domenica lasciava il posto a una eccitante esaltazione. Avrebbe voluto che il giardino non finisse mai. «È tardi, dobbiamo andare», disse a un tratto la bruna alla ragazzina. Avevano raggiunto l’estremità opposta della piazza. Iole-Vita alzò le spalle, scontenta. «Addio marinaio», gli disse. Emma si congedò con un sorriso. Dunque, un incontro tanto promettente finiva così, nel nulla. Anche se adesso lui aveva la sensazione che la madonna non fosse andata in quel cinema per caso. Che anzi, ci fosse entrata proprio per incontrarlo. Che fosse venuta a riscattare la sua vita mancata, a innalzarla verso insperati orizzonti. Intuizione. Lei gli era stata mandata. Invece lo avevano lasciato solo sotto i portici bui, con l’ombrello pa- D narrazioni inedite S t los SEGUE DALLA PRIMA La Königin Louise aspetta chi sogna il nuovo mondo teticamente aperto sotto il cielo di aprile che andava facendosi limpido. Solo come il vagabondo alla fine del film. Non poteva perderla. Iole-Vita continuava a voltarsi indietro. Le raggiunse, correndo. «Come posso rivedervi?», s’affrettò a dire. «Torna domenica alle comiche», gridò Iole, raggiante. La bruna annuì. Domenica! Chissà dove sarebbe stato, domenica. Mancava troppo tempo. Era abituato a vivere alla giornata. Non aveva mai fatto progetti settimanali. Fra sette giorni poteva essere in viaggio sulla Königin Louise, poteva essere a Tufo dai suoi genitori, poteva spendersi lo stipendio in un casino o aprire un conto alla posta. Poteva restare a Roma, tornare a New York, dimenticare, osare, perdonare, cambiare. Poteva ancora tutto. Le perse di vista quando svoltarono in via Machiavelli. Quasi non s’accorse di seguirle. Camminava venti passi dietro di loro. Le sentiva bisbigliare. Fu assolutamente certo che Iole-Vita disse: «È mio, l’ho visto prima io». E che l’altra - ma si chiamava davvero Emma? aveva sentito bene? - rispose: «Ma tu sei troppo piccola». Dunque, la poetessa contendeva un marinaio sconosciuto alla sua domestica. Perché certo Iole-Vita doveva essere la sua domestica. La bruna era una signora. Bastava guardarle i guanti, di capretto, il taglio all’ultima moda del vestito, e quella piuma color pervinca. In fondo, avrebbe potuto fermarsi a Roma fino a domenica. In fondo, era una grande città. O almeno, la più grande che poteva trovare su questa riva del mondo. La via diventava sempre più solitaria, i passanti più radi. Era quasi ora di cena. Le due camminavano l’una accanto all’altra. Che differenza. La ragazzina aveva una figura minuta, svelta, a tratti saltellava, come se non potesse contenere l’esuberanza. La bruna un portamento controllato, pieno di dignità. «Non ho mai amato una donna così». In realtà, non le aveva neanche mai parlato. Non conosceva nessuna donna che sapesse anche solo cosa fosse una poesia. Quando aveva provato a recitarle a Vita, lei aveva riso. La parola amore la faceva ridere. Amava, e basta. Svoltarono in una traversa. La strada buia, senza neanche un’insegna, si chiamava via Ferruccio. I palazzi erano stati costruiti dai piemontesi da poco più di trent’anni, ma già cominciavano a sfaldarsi, e l’intonaco color patata era una ragnatela di crepe. Le due ragazze scomparvero in un portone. Era il numero 30. Il palazzo aveva sei piani, centinaia di finestre e neanche un balcone. L’androne, tetro, tenebroso, col soffitto basso, era Nella illustrazione una stampa primo novecentesca sui flussi migratori negli Usa via mare rischiarato a malapena da una lucina fioca, simile a quelle dei cimiteri. La lampada perpetua ardeva sotto una madonnina di cera azzurra. In fondo, c’era un magazzino di stoffe all’ingrosso, con le imposte tutte scolorite. Una scala ripidissima s’inerpicava verso il primo piano, ma i gradini, su cui aleggiavano riccioli di polvere, scomparivano nel buio. Sentì una voce femminile dire: «Vi pare l’ora di tornare a casa, voi due? fortuna che vostro padre non è ancora rientrato». Deluso, realizzò che le ragazze abitavano qui. In un modesto palazzo, un alveare di appartamenti minuscoli, accalcati a otto per piano, destinati a essere affittati a inquilini senza pretese. E la ragazzina non era la domestica dell’altra. Erano sorelle. S’affacciò nel cortile - profondo come un pozzo tra incombenti pareti. Gli gocciolò acqua sul colletto. Ma non era la pioggia. Dozzine di lenzuoli gonfiati dal vento pendevano sui fili sospesi nel vuoto. Mutande, federe, calzini, grembiuli: il palazzo era sovraffollato. C’era un unico spazio che i costruttori non avevano messo a frutto: il ballatoio. A ogni pianerottolo, infatti, si apriva un vasto loggiato a tre vani, guarnito da due tozzi pilastri quadrati e da una balaustra di legno che decenni prima doveva essere stata verniciata di bianco. La dolce bruna probabilmente non era una poetessa. Di certo non era una signora. Era povera. Come lui. O forse perfino più di lui. Perciò non gli era stata mandata per salvarlo. L’aveva incontrata solo per caso. Guardò in alto. Si disse, risoluto: non devo rivederla. Se domenica vado all’appuntamento con questa donna, non partirò mai più. Al primo piano, due marmocchi scalzi rincorrevano un pallone di stracci. Al secondo piano, dietro alla balaustra scrostata - tra una selva di piante di basilico, salvia, rosmarino, geranio - qualcuno fumava una cicca nel buio. Al quarto piano, affacciata, con le mani strette sul legno scrostato della balaustra, c’era una donna che lo guardava. Era lei. V O C I PREMIO ADEI WIZO ERAN KATZ, ICONA DEL MONDO EBRAICO Jerome diventa un genio. Il segreto dell’intelligenza, di Eran Katz (Barbera Editore) ha vinto il Premio Adei Wizo 2006, sezione giovani, assegnato ogni anno a un’opera che faccia conoscere il mondo ebraico. Si tratta di un romanzo divertente, ma al tempo stesso un utile manuale per lo sviluppo della memoria e dell’intelligenza. Eran Katz è un noto personaggio televisivo di Israele e insegna le tecniche di potenziamento della memoria e dell’intelligenza. PREMIO ACERBI RICONOSCIMENTO A LAJOS GRANDEL La giuria della XIV edizione del Premio Giuseppe Acerbi, riunita a Castel Goffredo (Mn).ha proclamato vincitore il romanzo Le campane di Einstein di Lajos Grendel (Anfora). Al secondo psoto si è piazzato Alla locanda del Gatto d’argento di Száraz Miklós György (Anfora) e al terzo L’ultima Finestra Giraffa di Péter Zilahy (Alet). PREMIO CAMAIORE OPERA PRIMA VINCE BINAGHI La commissione del Premio Camaiore per la letteratura gialla ha indicato come finalista della sezione «opera prima» il romanzo Robinia Blues di Valter Binaghi, edito da Dario Flaccovio Editore. Questa la motivazione: «Binaghi governa con sapienza le regole e convenzioni del giallo con l’utilizzo di materiali narrativi che facendo riferimento a memorie infantili si rivelano capaci di illuminare sia come "eravamo" sia come "siamo diventati"». La giura tecnica ha inoltre segnalato il libro di Cristina Guarducci, Mitologia di famiglia (Fazi Editore) per la qualità di scrittura e l’originalità con la quale descrive «un inferno familiare», e il libro di Sergio Staino Il mistero bonbon edito da Feltrinelli.