pietrangelo buttafuoco le uova del drago

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pietrangelo buttafuoco le uova del drago
Anno VIII n. 15
18 luglio 2006
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ERALDO AFFINATI
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Stilos
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ALBERTO BEVILACQUA
Scrittori e testi imprescindibili del ’900
eletti a «compagni segreti» e rivelatori
nell’esplorazione del mondo in un viaggio che crea un canone involontario
Il rapporto dolce e scabroso con la madre in una raccolta di poesie, riedite dopo da Mondadori, che riacuiscono un
sentimento filiale doloroso e potente
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SERGIO ROMANO
I fatti sono interpretabili secondo criteri diversi e postulano ricostruzioni diverse: una rivoluzione, giacché un tempo la storia era scritta solo dai potenti
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Un incontro fortuito e fatale con una ragazzina
in un cinema romano dove proiettano le
comiche di Chaplin. Lei è Vita e lui Diamante, i
protagonisti del capolavoro dell’autrice romana
C’è una sola forma di bellezza, quella
dell’amore. Un romanzo che vuole costituire un modello e relega in un secondo piano la teoria banausica della vita
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parevano disegnati col carboncino e sempre sul punto di scollarsi dal labbro. Dietro l’apparente dolcezza degli occhi celesti, brillava una furbizia risoluta, una saggezza senza età. Non fosse stato per i baffi, aveva un’aria familiare. Entrando, siccome era in ritardo, Diamante non aveva letto bene il programma, così non sapeva
chi fosse il comico nuovo della Keystone. Cominciò a interessarsi alle sventure del
vagabondo. Moriva di fame, veniva inseguito dalla polizia, correva, sculettava, passeggiava con una biondina, rubava un pezzo di pane, veniva arrestato, cadeva, si rialzava, combinava ogni sorta di disastri - veniva umiliato, schernito, deriso, ma non
perdeva mai la sua dignità. La platea era esilarata, e anche Diamante, ma la ragazza dietro di lui rideva, rideva, e lui nel frastuono della folla, tra le note del piano, finì
per percepire solo quella risata, inconfondibile, finché fu assolutamente certo che si
trattasse di Vita. Gli batteva il cuore all’impazzata. In tre anni, ogni volta che il pensiero di lei lo aveva visitato, lo aveva respinto con la forza della volontà. Perché altrimenti non sarebbe mai arrivato alla fine della ferma. Si sarebbe imbarcato come
clandestino, disertore, e l’avrebbe ritrovata. La sua ragazza italiana sparita.
Più di tutto, voleva vederla. Alla fine del rullo, quando in sala s’accese la luce,
si voltò. La proprietaria della risata aveva dodici, forse tredici anni. I capelli neri, lisci, raccolti in due treccine annodate sulle orecchie, e due occhi chiari maliziosi. Non era Vita. Non le assomigliava nemmeno. «Anvedi», esclamò la ragazzina, e gli rise in faccia. Mentre tornava a voltarsi, deluso, irritato e anche offeso, Diamante intercettò un sorriso di donna. Due occhi scuri, liquidi, distanti,
lo fissavano.
Nell’atrio, si fermò a leggere le locandine. Il vagabondo si chiamava Charlot: domenica prossima il cinema avrebbe proiettato i nuovi episodi delle comiche. Il
nome del personaggio era scritto in caratteri cubitali, quello dell’attore in caratteri minuscoli. Diamante si asciugò la fronte col fazzoletto perché quel nome lo
conosceva. Era il nome del ragazzo inglese del vaudeville, a Denver. Chas. Gli
sembrò inverosimile, irreale, assurdo. Allo stesso modo, inverosimile, irreale, assurda, gli sembrava ormai tutta una parte della sua vita. Come un sogno. Comunque qualcosa che non era mai accaduto. E mai più accadrà. Voleva mettersi a urlare: lo conosco, io conosco questo ragazzo! Ma nessuno gli avrebbe creduto. La
folla lo sospinse verso l’uscita. Qualcuno lo strattonava per il gomito. Non si
voltò. Una dolce, educata voce di donna disse: «ma che fai, non sta bene, non lo
conosciamo». «È proprio identico spiccicato, mo’ te lo faccio véde». Continuavano a strattonarlo. Era la ragazzina con la risata di Vita. «Aò», gli disse, familiarmente, «sei tale e quale al vagabondo del film». Gli sistemò una penna
sul labbro superiore. «Mo’ c’hai pure i
baffi». Rideva. Con quella risata impertinente, beffarda. Diamante avrebbe
voluto prenderla a schiaffi. «Ma io non
faccio ridere», le rispose. La sua voce
gli risultò estranea. Si rese conto che
non parlava con nessuno da almeno
ventiquattrore. Era talmente solo, a Roma. Accanto alla ragazzina c’era una
giovane donna vestita di viola; sul suo cappello sventolava una piuma color pervinca. Era lei che gli aveva sorriso, nel cinema. Una donna fine, elegante e gentile. Che ci faceva, con una monella come Vita?
Sotto i portici era già buio. Spioveva, ma dalle grondaie l’acqua si riversava a fiumi sul selciato. L’insegna del cinema si rifletteva nelle pozzanghere. «Sta’ a vedere», disse Diamante. Arricciò le labbra per trattenere la penna-baffi, divaricò le
punte dei piedi, sculettò verso i giardini, mulinò l’ombrello come fosse il bastone da passeggio e sollevò il berretto come una bombetta, a mo’di sussiegoso congedo. Le due ragazze risero. Diamante tornò indietro, lentamente. Notò, compiaciuto, che lo guardavano ammirate. Forse era la divisa, forse la somiglianza con
l’attore famoso, forse i capelli corti, ben curati, o gli occhi azzurri. La sua svagata sicurezza. La disinvoltura. L’indifferenza. Fatto sta che ebbe l’impressione di
averle conquistate. Diamante porse la penna alla ragazzina. «È Emma che scrive», disse quella, passandola alla bruna, «io non sono buona». «Scrive? E cosa
scrive?». La bruna arrossì, e distolse lo sguardo. Vita disse, con profondo rispetto: «Poesie».
La Vita di Charlot
da di Mack Sennett vi farà piangere dal ridere. Per un’ora di spettacolo con accompagnamento di pianoforte dal vivo il prezzo era dieci centesimi. Diamante voleva
distrarsi. Voleva dimenticare la fotografia della Königin Louise. Più di tutto - quasi disperatamente - voleva ridere. Entrò.
Le gag di Mack Sennett - i soliti inseguimenti di guardie e ladri, conditi da torte in
faccia e capitomboli - non gli strapparono neanche un sorriso. Il cinema era lercio,
affollato, sapeva di sudore e bruscolini. Era seduto sull’orlo della panca, gomito a
gomito col fattorino obeso di un albergo dei dintorni che si sganasciava dalle risate. Il pubblico reagiva all’unisono, applaudiva nello stesso istante, come fosse manovrato. Rideva, masticava lupini, sputava. Al quarto rullo, sullo schermo apparve
un individuo buffo, piccolo di statura. Aveva gli occhi celesti e i capelli neri. Indossava un ridicolo paio di scarpe sproporzionatamente grandi e dei calzoni cascanti,
rattoppati. Camminava in modo decisamente comico, mulinando il bastone da passeggio. Si muoveva come un principe, ed era un vagabondo. Dietro di lui, vicinissimo, soffiandogli sul collo, una ragazza rise.
Diamante s’immobilizzò sulla panca. Se non avesse saputo che era impossibile, si
sarebbe voltato di scatto, perché quella era la risata di Vita. Ma lei non poteva essere in un pidocchioso cinema di piazza Vittorio. Dove fosse, non lo sapeva, ma non
poteva essere qui. Il buffo tipo dalle lunghe scarpe portava un paio di baffetti neri che
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ZADIE SMITH
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Pubblichiamo l’inizio di un capitolo rimasto inedito del romanzo Vita uscito nel
2003 da Rizzoli, vincitore del Premio Strega. Il brano, intitolato nella versione originaria "Emma", riguarda l’incontro di Diamante ed Emma a Roma.
aveva incontrata nell’aprile del 1915. Era domenica. Gli mancavano tre giorni alla fine del servizio militare. Non aveva fatto richiesta per prolungare la ferma nella Guardia di finanza. Del resto l’avrebbero respinta. I superiori lo consideravano un piantagrane, un
cocciuto e rompiscatole bastian contrario. Lo avevano trasferito di
nave in nave, dalle corvette era finito sui battelli, e dai battelli ai magazzini, da una
caserma all’altra, da un comando all’altro. Nessuno sembrava volerlo trattenere
a lungo. In realtà era lui a non volersi fermare. Senza rendersene conto, faceva di
tutto per nuocere al suo futuro. Alla fine, per toglierselo dai piedi lo avevano spedito a Roma. Lo avevano assegnato alla stazione di Ponte Milvio. Un bel posto,
accanto al fiume Tevere che scorreva tranquillo fra colline verdi e rive boscose uccelli, pescatori, orti, contadini in bicicletta: gli sembrava di essere in campagna.
Doveva controllare chiunque entrasse in città. Il primo giorno di servizio fermò
un’automobile nera. Vistosa come la Hudson Touring di Bongiorno. Al volante
c’era un ciccione dalla faccia di burro, con un gran gozzo. Non aveva il permesso di guida, né documenti, e correva a settanta chilometri l’ora.
«Sono costretto a segnalare la sua infrazione ai miei superiori» spiegò Diamante, per nulla intimorito dal fermacravatte d’oro del guidatore, dal suo costoso orologio e dal suo profumo inglese. «Giovanotto - lo interruppe ridendo il tizio - lei
non sa chi sono io. Sono l’onorevole **». Diamante aveva annuito, dicendo: «Ebbene?» «Ebbene, ebbene, non sia stupido, non si rovini la carriera e via dicendo».
Ma Diamante aveva tenuto duro, e gli aveva appioppato la multa di prammatica.
L’onorevole doveva essersi lagnato con chi doveva, perché una settimana dopo
Diamante era stato trasferito in un ufficio di periferia, a incollare francobolli sulle buste. Si disgustò definitivamente della sua divisa.
Quella domenica d’aprile pioveva a rovesci e Diamante si era rifugiato sotto i portici di piazza Vittorio. Era stanco, camminava ininterrottamente dal mattino, aspettando solo che facesse buio per rientrare in caserma. Roma non gli piaceva. Tutto gli sembrava angusto, meschino, soffocante. Non c’era il porto, non c’era l’oceano. Il fiume - paragonato all’Hudson River o all’Ohio - sembrava un rigagnolo. I tram sconquassati. I palazzi bassi - nemmeno un grattacielo. Una città orizzontale, senza profilo, solo le croci e le
cupole delle chiese svettavano sulle case degli altri. Piazze tante, ma vuote, i
grandi magazzini miserabili, i passanti
malvestiti - una penosa sensazione di
povertà. Solo la zona della stazione riusciva ad affascinarlo. La vista dei convogli fermi allo scalo San Lorenzo placava la sua inquietudine. Per un attimo,
immaginava di salire alla disperata su
un treno merci e partire per chissà dove.
Ma l’Italia era piccola, e i treni non anVIVE A ROMA. PRIMO TITOLO
davano lontano. E quel tempo era passa"IL BACIO DELLA MEDUSA" (BALto. Aveva ventitre anni. Da settimane si
DINI, 1996), ULTIMO "UN GIORchiedeva cosa avrebbe fatto dopo il conNO PERFETTO" (RIZZOLI, 2005)
gedo. La libertà tanto attesa non aveva
niente di consolante. L’America lo
MELANIA G. MAZZUCCO
aspettava, ma niente dell’America gli
sembrava di voler condividere.
Sotto i portici lo attirò un’agenzia di viaggi. La porta era sprangata, la vetrina buia.
Appoggiò il viso contro il vetro e scrutò distrattamente le pubblicità delle compagnie di navigazione. Il piroscafo del Norddeutscher Lloyd aveva quattro comignoli e compiva la traversata transoceanica in soli 11 giorni. Era un’ottima compagnia. I dormitori spaziosi, puliti, il vitto ottimo, nulla a che vedere con il bollito di manzo marcio delle compagnie italiane. Fra tre giorni, col congedo, lo avrebbero pagato. Tolti gli annosi debiti contratti con le salmerie, gli avrebbero dato, più
o meno, duecento lire. Il passaggio in terza classe a New York sulla confortevole Königin Louise costava 200 lire.
All’angolo con via Carlo Alberto una folla di ragazzini spingeva per infilarsi in un
cinematografo. Ogni domenica le comiche - recitava la locandina. La scatenata ban-
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Segue a pagina 24
© M. Mazzucco, per Stilos, "Emma"
pietrangelo buttafuoco
le uova del drago
romanzo
www.librimondadori.it
S t los
sguardi
e riguardi
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Sellerio
Novità
Andrea Camilleri
La vampa d’agosto
Una nuova indagine per il commissario Montalbano. «Se il romanzo giallo è solo un “passatempo enigmistico”, un genere giocattoloso che induce il lettore a correre alla soluzione per appagarsi,
La vampa d’agosto non è un romanzo giallo. Dentro la sua trama
il lettore frena la corsa» (Salvatore
Silvano Nigro).
Honoré de Balzac
Il parroco di Tours
«Le leggi naturali dell’egoismo» in
azione nella lotta feroce e meschina tra preti di provincia per un’eredità: un apologo sulla repressione del desiderio considerato all’origine del realismo letterario.
Pierre Boileau,
Thomas Narcejac
I vedovi
Chi può dire se Mirkine sia un
amante ossessionato dalla gelosia,
o un burattino nelle mani di un assassino? Boileau e Narcejac, la
coppia del noir francese che piaceva a Hitchcock, col pretesto del
giallo costruivano labirinti in cui
realtà e finzione danzano avvinghiate, come negli incubi.
Mario Soldati
Cinematografo
«Se per vero scrivesse soltanto le
sue memorie di regista, ne uscirebbe un capolavoro» (Giovanni
Comisso). Gli scritti intorno al cinema – intorno ai suoi set cinematografici – del più multimediale
scrittore italiano.
Giuseppe Bonaviri
L’incredibile storia di un
cranio
Dal materialismo magico del maestro siciliano un’utopia cosmobiotecnologica. «Bonaviri è un visionario del linguaggio. Il suo sguardo spazioso impera come sempre
sugli elementi; sul vitalismo rigoglioso e panico della natura» (Salvatore Silvano Nigro).
Domenico Seminerio
Il cammello e la corda
Dall’autore di Senza re né regno un
romanzo erotico, di gusto libertino: la passione carnale che ossessiona un prete si materializza in un
giardino di Afrodite e risveglia dal
tempo una tragica vicenda pagana.
Jaime Bayly
L’uragano ha il tuo nome
Gabriel ama Sofía e sogna di scrivere un romanzo: avranno una figlia e di lui si interesserà un grande editore; ma Gabriel è gay. Un
amore e una carriera normalmente difficili, ma dalla prospettiva di
un omosessuale.
Luciano Canfora
1914
Dalla radio al libro. Luciano
Canfora spiega l’origine della
Grande Guerra come primo atto
della guerra civile europea e baratro in cui precipita la centralità
dell’Europa.
Franco Cardini
Lawrence d’Arabia
Dalla radio al libro. Lo storico
dell’Oriente Cardini racconta il
suo percorso di indagine nella figura storico-psicologica dell’agente di Sua Maestà suscitatore dell’orgoglio arabo: eroe o traditore?
O tutt’e due?
Sergio Valzania
Sparta e Atene. Il racconto di
una guerra
Dalla radio al libro. Sergio Valzania, storico della guerra, racconta
cosa successe tra ateniesi e spartani nella guerra peloponnesiaca per
l’egemonia e come Sparta e Atene
rovinarono entrambe.
Joseph Addison,
Richard Steele
Parlando di donne.
Lettere a un quotidiano
inglese del ’700
Addison e Steele nel 1711 inventarono il primo quotidiano moderno, «The Spectator»; c’era anche la
rubrica delle lettere, delle donne e
per le donne: un gossip ininterrotto e un quadro irresistibile e vero
dell’universo femminile di allora.
www.sellerio.it
Nella foto Indro Montanelli, morto il 22 luglio 2001.
Nella foto piccola Tiziana Abate, autrice per Rizzoli
di Soltanto un giornalista
INDRO MONTANELLI. Cinque anni dopo la
LA VITA
scomparsa non si stempera il ricordo di un
intellettuale capace di dividere le coscienze in
forza della sua vocazione a farsi coscienza critica
Gesti nobilissimi
e altri discutibili
Nato a Fucecchio il 22 aprile
1909, si è distinto per atti nobilissimi (come il rifiuto della nomina a senatore a vita, l’abbandono del "Giornale" dopo
che Berlusconi si mise in politica, la coerenza al credo conservatore che lo spinse a lasciare il
"Corriere della Sera" per le
sue simpatie verso la sinistra) e
per atti che gli sono costate pesanti accuse (come soprattutto
le infiammate corrispondenze
dall’Africa a favore del fascismo, i suoi panegirici a Mussolini, l’iscrizione al Pnf). Autore
della monumentale Storia d’Italia, valida perché divulgativa, ma anche di numerosissimi
altri libri, è ricordato per il ferimento nel ’77 da parte delle
Br e per l’appello nel ’76 a votare Dc turandosi il naso.
Un solitario
in mezzo
agli italiani
M
aurizio Gasparri, dirigente di An, disse
verso la fine di marzo
del 2001: «Montanelli è stato un uomo
sempre dalla parte di chi comandava:
fascista durante il fascismo, antifascista appena in tempo quando il regime
stava cadendo, mantenuto da Berlusconi, adesso sta con la sinistra. Senza
i soldi di Berlusconi "Il Giornale" sarebbe stato chiuso perché non riusciva
a vendere un numero adeguato di copie, come invece fa Belpietro che ha
portato in pareggio il bilancio del quotidiano. Se noi dovessimo vincere,
Montanelli lo lasceremo a quelli che
hanno perso. È tempo che, a oltre 90
anni, stia una volta tanto dalla parte
sbagliata, da quella dei perdenti, dato
che è sempre stato coi vincitori». Il
giorno dopo, intervenendo in una discussione, il futuro ministro della Comunicazione, rincarò la dose: «Gli
unici manganelli che si son visti sono
quelli dei centri sociali. Montanelli è
troppo anziano, ma chi non ha ancora
raggiunto quei livelli di perdita di lucidità dovrebbe rendersene conto. Bene
ha fatto Fini a dire che il governo non
tollererà, in occasione del G8, la violenza dei centri sociali tanto cari a
Montanelli e Rutelli». Pochi mesi dopo, alla morte di Montanelli, il neoministro rilasciò la seguente dichiarazione: «Con Indro scompare una voce
autorevole del giornalismo e della cultura italiana, sempre capace di essere
sferzante e di andare controcorrente in
ogni momento e in ogni circostanza».
Non fu un caso unico: prima e dopo la
morte di Montanelli tanti altri seguirono lo stesso comportamento.
Sono passati cinque anni e ora il distacco regalato dal tempo chiarisce
che per tutta la vita Montanelli dovette sopportare attacchi del genere. I
suoi ultimi anni sono stati tra i più
belli del recente giornalismo e, al contrario dell’operazione di alcuni libri,
sono da ricordare come di un amico si
tiene nella mente quando all’ultimo ha
fatto del bene invece di andare a rivangare le marachelle precedenti. Ancor
più se queste sono tutte da dimostrare
e troppo spesso sventolate a fini politici. Perché la storia del giornalista fu
l’esatto contrario di ciò che ha raccontato il ministro. La condanna a morte
dei nazifascisti e una rivoltellata dei
brigatisti ne sono una prova sufficiente. Non bastasse c’è il resto: un’intera
vita passata a combattere una battaglia
contro il suo tempo. Si riteneva «soltanto un giornalista», che a intendere
bene cosa volesse dire non appariva
poi poco. Per Montanelli essere giornalisti voleva dire essere testimoni.
«Testimone sempre, protagonista
mai», scrisse nella rubrica di dialogo
con i lettori del "Corriere della Sera",
«La stanza». Questo suo patto con se
stesso lo portò a rifiutare di tutto, anche una carica che non avrebbe certo
compromesso la sua indipendenza: il
seggio di senatore a vita.
Amava la libertà. I soldi, che non teneva in gran conto, gli servivano solo per
sentirsi più libero. Era di destra, ma
S tilos
Una pubblicazione
Domenico Sanfilippo Editore
"SOLTANTO UN GIORNALISTA". Uscita nel
2003, la biografia di Tiziana Abate (Soltanto un giornalista, Rizzoli Bur, pp. 357, euro 9) si distingue per il
senso di dettatura che la ispira: il libro è il frutto delle
conversazioni che la giornalista ebbe con Montanelli
sui temi più diversi, ma tutti rigorosamente riguardanti
la sfera professionale, di quella privata Montanelli non
avendo voluto parlare ritenendola irrilevante.
VIVE A MILANO. SCRIVE PER
"LA STAMPA", "QUOTIDIANO NAZIONALE", "CAPITAL",
"CLASS" E "STYLE"
FRANCESCO RIGATELLI
TIZIANA
ABATE
Diceva di non avere rimorsi e nulla da farsi perdonare
L’unica biografia di cui Montanelli
promosse la scrittura fu Soltanto un
giornalista (Rizzoli) di Tiziana Abate. Molte sono state le conversazioni
avvenute tra i due ad un tavolo di ristorante e in ultimo nella casa di viale Piave a Milano, poi tradotte in un
libro dalla giornalista de "Il Giorno",
prima inviata di Montanelli a "Il
Giornale" e a "La Voce". Sono state
tagliate le frattaglie: la vita privata
del giornalista. Per sua stessa volontà. Ma la scrittrice le custodisce in
un cassetto. Stilos l’ha intervistata.
Cosa contengono quegli appunti?
Il Montanelli uomo. Con i suoi rapporti privati, affettivi. Un percorso
emotivo. Ne vengono fuori gli
«omissis», come li chiamava lui. Diceva di non avere rimorsi: nulla di
cui farsi perdonare. Ma cose che non
aveva fatto, invece sì. Con i genitori, per esempio. E con le donne. Malinconie crepuscolari di chi nella vita aveva ricevuto più di quanto non
avesse dato.
Perché Montanelli scelse proprio
lei per la sua biografia a futura
memoria?
Inizialmente gli diedi del matto. Ma
non era una mattana di qualche setanche qui bisognava seguirlo nei suoi
ragionamenti, perché «le parole - ricordava - sono dei contenitori vuoti».
La sua destra era un sogno, un insieme
di principi morali. Già, i principi. Aveva troppa esperienza, accumulata sulla strada, per credere alle idee. Sì, gli
potevano piacere, per carità, ma i principi, quelli non si toccavano. «I principi restano - confessò negli ultimi anni
a Tiziana Abate in Soltanto un giornalista (Rizzoli) - e le idee invece cambiano con gli uomini cui vengono date in appalto. L’impegno della coerenza ho imparato a riservarlo soltanto ai valori fondamentali cui un uomo
deve ispirare la propria condotta: il
dovere dell’onestà, della sincerità, del
coraggio, della responsabilità. Ma sul
piano delle idee, sono state proprio
l’onestà, la sincerità e il coraggio che
mi hanno costretto a cambiarle ogni
volta che mi sono trovato di fronte all’evidenza del loro o del mio inganno».
Tante volte Montanelli ha sbagliato,
ma «mai per aziendalismo, né men
che meno per servilismo», scrisse
Gian Antonio Stella. Fu fascista ad
esempio, ma nel 1937 buttò via la tessera e da allora con la politica chiuse
per sempre, poi, quando sbagliava lo
Direttore responsabile
Mario Ciancio Sanfilippo
Coordinatore
Gianni Bonina
Anno VIII, n. 15
Martedì 18 luglio 2006
timana come al solito, un invaghimento professionale: applicò al nostro rapporto la stessa regola che dava al giornalismo. Si poteva rimettere l’ora sulle abitudini giornalistiche di Montanelli. Perché come tutti gli uomini di genio ne temeva le
insidie caotiche. Ci si incontrò così
una volta alla settimana per otto anni. Quando gli domandai come mai
avesse scelto me, rispose: «Fossi
matto, quelli (le grandi firme) invece di parlare del morto parlano di se
stessi».
Dopo il suo libro sono fiorite numerose biografie su Montanelli.
Quali ha letto? E che ne pensa?
Dopo le prime, ho smesso di leggerli. Quella di Paolo Granzotto è la
migliore: affettuosa e rispettosa ma
non per questo manca di cogliere le
contraddizioni del personaggio.
Oggi cercherebbe di fare in modo
diverso Soltanto un giornalista?
No, mi sono attenuta alle sue disposizioni. Compresa la lettera finale in
cui domandava di togliere le parti
private e non inerenti la vita giornalistica. Temeva emergesse solo il
personaggio e non il suo lavoro.
Chi erano oltre a lei le donne del
ammetteva. Scrisse nel 1965 sulla
"Domenica del Corriere": «Noi ci rifiutiamo di ammettere che le cose possono essere viste in una luce diversa da
quella in cui le vedono i nostri occhi,
perché questo ci obbligherebbe a riconsiderarle e ad approfondirle: il che
costa, lo riconosco, una certa fatica.
Ma il significato della vita è appunto
in questa fatica. Chi non la compie, rinunzia a vivere, e si contenta di vegetare. Secondo me le convinzioni che ci
esentano dal dubbio sono poche, e tutte di ordine soltanto morale. Certamente bisogna averne d’incrollabili
sul fondamentale problema del bene e
del male. Ma questo riguarda i "principi". Sulle idee politiche, al contrario,
non c’è il diritto, ma il dovere della più
larga disponibilità alla critica altrui e
alla lezione della esperienza. Chi le rifiuta non è una persona di carattere
(...). Perché la vera, la grande o, come
oggi si dice, la "irrinunciabile" libertà,
è appunto quella di riconoscere il proprio errore e di correggerlo».
C’era in lui qualcosa di «poco italiano», che per lui era il massimo dei
complimenti, un certo senso «della
precarietà delle vicende umane», ha
scritto Enzo Biagi, una percezione della vita come chiaramente finita e dun-
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mondo di Montanelli?
Nel mondo di Montanelli non c’erano donne. Il suo mondo era il giornalismo per cui aveva una dedizione
monacale. Certo, c’erano le compagne che tutti sanno. E la segretaria
Iside Frigerio aveva un ruolo discreto ma importante, quello di una affettuosa e un po’ ruvida governante da
quando lui lasciò il Corriere.
E gli uomini di Montanelli?
I maestri Longanesi e Prezzolini.
Enzo Maimone, l’autista, versione
maschile di Iside Frigerio, che negli
ultimi anni quando Montanelli era
così magro che le gambe da fenicottero parevano non reggerlo più lo
seguiva da lontano per evitare che
cadesse. Non rinunciò mai alla sua
passeggiata in cui scriveva mentalmente, quasi in trance, i suoi fondi.
Infine, con i giovani che rapporto
aveva?
Grande disponibilità. Non insegnava
mai nulla. Dava esempio e usava il
carisma. Con molta umiltà. Quando
a "Il Giornale" gli cambiarono la
grafica e dovette scrivere editoriali
più brevi perché finissero in prima
pagina non fece una piega.
F. R.
que da rispettare fino in fondo. Ci pensava spesso, anche isolandosi dagli
altri, era inevitabile. Longanesi disse
che stava in mezzo agli altri per sentirsi più solo. Forse non aveva trovato
Dio, ma lo aveva cercato. Di certo
senza intermediari. Nelle ultime settimane era stanco, stanco di tutto: del
suo paese, di rispondere ai lettori, di
spiegare la Storia agli italiani. Quella
Storia che aveva raccontato in tanti bei
volumi, da dilettante, come teneva a
precisare, nel tentativo di educare un
poco gli italiani, di fargli sapere chi
erano, da dove venivano, quali diritti,
quale presente avevano. Nonostante
tutto amava l’Italia e se glielo chiedevano rispondeva con un filo di voce:
«Se rinascessi vorrei, anche se mi vergogno a dirlo, tornare a essere italiano». Montanelli camminava, notò
Nello Ajello, «due passi avanti ai suoi
lettori». Vero. «Non si è mai curato,
neppure alle elezioni del 2001 - ha
detto Federico Orlando - di deludere la
maggioranza dei suoi lettori con una
dichiarazione di voto. Sentiva l’affetto dei lettori, ma sapeva di non poter
riuscire ad educarli civilmente. Si è
battuto negli ultimi tempi come pochi
altri per il suo paese, anche se ha ricevuto in cambio forse più amarezze».
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Con la stessa forza Montanelli diresse
"Il Giornale" e poi "La Voce", volenteroso di farne veicoli di informazione e
di formazione, messaggi di gusto e di
cultura. Ma i due progetti vennero assassinati entrambi dalla stessa mano,
quella di Silvio Berlusconi. «Con la
destra io non ho mai identificato un’ideologia - spiegava Montanelli a riguardo - e men che meno un partito,
ma una civiltà. Benedetto Croce definiva il liberalismo un contenitore in
cui qualunque idea può trovare posto,
purchè ne accetti i comportamenti e vi
s’adegui. Più che un’idea, la destra è
sempre stata una morale, un catechismo di comportamenti, correttezza,
discrezione, orrore dello spettacolo e
della demagogia».
Tornato negli ultimi anni al "Corriere
della Sera" grazie a Giovanni Agnelli
e Paolo Mieli, ne rifiutò sia la direzione sia la cura di un elzeviro marmidone accettando solo la rubrica delle lettere con lo stesso intento, la stessa determinazione di sempre. E riguardo
ad essa spiegò: «La porta di questa
Stanza rimarrà aperta fino al giorno,
anzi fino al minuto in cui avrò la forza
fisica e intellettuale di accogliervi il
lettore e di rispondergli. Il giorno in
cui non potrò più farlo, vorrà dire non
che sto per morire, ma che sono già
morto, nel senso che desidero esserlo».
Al tentativo di colloquio con il lettore,
a quella «goccia cinese» da versare
con cura ogni giorno sull’Italia, dunque, non rinunciò fino all’ultimo. Non
dimentichiamo che visse fino a 92 anni. Ma la troppa precisa coscienza del
paese e degli italiani, la consapevolezza in fondo di non poter fare molto per
i suoi lettori, che non andasse al di là
del suo ruolo di testimone, lo sconforto, insomma, per lo stato delle cose, lo
avevano stancato. Montanelli aveva
sofferto di una «sua» depressione, come diceva lui. «Sua» perché eccezionalmente gli permetteva lo stesso di
lavorare. Niente lo poteva distrarre
dal suo grande amore: il giornalismo.
Questa contraddizione, che, gramscianamente, Montanelli stesso sintetizzò
nel dualismo tra il «pessimismo della
Ragione gobettiano e l’ottimismo dell’Azione prezzoliniano», l’ha sottolineata più volte anche Ernesto Galli
della Loggia, secondo cuiconvivevano
in Montanelli il borghese positivo e
l’intellettuale novecentesco con le sue
angosce esistenziali, le sue tentazioni
annientanti, la sua solitudine. «E il
mestiere di giornalista - ha detto Galli della Loggia - credo lo abbia preservato da tentazioni più nichilistiche e
anarchiche».
Indro Montanelli, che un lettore in ultimo chiamò con affetto «il guardiano
delle parole», non fu mai solo, ma un
po’solo si sentiva e non poteva che essere così. Era troppo diverso, «troppo
coerente», come ha scritto Beppe Severgnini. Era un toscano-inglese dell’Ottocento, così «poco italiano». Era
l’erede, come scrisse in una delle sue
più belle Stanze, di un grande retaggio
che lo condannava «all’orgoglio, all’onestà e alla solitudine».
Gentile lettore,
in qualsiasi comune d’Italia
lei si trovi, prenoti la sua
copia presso un edicolante
di fiducia. Sarà certo di non
perderla e di riceverla
puntualmente.
sguardi
e riguardi
S t los
Da sinistra in alto a destra le tombe di Amelia Rosselli,
Antonio Gramsci, John Keats e in basso panoramica
del Cestio
pagina
3
S C A F F A L E
IL CIMITERO ACATTOLICO DI ROMA. Il degrado e l’abbandono ricoprono
di una guazza tutta italiana il camposanto che ospita poeti e uomini illustri di
fede protestante. Qui giacciono le spoglie di nomi quali John Keats, Percy B.
Shelley, Gregory Corso, Antonio Gramsci, Antonio Labriola, Carlo E. Gadda
L’eretico
non ha
più riposo
l «Cimitero dei protestanti» o
«Cimitero acattolico», conosciuto anche con il nome suggestivo di «Cimitero degli artisti e
dei poeti», o più semplicemente
come «Campo Cestio», è un luogo di
una straordinaria e monumentale bellezza che si estende su uno spazio di
due ettari e accoglie circa quattromila
tombe di cittadini di ogni nazionalità:
vi è sepolta una umanità varia di viaggiatori, poeti, artisti e diplomatici, appartenenti ad una sontuosa élite di eretici. Uno stemma ritrovato su una bara nel 1930 consente di risalire ad una
delle prime inumazioni ai piedi della
Piramide: si tratta di uno studente di
Oxford, Gorge Langton, morto nel
1738. Tuttavia il cimitero nasce ufficialmente l’11 ottobre 1821 per dare
una degna sepoltura agli stranieri di
confessione protestante o greco-scismatica che vivevano a Roma, anche
se, negli anni, è stata preferita la formula più ampia di cittadini acattolici.
L’area cimiteriale si estende tra la Piramide Caio Cestio, incastonata tra le
Mura Aureliane e Porta San Paolo, e il
quartiere Testaccio. In un fossato scavato tra la parte antica del cimitero e le
Mura Aureliane è ben visibile il selciato della via Ostiense che era diretta al
porto di Roma. Il quartiere Testaccio o
Monte Testaccio deriva il suo nome da
Mons testaceus, ovvero monte dei
cocci; infatti si tratta di una piccola altura artificiale che si è formata nei secoli con gli scarichi delle anfore provenienti dal porto di Ostia. Prima che
l’attuale aerea fosse protetta, con molta probabilità i cittadini di confessione
non cattolica venivano sepolti in uno
di quei luoghi «privilegiati» adatti per
i rinnegati, i condannati impenitenti e
gli eretici; un luogo che a Roma era situato oltre la Porta Flaminia, al Muro
Torto. I più «fortunati» venivano tra-
I
VIVE A PERUGIA. "L’ERRORE
GIUDIZIARIO" (MOBYDICK
2004), "BERNARD LAZARE.
CONTRO L’ANTISEMITISMO"
(DATANEWS, 2004)
MASSIMO SESTILI
sferiti nel cimitero protestante di Livorno. Se i protestanti erano considerati come lebbrosi o appestati, tanto
che il popolino romano, quando scorgeva un funerale protestante, era solito gridare «Al fiume! Al fiume!», alludendo al vicino Tevere, anche agli
ebrei non toccava una sorte migliore.
Il cimitero degli ebrei si trovava sull’Aventino e veniva chiamato con disprezzo «ortaccio degli ebrei». Nonostante la riluttanza della chiesa cattolica, il problema di riservare un’area
per la sepoltura degli eretici si fece
sempre più pressante nel periodo del
«Grand Tour», quando gli stranieri di
estrazione sociale elevata che si recavano a Roma era notevolmente aumentata e non potevano essere sepolti con prostitute e suicidi. La zona del
Monte Testaccio faceva parte dell’agro romano ed era un territorio di bivacchi e feste notturne dove le prostitute allietavano il popolino. Nel prato
privo di mura e di alberi, all’ombra
della piramide, sulle prime tombe interrate alla luce delle torce, brucavano
le pecore. Extra Ecclesiam nulla salus!
Per queste anime non vi era nessuna
possibilità di salvezza. Ora sul portone principale d’ingresso campeggia
la scritta «Resurrecturis».
Lungo i viali ombreggiati dai cipressi
che separano le tre zone del cimitero,
inebriato dai colori e dal profumo dei
fiori, immediatamente si percepisce
che in questo luogo la memoria non è
invasiva e opprimente, il passato suscita riflessioni e ricordi che si dipana-
no in un filo che tiene insieme Oriente e Occidente, Nord e Sud, cristiani
protestanti ortodossi ebrei ed atei. Seguendo il filo di una storia spesso fatta di intolleranza e di conflitti, gradualmente ci si immerge in un dolce
naufragio della memoria che trova un
appiglio nella leggerezza dell’epitaffio
della tomba di John Keats: «Qui giace
uno il cui nome fu scritto sull’acqua».
Innamorato della bellezza assoluta
sottratta al divenire e all’effimero dell’esistenza, Keats scolpiva i suoi versi sull’acqua. Colmo di inquietudine,
intuiva la bellezza, la grazia e l’armonia che vedeva allontanarsi dall’uomo plasmato dalla menzogna, e
nella bellezza cercava la patria ideale.
Keats che, sentendo la morte ormai vicina, mandò Severn a visitare il luogo
della sua sepoltura e, alla descrizione
fatta dal suo amico, disse che gli pareva già di sentire come i fiori gli crescevano sopra. Sulla sua tomba attorniata
da erba e fiori, il suo sogno è stato
esaudito ed egli è in ascolto: «Fu visione o sogno in veglia? Spente / son quelle note ormai: - Dormo od ascolto?»
Visioni e sogni che si ritrovano sulla
tomba di Percy Bysshe Shelley: vagabondo, anarchico, rivoluzionario, ribelle, visionario, sognatore assetato
di infinito, che lasciò la gretta Inghilterra per l’Italia, dove morì inghiottito da una tempesta nel golfo di La
Spezia. «Cado / sopra le spine della vita e sanguino». Una tempesta anticipata nella sua Ode al vento occidentale che sembra già contenere il suo epitaffio: un cuore in tempesta, come
chiaramente compare nell’iscrizione
tombale, «Cor Cordium, Cuore dei
Cuori», seguita dai tre versi del canto
di Ariel dalla Tempesta di Shakespeare: «Nothing of him that doth fade,
Buth doth suffer a sea-change Into
something rich and strange». È la tem-
I L C A SO
Una denuncia partita dagli Stati Uniti
Il World Monuments Fund ha recentemente inserito il Cimitero acattolico di Roma tra i cento siti mondiali maggiormente a rischio. L’8 febbraio
2006 arriva puntuale la denuncia del "New York Times" e dell’"International Herald Tribune" con due articoli firmati da Elisabeth Rosenthal. In Italia le reazioni non si sono fatte attendere. "La Repubblica" lo stesso giorno propone un articolo di Rosaria Amato dal titolo «All’ombra delle Mura Aureliane il camposanto degli acattolici», che riprende tra l’altro l’intervento di Valerie Magar: «Questo è un sito che richiede molte cure ma il loro costo va oltre il budget del cimitero». Il 9 febbraio "L’Unità" interviene con un articolo di Eduardo Di Blasi, «In pericolo il cimitero degli acattolici»: «Molti dei monumenti stanno cadendo a pezzi come le ossa che
ospitano, danneggiati dall’inquinamento e da anni di incurie». L’11 febbraio firma un articolo per il "Corriere della Sera" Sergio Luzzatto, «Per
favore, salvate le Ceneri di Gramsci», che afferma: «L’inquinamento atmosferico, l’erosione dei metalli, la crescita incontrollata della vegetazione
vanno gravemente danneggiando i sarcofagi e i monumenti tombali». Alla Camera dei deputati, il 10 febbraio, viene presentata un’interrogazione,
da parte dell’on. Pistone al ministro per i Beni Culturali, che rileva come
«i segni del tempo, il marmo corroso delle tombe, le statue sgretolate o alla meno peggio restaurate, le lapidi quasi già divelte, gli smottamenti del
terreno, sono i segnali più evidenti della denuncia fatta dai giornali».
pesta di Adonais, scritta in memoria
dell’amico John Keats, ma soprattutto la sua tempesta esistenziale. Shelley
scrisse che i poeti sono i non riconosciuti legislatori dell’umanità: nella
continua tensione per sentirsi parte
dell’infinito sanno cogliere la potente
energia della vita cosmica che sentono
pulsare dentro se stessi.
Di fronte alla tomba di Antonio Gramsci (1891-1937), morto nelle carceri
fasciste in una tragica solitudine, perviene l’eco della passione civile di
Pier Paolo Pasolini e del suo amore
per Roma: «Stupenda e misera città,
/che mi hai insegnato ciò che allegri e
feroci / gli uomini imparano bambini.
/ […] Stupenda e misera / città che mi
hai fatto fare / esperienze di quella
vita / ignota: fino a farmi scoprire / ciò
che, in ognuno, era il mondo». Su
questa tomba la lucciola, assediata da
un buio profondo e disperato, provava
con rinnovata e angosciata passione a
riprendere il volo con parole che sanno d’amore e di senso profondo della
storia: «Ma io, con il cuore cosciente
/ di chi soltanto nella storia ha vita, /
potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?» Pasolini, avvolto nella miseria
delle periferie romane, dagli ingenui e
feroci sorrisi dei ragazzi di vita, da
un’umanità di una povertà indicibile
che ancora invoca nella sua inguaribile innocenza il Signore. Una invocazione che ritrovo sulla tomba del romantico svedese Harald Jacobsson:
«Non pronunciare mai il nome di Gesù invano». In questo cimitero, definito da Oscar Wilde il posto più sacro di
Roma, riposa Gregory Corso, il poeta
della beat generation che prima di morire espresse il desiderio di venire sepolto accanto a Shelley. Come Pasolini amava la disperata innocenza degli
esclusi: «Uscii di prigione amando i
miei simili perché tutti quelli che incontrai là dentro erano fieri e tristi e
belli e perduti, perduti».
In questo luogo di pensiero abbellito
dalla creatività dell’uomo, per sua
espressa volontà è sepolto Carlo
Emilio Gadda. I versi per l’epigrafe
della sua tomba sono stati scritti dal
poeta Mario Luzi: «Qui nel cuore
antico e sempre vivo di sogni e d’utopie, Roma dà asilo alle spoglie di
Carlo Emilio Gadda geniale studioso
artista dalle forti passioni morali e civili signore della prosa». Goethe, in
visita a Roma nel 1778, affascinato
dalla bellezza della Piramide, immaginò la sua tomba circondata di cipressi e rischiarata dalla luna: il figlio
August lo precederà e la sua tomba è
situata tra due magnifici cipressi a ridosso delle mura Aureliane. Qui, insieme a Dario Bellezza, definito da
Pasolini «il miglior poeta della nuova generazione», icona del movimento gay della capitale, riposano
la poetessa Amelia Rosselli, la scrittrice Luce D’Eramo, l’intellettuale
argentino Rodolfo Juan Wilcock, il
fisico Bruno Pontecorvo, il filosofo
Antonio Labriola, unitamente al principe russo Jusupov, padre dell’assassino di Rasputin. In questa piccola altura verde e muta, il vento sussurra
silenzioso dei misteri dell’universo,
di un’armonia ancora possibile, di
una gioia che è vita e solo l’arte può
comprendere. Tra queste tombe il
solido nulla eterno si impregna della
leggerezza di un fiore: «eterno / tra
un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla».E tra i fiori si accompagnano dai versi di Ungaretti
che assumono consistenza di fronte
ai cespugli di rose che ornano le sepolture: «Morte, muta parola / ti odo
cantare come una cicala / nella rosa
abbrunata dei riflessi».
FRANCESCO PICCOLO, Scrivere è un tic, pp.118, euro 7, minimumfax 2006
Tra vari tipi di artisti, i pittori ed i
musicisti sono i meno esposti perché non si occupano di ciò che tutti conoscono cioè la vita. Invece lo
scrittore di narrativa parla proprio
della vita per cui basta essere vivi
per ritenersi di saperne abbastanza.
Questo è in sintesi il pensiero di
Flannery ’O Connor sul libro di
Francesco Piccolo intitolato Scrivere è un tic, il quale credeva di potersi prendere cura di un compito divulgativo necessario e non semplice. Voleva assomigliare agli scrittori studiando le loro riflessioni.
FRANCESCO MARANI, La casa dei due podestà, pp. 174, euro
15, Book 2006
Una storia vera. Si parla di un piccolo paese della Pianura padana dove lo scrittore vive felice con il padre che riversa sul figlio tutta la sua
conoscenza di politica e poesia.
Tutto scorre lieto fino al capovolgimento politico. È la fine. La sera del
27 aprile del 1945, in una Italia liberata, un individuo armato si presenta come appartenente alla brigata Garibaldi e porta via il podestà
del quale non si saprà più niente fino alla scoperta di una fossa comune. Marani osserva la Liberazione
da una prospettiva poco investigata,
correggendo l’equazione che fa dei
gerarchi fascisti coscienze insensibili e aguzzini preda dell’amusia.
DANIELE SCALISE (cura) Men
on men 5. Antologia di racconti
gay, pp. 260, euro 8,40, Mondadori 2006
Di cosa parlano i gay quando scriveno? Il loro racconto è vario e ispirato a diverse fonti. Il loro è un
mondo in cui vi sono parentele,
amicizie incubi e abitudini. Si trovano i temi della prostituzione al
«battuage», cioè brevi incontri sessuali, o del’importanza dell’amica
con la quale ci si sfoga e della quale anche innamorarsi. Il narratore
gay parla dell’Aids come anche di
infanzia e di amore perduto. Ma
tutto ciò non basta a se stesso. Occorrono sudore e ispirazione e i racconti di Men on Men 5 sembrano
darne testimonianza.
FERDINANDO MEZZETTI,
Da Mao a McDonald’s, pp. 499,
euro 10, Tea 2006
Oggi il capitalismo occidentale è
molto presente in Cina, che ha quadruplicato il suo prodotto inetrno
lordo conquistando la posizione di
quinta potenza economica mondiale. Segno di un tenore di vita di tipo
occidentale è la presenza di migliaia
di ristoranti sparsi in centinaia di
città. In quella Cina ancora chiusa
in sé dopo la morte di Mao l’impero celeste è uscito dal sottosviluppo
pur conservando contraddizioni tra
antichi poveri e nuovi ricchi. La
marcia verso il capitalismo, prende
più vigore dopo l’addio al Timoniere. Fernando Mezzetti in una nuova
edizione accresciuta rivolge il suo
lungo sguardo agli esponenti della
vita politica cinese decifrando soluzioni e svolte del Partito cominista
con la passione giornalistica della
osservazione quotidiana.
pagina
4
ENZO VERRENGIA
hi si ricorda di George
Roundy, il parrucchiere
interpretato da Warren
Beatty in Shampoo, di Hal
Ashby, uscito nel 1975?
Lì un fascinoso specialista di acconciature femminili scorrazzava per Los
Angeles, seminando sesso e sentimenti, ma anche rivendicando un’umanità
sentita e sorgiva. Cose che vengono in
mente a proposito di Gianluca Mercadante, da Vercelli. Anche lui è fascinoso come un giovane Warren Beatty,
ma non spreca il tempo fra uno shampoo e una messa in piega a collezionare tresche amorose. Sodale ricorrente
di Aldo Nove e Tiziano Scarpa, fra gli
altri, questa figura pressoché irripetibile di scrittore/parrucchiere conquistò
visibilità all’inizio del decennio con
McLoveMenù, fiaba d’amore post-postmoderna che vinse il Premio letterario «Parole di Sale» e fu pubblicato da
Stampa Alternativa.
Già in quel romanzo brevissimo si delineavano lo stile e il panorama vivente delle storie di Mercadante. Un’ironia mai debordante nel sarcasmo,
usata per rappresentare tipi contigui a
ogni latitudine. Lo scrittore, peraltro,
pur di nascita e radicamento vercellese, ha geni meridionali visibilissimi
nel cognome, campano. Ciò gli conferisce una polivalenza che manca a parecchi nomi dell’Oltrepò, spesso concentrati sui loro paraggi, soprattutto
metropolitani, proponendoli come
esempi di universalità nazionale,
quando così non è. Al contrario, Mercadante riesce a cogliere la variegatezza del carattere e dei caratteri nazionali contemporanei nell’umanità che gli
passa intorno.
Cominciando da quella familiare, che
costituisce il nocciolo soffice di ricordi in Il banco dei somari , sorta di autobiografia romanzesca, più che romanzata, nella quale il percorso della
formazione deborda felicemente in
quello del ritratto d’ambiente e di epoca. Il titolo, peraltro, riprende quello
del blog che Mercadante anima da
tempo, guadagnandosi un protagonismo tutt’altro che precario negli spazi
letterari della rete. Roberto Marchiori
narra in prima persona il proprio itinerario esistenziale, dagli anni ’70 a questo primo XXI secolo ancora troppo
sbilanciato sul Novecento per definirsi Nuovo Millennio. Quasi come il
giovane Holden, Roberto viene colto
in un finale che compensa le derive
emozionalmente arrabbiate toccate talora nel corso dei suoi primi trent’anni. Ma al contrario dell’eroe di Salinger, il Marchiori di Mercadante non intende scardinare l’establishment lacerando le proprie carni. Non che qui si
abbia a che fare con un giovane conciliante. Solo, l’ironia si smarca dall’an-
C
Interviste
GIANLUCA
MERCADANTE
"Nodo al pettine"
pp. 176, euro 12,80
Alacrán, 2006
GIANLUCA
MERCADANTE
"Il banco dei somari"
pp. 128, euro 11,50
No Reply, 2006
tagonismo radicale e basta quel «banco dei somari» a ritagliare per la brigata giovanile dei personaggi un territorio di alterità a anticonformismo vispo
e divertito, oltre che divertente per i
lettori.
Mercadante bissa la presenza in libreria con l’uscita contemporanea di Nodo al pettine, confessioni di un "parrucchiere anarchico" . Il registro dell’autore rimane lo stesso, ma la configurazione narrativa cambia per ulteriore ripiegamento autobiografico. In Il
banco dei somari, Roberto Marchiori
compie una svolta finale autonoma,
come padre e individuo narrante. Nodo al pettine invece porta allo scoperto il vero esito di Mercadante, che a
quattordici anni smette di andare a
scuola per fare il parrucchiere. E da
quel momento in poi la sua vita imbocca la strada del confronto permanente
con una fauna che nutre in parallelo la
vocazione letteraria, il «bisogno di descrivere» messo in bocca dall’autore al
suo alter ego de Il banco dei somari.
Stilos lo ha intervistato.
Il banco dei somari come miniatura
del romanzo di formazione, Nodo al
pettine a mo’di confessione operativa. Insieme sugli scaffali…
I docenti universitari sostengono che il
romanzo di formazione e l’autobiografismo siano le forme di narrazione
più difficili da praticare, per un autore.
Mi sarò cavato un dente, anzi due?
Mah. Aspetterei di vedere se sotto crescono quelli del giudizio. Sono in ogni
caso due libri molto diversi fra loro,
per proposta editoriale e contenuti.
Dubito che i librai li abbiano esposti
poi davvero tanto vicini.
Giuseppe Caliceti scrive nella prefazione di Nodo al pettine che gli interessano molto gli scrittori che per
vivere fanno altro. In Italia, alcuni
dei migliori lavoravano del tutto al
di fuori della parola scritta e dell’accademia: Fenoglio enologo, Volponi dirigente d’industria, Levi chimico. Dunque, lo strumento per narrare si affina lontano dai libri, per
poi produrne di propri?
Non posso dirlo. Esistono obiettivamente romanzi di recente uscita che,
privati dell’esperienza diretta da parte
S t los
GIANLUCA MERCADANTE. Due romanzi
complementari: un unico modo di osservare
l’umanità rifacendone il passato prossimo e
rovesciando il canone giovanilistico
Osservare
il mondo da
parrucchiere
degli autori rispetto all’oggetto della
loro narrazione, non avrebbero avuto
alcuna ragione d’essere. Mi riferisco a
Pausa Caffé di Giorgio Falco, o a Nicola Rubino è entrato in fabbrica di
Francesco Dezio, ma sono esempi ben
distanti dal mio e da quelli che lei cita.
Diciamo che alcuni scrittori si sono
guadagnati con costanza e fatica la
possibilità di vivere a contatto con la
cultura: insegnanti, ricercatori, talent
scout, giornalisti, perfino addetti stampa. Altri invece no. Ma un luogo di lavoro resta un luogo di lavoro. Se genera interdipendenze con ciò che un autore produce, il tutto sta alla discrezione dell’autore stesso. Ognuno racconta quello che meglio crede - e soprattutto, se arriva a scrivere, raggiunge la
propria poetica attraverso strade talmente diverse e personali, di volta in
volta, che è abbastanza impossibile
tradurle in un’ideale topografia.
Trent’anni sono forse pochi per essere il riepilogo di un’intera vicenda
umana. Eppure Roberto Marchio-
ublino, 2003. C’è una camera
d’albergo; e dentro c’è Aldo ALDO BUSI. Racconto, pamphlet e taccuino:
Busi. «Mi butto vestito sul catafalco - scrive -, sul letto, volevo dire (…), accendo solo l’abat-jour e mi
precipito… più per istinto che per
memoria… all’ultimo dei quindici
racconti sulla gente di Dublino e legVIVE A ROMA. HA APPENA
go d’un fiato "The Dead". Lo assumo
PUBBLICATO "NUOVI CIELI,
come un elisir di lunga vita dalla priNUOVISSIME CARTE"
ma parola, "Lily", all’ultima da cui
(EMPIRÌA)
prende il titolo, "i morti"». Una scena,
questa, che rischia di passare inosPAOLO DI PAOLO
servata nel turbine di immagini sorprendenti cui quest’ultimo libro di che sia uno sguardo, che sia un vento
Busi, Bisogna avere i coglioni per d’agosto, in Grecia. Legge dunque
prenderlo nel culo, sottopone il letto- "The Dead", Busi - e mentre legge ha
re. E invece c’è, al fondo della scena voglia «di due uova all’occhio di bue
in questione, qualcosa di decisivo. e tre fettone di pancetta affumicata»;
Forse perché quel racconto di Joyce, e sempre mentre legge (mentre scri"The Dead", è uno dei più belli, e im- ve) riconsidera una scena di vita famiportanti, che siano mai scritti (c’è liare spiata in aereo con «ammiraziodentro tutto: la chiacchiera con cui ne succhiasangue» per la «dolcezza
riempiamo il tempo; la paura, la di- infinita che si passavano quei tre»,
stanza; e il cibo e l’aria, e la neve; e padre, madre, figlia; e ancora, sempre
l’influenza dei morti sulle nostre vite); mentre legge decide di partire per le dendola da prospettive diverse. Busi è
isole Aran, perché invece concentrato su tutto, sempre e
forse perché Busi
un viaggio mai contemporaneamente. Ma come fa? Il
lo sente e lo fa
R e c e n s i o n i di
fatto nelle isole suo io dà senso a tutto: - la zip di uno
sentire a noi con
Aran si racconta zaino e le parole di un poeta, un limela luce assoluta, il
ALDO BUSI
peso di una rive"Bisogna avere i coglioni in "The Dead". rick osceno e una telefonata con Eulazione; forse perper prenderlo nel culo" Questo è il mira- genio Scalfari, il grande scroto di Viecolo: niente è se- ri, l’aeroporto congestionato di
ché diventa perfipp. 306, euro 17,50
parato da niente, Mykonos. È un io-mondo, un Busino, "The Dead",
Mondadori, 2006
la vita per Busi è mondo che racconta sé stesso, cioè il
il pretesto, la
un tutt’uno: lette- mondo, cioè Busi. Nei suoi non-rospinta per un
viaggio da compiere. Accade così che ratura, pancetta affumicata, viaggi da manzi, da Sodomie in corpo 11 (1988)
una minima vicenda - l’incontro con fare; e forse lui è l’unico scrittore, tra ad Altri abusi (1989) fino al più recenun libro -, tracciata mirabilmente dal- i vivi e tra i morti, in grado di vivere- te, bellissimo E io, che ho le rose fiola scrittura di Busi, finisca con il defi- sentire-scrivere così: immerso in un rite anche d’inverno? (2004), ci sianire, una volta di più, il modo di esse- gigantesco sconfinato «tutt’uno», che mo abituati a un procedere per accure dell’autore: il suo stare (nei luoghi, riconsegna al lettore caricato di si- mulo, a un macroscopico catalogo
nei giorni). Incanta, Busi, perché ri- gnificati, vecchi e nuovi. Gli scrittori che comporta un vibrazione della paconsegna i libri alla loro vivezza, trat- che conosciamo, anche gli scrittori gina, un rumore interno - come un
tandoli appunto da cose vive (anche che ammiriamo, sembrano (sono) crepitio - che coincide con quello delquando parlano di morte) - e così fa concentrati su un aspetto della vita, l’universo attorno. I sensi all’erta di
con i paesaggi, le parole altrui; così fa basta farci caso: una sfumatura, uno Busi riuscirebbero a percepirlo (e poi
con qualunque genere di cosa esisten- stato d’animo, un’esperienza che si a restituirlo per mezzo d’inchiostro su
te egli incroci: che sia un pene eretto, portano dietro di libro in libro, aggre- carta) dovunque, fermi o in movi-
D
ri pare avere attraversato molto di
più del centinaio di pagine nelle quali si racconta.
Roberto Marchiori è una telecamera,
un puro strumento di osservazione.
Tutto in lui - i suoi pensieri, le sue reazioni, le sue interazioni - è votato a
questo scopo. Ho scelto di dare vita a
un personaggio che si lasciasse (letteralmente) scivolare addosso determinati anni perché era mia intenzione
dipingere il ritratto di una generazione,
la mia, figlia di un Paese che ha perso
la propria memoria storica. Roberto
Marchiori, per ragioni anagrafiche, vive le fasi salienti di un sistematico lavaggio di cervello collettivo, non sempre passivo, anzi: il vuoto che descrivo
nel romanzo sarebbe alla portata dello
sguardo di chiunque, ma temo sia subentrata un bel po’ di assuefazione, in
trent’anni.
Che succede in tutto questo all’individuo più corteggiato delle ultime
decadi letterarie italiane, il giovane
autore?
Manda le sue cose in giro e aspetta che
qualcuno ammetta se è il caso di dargli
retta o meno. Ottenuto questo esaltante risultato, aspetta ancora.
Nodo al pettine non è un diario, ma
un taccuino. Come si fa ad acquisire il privilegio di suscitare in una
mente vigile lo stimolo ad esserne ritratti? Oppure, dal suo punto di vista, come si scatena, sul lavoro, quel
«bisogno di descrivere»?
Dal bisogno di esorcizzare. Se descrivo, in qualche misura spiego a qualcuno. E se spiego a qualcuno - è un principio basilare della psicanalisi - chiarisco meglio le cose innanzitutto a me
stesso. A prescindere dalla posizione
l’ultimo libro
Atlante dei sensi all’erta
mento non importa: il viaggio, in tal
senso, non è indispensabile. Indispensabile è una mente perennemente in
viaggio, anche alla finestra di casa, e
quella sensibilità vorace che - dice lo
scrittore - «mi ha tormentato, e anche
deliziato».
Siamo nell’ultimo, straordinario capitolo, datato "9 maggio 2005, Pieve di
Lombardia". Qui l’io-Busi, da fermo,
spiega a sé stesso la necessità della
scrittura (per capire - e capirsi) e definisce il suo rapporto con i luoghi:
«Ogni angolo di mondo un mero pretesto per covare e scovare un’ulteriore illuminazione inutile se non al mio
spirito di fastosa conservazione separato per sempre dall’esterno anche
in questo rito di finto avvicinamento»;
e d’altra parte il complicato rapporto
con l’altro da sé, con gli altri (con
«l’umanità») è chiarito nel fluviale
incipit: «Ma io sono lo Scrittore e
quindi l’altro per eccellenza», precisa
Nella foto sopra Gianluca Mercadante, autore per Alacrán
di Nodo al pettine. Sotto Aldo Busi che da Mondadori ha
pubblicato Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo
senz’altro privilegiata di osservatorio
umano che un salone di parrucchiere
può rappresentare, nel mio personalissimo caso ritengo che se ho maturato il
bisogno di descrivere un mondo partendo da questo particolare microcosmo, la necessità che mi ha spinto a
farlo sia stata quella di liberarmi dal
terrore che la convivenza pacifica (e,
sempre nel mio caso, commerciale…)
con certe tipologie umane a volte mi
procura. Il bello di quando effettui una
ripresa dal vero è che se la estremizzi
diventa l’esatto contrario. Se parti dall’orrore, e acceleri, arrivi al grottesco.
Quindi la commedia umana più che
mai si svolge dal parrucchiere?
Direi che ne è uno dei teatri.
Prima però in Il banco dei somari
sembrava che tutto si concentrasse
in un palazzo qualsiasi della provincia. Qual è il filo che lega questi due
interni della sua esistenza?
Esclusa l’appartenenza geografica di
entrambi alla stessa città in cui vivo e
sono cresciuto, direi che la scelta di delimitare i contorni delle vicende di un
libro in interni, mi permette di lavorare meglio sulla storia che voglio raccontare. È quanto accadrebbe comunque a una trama qualsiasi: nel momento in cui tagli una storia, da una
più complessa concatenazione di avvenimenti, ottieni quello che vorresti
raccontare in un romanzo di cento,
duecento, trecento o più pagine. Mettere i miei personaggi all’interno di
un habitat mi rassicura, è l’equivalente su carta dell’inscenare una piece a
teatro. Ci sono dei limiti territoriali fisici, delle quadrature sceniche, spazi
precisi, netti. D’altronde, sono pur
sempre cresciuto in mezzo alle risaie,
no?…
Secondo lei, allora, anche chi è nato
nel pieno della post-modernità fa
ancora in tempo a formarsi una memoria che funga da identità, non disperdendo quest’ultima fra i nonluoghi, le marche di vestiario e gli
oggetti del consumo ipertecnologico?
Di contro, ammetterà che proprio ai
giorni nostri stiamo ritornando a esprimerci scrivendo, grazie alle e-mail,
agli sms… si commenta di tutto, tramite la rete, e nel farlo ci si scambia
informazioni, ci si mette a nudo… in
qualche maniera, si arriva a stratificare un quadro composito di società che
in futuro bisognerà poi sgrossare un
bel po’e forse analizzare. Attraverso la
parola scritta si alimenta la memoria.
Viviamo in un Paese dove si scrive
molto, molto più di quanto si pubblichi
e si legga. Speriamo serva a definire
questa epoca, prima o poi. Lo scopriremo quando finirà, non prima, è nella
natura di queste cose. Per ora vedo
deroghe, falsi crolli, ma nessuna autentica picchiata verso l’abisso. Bisogna
aspettare.
Busi, che poi apprezza la «forbita
semplicità e l’elegante modestia» di
chi si viene in mano per scelta, da bravo «masturbatore scientifico».
E ammettendo di essere «un amante
parziale, mediocre» (appena prima di
spiegare con severa ironia il titolo del
libro), Busi non si accorge (o finge di
non accorgersi) delle sue splendide
contraddizioni. Le stesse che poi danno sostanza a una pietas detta sempre
a metà (per pudore, per rispetto di sé
e per odio della retorica), anzi mai
detta e perciò tanto più sincera. Quella che sembra dettargli infine parole
assolute sul nostro rapporto con gli altri, con l’altrui male e l’altrui solitudine. Tutto ruota attorno alla parola «ferita», e a occhi di bambino che forse
stanno per piangere: «Grandissimi,
marrone, umidi, intelligenti, stupefatti, spaventati e, a tratti, strabici come
per spossatezza».
Con queste pagine (seguite da un ulteriore, tenerissimo e dolente, omaggio alla propria madre), si chiude un
libro che è insieme taccuino, pamphlet, racconto, atlante (dall’Irlanda a
Capri, da Montreal a Salonicco). A
dargli un verso, ci pensa il moralista
Busi (a tale definizione, dice, «ci tengo tanto!») ancora e ancora in viaggio
- o in ballo: perché, spiega, «siamo feretri in ballo, il ballo della fine apparente, tra l’interramento e il volo, con
dentro ancora qualcosa di vivissimo
che risuona». E questo «qualcosa» risuona meravigliosamente qui, con lo
stile inimitabile di Busi, che raccoglie
voci («una penultima parola per tutti»): quasi fosse Orfeo, che prepara
l’incanto, e-voca, appunto, risveglia le
cose, e si guarda indietro per controllare. O per ricordare. Magari una verità che lampeggia sullo specchietto
retrovisore della propria auto: in una
notte di neve «prodigiosa» dell’85: di
neve che cade sui vivi e sui morti - come nel racconto di Joyce.
Catone
autori
italiani
ANDREA CARRARO
SILENZIO E OSSESSIONE
Antonio Di Benedetto, morto
nella metà degli anni Ottanta, è
uno scrittore argentino (i genitori erano entrambi di origine italiana) poco noto in Italia e abbastanza misconosciuto anche in
patria tanto che venne definito da
qualche critico, vado a memoria,
«il segreto meglio conservato
della letteratura argentina». Ora,
mi sono accostato a L’uomo del
silenzio (Rizzoli) con una certa
curiosità avendo prima letto la
bella, empatica prefazione di
Laura Pariani che mi ha letteralmente preso all’amo, e poi accompagnato in una nutriente lettura che è anche un’avventura
intellettuale. Il libro è algido, severo, potentemente metaforico, e
può leggersi come il referto di
una malattia che si esprime nella
ricerca disperata del silenzio assoluto, di luoghi non offesi dalla
perfida e quotidiana sfida dei rumori. Il protagonista è uno scrittore giovane e la scrittura svolge
anche una funzione terapeutica.
Non è arduo appaiare l’esile trama alla terribile esperienza del
sequestro e della prigionia patiti
dallo scrittore durante il golpe
militare per un anno e mezzo.
Il libro uscì nel 1964, cioè diversi anni prima del sequestro, che
avvenne il 24 marzo 1976, ma
come non leggerlo al modo di
una lucida e terrificante premonizione di quello che gli sarebbe
accaduto e che lo avrebbe poi
lentamente annientato nei pochi
anni che gli erano rimasti da vivere? Il protagonista non sopporta i rumori, dicevamo. Si appella alla normativa vigente in
materia nel suo paese, scrive lettere, articoli, redige denunce, ma
ottiene ben pochi risultati. Allora
comincia una via crucis di cambiamenti di domicilio, sempre
sfuggendo a qualche rumore
(macchine, torni, elettrodomestici, autobus, onde radio, musica…). In lui è presente una qualche volontà di autoannientamento, anche se nella realtà è la società moderna tutta che si libera
di lui, imprigionandolo, lo espelle dal proprio tessuto, lo rende
innocuo: proprio come è successo allo scrittore durante il sequestro e la detenzione, della quale
non conobbe mai il motivo.
L’uomo del silenzio è molte cose
insieme, per questo è difficile inquadrarlo correttamente o liquidarlo in una formula purchessia.
Prima di tutto, si è detto, è il romanzo di un’ossessione lungo il
crinale di una quotidianità alienante. Il lavoro (impiegatizio),
l’amore, la scrittura, l’amicizia, è
lungo questo asse che si avvita la
lotta contro i rumori del protagonista. Ma L’uomo del silenzio è
anche metaletterariamente il romanzo de Il tetto, il libro che
l’autore vorrebbe tanto scrivere e
sempre rimanda di cominciare.
«Nel mio romanzo ci sarebbe un
crimine e vari indiziati, ma io
stesso, l’autore, ignorerei l’identità del criminale». La riflessione
sul rapporto realtà-finzione è delle meno effimere. Lo strato più
profondo del libro è quello, direi,
metafisico: il protagonista conclude l’arco della sua esperienza
esistenziale con l’arresto e la prigionia, quasi una preparazione
alla morte. «Penso all’Aldilà… e
immagino un silenzio incorruttibile» dice dopo aver saputo che il
suo amico Besariòn - sorta di
suo doppio pedante e superstizioso - è morto. Il silenzio a cui
anela sempre senza mai raggiungerlo è una condizione di pace
ultraterrena. Questo romanzo
dalla scrittura disadorna e originalmente cadenzata, precisa fino
al cesello, a tratti potrebbe annoiare chi fosse in cerca di pura
azione e psicologie. Per goderne
occorre invece lasciarsi contagiare dalla «follia» del personaggio, calandosi senza resistenza
in una dimensione filosofica e
allegorica.
S t los
Nella foto Eraldo Affinati, autore per Fandango
di Compagni segreti
migway. E così via. Ai reportage seguono riflessioni sugli scrittori contemporanei che a me sembrano testimoniare, in un modo o nell’altro, oggi, qui ed ora, il nodo spirituale della
sezione, da Don De Lillo a Steven
Heighton, da Winfred Georg Sebald a
Cormac McCarthy, da Michael Herr a
Jonathan Raban, per citarne solo alcuni. Il volume è poi incastonato da due
scritti di viaggio: uno a Hiroshima
("La cicatrice del Novecento"), l’altro
a Nagasaki ("Nella terra consacrata").
Perché ho scelto questa struttura? Per
me la scrittura certifica l’esperienza,
come se fosse l’ultimo anello di una
lunga collana conoscitiva. Ho sempre
sentito un rapporto molto stretto tra
leggere, viaggiare e scrivere e ho inteso rappresentarlo.
Il titolo è dichiaratamente, e non casualmente, conradiano…
"The secret sharer", che per noi è Il
compagno segreto, ma Piero Jahier
tradusse come "Il coinquilino segreto", è uno dei capolavori di Joseph
Conrad: compreso in "Racconti di mare e di costa", narra la storia di uno
sdoppiamento. Non si sa bene se il
fuggiasco ospite del capitano sia una
realtà o un’allucinazione. Lo stesso
potrei chiedermi io a proposito degli
scrittori inclusi nel mio libro: questi
compagni segreti, coi quali di certo ho
avuto un rapporto privilegiato, sono
fuori o dentro di me? Sarebbe difficile rispondere.
In uno scenario che pare avvolto
dalla incommensurabile potenza del
tragico, esistono barlumi di speranza: la letizia dei ragazzi incontrati
ad Hiroshima nell’ipocentro dell’esplosione atomica, la gentilezza dell’impiegato alla stazione ferroviaria
nella stessa città, i bambini che giocano assorti sulla spiaggia dello
sbarco in Normandia…
A questi esempi di speranza potrei aggiungerei anche i miei allievi magrebini o slavi o afghani, ai quali insegno
italiano ogni giorno alla Città dei Ragazzi di Roma, presenti anch’essi in
Compagni segreti, come interlocutori
impliciti. Sono da sempre interessato
al male umano, nella storia trascorsa e
nella contemporaneità, non per gusto
macabro, ma per comprendere le ragioni del presente. Parto dalla Seconda guerra mondiale, che forse continuerò a sentire una ferita aperta almeno finché vivranno i protagonisti diretti, come Mario Rigoni Stern, ma sono
concentrato sul nostro mondo: e credo
che la letteratura contemporanea rappresenti uno dei migliori strumenti attualmente disponibili per interpretarlo.
Il grande tema della responsabilità,
così come perfettamente compendiato dall’ammonimento del teologo Dietrich Bonhoeffer, che è poi figura centrale nel corpus della sua
intera produzione letteraria («per
chi è responsabile la domanda ultima non è come me la cavo eroicamente in quest¹affare, ma quale potrà essere la vita della generazione
che viene») sembra costituire il senso ultimo di questo percorso gnoseologico a due voci, quella della letteratura e quello del pellegrinaggio.
Responsabilità della parola: scritta e
orale, da non intendersi quale precettistica, regolamento o statuto giuridico, ma nel senso indicato da Dostoevskij, che con questo concetto voleva
definire il peso dello sguardo altrui
che ogni uomo inevitabilmente è chiamato a sostenere. A farlo ci possono
aiutare i maestri, antichi e moderni:
ecco perché in Compagni segreti ci sono gli omaggi sulla tomba di Lev Tolstoj, a Jasnaja Poljana, o sulla spiaggia
di Dollarton, nella baia di Vancouver,
dove Malcolm Lowry conobbe una
delle sue stagioni più belle.
Mi permetta di rivolgerle la stessa
domanda che lei pone, in una pseudointervista, a Saul Bellow: «Secondo lei, la letteratura si avvia a diventare un’attività minoritaria?»
Credo che, salvo eccezioni, la vera
letteratura lo sia sempre stata, anche se
talvolta, e specialmente oggi, la rivoluzione mediatico-informatica vorrebbe indurci a pensare il contrario.
ue cani, Archer, vecchio che
assomiglia a un lupo, e Sarik, CATERINA BONVICINI. I sentimenti dell’ambivalenza
cucciolo che invade gli spazi
dell’altro: Archer ringhia, esercita la
sua autorità, ma la compagnia del piccolo gli piace, anche se cerca di non
farlo vedere come se fosse un debolezza. Qualche volta gli scopre le genVIVE A LUCCA. CURA UNA quasi-madre, Valentina, genuina ed del compagno per stare con loro in
give, al cucciolo, se gli dà troppo fastiesagerata, sensibile, intelligente e con- momenti importanti.
RUBRICA SETTIMANALE DI CRIdio: si amano, si perdonano, ricomincreta, rimane in bilico tra due culture, Capace di reggere anche l’odio della
TICA LETTERARIA SULLA CROciano. Ma un filo invisibile divide l’aadattabile sempre e per amore ad ogni bambina e di vederlo positivo: «Un
NACA DI LUCCA DE "LA NAmore dall’odio.
nuovo paese che la ospita. Rimane la odio arioso, travolgente, pieno di luce,
ZIONE"
Un giorno avviene uno scontro viodomanda sospesa, di fronte a questa un odio pieno di vita». Donna non
lento e si uccidono: «eppure non c’eragazza che «come zingara è rovina- madre ma forse più madre di quella
MARISA CECCHETTI
ra crudeltà». Questo limen sottile rita»: fino a che punto sia giusto inserir- naturale, per la capacità di darsi: «ho
torna nei cinque racconti della rac- de tante botte dalla madre «zingara fi- si nella vita dei figli degli altri, anche distribuito in giro il mio corpo e la mia
colta di Caterina Bonvicini, I figli de- no al collo, quasi uno stereotipo: pan- se il motore è l’amore, a intaccarne le anima», carica di vita perché libera
gli altri, definendo una zona d’ombra, tofole, gonna alle caviglie, viso rugo- radici culturali, a lasciare identità non nella vita e nelle scelte, amante perfetta che entra pian piano anche nel cuodi ambivalenza e di sofferenza dove le so, analfabeta».
definite.
parti ora si sovrappongono, ora si di- Madre e figlia si gridano le parole più Anche l’equilibrio de "L’amante per- re di bimbi divisi. La formula minima
truci in centro fetta", protagonista del secondo rac- ripropone la soglia, questa volta tra
stinguono. E quecittà, da lontano, conto, è messo a dura prova dai figli di l’amore e il gioco erotico spinto, tra
sto amore da cani
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
ma più tardi Valen- lui avuti dalla prima moglie. Questa l’attrazione e il disgusto, tra la passioche chiude la ractina corre incontro donna che ama loro padre, che lo ha ne e l’umiliazione.
colta è come quelCATERINA BONVICINI
alla madre che la rubato alla loro mamma, è la strega La lettura che fa di sé una diciassettenlo degli uomini:
"I figli degli altri"
accarezza tenera. cattiva da cui prendono le distanze in ne insieme al racconto dei fatti, avviedel resto anche
pp. 181, euro 12,50
Chi è dunque quel- modo tanto esagerato da diventare te- ne sulle pagine del diario stilato a
l’urlo di Sarik azEinaudi, 2006
la giovane donna neramente comico, nelle lunghe ore scuola nelle ore di chimica, con una
zannato a morte è
che si prende cura trascorse in casa di lei. Figli-pacchet- formula narrativa che mescola l’e«tremendamente
umano». Si può amare e fare del ma- della bambina, le mette a disposizione to, spostati e palleggiati tra rivendica- splosione ormonale dell’adolescente
la sua casa, la va a prendere a scuola, zioni e ripicche, entrano lentamente all’eros sadico subìto, alle formule
le, nonostante le migliori intenzioni.
Valentina delle rose è una rom di undi- fa i compiti con lei, la riveste, le inse- nel cerchio d’affetto della «strega», chimiche scritte sulla lavagna da un
ci anni che vive con numerosi parenti gna l’italiano?
che è presenza costante, sicura, pa- docente disatteso. Piacere e sofferenin un monolocale e vende rose. Pren- Con una madre zingara e un’amica- ziente, capace di sottrarsi alle richieste za, nella consapevolezza che, per libe-
rarsi di lui, deve prima liberarsi di sé:
«Mi ha addomesticato come un cane.
Oggi l’ho visto per quello che è. Non
soffro neanche, ho solo un enorme
senso di nausea». Un finale imprevedibile e beffardo vede riaffiorare nei
rispettivi figli atteggiamenti ben noti,
come se fossero un patrimonio genetico.
Una donna adulta è la protagonista di
"Non adorarmi", ammaliatrice che
sfrutta il potere fascinoso della cultura e della sua posizione. Fallita nel
rapporto con i propri figli, perdente in
famiglia, disinvolta come una teatrante, fa dei suoi allievi degli schiavi felici, alimentando il suo ego con la loro dedizione. Fondamentalmente sola.
Ambigua, interessata, crudele e dolcissima, secondo le esigenze del suo
copione: «Individua immediatamente
i punti deboli di tutti e lì colpisce, prima per sedurre poi per tormentare. Non adorarmi - diceva sempre, così
uno restava definitivamente fregato».
Nella Bonvicini il racconto conferma
la sua grande validità di genere letterario, per la tensione narrativa costante,
per la struttura intrigante che lo sostiene, ma soprattutto per la capacità di
fotografare pezzi di vita, con una verosimiglianza che turba, e di scandagliare l’anima attraverso una lettura
attenta di parole, gesti, pensieri.
l più bel libro di Eraldo Affinati,
a detta di chi scrive e prima dell’uscita di questo Compagni segreti, era stato Campo del sangue (Mondadori, 1997): rilettura dell’universo concentrazionario nazista, in cui un viaggio da Venezia ad
Auschwitz, accompagnato dall’incombente viatico di una dolorosa memoria privata (un nonno partigiano
fucilato, sua madre destinata al lager e
fuggita dal convoglio ad Udine), si
mudulava, di volta in volta, nelle forme del diario e del saggio, intrecciandosi alle struggenti e lancinanti testimonianze dei grandi scrittori della
Shoa: Levi, Hillesum, Weiss,
Amery… In quel libro, in fondo, così
come accadeva in altre prove di Affinati, l’autore si cimentava in un percorso di ricerca e di conoscenza che,
pur avendo le caratteristiche della necessità e della ineludibilità tipiche di
una vocazione, era destinato soltanto a
rinvenire, con fatica e sofferenza,
qualche lacerto di spiegazione alla
ineliminabile ed ingiustificata presenza del Male nel mondo.
Anche Compagni segreti in fondo nasce da questa coazione ossessiva, sgranata, in questo frangente, all’interno di
una struttura assai particolare ed originale. Infatti le dodici sezioni di cui si
compone questo libro, ognuna individuata da titoli che sembrano folgorazioni onomastiche ("Frantumi",
"Sbarre", "Soglie", "Zone grigie", "Il
vecchio e il male"…), racchiudono
un’alternanza di reportage e di saggi
letterari, alcuni dei quali anche di pregevole fattura e di grande pregnanza
espressiva: penso a quelli dedicati a
Coetzee, a Doctorow, a De Lillo, per
esempio.
A questa cernita di microsaggi (che si
presenta, a tutti gli effetti, come un canone, forse involontario, di scrittori e
testi «imprescindibili» del «secolo
breve») corrisponde una serie di pellegrinaggi nei luoghi par excellence del
’900, sia che essi appartengano di diritto alla Storia con la S maiuscola
(Hiroshima, la prigione di Beleo Ozero - 1000 miglia da Mosca, ma «prossima» nella memoria alla Kolyma salamoviana -, Montecassino, Bordeaux, con la cronaca del processo al
collaborazionismo nella persona del
prefetto Papon, la spiaggia di Omaha
Beach, la Berlino assediata dalla Armata Russa… ) sia che risalgano ad
una specie di costellazione affettiva e
memoriale dell’autore: Ketchum,
Idaho, dove Hemimgway si sparò, la
dacia di Boris Pasternak a Peredelkino, la tana di Tolstoi a Jasnaia Poljana,
la spiaggia di Dollarton a Vancouver
dove Malcom Lowry riuscì a placare,
per un po’, il suo spleen, e infine l’Asiago di quello che Affinati considera
una sorta di suo padre putativo, ovvero Mario Rigoni Stern. Veri e propri
pellegrinaggi questi compiuti da Affinati, di cui vengono pignolescamente
fornite non solo notazioni logistiche,
ma anche la documentazione su come
essi oggi appaiono nel confronto, ingrato, fra ciò che erano nella coscienza del «viaggiatore» che, in maniera
propedeutica, «aveva già letto tutti i libri» che li concernevano e ciò che sono diventati, ora deformati dalla modernità e dal progresso, anche se lì
l’aura di un tempo ciclico ed eternizzante sembra ancora resistere. Questi
luoghi, sebbene siano sottoposti a
quell’inevitabile processo di «desa-
I
D
ERALDO AFFINATI. Una selezione di microsaggi (che si presenta, a
tutti gli effetti, come un canone, forse involontario) di scrittori e testi
«imprescindibili» del «secolo breve», cui corrisponde una serie di viaggi
e pellegrinaggi in luoghi topici che hanno disegnato il Novecento
Pellegrinaggi nel mondo
con i «compagni segreti»
VIVE AD OSIMO (AN) DOVE
INSEGNA MATERIE LETTERARIE. COLLABORA CON "GIUDIZIO UNIVERSALE"
LINNIO ACCORRONI
cralizzazione» che pare status costitutivo della contemporaneità, sono come
incistati nella carne viva di Affinati
(non paia casuale la sua affermazione:
«per scelta o per destino, vallo a capire, sono l’uomo delle cicatrici e dei
punti di sutura»). Resta ora da decrittare chi siano quei «compagni segreti»
del titolo, che trasparentemente alludono alla viscerale intimità fra il capitano ed il clandestino, protagonista
dell’eponimo racconto conradiano:
piace pensare che essi non siano, come vorrebbe una lettura più immediata e semplificatoria, soltanto quei
maestri della letteratura che Affinati
sente come destinali nella sua formazione di intellettuale e di scrittore, ma
anche gli inconsapevoli secrets sharers del presente, quegli alunni slavi,
arabi, africani ed asiatici che sono nella sua classe e che, scorrendo il dito
sulla mappa geografica, insegnano,
«con pazienza e lungimiranza» al professore ed al mondo i luoghi da cui
provengono e le tappe del loro esodo:
«le scalcinate periferie di Addis Abeba, la finestra pluviale poco distante da
Lagos, i mercati galleggianti di Dacca,
gli empori di Herat, le feste di Rabat,
gli scantinati di Bucarest. Ed io compio davvero insieme a loro, senza pagare il biglietto, il figiro del mondo in
aula». Affinati ne ha parlato con Stilos.
In copertina una foto di cui lei è autore viene ritoccata dalle distorsioni cromatiche di Toccafondi: segno
ormai inconfondibile dei libri targati Fandango.
La copertina riproduce una fotografia
del cosiddetto «panificio» di Stalingrado: la rovina di un palazzo che i
russi, all’indomani della celebre battaglia contro i tedeschi, lasciarono così
com’era, quale monito per le generazioni venture. Scattai io stesso la foto
l’estate di quattro anni fa quando andai
in quella città oggi chiamata Volgograd. Ho proposto l’immagine, assieme ad altre, a Gianluigi Toccafondo: il
lavoro grafico che lui ha fatto, nel suo
caratteristico filtro stilistico, mi sembra corrispondere pienamente allo spirito del libro.
L’originale alternanza di reportage
e recensioni librarie, spesso veri e
propri microsaggi, caratterizza la
struttura di questo testo così difficilmente catalogabile: a che cosa è
dovuta questa scelta così particola-
IL LIBRO
ERALDO AFFINATI
"Compagni segreti"
pp. 376, euro 18,50
Fandango, 2006
In giro nel mondo
con gli scrittori
contemporanei
«Compagni segreti» sono gli scrittori contemporanei che hanno guidato l’autore nei suoi viaggi nel mondo alla ricerca di una cifra da
dare al Novecento attraverso i luoghi che lo hanno segnato. Da Hiroshima alla Russia agli Stati Uniti, Affinati ricerca la patria dove le
ragioni della vita si incontrano con quelle della letteratura. Libro di
forti suggestioni e intenso per forma e contenuto, Compagni segreti è
un almanacco di reportage e saggi dove prevale l’intelligenza.
re? Sembra così che anch’esso rientri, a pieno titolo, in quella che lei
definisce come l’anomala peculiarità della grande letteratura contemporanea, ovverosia «l’insufficienza della catalogazione per generi».
Il libro, introdotto da due pagine intitolate "Le ragioni del ritorno", è composto da dodici parti, ognuna delle
quali viene preceduta da un reportage
in linea con il tema della sezione. Ad
esempio, il capitolo "Sbarre" presenta
in apertura il diario del mio viaggio in
un penitenziario di massima sicurezza
in Russia. Quello chiamato "Il vecchio
e il male" inizia con un pellegrinaggio
a Ketchum, sulla tomba di Ernest He-
Un filo divide amore e odio
pagina
5
Ossigeno
autori
italiani
BENEDETTA CENTOVALLI
MEMORIA DEL SACCO
Andate a vedere il film Diario
del saccheggio (2004, distribuito
da Fandango) di Fernando Solanas. Primo tempo della trilogia
che prevede La dignità degli ultimi (2005) e Argentina latente
(2006). Serve a capire meglio cosa è successo in Argentina, come
è maturata la crisi economica
esplosa nel 2001, le ragioni politiche di un disastro che ha fatto
più vittime della dittatura e ha
messo in ginocchio un paese che
era tra i più ricchi del mondo industrializzato. Solanas ci mostra
come si distrugge consapevolmente un’economia solida e florida gonfiando il debito internazionale, privatizzando e svendendo alle compagnie estere l’industria nazionale, indebolendo l’agricoltura e l’allevamento, favorendo l’importazione indiscriminata con la fittizia parità dollaropeso, amministrando il bene pubblico con la corruzione. Istituti finanziari internazionali, multinazionali, grandi banche con la
complicità del potere giudiziario, delle corporazioni politicosindacali hanno trasformato il
«granaio del mondo» in un paese
dove si soffre la fame e gran parte della popolazione è indigente.
35.000 morti l’anno per denutrizione e malattie curabili.
Nel dicembre 2001 la situazione
è esplosiva. Il corralito deciso
dal ministro dell’economia Domingo Cavallo blocca i risparmi
degli argentini. Il 19 dicembre,
alle undici di sera, quando in televisione il presidente Fernando
De la Rúa dichiara lo stato d’assedio, la popolazione di Buenos
Aires spontaneamente scende in
piazza. Un rumore sempre più
violento sale dalle strade della
capitale, un fiume di donne, bambini, giovani e anziani avanza armato di pentole, coperchi e bastoni, di tutto quello che può far
rumore. Il cacerolazo è non solo
l’espressione pacifica della rabbia degli argentini, ma il golpe di
un popolo sopraffatto da trent’anni di modello neoliberista che ha
cancellato l’economia del paese
sia in dittatura sia in democrazia.
La classe media più potente dell’America Latina al ritmo di «Ladrones! Ladrones!» e «Se vayan
todos!» dice basta alla mafiocrazia degli ultimi decenni. Dal colpo di stato dei militari di Videla
nel 1976 il paese è precipitato in
una rincorsa alla speculazione finanziaria estera che ha arricchito
i già ricchissimi e smantellato
l’industria, come quella petrolifera. Il massacro degli oppositori
come l’inutile guerra delle Malvinas hanno reso possibile il consolidarsi di un modello economico suicida e criminale, che si
perfeziona da Raúl Alfonsín a
Carlos Menem. Anzi Menem assieme a Cavallo, con la complicità del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, sono i massimi artefici del
saccheggio.
La temperatura della protesta sale nella notte tra il 19 e 20 dicembre, fino a quando De la Rúa ordina di reprimere la manifestazione. Più di trenta morti, feriti e
arresti indiscriminati. E il presidente costretto a fuggire in elicottero dal tetto della Casa Rosada.
L’occupazione di Plaza de Mayo
e delle strade di Buenos Aires
dura per mesi, molti di coloro
che manifestano indossano la
maglietta a righe bianche e azzurre della nazionale di calcio,
segno di identità e di appartenenza, è la bandiera infinita che sigla
il duro film di Solanas.
Se resistete all’urto della rabbia
che questo documentario suscita,
andate anche a vedere Bombon.
El perro di Carlos Sorin, un film,
dolce e riflessivo, figlio di quella
situazione. Patagonia. Disoccupazione. La speciale amicizia
con un dogo argentino. Un sorriso con l’amaro in bocca.
pagina
6
EMILIA PAGLIANO
FRANCO CARDINI, LEONARDO GORI. Il secondo thriller, scritto a quattro
ietrich von Altenburg,
personaggio già protagonista de Lo specchio
nero, torna in Il fiore d’oro scritto - come il precedente - da Franco Cardini e Leonardo
Gori. A prima vista Dietrich von Altenburg assomiglia ad un altro personaggio, il Martin Bora di Ben Pastor;
in realtà, a parte alcune somiglianze il fatto di essere entrambi tedeschi,
non nazisti, di occupare un alto grado
che permette loro una certa libertà di
azione - Dietrich e Martin hanno ben
poco in comune e l’andamento stesso
del romanzo di Cardini e Gori è del
tutto diverso da quello dei romanzi
dal forte impegno morale di Ben Pastor. Sia ne Lo specchio nero che ne Il
fiore d’oro la trama segue il filo dell’avventura, alla ricerca di un oggetto
dai poteri misteriosi, connesso in qualche maniera con le forze dell’occulto,
simbolo di per sé del potere assoluto.
E c’è, in entrambi i romanzi, più che
una ricostruzione degli avvenimenti
storici dell’epoca bellica, un’intrigante atmosfera creata da altre suggestioni del tempo - la fanatica ambizione di
Hitler di riunire in un museo a Norimberga storiche insegne del potere in Lo
specchio nero, la musica di Wagner, la
filosofia junghiana e quella orientale,
gli scritti e anche le stravaganze di
D’Annunzio, la sua amicizia con Guglielmo Marconi, il cinema del Ventennio in questo Il fiore d’oro. Che
cos’è, dunque, questo fiore d’oro che
sembra essere appartenuto a Schopenhauer all’epoca del suo interesse
per il buddismo e l’induismo? Un talismano da cui dipendeva la vita o la
morte di chi lo aveva in mano, e non si
sa come il fiore sia arrivato a Wagner
che sembra poi averlo regalato a
Nietzsche. Sappiamo però che, quando Wagner componeva il Parsifal,
aveva indicato che il Graal venisse
rappresentato come un fiore d’oro. E
che certamente Wagner riebbe indietro
il gioiello e lo aveva con sé alla sua
morte, a Venezia. A questo punto entra
in gioco D’Annunzio.
Si svolge al Vittoriale la maggior parte del romanzo di Cardini e Gori, dove
deve essere girato un film di coproduzione italo-tedesca su un vecchio copione di D’Annunzio, utilizzando anche i cartelli con le didascalie originali, se vengono ritrovati. Leonardo Gori è molto abile nel creare il piccolo
mondo fittizio dei suoi romanzi, facendo riapparire i suoi personaggi anche
trasversalmente, nell’una e nell’altra di
quelle che appaiono come due serie distinte: Dietrich von Altenburg incontra
nuovamente, ne Il fiore d’oro, Elena
Contini, la donna di cui è innamorato
il capitano dei carabinieri Bruno Arcieri nei romanzi seriali di cui questi è
il protagonista, ed ora Elena (che precisa di non vedere Bruno da cinque anni) ha un ruolo attivo di cui non diciamo nulla, in mezzo a repubblichini e
tedeschi nella Repubblica Sociale di
Salò. E Dietrich accenna pure all’amico Bruno, chiamandolo solo per nome
e ricordando il loro incontro nella vicenda che era al centro de Lo specchio
nero. Stilos ha intervistato i due autori.
Gori, lei ha scritto quattro romanzi
con il capitano dei carabinieri Bruno Arcieri e due con l’ufficiale delle
SS Dietrich von Altenburg e, a parte l’ultimissimo L’angelo del fango,
sono tutti ambientati nello stesso periodo, la Seconda guerra mondiale.
Perché due serie di romanzi con due
personaggi diversi e tuttavia nella
stessa epoca storica?
mani, opera di un giallista e un medievista appassionato di storia moderna:
una miscela di mystery, arcano, poliziesco e documentale che premia una
coppia capace di combinare generi e intrighi rievocando gli eventi bellici
D
Guerra mondiale del ’39
il teatro dell’esoterismo
Il motivo è semplice: Franco Cardini
mi ha chiesto se ero d’accordo di creare qualcosa insieme. All’inizio mi è
parsa una «proposta indecente», poi
ho accettato con interesse e curiosità.
E abbiamo proseguito con questo secondo romanzo perché ci siamo resi
conto che alcune cose potevano essere perfezionate, che si poteva raccontare una storia in maniera migliore e,
inoltre, Lo specchio nero aveva avuto
un discreto successo. Quanto alla scelta dello stesso periodo storico, gli anni ’30 e ’40, devo dire che, pur essendo molto diversi, Cardini ed io abbiamo in comune l’amore per il passato
recente. Per me il passato ha un fascino particolare e mi illudo di utilizzare
il passato non tanto per raccontare cose del presente ambientandole nel passato, ma per trovare nel passato le radici del nostro vivere attuale. E mi è
piaciuta l’idea di un secondo filone
perché non avevo esaurito le cose che
volevo dire di quell’epoca.
Cardini: come è nata l’idea di scrivere un romanzo con Gori?
Io mi sento un giallista di complemento: pur apprezzando il genere, non
conosco la scrittura gialla, il giallista è
Gori. Mi era molto piaciuto il primo
romanzo di Leonardo Gori, Nero di
maggio, avevo un’idea che poteva essere trasformata in un buon thriller e
ho giudicato Gori, per affinità di idee,
di gusti e di cultura, come lo scrittore
più adatto per questa operazione che è
risultata poi ne Lo specchio nero. Per
Il fiore d’oro abbiamo ripetuto la stessa esperienza con maggiore affiatamento.
C’è un forte filone esoterico in entrambi i romanzi, connesso con i due
oggetti al centro della trama, lo specchio nero e il fiore d’oro: da dove le
viene questo interesse per l’esoterismo? E come si concilia con la sua
visione di storico?
IL LIBRO
FRANCO CARDINI
LEONARDO GORI
"Il fiore d’oro"
pp. 401, euro 17,50
Hobby & Work,
2006
Nietzsche, Wagner
più il Vittoriale
Aprile 1944. Un cadavere galleggia in un canale di Venezia.
L’ufficiale delle SS Dietrich
von Altenburg ha l’incarico di
trovare il «fiore d’oro», il
gioiello che Nietzsche regalò a
Wagner e che forse si trova nel
Vittoriale di D’Annunzio. Il
Vate aveva scritto i cartelli per
un film muto, "Il fiore d’oro",
nome che veniva dato in codice
ad un’arma segreta.
Come storico sono un medievalista e
l’aspetto esoterico in senso ampio fa
parte del mio campo di interessi perché è connesso con periodi e figure
storiche che fanno parte della mia specializzazione. Però sono molto interessato alla storia moderna e contemporanea e al periodo fra le due guerre. Il fenomeno del nazismo e la Seconda
guerra mondiale sono molto densi da
questo punto di vista, per quanto riguarda l’aspetto esoterico. Ciò si concilia perfettamente con la mia visione
di storico. Credo che questi siano due
bei libri di storia e che l’aspetto esoterico, specialmente per come e quanto
ha caratterizzato il nazismo, sia ben
esposto e non credo ci siano errori.
Certo, si tratta di romanzi, ci sarà qual-
’occasione per dialogare con
Bruno Fabi, caposcuola della BRUNO FABI. Un saggio filosofico che torna
corrente filosofica che va sotto
il nome, ormai diffuso e considerato,
di «Irrazionalismo sistematico», ci è
data dalla pubblicazione, dopo oltre
cinquant’anni dalla prima edizione,
di Il Tutto e il Nulla. Saggio di una fiVIVE AD ALBANO LAZIALE. lità della materia, l’arcana innata intellosofia dell’irrazionale. Il volume vie"LA PITTURA DI CARLO FOR- ligenza delle cellule pronte a costruire, secondo compiti diversi, la stupefane riproposto ai lettori arricchito da un
TINI" (SOVERA, 2004), "I
cente complessità dell’organismo visaggio dello stesso autore e da una poCINQUE PILASTRI DELLA STOLvente fino a creare l’organo pensante,
stfazione di Franco Campegiani. StiTEZZA" (ARMANDO, 2003)
creativo, auto-cosciente. Tutto ciò mi
los lo ha intervistato.
ha convinto dell’irrazionalità dell’esIl suo libro, che uscì nel 1952, ha inALDO ONORATI
sere e della vita umana. Tenendo prefluito molto sul pensiero contemporaneo, ma ancor di più sulla lette- Con il passare degli anni, la mia con- sente che la mostruosa possibilità calratura. L’Irrazionalismo è una sco- vinzione è maturata, considerando la colatrice dell’elettronica e le deduzionon corrisponden- ni-induzioni logiche relative, sterili in
perta o un’ipotealla realtà dei astratto, sono soltanto un apporto mosi?
I n t e r v i s t e za
valori dati razio- desto alla creatività e al progresso, in
Intravidi trasparire
nalmente come cui dominano l’intuizione, la fantasia,
l’irrazionale nella
BRUNO FABI
assoluti, i tragici la volontà, l’azione e la fede, tutte vistoria, nella lette"Il Tutto e il Nulla"
accadimenti co- cine all’irrazionale, nella recente fonratura e perfino
pp. 325, euro 13
smici a lungo e dazione dell’«Irrazionalismo sistemanella cronaca già
Anemone Purpurea,
breve termine, la tico» ho indotto il principio (opposto a
nella mia prima
2006
illogicità della sto- quello di una filosofia tradizionale):
giovinezza, così
ria e delle vicende «Tutto ciò che è reale, è irrazionale».
tentai di riassumere in un saggio,
nei lontani anni Cinquanta, il mio pen- umane, il mistero della molecola che Il suo libro fu caldeggiato da Ugo
siero al riguardo, in forma sistematica. pare essere energia, la infinita casua- Spirito. Quali ostacoli incontrò nel-
L
che imprecisione…
E qual è, Gori, il suo atteggiamento
nei confronti dell’esoterismo?
La mia mentalità rifugge dall’esoterismo e, confrontandomi con gli apporti di Franco Cardini, mi sono divertito
a mettere in discussione le mie convinzioni positiviste. Ed era una lotta interna tra due mentalità diverse: una di rifiuto e una possibilista. Ne Lo specchio nero c’era Bruno Arcieri che incarnava lo scettico Leonardo Gori a
fronte di Dietrich che rappresentava il
possibilista Franco Cardini; in questo
nuovo romanzo c’è come un superamento, non c’è più Bruno, noi ci siamo
amalgamati e il romanzo è più unitario.
Cardini, oltre al filone esoterico,
qual è stato più precisamente il suo
apporto al romanzo Il fiore d’oro?
È stato un apporto più variato, rispetto a Lo specchio nero in cui mi sono limitato a «creare» il personaggio di
von Altenburg e alle disquisizioni dotte. Ne Il fiore d’oro ci siamo spartiti
anche scene e dialoghi che non avevano a che fare con il filone esoterico e
persino scene d’amore: ad esempio
amo molto il sogno-delirio di Dietrich
in cui si assiste al matrimonio del maresciallo Stalin con Jean Harlowe, scena che rivendico come assolutamente
mia.
Ne Lo specchio nero si parlava della volontà del Führer di radunare in
un museo a Norimberga tutti i simboli del potere dell’antichità, in questo nuovo romanzo la trama ci porta a scoprire un congegno progettato da Guglielmo Marconi: che cosa
c’è di vero nell’uno e nell’altro progetto?
Sia nel primo sia nel secondo ci sono
forti nuclei di verità. Esisteva veramente, durante il nazismo, la volontà
di creare un museo del genere e Leonardo Gori potrà confermare che esi-
dopo 50 anni
L’irrazionale è dappertutto
la critica?
Non incontrò ostacoli critici di rilievo,
ma fu accolto con interesse anche all’estero e a livello universitario. Unica critica fu quella di un giornale della mia città natale, una critica scarsa di
argomenti e dovuta forse al tentativo
Nella foto superiore Leonardo Gori e Franco Cardini, autori
per Hobby & Work di Il fiore d’oro. In basso Bruno Fabi che
da Anemone Purpurea ha pubblicato Il Tutto e il Nulla
stono miti e leggende sul conto delle
invenzioni «perdute» di Marconi che
morì - casualmente? - pochi mesi dopo D’Annunzio. In ogni caso storia,
storia della scienza, esoterismo e altre
amenità sono inserite nel romanzo
sempre in modo sostanzialmente corretto, anche se con le doverose concessioni all’invenzione.
Gori, sapevamo dai precedenti romanzi della sua passione per la musica, conosciamo pure quella per i
fumetti. Ne Il fiore d’oro veniamo a
conoscenza di un altro suo amore,
quello per il cinema, anche per il cinema degli albori. Che cosa le comunica una pellicola del film muto?
Ho scoperto tardi il cinema muto e ho
avuto la rivelazione di un mondo diverso: il cinema muto aveva definito la
sua estetica matura e adulta in un mondo espressivo che è stato ucciso dal sonoro negli anni ’28-’30. Tutti sappiamo di attori del muto che sono stati falcidiati e sostituiti da altri nel sonoro.
Vedere un film muto è andare in un altro mondo, è un viaggio nel tempo. Mi
affascina ciò che non è scontato e mi
piace raccontarlo. Ho cercato di comunicare questa fascinazione puramente
visiva ed è stata una sfida farlo con la
letteratura, raccontare le immagini con
le parole.
In quanto storico, Cardini, pensa
che venga sminuita la storia come è
trattata nei romanzi, oppure il romanzo è una maniera per rendere
accessibile la storia ai più?
Sono convinto che un buon romanzo
storico sia un ottimo veicolo per divulgare la storia, accessibile e non solo ai
più- basta che l’essenza della storia sia
rispettata. Ci sono anche le ucronie
che hanno pari dignità, ma anche nel
caso delle ucronie credo che il gioco
intellettuale- se onesto- abbia comunque una valenza didattica. Facciamo il
caso del «nostro» D’Annunzio e del
«nostro» Vittoriale: non sono esattamente sovrapponibili alla figura storica e a quella architettonica e tuttavia
hanno una verità sostanziale. Ad
esempio, non c’è nessuna pagoda
giapponese come quella che noi descriviamo al Vittoriale, ma avrebbe
potuto esserci.
Gori, oltre ai nomi di persone vere
ovviamente note, come D’Annunzio
o Canaris o Bruers, il bibliotecario
del Vittoriale, ci sono dei nomi di altri personaggi su cui si gioca di allusione? E chi è l’Andrea Battaglia
che Dietrich incontra sulla nave nelle ultime righe del romanzo?
Due personaggi prima di tutto: Schultz
e Ehrhardt sono due nazisti del film
Vogliamo vivere di Lubitsch, un film
con Carole Lombard. E li ho messi nel
romanzo come un modesto omaggio a
quello che considero il più grande regista di tutti i tempi. Andrea Battaglia
è realmente esistito con questo nome
di battaglia e non vorrei dirne il nome
vero. Vorrei lasciare che il lettore appassionato di storia contemporanea lo
indovini quando legge della sua destinazione. Diciamo che è un grande personaggio storico del periodo fascista
che fece una scelta molto coraggiosa.
Il finale sembra quello di un film dei
«telefoni bianchi»: è un’allusione
voluta?
I due personaggi lo dicono esplicitamente, è un’ammissione di colpa che
fanno entrambi ed è anche un omaggio
a Liala: volevo prendere quello di buono che c’è stato nella bassa letteratura,
nel basso cinema, nel cinema dei telefoni bianchi e in Liala. Il fiore d’oro
è nato come un grande feuilleton che
mescolava avventura, fantascienza,
thriller.
di difendere certa ortodossia religiosa.
Cosa l’ha portata a questa intuizione che non contrappone il tutto al
nulla e viceversa, ma li articola in
un sistema filosofico che, dall’irrazionale che governa il mondo, porta alla speranza dell’esistenza di
Dio?
Dalla convinzione che il Tutto, presentandosi eterno e infinito pur nel
rinnovarsi delle sue parti, sia il solo
universale e che il solo universale sia
appunto irrazionale perché indefinibile, pena il ridurlo a parte. È facile il
passaggio alla fede e all’esistenza di
Dio sotto il punto di vista del mistero
della fede stessa e della potenza divina: onnipotenza che ha riscontro solo
nel Tutto, in cui tutto è possibile, anche l’impossibile (cioè il miracolo). Il
Tutto può essere insomma l’immagine di Dio nella sua onnipotenza, ma
può anche rivelarsi una sua incarnazione umana destinata a moderare gli
uomini nella scelta fra bene e male come elementi del Tutto, in cui, appunto, tutto è possibile: scelta senza la
quale l’uomo perderebbe la sua umanità.
Finisterre
S t los
autori
italiani
ARNALDO COLASANTI
I SOGNI DI LOMBARDO
Il valore massimo della saggistica non è l’erudizione, l’intelligenza o la complessità della prospettiva. Un grande saggio, che
sia letterario, filosofico o storiografico, lo riconosci solo per il
suo essere un’azione, un convincimento: quella vera e propria persuasione a cui devi arrenderti. Giacomo Debenedetti fu
un maestro, perché alla fine aveva sempre ragione e occorreva
riconoscergliela. Pensava il lettore come un «tu», come il lato
di una potente conversazione
rabbinica. Imparò a sciogliere le
sue interrogazioni in inesauribili risposte; svuotò la petulanza e
la sottile fatuità di qualsiasi discorso letterario senza però nascondere quelle condizioni, perché solo nella persuasione della
sua pagina la letteratura, il gusto,
le causerie della mondanità restavano integre pur rivelandosi
in una nuova vitale necessità.
Gianfranco Contini, invece no.
Certo, fu anch’egli un maestro.
Ma la sua non fu una saggistica
grande, perché la prosa si ritraeva (non dico per difetto, magari
solo per pudore) all’atto della
persuasione. Debenedetti, dunque, è ancora da «seguire»; Contini è solo da «imitare», quale la
stenografia di un’intelligenza
tragica tutta del Novecento, visto
che nei lettori cercava allievi,
conoscendo come Zarathustra il
grande Stile, la solitudine sfolgorante dell’espressività, quella
gabbia paralitica o quel castello
a cui solo in nome della spiritualità (e non religione) della poesia
uno scrittore come Debenedetti
potè sottrarsi.
È un piacere leggere La pietra di
Eraclea (Quodlibet) di Giovanni Lombardo. Sono tre saggi sulla poesia antica. La pietra, secondo il racconto platonico, è il
magnete, è la «dynamis» che
rende reciproci lettore e scrittore,
perché entrambi, devoti alla Musa, si innalzano alla «grandezza
della mente di un dio». Lombardo segue questo «discorso amoroso» con la perizia e l’attenzione dell’innamorato. L’«enérgeia» degli antichi (e già dei romantici: centrale il riferimento
prima a Humboldt, poi ai mitici
precursori del formalismo russo,
la «prekrasij» di Potebnja e Veselovskij) è certo per Lombardo
una questione sia storiografica
sia metodologica (la problemática contemporanea dell’«intertestualità», come dire il cerchio
linguistico che distrugge le gerarchie e rende complementari
scrittori e lettori). Tuttavia, non è
di questo che vorrei parlare.
Quello che risulta meraviglioso
è vedere la passione di Lombardo (le sue note fitte fitte accolgono il sogno canettiano di un bibliotecario), è dunque riconoscere la cura con cui ci insegna e,
al tempo stesso, ci conforta, rivelandoci, in defintiva, l’unica cosa che conti della letteratura.
Certo, la grande critica ci sa mostrare ciò che leghi un’immagine
di Callimaco a Montale e come
questa vicinanza illumini, capovolga, sappia informarci di altre
e inedite verità della storia. Ma
la critica è entusiasmante soprattutto quando fa deflagrare l’erudizione in un nuovo scintillìo,
dove tutto, le sillabe di un grande verso, diventano le parole che
aspettavamo, quelle che volevamo sentire e seguire e a cui arrenderci.
È vero, la grandezza espressiva
presuppone la grandezza spirituale. Se non è commossa, scrive Seneca (ma ora per noi lo dice Lombardo) «la mente non
può dire nulla di grande e di superiore a quanto sia stato già detto». Si comprende (insegna
Lombardo sulla linea dei padri)
«veramente un oggetto solo
quando se ne preservino le condizioni di incomprensibilità».
S t los
autori
italiani
a Rizzoli ha da poco pubblicato il quarto di una serie di libri a firma di Sergio
Romano, dal titolo I giudizi della storia. Il volume
raccoglie alcuni degli articoli dello
storico tratti da quotidiani e da riviste
specializzate degli ultimi anni, utili
non solo a ritrarre degli interessanti
spaccati di alcune significative vicende di storia contemporanea, ma anche
a tracciare una rappresentazione esaustiva della condizione della storiografia e del suo rapporto con i principali
mezzi d’informazione. Stilos lo ha incontrato.
«Nelle pagine culturali italiane la
storia è diventata una specie di laboratorio dove i fatti, le versioni interessate e le interpretazioni eccentriche formano gli ingredienti di un discorso aperto e di un’opera incompiuta o, se si preferisce, di una minestra riscaldata che viene prontamente servita ogniqualvolta un memoriale, una ricorrenza, un nuovo
documento o un libro revisionista
ne forniscono l’occasione». Quali
spazi ci sono per una divulgazione
storica autorevole?
Gli spazi si sono inevitabilmente allargati e lo storico può essere al tempo
stesso agevolato e danneggiato. È senza dubbio agevolato perché la sua disciplina sembra avere assunto uno status maggiore; è però forse danneggiato perché questo «consumo» della
storia non consente ricerche accurate.
Per sua natura, infatti, lo storico ben
difficilmente giunge a conclusioni
draconiane. Questo consumo sulla
stampa finisce invece inevitabilmente
per promuovere le idee più semplificate.
Quali sono le principali differenze
tra il dibattito storico attuale e quello dei decenni passati?
La storia è sempre stata utile a qualcuno. Non c’è mai stato un momento
storico in cui il potere non abbia fatto
un certo uso dell’interpretazione del
passato per giustificare se stesso ed il
proprio operato. Quando questo accade all’interno di uno Stato nazionale,
per i fini che quello stesso Stato si
propone, si assiste ad una situazione
nella quale le versioni storiche, almeno all’interno dei singoli Paesi, sono
generalmente concordi. Dopo il 1870,
ad esempio, la Francia ha letto in un
certo modo il suo passato e la sua storia europea; la Germania lo ha inter-
L
Interviste
SERGIO ROMANO. Invale la logica della doppia
SERGIO ROMANO
"I giudizi della storia"
pp. 519, euro 19
Rizzoli, 2006
lettura degli avvenimenti storici, dovuta alla
diversa interpretazione che si dà ai fatti. Una
volta invece la storia era fatta da chi era al potere
Nella foto Sergio Romano, che da Rizzoli ha pubblicato
I giudizi della storia
zione, che diventa ciclicamente ricorrente soprattutto nel dibattito
politico.
Proprio per questo, diversi anni fa,
Francois Mitterand dovette andare in
televisione a spiegare la sua giovanile
militanza nelle Croci di fuoco (la lega
che faceva capo al colonnello La Roque vicino ai nazisti). È un trait d’union proprio di ogni Paese europeo. È
naturale poi che all’interno di questo
elemento comune esistono dei sottoproblemi di carattere nazionale e subnazionale.
Con queste premesse, fino a che
punto può essere fruttuosa una differenziazione nell’insegnamento
della storia?
Quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Berlinguer,
inserì l’insegnamento dell’intero Novecento come capitolo conclusivo del
programma di storia delle ultime classi della scuola media superiore, io
scrissi che era una buona idea. Dopotutto il Novecento era finito ed anche
gli storici potevano occuparsi di un periodo relativamente concluso. Col
tempo tuttavia mi sono dovuto ricredere: gli insegnamenti della storia del
Novecento all’interno di programmi
scolastici delle scuole europee rischiano di essere un fattore di scontro. Mi
rendo conto che non è neanche possibile tacerlo, ma ho l’impressione che
non esistano ancora nelle scuole degli
insegnanti che abbiano un tipo di formazione tale da poter affrontare questi
problemi con un certo tipo di distacco.
Recentemente è emersa tuttavia
una certa condivisione storiografica, che fino ad una decina d’anni fa
era inimmaginabile. Solo per fare
un esempio, le interpretazioni di
Renzo De Felice, prima considerato
vero e proprio diabolicus animus di
una certa storiografia, sono state accettate. Non si possono intravedere
dei segnali concilianti?
Ricordo anche io gli anni in cui De Felice era sul banco degli imputati. In occasione della pubblicazione di un volume sulla biografia di Mussolini, moderai un dibattito tra lo storico e Asor
Rosa. Forse il fatto che già allora si potesse dialogare tutti insieme segnalava
un qualche progresso rispetto alla situazione degli anni precedenti. Oggi
evidentemente le cose sono cambiate
anche perché i giudizi storici di certi
intellettuali marxisti non possono che
essere diversi. Ma al tempo stesso è
successo anche qualche cosa d’altro in
Italia. La storiografia non può più prescindere infatti dal contesto politico
dei singoli Paesi. In questi ultimi dieci anni l’Italia è passata da una forma
di centrismo a geometria variabile ad
un sistema bipolare di cui la legge
elettorale maggioritaria e la decisione
di Berlusconi di entrare in politica sono stati i principali propulsori. Il leader
di Forza Italia ha creato una coalizione recuperando tutto ciò che era recuperabile a destra. La sinistra, d’altro
canto, si è trovata inizialmente impreparata e solo nel ’96 ha fatto la stessa
operazione con Prodi, perfezionandola nelle ultime tornate elettorali. Ciò ha
significato che ciascuno dei due blocchi ha dovuto in qualche modo individuare un imputato del Novecento proprio perché ne aveva bisogno. La logica bipolare vuole che ciascuno dei
due blocchi affermi la propria identità
rispetto all’altro e quindi, con un sviluppo per certi versi contraddittorio,
ciascuna delle due coalizioni ha usato
l’imputato dell’altro per squalificare
l’intero rassemblement.
Tuttavia le radici politiche ed ideologiche sono state spesso trascurate
nella delegittimazione dell’avversario, preferendo polarizzare lo scontro sui leader degli schieramenti.
Ciò conferma il carattere strumentale
di questo tipo di accuse. Il bipolarismo
della politica italiana permette che
queste due categorie, fascismo e comunismo, continuino ad essere utilizzate quali categorie di lotta. Ed è naturale che le squalifiche siano più polarizzate sui leader che sui personaggi
politici meno esposti o secondari.
815-1889: settantaquattro anni
intercorrrono tra due eventi che CESARE DE SETA. Il secolo dell’«homo novus»
travalicano la semplice portata
storica e si connotano come spartiacque simbolici contenenti l’irruzione
della borghesia, lo straripamento di
una classe sociale che travolge la società e la cultura ottocentesca, spazL’ A U T O R E
zando i detriti cristallizzati dell’Ancien
VIVE A CATANIA. SVOLGE UN
Régime. È una stagione di rovelli intelDOTTORATO IN GEOGRAFIA A
lettuali, di intrecci prolifici tra pittura
LINGUE E LETTERATURA STRAe letteratura, di contaminazioni cultuNIERA DI CATANIA
rali, di stravolgimenti innescati dall’esplosione della «Modernità», di camTERESA GRAZIANO
biamenti repentini che mutano il volCesare
to delle città. Proprio questo secolo dividualistico anch’esso tipicamente
De Seta
scoppiettante e fecondo di innovazio- bourgeois.
Docente di Storia dell’architettura all’università di Napoli Federico
ni che va dal Congresso di Vienna al- A intrecciare i fili di questa matassa
II, Cesare de Seta ha ampiamente sviscerato l’immagine dell’Italia l’inaugurazione della Tour Eiffel (em- variopinta concorrono il neoclassico
e i suoi stereotipi, smentiti o confermati - nelle rappresentazioni leblema della francité, e di un’epoca in- Ingres, il maudit Géricault, Delacroix
gate alla «moda» sette-ottocentesca del Grand Tour, sia quelle lettetera) è ripercorso da Cesare de Seta in l’engagé e il poeta del realismo Courrarie come in L’Italia del Grand Tour da Montaigne a Goethe, sia
un’articolazione libera da asfissianti bet, fili che si sciolgono nella lenta
quelle prettamente figurative, come in Vedutisti e Viaggiatori in Italia
tassonomie storiografiche e da perio- agonia dei soggetti storici e si riallactra Settecento e Ottocento. Tra i suoi numerosi volumi, tradotti in didizzazioni rigide. L’autore spazia dal- ciano nell’esplosione irriverente delverse lingue, De Seta ha consacrato saggi alle contraddizioni archila pittura alla fotografia, dall’architet- l’Impressionismo: dalle ballerine di
tettoniche - e non solo - della città partenopea (Napoli tra Barocco e
tura all’urbanistica, per restituire Degas alla scandalosa Olympia di MaNeoclassico, Napoli fra Rinascimento e Illuminismo), all’evoluzione
un’immagine sfaccettata di quello che net, dalla luce impalpabile delle Nindella città europea (La città europea dal XV al XX secolo). Collaboraè definito «il secolo della borghesia», fee di Monet ai tocchi leggeri di Retore di "la Repubblica", è autore dei romanzi Era di maggio, La diserpeggiando tra due sponde metodo- noir. E ancora, dalle suggestioni simmenticanza, Terremoti.
logiche, quella «monografica per arti- boliste di Moreau alle nuove frontiere
di Cézanne, dal
sta, per nazioni e
Revival di
per ambiti artistiR e c e n s i o n i Gothic
Ruskin all’esoti- cui angoli si annidano fucine di creati- poleonica e diventano vere e proprie
ci» e quella - più
smo di Gaguin, vità come l’atelier parigino di Rodin, istituzioni, radicate nel territorio con
innovativa - «per
CESARE DE SETA
passando per le colorato dall’incessante andirivieni di coerenza programmatica. Se è vero
generi e istituzio"Il secolo della
infatti che il secolo della borghesia si
Paris bohémien di artisti e modelle.
ni». Non solo artiborghesia"
sti e opere, dunpp. XIII-395, euro 24,50 Toulouse-Lautrec Nonostante la smania dilagante di af- connota per l’emergere dell’indivifino all’esaspera- francarsi dalle zavorre normative, è dualità creativa, non si può sottovaluque, ma anche il
Tuet, 2006
proprio in questo secolo che le accade- tare la funzione di questi «cantieri» in
zione
milieu in ebollizione in cui si muovono «le esposizio- cromatica/drammatica di Van Gogh e mie si uniformano sotto la spinta na- cui il talento è forgiato, levigato e conni universali, i Salons, la metropoli al groviglio straziante di «simbolismo
contemporanea di Charles Dickens e nordico ed espressionismo» dell’urlo
di Emile Zola, non potevano restare munchiano.
DANIELE MARCHESINI
Se un’euforia creativa scuote dal torrelegate in una storia separata».
"Carnera"
Dal vortice che risucchia gli ismi del pore la pittura in un’Europa dilaniata
pp. 216, euro 22
secolo in un unico fermento creativo dalle guerre napoleoniche, l’architettuIl Mulino, 2006
emergono così la drammaticità cruda ra sonnecchia invece in una stagnazioe allucinata di Goya, gli impeti rivolu- ne indotta da condizioni economiche C
zionari degli eroi di David, ma anche poco favorevoli ai grandi investimen- A
la quiete dei paesaggi di Constable e ti. Eppure non mancano i progetti viSono trascorsi cento anni dalla sua nascita e settanta dal titolo
Turner, e lo spiritualismo inquieto di sionari di Claude-Nicolas Ledoux, o il T
Caspar David Friedrich e Philip Otto trattato normativo di Jean-Nicolas Du- A mondiale dei pesi massimi e ancora oggi il nome di Carnera viene ricordato dal mondo che lo vide all’opera sul ring come il più
Runge. È comunque la Francia il tea- rand, i cui exempla influenzeranno gegrande boxeur, figura leggendaria in questo sport che lo ritro principale dell’«Homo Novus», nerazioni di architetti. L’Ottocento è L
scattò dalla povertà durante l’emigrazione. Il fascismo lo indicò
che cerca nuove forme di espressione anche il secolo della scultura, «che
nel romanzo, medium borghese per esce dalle chiese» e invade le città con O come l’incarnazione dell’uomo nuovo e modello della virilità.
antonomasia, e in correnti filosofiche una funzione urbana inconsueta, a G Girò molti film. Fu anche campione di lotta libera e lo sport,
grazie a lui, divenne cultura di massa.
che gravitano intorno alla figura del- connotare i luoghi del potere e del sol’artista-intellettuale, in un trionfo in- ciale di uno scenario in evoluzione, nei O
fezionato per il mercato dell’arte - e,
alcune volte, non riconosciuto.
Accanto alle Accademie si impongono, sempre sul solco francese, i Politecnici e, con essi, la nuova figura dell’ingegnere, «homme moderne par excellence», cui va riconosciuto il merito di aver rivitalizzato un’architettura
agonizzante, nella contaminazione
prolifica di competenze che culmina
con la figura dell’ingegnere-architetto.
In effetti le innovazioni tecnologiche,
che si accavallano per rispondere alle
esigenze di un’industrializzazione galoppante, cambiano le fondamenta
stesse dell’«antica arte del costruire»:
la proliferazione di ponti e strade, di
dighe e ferrovie, le strutture in ferro e
vetro come il Crystal Palace della
Grande Esposizione di Londra del
1851, i grattacieli e l’architettura industriale rimodellano gli orizzonti urbani e ridefiniscono i parametri stessi
dell’arte in generale: persino alla serialità dei beni di consumo, considerata
lo svilimento stesso della creatività, è
riconosciuta dignità artistica con l’affermarsi dell’industrial design.
Non a caso, de Seta traccia l’evoluzione di tre città-simbolo della vecchia
Europa come Londra, Parigi e Vienna,
oggetto di un restyling urbano che investe anche gli assetti sociali, e diventa specchio in cui si riflettono le
differenze culturali. Così, alla decorosa uniformità delle villette a schiera
monofamiliari dell’Inghilterra vittoriana, baluardo della decenza e della
moralità, si contrappone la sordida
promiscuità dei palazzi parigini. Ma
anche le case e i vicoli sudici del vieux
Paris sono falciati dalle ruspe hausmanniane, che ripuliscono la città
dalle scorie medievali e le rifanno il
trucco con ariosi boulevards e parchi,
veri e propri salotti en plein air. Vienna, invece, assume le fattezze di metropoli moderna senza demolizioni e
sventramenti.
L’affresco di de Seta si conclude con
una delle più grandi invenzioni del
secolo della borghesia, che non solo
scompiglia il mondo della pittura, costringendolo a rincorrere nuove soluzioni, ma stravolge il modo stesso di
percepire luoghi e persone, e persino
la loro rappresentazione mentale: la
fotografia, ultima tappa dell’autore tra
i vicoli e i viali dell’arte ottocentesca.
1
Non si fa più storiografia
fuori dal contesto politico
VIVE
A
MILANO. DIRIGE
LA
RIVISTA "GLI APOTI". È CONSULENTE EDITORIALE DELLA
FONDAZIONE DNART
FILIPPO MARIA BATTAGLIA
pretato in modo totalmente diverso,
ma siccome le due versioni erano approvate dalla maggioranza dei rispettivi Paesi, le polemiche e i dibattiti erano piuttosto limitati.
Oggi ci ritroviamo in una situazione
assolutamente diversa da quella del
XIX secolo.
Nel corso del ventesimo secolo non vi
è stato Paese dell’Europa continentale in cui non si sia combattuta una
guerra civile. Dopo la Rivoluzione
d’ottobre e la Prima guerra mondiale
le società nazionali europee si sono
tutte spaccate. Una parte di queste ha
ritenuto che il nemico fosse ormai all’interno della propria società: per i socialisti e i comunisti il nemico era rappresentato dalle classi borghesi e capitaliste, per i liberali da una parte della
classe operaia che faceva riferimento
alla rivoluzione bolscevica. Questa
frattura all’interno delle società nazionali è tipica di tutti i Paesi del vecchio continente.
Per l’Europa continentale esistono
quindi almeno due letture del proprio passato.
Certo. È il caso ad esempio della Lituania, che non può non avere due letture europee del passato, perché per i
lituani l’occupazione tedesca non ha
assunto lo stesso significato che ha
invece avuto per i francesi. Essa rap-
presentava pur sempre, rispetto alla
perdita della sovranità e all’annessione all’Unione Sovietica, un elemento
di minore gravità.
Sia pure con alcune variazioni, ciò
vale anche per i singoli Paesi europei?
Sicuramente. Anche per la Francia la
storia europea può essere letta diversamente a seconda dell’appartenenza ad
un gruppo ideologico e ad una classe
sociale. Esiste una Francia, le cui origini sono da rintracciare nella rivoluzione francese, che si è riconosciuta in
Petain ed in Moras e che ha addirittura considerato la sconfitta del 1940
come il minore dei mali in una situazione in cui riteneva il Paese pregiudicato dalla deriva comunista e socialista.
Di qui l’inevitabile strumentalizza-
La creatività è borghese
Da anni studioso
dell’Italia
degli ultimi secoli
Il più grande
boxeur
del mondo
pagina
7
S C A F F A L E
LUIGINA MORTARI, La pratica
dell’aver cura, pp. 201, euro 20,
Mondadori 2006
Fin dalla nascita si ha bisogno di cure ed attenzioni. Ogni essere umano
ne ha diritto affinché crescendo anche lui potrà ricambiare tutto ciò
che ha ricevuto. Luigino Mortari
studia la filosofia di questo concetto e costituisce un legame con le
modalità delle concrete pratiche di
cura, cioè madre-figlio, ragazzoamico fino al rapporto pazientedottore e propone una mappa delle
«buone pratiche».
LIVIO GARZANTI, Amare Platone, pp. 124, euro 11, Garzanti
2006
La storia della filosofia è «una serie
di glosse a Platone». Come leggere
Platone? Il grande filosofo resta
sempre iscritto nella volta celeste
della nostra civiltà e non scende
con le sue vesti tra di noi. La sua filosofia è amore della sapienza. Non
è ancora la «filosofia» che sarà ancora dopo di lui. La sapienza resta
con l’uomo nella visione del cosmo. Non bisogna fermarsi ai dialoghi ma trarre la vita dalla grandezza della sua opera. Il folle volo di
Fedro ci porta dove ragione e follia
si congiungono fino ai confini dell’iperuranio là dove ci trasporta il
volo di Eros nel delirio d’amore.
Garzanti ha pubblicato un libro al
quale lavorava da molto tempo e
che aveva accontonato. Un evento
luttuoso lo ha spinto a concluderlo,
quasi ad assumere Platone come
autoterapia.
STEFANO ZUFFI, Lo specchio
infranto, pp. 158, euro 12,60,
Longanesi 2006
La vita del pittore Rembrandt rivista da Stefano Zuffi che ci descrive
una Amsterdam di quattrocento anni addietro cupa e malsana. È triste
per chi ha vissuto una vita agiata subire il degrado e la povertà. Per
Rembrandt la vita va in «briciole»", ma nonostante i disagi e la
morte della moglie adesso è pronto
a far guizzare il suo pennello per coprire di colori scuri e molti particolari la sua tela bianca. In seguito dipingerà persone immaginarie e anche reali come la sua seconda moglie e il figlio Tito. Finché negli ultimi anni la sua pittura diventa scandalosa e ce lo rende contemporaneo.
FRANCESCA LONGO, Non
gioco più, pp. 122, euro 12,50,
Baldini Castoldi Dalai 2006
La vita è la palestra del «non gioco
più». Allenandosi a questa palestra
si conoscono i giochi affettivi, sociali e tutto il meccanismo automatico che devia negativamente la nostra vita e quella degli altri. Un figlio che chiede qualcosa alla madre
riceverà una risposta negativa che il
figlio non accetterà ripetendo la
stessa richiesta e ottenendo la stessa risposta scontata ed irremovibile.
Si entra così in una guerra con frasi pesanti rinfacciate a vita.
MATTICCHIO, Esercizi di stilo,
pp. 224, euro 12,50, Einaudi 2006
Un ragazzino scrive - niente di strano - ma scrive direttamente sulla superficie di un tavolo. Un naufrago
malconcio va verso una spiaggia o
verso una bottiglia d’acqua. No, va
verso una libreria per prendere un
libro. Matticchio ha un brillante talento nell’unire il disegno alla perizia di artista: nei suoi duecento disegni di lettura e scrittura usa una ironia tutta sua e strampalata.
ERNESTINA PELLEGRINI
(cura), Scritture femminili in Toscana, pp. 344, euro 22, Le Lettere 2006
Le «donne che scrivono» nella Toscana del Novecento, raccontano
la loro vita, il loro lavoro. Sono raccolti 156 profili. Ve ne sono nel
campo letterario e ci sono quelle
che ravvivano l’editoria italiana. Ci
sono le trapiantate e quelle di passaggio e ci sono nomi e volti meno
sconosciuti. Si narra del razzismo,
della Resistenza, del movimento
studentesco e del postfemminismo.
Una anagrafe provocatoria e bizzarra che mette in evidenza il movimento delle donne con attenzione al
contesto socio-culturale.
8
PATRIZIA DANZÈ
’è tutta la voglia di divertirsi e di divertire nell’ultimo libro di Lorenzo Licalzi, una esilarante storia
in cui è ancora di scena un
simpaticissimo Andrea Zanardi, già
«eroe» di Il privilegio di essere un guru. L’adorabile mascalzone, infermiere genovese quarantenne, emblema di
una complessa mediocrità, si racconta
in un’avventura tutta esotica. Si trova
in Giappone dove la sua vacanza si
trasforma in un’esperienza mistica,
per come il misticismo viene inteso da
Zanardi. Ritrovata la fiducia in se stesso in un monastero buddista, grazie al
suo maestro zen, ha finalmente il coraggio di guardarsi dentro e di analizzare quello che per lui è diventato come un destino da dongiovanni: non
riuscire a stringere un legame duraturo con una donna dopo averla conquistata. Stilos ha intervistato Licalzi.
Torna Andrea Zanardi. Che Andrea
Zanardi è? Cresciuto, maturo?
Quali consapevolezze ha raggiunto
e quali illusioni ha messo da parte?
Una premessa: il libro vuole essere
divertente, intelligentemente leggero,
di facile lettura, e anche se a tratti potrebbe perfino far riflettere un po’,
non era mia intenzione scrivere qualcosa di chissà quali contenuti psicologici. Volevo scrivere un romanzo che
mettesse buonumore, tutto qui. Quindi, per le serie non prendiamoci troppo sul serio, regola aurea che molti
scrittori hanno perso di vista, non
prenda neppure troppo sul serio le mie
risposte, né i contenuti del libro. Detto questo però le risponderò seriamente, e dunque le dirò che Andrea Zanardi tutto può essere tranne che un uomo
maturo, anzi in qualche modo rappresenta la parte immatura che c’è in ogni
uomo. In conseguenza di ciò, consapevolezze ne ha pochine, a meno che
non si intenda per consapevolezza la
consapevolezza, appunto, per un uomo tutto sommato normale come lui,
di quanto sia complicato conquistare
una donna.
Cosa si aspettano da Andrea Zanardi i fans del suo funclub?
Io credo che i suoi fans si aspettino di
divertirsi leggendo un romanzo, vale a
dire divertirsi, consentitemi il termine,
in modo almeno un pochino letterario,
e cioè grazie a una storia ben scritta,
che possa piacere di per sé e dove siano le situazioni, più che le battute fini
a stesse, a far ridere. Situazioni che,
seppur a volte grottesche, siano sempre credibili. Insomma, i miei due romanzi di cui è protagonista Zanardi
vorrebbero rientrare in quel genere
letterario che è la letteratura umoristica, così rara da trovare oggi in Italia, a
meno che non si voglia considerare,
facendo un errore madornale, come
appartenenti alla categoria i libri dei
comici.
Il fatto di collezionare donne è l’unico vezzo di Zanardi o ha anche altre
qualità?
Direi di si, credo che tutta la sua vita,
C
ANGELO O. MELONI
he dark side, raccolta curata dall’agente letterario Roberto Santachiara, si propone lo scopo di
mettere insieme autori di crime fiction
americani e italiani: King, Ellroy e
Deaver accanto a Lucarelli, Vinci, Wu
Ming eccetera. Come spiega l’introduzione, i racconti non seguono una linea
tematica e l’unico criterio di selezione
è stata la qualità. Criterio prettamente
estetico che salva dall’eccesso di speculazione che sta facendo ingobbire la
stessa crime fiction. Ma se l’unico progetto presente è quello di assemblare
buoni racconti e nulla più (come se poi
fosse obiettivo da poco), cos’altro potremmo offrire noi se non che una panoramica sui testi? Cominciamo perciò dagli italiani, che con alti e bassi se
la cavano tutti, evidenziando mestiere.
E facciamo l’esempio di Eraldo Baldini, da cui ci si aspetta sempre il meglio, alle prese con un colpo di scena
davvero abusato, scritto però con mano sicura, cosciente dei propri, notevoli mezzi espressivi. Tra gli americani
invece, se la qualità media è più che
soddisfacente, e ci fa piacere leggere le
pagine caustiche di Ed McBain alle
prese con un cagnetto odioso (troppo
poche!), duole notare come Robert
Silverberg ci proponga un raccontino
indegno del suo curriculum. Infine, se
a lettura ultimata ogni lettore avrà modo di farsi la sua idea e stilare il suo indice di gradimento, qui ci limitiamo ad
aggiungere che se tra gli anglosassoni
non mancano esempi di humour (come in Ian Rankin), gli italiani hanno
preso l’incarico molto sul serio, regalandoci una serie di storie che più ne-
LORENZO LICALZI . Ritorna Andrea Zanardi in un romanzo umoristico
che contribuisce a colmare un vuoto nella tradizione italiana. Un
vortice di spiritualità si innesta in un radicato sentimento del
materiale e del concreto: per riflettere ridendo sulle vie dell’amore
Misticismo buddista
per l’amore di Maria
almeno fino ad ora, sia stata finalizzata a quello.
Andrea e le donne: qual è il problema?
Le donne! No, in realtà il problema è
lui, vittima come è di una sorta di sindrome di Casanova che lo costringe a
cercare sempre nuove conquiste, forse
per riaffermare, almeno a livello inconscio, la sua virilità, insomma un
classico.
In questo romanzo-confessione Zanardi fa un vero e proprio outing. È
un atto di coraggio? Oppure è un
modo di riaffermare la sua normalità?
Beh, entrambe le cose, dichiara la sua
normalità avendo il coraggio di ricordare il «rimosso» delle sue tragiche
esperienze con le donne prima di diventare quel grande tombeur de femmes che poi è diventato. Cerca di capire, in buona sostanza, da dove nasca la
sua idiosincrasia al fidanzamento.
Perché il suo autore «mette le mani
avanti» e avverte il lettore che Andrea magari sarà un mascalzone
maschilista, ma è simpatico, allegro
e pieno di sorprese?
Col precedente romanzo dedicato a
Zanardi, qualcuno ha parlato di libro
maschilista; invece il mio intento, come in questo romanzo del resto, era
proprio quello di prendere le distanze
dal maschilismo ironizzandoci su: un
po’ come fece la Wertmuller con Travolti da un insolito destino…, per intenderci. Così volevo mettere bene in
chiaro che l’indubitabile maschilismo
di Andrea Zanardi, talmente conclamato da essere perfino ingenuo, è molto meno dannoso di quello subdolo e
sotterraneo tipico di molti uomini. Insomma, il libro è così dichiaratamente maschilista che finisce per non esserlo affatto, e Zanardi poveraccio, finisce per diventare simpatico anche alle donne più agguerrite.
In realtà, per come si racconta, Andrea non sembra molto un tipo sorprendente, ma piuttosto uno che viene sorpreso dagli altri.
Invece lo è, ma qui mi riferivo soprattutto al libro precedente, dove per conquistare Maria, segretaria tutto presa
dalla filosofia zen, si trasforma, lui
che è l’uomo più materialista del mondo, in un uomo tutto compenetrato nel
IL LIBRO
LORENZO LICALZI
"Vorrei che fosse lei"
pp. 219, euro 16
Rizzoli, 2006
Zanardi sotto analisi
va in un monastero
Andrea Zanardi va in psicanalisi. In realtà si autopsicanalizza in un monastero buddista in
Giappone. E così, alle pendici
del monte Fuji prova ad andare indietro con la memoria, fino agli anni dell’adolescenza,
quando con le ragazze era
piuttosto imbranato.
misticismo e trascorre le quattro settimane più spirituali della sua vita, perché Zanardi ha questa straordinaria
capacità di diventare ciò che la donna
vuole che sia, si trasforma camaleonticamente nell’Uomo Perfetto, che naturalmente è diverso per ogni donna. A
suo modo quindi è un tipo ricco di sorprese, mai uguale a se stesso.
Come è nato il suo personaggio e
qual è il tratto del suo carattere (la
Sostanza dell’Uomo) che gli ha guadaganto il successo letterario?
Il personaggio è nato dall’osservazione della variegata ma in fondo costante natura maschile. Io credo che il segreto del suo successo sia dovuto a
una sorta di processo di identificazione, perché in ogni uomo c’è un po’ di
Andrea Zanardi, con la differenza che
Zanardi è un personaggio estremizzato, dunque sempre così, mentre è
auspicabile che gli uomini come Zanardi lo siano stati magari per un breve periodo della loro vita o forse anche
con una donna soltanto. Per le donne il
successo è garantito dal fatto che ogni
donna ha incontrato sicuramente qualche Andrea Zanardi nella sua vita, vale a dire un uomo che fa finta di interessarsi alla «persona», mentre il suo
scopo in realtà è ben altro, e che dunque, ottenutolo - sempreché ci riesca,
ma Zanardi di solito ci riesce -, si volatilizza.
Andrea e il misticismo, Andrea e la
meditazione: qual è il loro rapporto? Riesce alla fine a trovare, comunque, se stesso?
Per lui inizia come un gioco, finalizzato appunto alla conquista di Maria,
ma poi a poco a poco scopre che in
fondo, ma proprio in fondo eh, la sua
natura forse così materialista non è, e
che anzi questo suo materialismo esasperato forse lo difende proprio dal la-
GIOVANNI ARDUINO. Racconti neri in "The dark side"
Il lato oscuro dell’antologia
IL LIBRO
AA. VV.
"The dark side / Il lato
oscuro"
A cura di Roberto
Santachiara
pp. 520, euro 16,50
Einaudi, 2006
Florilegio noir
Stati Uniti-Italia
The dark side è un’antologia
che unisce alcuni tra i più
grandi nomi della crime story
americana con alcuni autori
italiani che si sono fatti notare
nell’ultimo decennio.
re e cupe non si poteva.
Stilos ha parlato di The dark side con
Giovanni Arduino, già autore di romanzi come Mai come voi e Chiudimi
le labbra, uno degli italiani presenti
nella raccolta.
Come sei stato aggregato alla compagine?
Risposta semplice e veloce e sincera:
apparteniamo tutti allo stesso agente,
Roberto Santachiara, che ha voluto e
curato questa raccolta (una fatica mica
da ridere) per festeggiare in gloria i
quindici anni della sua scuderia. Poi
con la crime fiction probabilmente io
non c’entro granché, ma non sono l’unico.
Con chi, tra gli autori contenuti in
questa raccolta, senti di avere qualche affinità (se non veri e propri debiti)? Di Stephen King ti sei occupato più volte.
È stato divertente tradurre Stephen
King [il racconto Il sogno di Harvey,
presente nella raccolta] e infatti sto
continuando a farlo: una novella in
uscita da Sonzogno il prossimo autunno. Non troppo facile, però mi sono tenuto lontano dalla tentazione di
appesantirlo con orpelli, di renderlo ridondante e barocco. A parte King, comunque, James Crumley ed Ed McBain. Due grandi.
Lucarelli, Vinci, De Cataldo eccetera contro Deaver, King, McBain eccetera. Chi vince?
Vince una buona antologia da slurparsi lesta sotto l’ombrellone o con i
piedi a mollo in una tinozza d’acqua
gelata. Però, ripeto, nel suo genere lo
scherzetto di McBain sbaraglia tutti.
Ora che la polemica sulla sovrapproduzione del giallo-thriller sta cominciando a stancare quanto la sovrapproduzione stessa (per tacere
dell’esaltazione cieca del genere), come inquadreresti una raccolta di
questo tipo? Mi viene in mente l’episodio del Decamerone firmato Pasolini in cui un popolano apprende
con gioia che fare l’amore non è poi
un peccato così grave.
Basta. Punto e basta. Basta con le frecciatine su carta e i commenti su internet. Genere o non genere, libro od oggetto narrativo, io popolare d’avanguardia e tu letterato incomprensibile
di nicchia, ma chi se ne fotte. È umano, come tutte le beghe da cortile di
questo mondo, ma chi se ne fotte. Almeno la fuffa in questione sortisse un
effetto qualsiasi nel mondo reale. Inve-
Nella foto superiore Lorenzo Licalzi, autore per Rizzoli
di Vorrei che fosse lei. Sotto Giovanni Arduino, uno degli
autori di Il lato oscuro (Einaudi)
to spirituale, e assolutamente rimosso,
del suo carattere. Se trova se stesso
non si sa, ma certo che la frase con cui
si conclude il romanzo «Vorrei che
fosse lei», per lui è un segno di grande
cambiamento, direi che quasi potrebbe essere una frase catartica. Un pensiero così, cioè di desiderare che una
donna con cui era stato ritornasse da
lui, Andrea Zanardi in vita sua, prima
di allora, non l’aveva mai avuto.
La polemica verso il «misticismo integralista e modaiolo» è uno dei motivi del suo libro, tanto che lei non
esita a metterlo in ridicolo. Crede
davvero che certo misticismo sia integralista e modaiolo? E di quale
misticismo parla?
Assolutamente si, mi riferisco a tutta
quella deriva mistica d’importazione
che non ha nessuna reale base filosofica, ma è solo frutto, appunto, di una
certa moda. Dentro c’è di tutto: new
age, buddisti dell’ultima ora, macrobiotici integralisti, gente che si cura
con qualsiasi cosa tranne che con le
medicine normali ecc. ecc.
Alla fine della sua analisi Andrea capisce che se riesce ad essere se stesso, può risolvere i suoi problemi. Basta veramente per recuperare fiducia in se stesso?
La fiducia in se stessi è fondamentale,
senza di quella non si va da nessuna
parte e per certi versi se non si ha fiducia in se stessi non si riesce neppure ad
essere se stessi. Ma poi, naturalmente,
tutto questo è un po’ un gioco, una
scusa per mostrare lo Zanardi adolescente, che, al contrario di adesso, è
così impacciato da far tenerezza, uno
Zanardi imbranatissimo alle prese con
le sue prime avventure sentimentalsessuali che mi ha permesso, tra l’altro, di raccontare scherzosamente una
fase della vita che, soprattutto gli uomini, ricordano come tragicomica.
Se Andrea approda alla fine ad un
nuovo rapporto sentimentale, quali saranno le sue avventure letterarie?
Non ce ne saranno. Beninteso, mai
dire mai, ma credo proprio che le avventure di Zanardi finiscano con
«Vorrei che fosse lei».
Se ridere vuol dire emozionarsi,
questo libro, che strappa tante risate, dunque fa emozionare. È questo
l’intento della sua scrittura?
Io passo per uno scrittore di ironia e
sentimento, tre dei miei cinque romanzi (Io no, Non so e Che cosa ti
aspetti da me?) fanno sorridere, a tratti magari ridere, ma ad un certo punto
scartano e si fanno seri, in due casi addirittura tragici, tanto che molti lettori mi hanno scritto di averli chiusi con
le lacrime agli occhi. Tutti e tre i romanzi suscitano forti emozioni. Nei
due libri dedicati a Zanardi invece,
non ho difficoltà a ammettere che non
c’è sentimento, ma fanno ridere, e secondo me, se leggendo un libro si
scoppia in una bella risata, vuol dire
che in qualche modo ci si è emozionati, e pazienza se le lacrime agli occhi
verranno dal ridere, anzi no, forse è
anche meglio.
ce, niente. A chi scrive polemiche simili interessano - o dovrebbero interessare - poco. Io ne vengo attirato, nei
limiti, solo quando sono dopato o
ubriaco. In quanto ai lettori, poi... Chi
è interessato, compri la raccolta, magari dopo averla adeguatamente compulsata in libreria, e si faccia un’opinione. Per essere chiari e andare sul
personale: io scrivo e ho la fortuna di
essere pubblicato. Scrivo quello che
voglio. Mi fa stare male, non la considero una terapia, anzi, ma dàgli e ridàgli ho capito che è una delle due o tre
cose che so fare meglio. Un po’si perde e un po’ si vince. Con Francesca
sta con me [il racconto presente in
The dark side, ndr] non sono state rose e fiori, ma il risultato mi soddisfa.
Sono contento di questo racconto, e
pure delle pagine fitte fitte sul mio
taccuino, ora, adesso. Stop.
In questa raccolta i trucchi, il mestiere, si vedono tutti. Ciò nonostante alcuni racconti rimangono come
scolpiti nell’immaginazione, altri
scorrono via innocui. Da scrittore,
pensi che il racconto offra meno possibilità per rimestare nel torbido?
Secondo me ne offre di più. Bisogna
arrivare al sodo, e in fretta, con un
misto di ispirazione e mestiere, chiamiamoli così. Un racconto o viene o
non viene, subito, fin dal primo momento. Non lo puoi aggiustare poco
per volta come un romanzo, come alcuni fanno con i romanzi, io non ci riesco. Con un racconto sei lì e hai un’occasione, solo una. O sferri un pugno da
knock out alla prima ripresa o vieni
messo al tappeto. O uccidi o vieni ucciso. Vedi che nel torbido si rimesta,
alla fine?
Diogene
pagina
T
S t los
autori
italiani
SOSSIO GIAMETTA
CONTANO LE DERIVE
L’utopia, in quanto aspirazione a
un traguardo ideale, è positiva,
come la lotta stessa che si fa per
raggiungerlo o avvicinarvisi,
dunque corrisponde a una bella
disposizione umana. Quando è
sana. Essa può essere infatti anche malsana. Quando? Quando
salta l’ordine razionale delle cose, entro il quale dovrebbe essere concepita e perseguita; quando cioè, nel bramare e perseguire la meta, non si tiene conto dei
condizionamenti della vita e della complessità del reale; quando
si pecca insomma, per superficialità, presunzione o fanatismo,
contro la realtà. Qualunque cosa
si faccia allora, si può essere sicuri che la vendetta delle cose,
del mondo per la maldestra manomissione non si farà attendere.
Le rivoluzioni, che per quanti
nobili ideali incarnino e anche
realizzino o avviino alla realizzazione sono sempre esplosioni
di violenza provocate da tali brame e fanatismi, mettono sempre
capo a un mattatore, che si chiami Cromwell, Napoleone o Stalin. E ciò per la stessa ragione
per cui una palla scagliata contro
il muro rimbalza all’indietro con
la stessa forza.
È dunque errore ritenere, come
per esempio ritengono molti comunisti odierni, che l’avvento
di Stalin, affossatore a loro avviso della rivoluzione comunista,
sia stato un caso, un incidente
che si sarebbe potuto anche non
verificare. Stalin, come già Napoleone, è stato un restauratore
dei diritti della realtà, che non
concede all’uomo più di tanto.
Almeno immediatamente. Si
può sperare nel futuro: a ciascuno di stabilire se la spesa valga
l’impresa, sebbene poi le cose
accadano per forza propria e non
per la conclusione che se ne trae.
Comunque qui sta davvero la
differenza tra comunismo e fascismo e in particolare nazismo,
che viene di solito riposta in
tutt’altre cose che non c’entrano
affatto: i disastri provocati dal fascismo-nazismo esprimono una
fine, una chiusura, mentre quelli provocati dal comunismo
esprimono un’apertura, un nuovo cominciamento, sono una
promessa per l’avvenire.
L’errore che ad ogni modo si
commette in questi casi consiste
nell’ignorare l’esistenza autonoma, cioè relativamente indipendente dagli accadimenti esterni,
dei grandi organismi che sovrastano gli uomini, come ad esempio la specie, le civiltà, le società e via discendendo. Per questa fatale subordinazione l’uomo non è sui compos, non è padrone di sé come ingenuamente
crede di essere e di potere come
tale cambiare il mondo se solo lo
voglia, ma è soggetto a forze e
derive storiche che passano al
di sopra della sua testa e rimangono in genere ignorate, sono
subìte, ma ciò nonostante ignorate. Per esempio non si capisce
che le due guerre mondiali della
prima metà del Novecento sono
i colpi di coda, gli spasimi finali di una civiltà (Kultur e non
Zivilisation) che è cominciata e
si è sviluppata col cristianesimo,
trasformandosi poi nella civiltà
degli Stati europei emancipatisi
a poco a poco dallo strapotere
della Chiesa; non si capisce che
sono state frutto di una crisi fatale collegata ad avvenimenti di
duemila anni prima. Così anche
non si capisce che l’Europa ha
ormai perso il ruolo di protagonista, esercitato appunto fino alla Seconda guerra mondiale, e
non è capace di organizzarsi,
reagire e funzionare, per esempio, al modo degli Stati Uniti,
come tanti si illudono che essa
possa ancora fare, e ciò sebbene
tutte le vicende storiche susseguitesi dalla fine di tale guerra
dimostrino il contrario.
autori
italiani
on ci sono dubbi. Ci sono
scrittori che quando chiudono i rapporti col mondo esterno per delle ore
sanno che racconteranno
di una persona che conoscono bene.
Ovvero, se stessi. Tra questi, Alberto
Bevilacqua vi rientra a pieno titolo. Il
suo ultimo libro di poesie, dal titolo
epifanico, Tu che mi ascolti, mette a
nudo i recessi più remoti della sua coscienza. Una elegia dedicata alla madre Elisa, scomparsa un anno e mezzo
fa, in cui emergono gli elementi di una
complicità tra madre e figlio uniti da
un amore drammatico e appassionato,
che ha rasentato con accenni accesi la
morbosità e il desiderio.
Lei che resta incinta e per quattro anni,
ancora non sposata, difende la vita di
Alberto in un ambiente per nulla famigliare. Si ammala di depressione a causa del non-rapporto con Mario, giovane ufficiale dell’aviazione che gira il
mondo sorvolando i cieli e conquistando donne belle e appariscenti. Lui
che non accetta la paternità, che la vive come un incubo da cui è complicato risvegliarsi. E così Alberto, da figlio
non voluto, si trova a vivere senza l’affetto del padre. E a fare poi i conti con
la malattia della madre, alla quale ha
potuto dire solo «frasi a metà» per non
ferirla, come gli consigliavano i medici che la tenevano in cura.
Con questo libro, lo scrittore parmense ha dischiuso il suo confessionale
privato e ha cominciato a parlare con
sua madre, credendo possibile tutto
ciò anche con l’aldilà. Stilos lo ha intervistato, e Bevilacqua si è dimostrato un autore che (oltre ad odiare le etichette letterarie) è sicuramente dalla
parte di chi sostiene che i libri vadano
letti e non raccontati, tanto che alle
domande ha cercato di sviare, forse
anche per superare una emozione lunga tutta vita.
Lisa e Mario, i suoi genitori: che
rapporto aveva con l’una e con l’altro?
Questa domanda è fortissimamente
profetica. Ad ottobre, infatti, uscirà un
libro (il titolo deve essere ancora deciso, ndr) che riguarderà i rapporti avuti sia con mio padre che con mia madre. Fino a qualche anno fa, devo confessarlo, avevo sempre rifiutato l’idea
di raccontare i dolori della mia infanzia
e della mia adolescenza. Io che sono
stato un figlio non voluto. Ho vissuto,
del resto, assieme a mia madre una vita durissima. Quasi in agonia. La lunga depressione che l’ha colpito mi ha
costretto a vivere lontano da lei per
lungo tempo. Ho vissuto una vita da
misantropo senza alcuna possibilità di
uscita. Se a ciò aggiungo che mio padre, da ufficiale dell’aviazione, e che
ha considerato la mia nascita come un
brusco risveglio dalla sua sorridente
gioventù, era sempre fuori a inanella-
N
aniele Piccini sembra a suo
agio in più case, così come lo è
in più forme della scrittura, da
quella critica a quella poetica. Così si
divide tra la casa di Milano e quella di
famiglia, a Sansepolcro, dove trascorre i periodi festivi e di riposo. È molto giovane (è nato nel 1972), ma già
noto come critico: nel 2005 ha pubblicato in questo ambito un testo importante, un’antologia critica in cui ha
realizzato un consuntivo della poesia
italiana del secondo Novecento: La
poesia italiana dal 1960 a oggi (Rizzoli). Poi è uscito un bel libro di poesia, non una raccolta di testi preesistenti ma un compatto volume di versi dedicato al padre scomparso precocemente: Canzoniere scritto solo per
amore (Jaca Book). Adesso con Altra
stagione (Aragno) Piccini propone la
propria voce matura e piena, in cui il
passo della tradizione si nutre ancora
di autobiografia, ma con una più tenace volontà di apertura ai temi del mondo, con un respiro più ampio e profondo. Stilos ha parlato con lui di tutti i
motivi della sua scrittura.
È più facile, o più difficile scrivere
poesia quando si è come te nella posizione ufficiale di critico di poesia?
Nello scrivere un testo poetico non
ho mai percepito interferenze con l’attività critica: voglio dire che sono due
tipi di scrittura che seguono leggi e
meccanismi profondamente diversi.
Credo insomma di essere un poeta
come gli altri, di non essere né facilitato né ostacolato dal fatto che in altre
sedi svolgo anche una riflessione di tipo critico. Anche perché i poeti sono
quasi sempre anche critici (magari
non pubblicamente), o comunque lettori, ruminatori di testi che in qualche
modo li formano se non al pari, almeno insieme all’esperienza del mondo.
Un poeta è tale anche perché lettore di
testi: impara a scrivere leggendo, come si impara a parlare il linguaggio
D
S t los
ALBERTO BEVILACQUA. «Ho amato mia madre come nessuno al
mondo e il nostro distacco forzato ha rafforzato in me il sentimento di
fusione perfetta che abbiamo concretizzato negli ultimi anni. Grazie a
lei, la mia immaginazione e la mia creatività si sono acuite»
IL LIBRO
ALBERTO
BEVILACQUA
"Tu che mi ascolti"
pp. 219, euro 8,40
Mondadori, 2006
Nuove lettere
alla madre: in versi
Già uscito nel 2005 da Einaudi, arriva negli Oscar Mondadori un libro centrale della
produzione di Bevilacqua, perché centrale fu nella sua vita la
figura della madre. Proprio alla madre nel 1995 Bevilacqua
dedicò Lettere alla madre sulla
felicità, componendo missive
mai spedite e scritte a fini autoterapeutici. Adesso riscrive
alla madre, scomparsa da poco
meno di due anni, tornando a
parlare di sé.
La vita con mia madre
così simile a un’agonia
VIVE AD AVEZZANO. "SENZA
(PENDRAGON, 2004), "MARE NERO"
DELL’ARCO,
(EDIZIONI
2006)
NUMERO CIVICO"
GIANNI PARIS
re allori e riconoscimenti, potete benissimo immaginare come sia stata per
me la vita di figlio.
Suo padre che tipo era?
Era un personaggio particolare. Sicuramente era un uomo di successo, sia
professionalmente che nella sua vita
mondana… Lui che ha avuto una vita
sempre da protagonista. Una vita a dir
poco privilegiata. E, come in una sorte di equazione matematica, il suo privilegio si è trasformato per me e mia
madre in una vita terribile. Ci manca-
va sempre qualcosa. Volevamo respirare la sua stessa aria, ma questo ci erano negato o reso impossibile dagli
eventi e dalla sua non-volontà di marito e padre. Preferisco però non raccontare ora il rapporto - tra delusione,
aspettative e rabbia - avuto con mio padre, visto che il libro che uscirà in autunno vedrà al centro la sua figura e
chiuderà un ciclo.
Bene, torniamo a Lisa. Cosa l’affascinava di sua madre?
Come ho scritto, lei era una persona
molto intelligente, con un forte senso
ironico. Aveva poi il culto del sorriso.
Il suo volto, dopo la guarigione dalla
profonda depressione, e sebbene fosse
già avanti con gli anni, era ancora vitale, senza segni di abbrutimento. I suoi
occhi erano ancora capaci di ammaliare. Ho amato mia madre come nessu-
no al mondo e il nostro distacco forzato ha rafforzato in me il sentimento di
fusione perfetta che abbiamo concretizzato negli ultimi anni. Grazie a lei, la
mia immaginazione e la mia creatività si sono acuite, diventando sempre
più invasive, assorbenti. Anche da
bambino avevo subito capito che lei
era una donna infelice, piena di ferite.
L’unico mio rammarico è stato quello
di non aver potuto far nulla per cercare di cambiare il corso della sua e della mia esistenza.
Quale coefficiente di difficoltà attribuisce alla scrittura di questo libro
intimistico e confidenziale, che possiamo definire auto-fiction?
Non sono in grado di attribuire coefficienti, posso dire però che in Tu che mi
ascolti ho messo insieme tutta la mia
capacità scrittoriale, sia narrativa che
Nella foto superiore Alberto Bevilacqua che da Mondadori
ha pubblicato Tu che mi ascolti. In basso Daniele Piccini,
autore per Aragno di Altra stagione
poetica. Sappiamo bene che i critici
non vedono l’ora di affibbiarci le etichette. E che senza etichette uno scrittore non riesce ad essere identificato.
Per quanto mi appartiene, io guardo ad
una letteratura alta che spazi dalla narrativa alla poesia, senza paletti convenzionali di sorta. Credo soprattutto nella parola mai abusata, in grado di scuotere l’attenzione del lettore. E questa
parola può essere eloquente sia in una
frase lunga che in un verso brevissimo.
Riguardo la difficoltà delle 219 pagine
del libro, ammetto che ho avuto molti
freni perché mi sentivo sempre più nudo, provavo freddo, anche se con la
nudità uno scrittore deve farci subito i
conti.
Lei dunque è un poeta narratore?
Esattamente. Prediligo questa definizione. È come se indossassi il mio vestito, quello che brillava in vetrina,
quello che non ha bisogno di ritocchi,
quello che mi dà il giusto risalto. In Italia, lo sappiamo, se non ti schieri, se
non stai da una parte o dall’altra, sei
considerato un cane sciolto. Per me, la
dicotomia narratori-poeti non esiste.
Anzi, la considero una stupidità tutta
italica. In realtà, bastano tre poesie
belle ad un narratore e dieci pagine di
prosa perfette ad un poeta per abbattere gli steccati che la critica pone intorno alla letteratura.
Quale ricordo non scorderà mai di
sua madre?
Non mi rassegnerò mai alla sua assenza. Non dimenticherò mai la mattina del 26 giugno, il giorno precedente
il mio compleanno, quando una voce
di una infermiera incaricata di assisterla, per telefono, mi urlò il suo nome. Un grido che era già una risposta.
Pensando a lei sorridente, mi piace invece ricordare il suo intuito, la sua capacità sensitiva. Lei che sentiva le cose viventi. Lei che aveva la capacità di
superare ogni avversione.
Da quando Lisa non c’è più, Bevilacqua è un uomo più visionario?
Rispondo per quello che sento. Mentre
prima io chiedevo una conduzione alla sensitività, oggi riesco a viaggiare in
mondi immaginati senza alcuna patente. Mi è capitato, ad esempio, di
aver scritto dieci o più pagine con una
estraniazione inconsapevole che il
giorno dopo mi ha fatto chiedere se le
avevo scritto davvero io. Il cosiddetto
transfert non lo ha mai analizzato nessuno. Questo transfert è come una presenza all’interno dello scrittore che sostituisce o si sovrappone alla sua voce
d’inchiostro. Ecco, da quando mia madre non c’è più, sento questa presenza
sempre più spesso.
Nella dedica, ha scritto: «A mia madre, dopo il suo addio». Sembra però
che il vostro legame continui.
È vero. Mia madre fa parte del buongiorno e delle mie notti ad occhi aperti. Fa parte di me.
DANIELE PICCINI. La nuova raccolta di liriche del critico letterario
Alla fonte di nascita e giovinezza
VIVE TRA VIGEVANO E MILANO. HA CURATO L’EDIZIONE
RINNOVATA DEL COMMENTO
ALLE TRE CANTICHE DELLA
"COMMEDIA" (BOMPIANI)
BIANCA GARAVELLI
«materno» ascoltando. Però nel momento in cui ci si sporge verso la formulazione di una parola poetica propria, vergine e mai prima formulata
(se si ha questa ventura), o comunque
accostandosi a un simile tentativo, lo
si fa in una condizione di apparente
palingenesi, come scrivendo su un palinsesto: tutti i segni letti, conosciuti,
appresi, le formule e i modi, le riflessioni e le categorie, sono «in sonno»,
attendono di riprendere vita in forme
non note ma coinvolte e sconvolte
nella nuova necessità di dire. Tutto
funziona, ma entrando (se misericordiosamente ciò accade) in un accadimento non riproducibile a freddo, non
programmabile, come può essere invece il lavoro su testi altrui: la critica,
la saggistica, l’analisi appunto, attività
che peraltro non escludono lo scatto di
una scintilla rivelatrice, però di altro
grado e segno. Questa, almeno, è la
mia esperienza. Poi, certo, è probabile che la lingua dei poeti amati e studiati scavi solchi profondi, lasci semi
e tracce anche al di là della propria autocoscienza e consapevolezza.
Senti di far parte di un gruppo di
«giovani poeti» oppure percepisci il
tuo come un lavoro isolato, in solitudine?
Io credo che ogni poeta, tanto più nella modernità, lavori all’oscuro di quel-
IL LIBRO
DANIELE PICCINI
"Altra stagione"
pp. 144, euro 14
Aragno, 2006
Un movimento
di accoglienza
del mondo
Un libro d’amore in poesia, una dedica al mondo: "Altra stagione" è
la sezione conclusiva e ne determina la fisionomia. Piccini affida alla
poesia un interrogativo esistenziale che non necessita di alcuna risposta. Spia di questo movimento di accoglienza del mondo è l’interesse per tutto ciò che è naturale, libero da razionalità, da leggi umane: dalle stagioni agli animali che coi loro «fuochi» illuminano non
solo il mondo, ma anche i ricordi, le scelte stesse di chi li osserva e li
ama, in un’accettazione rituale del mistero della vita e della morte.
lo che sta maturando. E quindi anche,
necessariamente, che lavori accanitamente e tenacemente dietro una via
che non è uguale a quella di nessuno,
sentendosi in parte isolato e in parte,
naturalmente, immerso in una comunanza di usi, risorse, forme. Più che altro il senso di comunione scatta nei
confronti del grande fiume, del grande circuito sanguigno della tradizione,
per cui ci si può sentire fratelli, se non
proprio contemporanei e coetanei, di
poeti anche lontani. Il paradigma della fraternità nella letteratura è per me
fissato dalla grande lettera di Machiavelli al Vettori. Naturalmente più di un
autore contemporaneo (non necessariamente giovane) ha fatto scattare in
me dei meccanismi di riconoscimento, magari di comunione, ma di solito
queste agnizioni si risolvono nella
spinta ad essere ancora più profonda-
mente quello che si deve essere. Il lavoro di ognuno ha una sua necessità
non derogabile o intercambiabile,
affondata nelle sue proprie ragioni.
La coesione può essere negli intenti,
nelle presupposizioni operative, nei
modi di sentire, ma davanti alla pagina si è soli e insieme affollati di voci,
magari lontanissime.
Altra stagione sembra il libro della
maturità raggiunta. È per questo
forse che la parola «nascita» è così
ricorrente: che cos’è il nascere per
te?
In realtà anche nel libro precedente,
Canzoniere scritto solo per amore,
dedicato alla figura paterna, baluginava il tema della nascita. In uno dei testi di quella raccolta, parlando del
«chiamare» del padre, scrivevo: «Punto del tempo e crepa / che comincia la
storia, incrina il nulla». C’è nel nascere il concorso di un coraggio e di una
necessità. La nascita ha qualcosa di
grande e sacro, e insieme di minutamente materiale, anche perché si lega
al mistero (in essa incluso) del morire,
ed è un punto su cui la mia poesia indugia e scava come può, con i suoi
strumenti, con una sensibilità, spero,
non edulcorata ma nemmeno banalizzante.
Uno dei temi portanti del libro è la
giovinezza, che tende a fondersi con
la vitalità degli animali. Quali analogie fra l’umanità e la natura?
Gli animali sono le creature in cui il
mistero della vita, la sua sostanza, il
suo segreto si concentrano senza il riparo di una fede, di una certezza ulteriore, di una garanzia. Sento i loro occhi come un’interrogazione infinita.
pagina
9
S C A F F A L E
LUIGI GUICCIARDI, Occhi nel
buio, pp. 349, euro 17, Hobby e
Work 2006
Una torbida atmosfera di provincia
per scandagliare i misteri del crimine. A metà tra giallo simenoniano e
mystery thriller, il libro di Guicciardi vede ancora all’azione il
commissario Cataldo alle prese con
un’indagine complicata: nel corso
di un’estate rovente, nelle campagne intorno a Modena, un serial killer fa strage di coppiette
TIZIANA BETTO, Zuppa di pesce, pp. 224, euro 13, Fermento
2006
La vita è come una zuppa di pesce e
gli uomini insaporiscono il brodo.
Così pensa Zara, inguaribile sognatrice e protagonista del romanzo
d’esordio della Betto. Una storia
dove il tema dominante è l’amore,
in tutte le salse, e dove sfilano ritratti di uomini-pesce: dal tonno che è
il padre, al piranha, cioè l’ex marito, allo squalo, che è un petroliere,
alla sogliola, cioè un farmacista.
DOMINGA CARRUBBA, Cimeli di organza, pp. 63, euro 13, Ateneo di poesia 2006
Parole veloci che scorrono su un
pentagramma breve: così è la poesia della messinese Dominga Carrubba, una sinfonia di nenie complici, un volo di chimere sospese, immagini e suoni che, evocati, si succedono, versi che scavano nell’abisso per riportare in superficie la parola pura: che punta, nella interessante poesia della Carrubba, sull’essenzialità espressiva e sull’analogia ermetica.
LAURA BALBO, In che razza di
società vivremo?, pp. 149, euro
11, Bruno Mondadori 2006
L’Europa, i razzismi, il futuro: in
quale società vivremo? È quel si
chiede la Balbo, docente di Sociologia all’università di Padova, nonché
presidente dell’Associazione italiarazzismo, già parlamentare e ministro per le Pari opportunità, partendo dalla necessità di definire i linguaggi comuni non meno di accogliera nella nostra sfera la terminologia della ricerca scientifica. Attrraverso la determinazione di queste
tappe è possibile interrogarsi sui
razzismi e sui fondamentalismi di
casa nostra, ciò che diventa indispensabile per immaginare e provare a costruire «altre Europe».
Che cosa sanno, essi, del mondo? Come percepiscono la realtà, il tempo, lo
scorrere della propria e dell’altrui vita? C’è una sovrabbondanza e un dispendio assoluto, c’è il punto oscuro
del pullulare della vita nella loro presenza. I miei libri, da Terra dei voti a
questo Altra stagione, sono popolati di
bestie, di figure animali, in forma domestica e in forma, come qui ho cercato di dire, filosofica: i cani, i cavalli, i
gatti… In una poesia di quest’ultimo
libro si parla anche dei «lupi», appaiati a Francesco, che è naturalmente il santo. Colui che, secondo la leggenda, sapeva intrattenere gli animali,
parlare con essi, superare la barriera
delle specie. Il «passo» di Francesco e
dei lupi, si dice nella poesia, è quello
che lascia un segno, che va interrogato, che forse nasconde un senso.
Altro tema importante sono le donne, e il mistero della fedeltà a una
sola donna. Che cosa sono state e sono le donne nella tua vita?
Mi piacerebbe, si parva licet, ripetere
per me quel che diceva Montale per sé
in una celebre poesia: di fare un falò di
tutto quello che è stata la biografia.
Penso cioè di poter al massimo dire
che cosa sono le donne nella mia poesia: che è anche, credo, l’unica cosa
minimamente interessante per un lettore. Ho sentito sempre la donna come
una sorta di enigma, di augure o sibilla, di misteriosa detentrice della forza
vitale, in contatto con scaturigini e
gorghi che al mio genere restavano
preclusi. Una figura capace di dedizione e anche di scarti fulminei, dominata da un sentimento profondo della
vita. Ci sono figure del femminile
molto varie nell’ultimo libro: colei
che sistema i fiori tutte le mattine perché nemmeno un altare rimanga disadorno, colei che accende e infiamma
senza promettere possibile futuro, colei che si accompagna a un istante, a
un’occasione.
pagina
10
n contatto con l’ambiente culturale fiorentino almeno dalla fine
anni Venti, intorno agli anni
Trenta l’ebrea americana Irma
Brandeis è già affermata italianista, francesista, anglista, nonché instructor di lingua e letteratura italiana
al Sarah Lawrence College. Complice
lo sfortunato e cosmopolita Leo Ferrero, che all’amica d’oltreoceano aveva
letto nel 1931 alcuni versi degli Ossi di
seppia, Irma, in soggiorno a Firenze
due anni dopo, vuole conoscere Montale: va al Gabinetto Vieusseux di cui
il poeta è allora direttore e lo incontra.
Se ne innamora, ricambiata (ma da
chi, nel 1934, le confesserà d’essere
affetto da maltollerato eppure ineliminabile «platonism», «capace di vivere per un’idea anche per anni e anni
e di anticipare un minuto per secoli e di
prolungarlo senza fine»); riparte quindi alla volta degli States. Pochi gli incontri seguìti al primo, e invece fitto il
carteggio fin da subito avviato tra l’americana e il «cattivo epistolografo»
Arsenio, che le invia, fra il 1933 e il
1939, almeno 155 missive, scritte parte in italiano, parte nel suo «bad» inglese - un inglese spesso italianizzato
e malfermo, ma dove l’invenzione e il
gioco di parole assumono un ruolo decisivo forse più dell’incertezza grammaticale.
Nel frattempo, Montale continua a dirigere il W.C. (così, scherzosamente, il
Gabinetto Vieusseux nelle lettere del
poeta a Irma e agli amici) e proprio nei
freddi locali della biblioteca si dedica
perlopiù alla corrispondenza. Promette e spera solidi ricongiungimenti con
Irma; è presto costretto a discutere il
ruolo rivestito dalla Mosca (la Drusilla Tanzi indicata nelle lettere con una
X); mai cessa d’assicurare alla donna
lontana assoluta dedizione, con movenze che per molti versi preparano la
sua trasfigurazione poetica in Clizia,
ma che pure non eludono i classici e
complimentosi stilemi del linguaggio
amoroso. Nel 1934, parlando d’una
amica di Irma, Giovanna (recuperata
poi in Interno/esterno, una lirica degli
Altri versi, del 1980), Montale scrive:
«È certamente la donna più somigliante ad Eva che io abbia mai conosciuto.
Una specie di "prima edizione della
donna". Irma: 48a edizione: di quelle
che si leggono».
Tutte perdute (o più probabilmente distrutte dallo stesso Arsenio) le lettere
spedite dalla Brandeis (l’unica superstite, una reazione alle minacce di suicidio della Mosca, non venne mai spedita) e invece tutte conservate da Irma
(da lei stessa consegnate all’allora direttore del Gabinetto Vieusseux Alessandro Bonsanti nel 1983) e pubblicate oggi nel preziosissimo volume Lettere a Clizia quelle inviate dal poeta: a
formare un epistolario che s’interrompe appunto nel 1939, quando la guerra, soprattutto - unita però alle ripetute promesse d’incontro non mantenute, queste ultime solo parzialmente
I
GIANNI BONINA
EUGENIO MONTALE. Raccolte in un volume commentato le lettere
scritte dal Nobel a una studiosa statunitense che lo incontrò a Firenze e
se ne innamorò. E che sarebbe diventata «Clizia», una eponome duratura
e ossessiva per un autore incapace di amare se non platonicamente
IL LIBRO
EUGENIO MONTALE
"Lettere a Clizia"
pp. 376, euro 25
Mondadori, 2006
Saggio introduttivo
più le note al testo
Il volume con le lettere di
Montale propongono un saggio introduttivo di Rosanna
Bettarini (che di Irma e Clizia,
d’Eusebio-Arsenio-Montale,
sul filo delle lettere e oltre, segue ogni mossa) e le note al testo preparate dalla studiosa insieme con Gloria Manghetti e
Franco Zabagli.
Venerazione del poeta
per una donna virtuale
VIVE A CINGOLI NELLE MARCHE E SVOLGE UN DOTTORATO
DI RICERCA IN ITALIANISTICA
ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA
ELENA FRONTALONI
motivate dalle gelosie autolesionistiche di Drusilla - rende difficili e «inutili» ulteriori comunicazioni, e tra i
due scende il silenzio. Spezzato però
nel 1981, quando l’ultraottantenne senatore a vita Eugenio Montale prende
uno dei suoi fogli (in filigrana la dicitura «Repubblica Italiana / Senato della Repubblica») e, con grafia «tremolante e quasi indecifrabile», vi scrive
sopra: «Irma, you are still my Goddes,
my divinity. I prie for you, for my.
Forgive my prose. Quando, come ci rivedremo? Ti abbraccia il tuo Montale»
(è la 156a e ultima lettera inserita del
volume).
La minima trama amorosa delle Lettere a Clizia è tutta qua: un coup de foudre, sette anni d’attesa, alcuni brevi incontri e un intenso dialogo epistolare -
consigli di lettura e spedizioni incrociate di libri annesse -; poi la guerra e
il silenzio. Ma pure, immutata, una
lunga fedeltà, che riprende parola da
parte di Montale a pochi mesi dalla
morte, e che, al di là dell’Atlantico,
spinge Irma a conservare gelosamente le missive per tutta la vita. Il resto
della storia - della storia della Brandeis
nella poesia del nostro - è noto, ma (è
uno dei principali motivi di fascino
del volume) per nulla indipendente da
quanto troviamo nelle lettere: sul profilo di Irma, Montale modulerà una
delle sue figure più luminose, persistenti e terribili: la visiting angel «imperiosa», armata di ghiacciati fuochi e
bagliori, di frangetta e di orecchini che
già invade le Occasioni (di cui «I.B.»
diventa dedicataria solo nell’edizione
del 1949); la Clizia chiamata a suggellare con fermo splendore la meravigliosa Primavera hitleriana della Bufera (1956) e che raggiunge, per nulla
invecchiata, gli Altri versi (1980). Dove, tirando le somme dei suoi commerci con la «luce-in-tenebra» apportatrice di salvezza, Montale scrive qual-
cosa di molto simile a quanto ripetuto
poi nella senile missiva del 1981:
«Non era amore quello /era come oggi e sempre /venerazione» (Clizia nel
’34).
Basterebbero forse questi dati, uniti al
banale fatto che ci troviamo davanti a
una corposa mole d’inediti montaliani,
a rendere assolutamente imperdibile
Lettere a Clizia. Ma guardare alle missive con la lente dell’epistolario amoroso o magari con l’occhio rivolto alla produzione in versi e in prosa (quando pure, si noti ancora, nel volume
troveremo in merito una serie ragguardevole e importantissima di segnali: le
prove generali per il tono medio versato in Farfalla di Dinard; non poche dichiarazioni di poetica; qualche autocommento; perfino una versione autografa d’uno dei Mottetti «dedicati» a
Irma: Il ramarro, se scocca…) risulta
alla fine riduttivo. Perché in queste
pagine si intrecciano pure altre, non
meno importanti storie: la direzione
del Vieusseux, innanzitutto, per cui il
poeta sborsa spesso di tasca propria e
appronta un’oculatissima politica, che
STEFANO D’ARRIGO. La riproposta di Walter Pedullà
a riproposizione di Cima delle
nobildonne (mentre risponde
all’accanito impegno di Pedullà volto a salvare - come un barone di
Münchhausen che si sollevi tirandosi
per i capelli - un autore cui non è bavalutazione di qualità e una questione
stato l’entusiasmo di uno Steiner per
di scelta. Così del resto hanno fatto
guadagnargli spazio e meriti) torna
tutti, non sfuggendo nessuno alla logiutile a riprendere l’irrisolta questione
ca che è stata propria dello stesso
se sia in rapporti, e quali, con HorcyHorcynus Orca, sottoposto a misuranus Orca. Neppure lo stesso Pedullà è
zioni e confronti con I fatti della fera
del tutto convinto che si tratti di un roin un ricorsivo esercizio al quale
manzo diverso se quando lo legge per
D’Arrigo provò in tutti i modi a sotprimo in bozze si munisce della suptrarsi. La verità si è che, per la sua
posizione che non possa trattarsi di un
enorme presenza, il capolavoro di
«prototipo», come pure lo stesso D’arD’Arrigo si staglia sulla stessa figura
rigo immaginava dovesse essere un
dell’autore aduggiando o illuminando
romanzo (ancorogni sua creazioché adesso saptanto da oscupiamo che lavoR e c e n s i o n i ne
rare del tutto,
rasse negli ultimi
agendo à rebours,
STEFANO D’ARRIGO
anni a un roman"Cima delle nobildonne" il poeta del Codizo monstre sugli
ce siciliano, l’artipp. 183, euro 18
effetti
delcolista free lance
Rizzoli, 2006
l’Alzheimer nella
e il critico d’arte,
creazione letterale note del quale ria e a un romaninsieme con il vasto epistolario rimazo di mafia del mare ambientato in Sisto inedito e in gran parte ignorato cilia: e dunque intendendo tornare da
nessuno ha mai pensato (colpa anche
un lato al tema scientifico di Cima
dell’indolenza della vedova D’Arridelle nobildonne e da un altro a quelgo), contro il costume sempre più inlo naturalistico e siciliano di Horcynus
valente, di raccogliere in volume.
Orca).
Forse, per aspirare a un giudizio autoInvitato da D’Arrigo a leggere in un
nomo e a una visibilità non riflessa, a
paio d’ore il suo nuovo libro, Pedullà
Cima delle nobildonne sarebbe convefinisce in realtà per ricredersi e deve
nuto nascere prima di Horcynus Orca,
constatare di essere di fronte a un fatma non sarebbe stato lo stesso romanto nuovo e inatteso quanto a materia,
zo che abbiamo né Horcynus sarebbe
ambientazione, «montaggio» e sopratvenuto com’è: al fondo delle ragioni
tutto lingua. Purtuttavia non riuscirà
che hanno mosso la penna e la tenacia
mai a tenere in una mano Cima delle
di D’Arrigo opera infatti una strategia
nobildonne senza avere nell’altra
personale ispirata al tempo in cui l’auHorcynus Orca soppesando questo e
tore vive: contrario alle mode speriquella per farne continuamente una
mentalistiche e alle avanguardie del
L
S t los
Una Cima che sa di Orca
momento (ancorché, come nota Pedullà, finirà per essere il narratore più
sperimentale dei suoi anni), detrattore
dei «romanzetti» che escano uno l’anno e dunque delle influenze dell’incalzante gusto postmoderno che premia
il mercato, difensore di un rigore formale e di un crisma della tradizione
che nulla concedono alla scuola della
contemporaneità e della insorgente
vena testimoniale, assertore pugnace
dell’idea che si possa dare nella vita
un solo libro, D’Arrigo si dispone a
scrivere Cima delle nobildonne dopo
il disinteresse che Horcynus suscita
nel pubblico e nella critica; e ciò fa per
dimostrare che anch’egli è capace di
scrivere romanzetti brevi che assecondino la voga della lingua mimetica, della ipotassi, dello stile piano e del
significato manifesto.
Se dunque Cima delle nobildonne non
può non venire dopo Horcynus è a
Horcynus Orca che resta in più modi
legato come escrescenza di una placenta originaria, proprio questa essendo il motivo ossessivo posto alla
base del romanzo: la placenta come
forma di imprinting del destino di ogni
uomo, tema certamente assunto a sorpresa, ma fino ad un certo punto se del
destino, nel senso debenedettiano, si
fa l’elemento di impianto del romanzo, il predicato dell’operazione di reductio ad unum che Pedullà vede come pietra di volta dell’intera costruzione darrighiana.
Non possiamo leggere Cima senza
Horcynus, sebbene non ci sia nulla,
apparentemente, in Cima che rimandi
a Horcynus, vertiginoso essendo il
salto dal plurilinguismo al monolinguismo e altrettanto abissale risultando il cambio stilistico, che da espressionistico si fa, come osserva Pedullà,
neoclassico; ma non si può non supporlo come antecedente e vedere in
esso un processo larvale che muove da
una personale autobiografia e prolunga risonanze da una sfera immaginativa all’altra. Il retrosuono autobiografico non è il solo elemento di tutta evidenza che ricorra qui e là: Pedullà è
stato abile in questa chiave a individuare incontrovertibili liaisons, a volte anche inquietanti, tra D’Arrigo e il
suo alter ego, Amedeus Planika, eletto a narratore autodiegetico, l’io narrante che riunisce le fila delle storie di
per sé dipanate. Altri sono i punti di
scambio, a cominciare dall’astrazione
spazio-temporale che integra prolessi
e analessi e svia verso una dimensione acronica involgendo un’arcaicità
del mito che tutto tende a rendere primordiale col riportare la parabola
umana quale che sia a una equazione
elementare e d i base tra vita e morte,
nascita e perenzione.
Ancora più probante riesce però la
tecnica compositiva che intreccia vicende e personaggi in un polisindeto
sul quale, sebbene pesi a lungo uno
stato di incomprensione e di vaghezza
che mette a disagio e disorienta il lettore, l’epifania della rivelazione torna
a fare luce per gli effetti di un senso
palindromico e di circolarità del tutto
Nella foto Eugenio Montale, del quale Mondadori
ha pubblicato Lettere a Clizia
s’incaglia ingloriosamente nel dicembre 1938 sull’inasprirsi del regime fascista.
Quindi i rapporti di Montale con gli
amici Contini, Palazzeschi e Saba («un
poeta difficile» - scrive con bonario
strabismo Montale - «è un popolano
che crede di essere raffinatissimo, e lo
è, a modo suo»); con lo stimato Arturo Loria e col poco amato Dino Bigongiari, con Praz e Piovene (rispettive e
ferocemente dileggiate signore incluse). È insomma anche un pezzo di storia letteraria, quello raccontato a Irma
nelle lettere. Un’immersione dentro ai
locali del Caffè Giubbe Rosse, leggendario ritrovo degli intellettuali della Firenze anni Trenta; un buon osservatorio per guardare i rapporti tra le
italiche lettere e l’altra sponda dell’Atlantico (con i non pochi riferimenti a
personaggi ruotanti attorno alla Casa
Italiana della Columbia University);
infine un’ottima cartina di tornasole
per fissare la posizione dell’antieroico,
ma sempre vigile Montale, dentro al
fascismo e alla cultura italiana del suo
tempo.
Il Montale che scrive a Irma ne ha per
tutti: non lo convince il romanzo Tre
operai di Carlo Bernari; accenna alle
difficoltà economiche dell’«unica rivista seria» di quel periodo - si parla di
"Solaria", a cui abbona Irma e che non
pochi guai deve passare per Il garofano rosso di Vittorini («non dev’essere
molto bello, ma abbastanza vivo», avverte il poeta); bacchetta impietosamente premi letterari, critici, poeti accademici e accademici poeti («come
ho fatto scrivere la recensione a Prezzolini? È semplice: da una parte la
stupida illusione di poter essere aiutato un giorno, dall’altra la considerazione che Gianfalco (Pavolini) è moralmente molto più in basso»). Descrive
anche con beffardo orrore il 18BL, il
grande e fallimentare «spettacolo di
massa» voluto dal regime sulle rive
dell’Arno. Né si risparmia valutazioni
amare sul destino d’Italia: nel 1934
scrive che «non esiste oggi una cultura antifascista» e sempre più velenosi
e criptati saranno i riferimenti al «ballett» e al «Brass Scroundrel» o «Cardinal»: rispettivamente il fascismo e
Mussolini, nel linguaggio cifrato che
Montale usa con Irma per sviare temibili voyeurs in camicia nera che avrebbero potuto, con l’agio della legalità,
controllare le missive. L’intelligenza
degli elementi fin qui accennati (e che
non esauriscono di certo la gamma dei
rimandi e delle vicende racchiuse nel
dettato delle lettere, trascritte con sorvegliatissimo criterio filologico dalla
curatrice Rosanna Bettarini) deve moltissimo all’opera dei curatori. Perché,
come si diceva, quelli direttamente
pronunciati da Montale sono poco più
che ammiccamenti, sussurrati all’orecchio di una donna a lui contemporanea, di una appassionata connivente,
d’una privilegiata amica peraltro molto attrezzata sul versante culturale.
voluto e ricercato che in Cima delle
nobildonne funziona quasi come colpo di scena e che rivela la diligente e
intelligente manovra dell’autore, sicché la guazza informe di quelli che potrebbero sembrare racconti disarticolati e scomposti appare in figura di una
tela pazientemente ricamata e lucidamente armonica. Così è anche in
Horcynus Orca, un mastodontico apparato di affastellazioni narrative che
spinse a suo tempo Citati a vedere
nella sua giapetica germinazione «un
corpo inghiottito da un altro corpo,
un’anima prigioniera di un’altra anima». In questa stessa luce Pedullà parla di adinoplosi, ma vede una qualità
dove Citati scorgeva un limite, cosicché stabilisce un segno di fedeltà e di
continuità tra Horcynus e Cima per via
della «frase che avanza come un ponte di molte arcate sulle quali il discorso si appoggia prima di ripartire verso
la conclusione che spesso è una rivelazione».
La parentela tra i due titoli è per altri
nomi comprovata da alcuni addendi
comuni, già indicati da Manacorda: il
periodare lungo e complesso, il ricorso a espressioni non canoniche, l’uso
quasi ieratico della terminologia medica, la proiezione dell’attualità in una
prospettiva metempirica. D’Arrigo
voleva riscattarsi dall’insuccesso di
Horcynus con un libro di denuncia
sui temi attuali del cambiamento di
sesso, dell’embrione, dell’identità genetica, esplorando i confini tra scienza e società, fede e coscienza. Ma non
voleva allontanarsi troppo dal suo
campo arato a gurgiti mitografici.
Quel che ha fatto è un ibrido che solleva gli stessi dubbi di Horcynus, ma
che letto oggi appare nella sua sostanza più attuale di quanto non potesse
esserlo nell’85.
Eccebombo
autori
italiani
AURELIO GRIMALDI
QUANTI MORSELLI?
Trentatrè anni fa, dunque nel
1973, lo scrittore Guido Morselli si suicidò dopo aver ricevuto
l’ennesima missiva che conteneva l’ennesimo rifiuto, da parte
dell’ennesima casa editrice, alla
pubblicazione del suo settimo romanzo Dissipatio H.G.. Le sei
opere precedenti avevano subito
l’esatto medesimo destino. Ma
due anni dopo quel suicidio, anno
1975, la casa editrice Adelphi di
Milano, che aveva a sua volta e a
suo tempo respinto tutte le opere
di Morselli, le pubblicò integralmente, creando un caso letterario
che coinvolse molti lettori. Poi,
lentamente, l’oblio. Un ritorno
sulla scena tre anni fa, al trentennale della morte. Ora, di nuovo, il
truce silenzio. Occorre essere
molto espliciti: il tributo coccodrillesco elargito post-mortem al
povero Morselli è considerabile
proporzionale al suo talento o va
solo archiviato come ipocrita e
insincera apologia del caro estinto? La mia ponderata idea è che
Morselli, secondo la nota legge
del contrappasso, subì una calcolata (e quindi cinica) sopravvalutazione riparatrice. Quello stesso
mondo editoriale che l’aveva metodicamente respinto per un decennio ne decretò l’improvviso
trionfo. Ma superata la sbornia
dell’entusiasmo riparatore, più
grave fu il secondo oblio, secondo me doppiamente ingiusto. Tra
le sette opere annoveriamo difatti un ottimo romanzo, un altro
più che buono, e un paio discreti.
L’ottimo romanzo è per noi Il comunista, che conobbe una certa
gloria perché presentato come romanzo ideologico «anticomunista» al punto che, quindici anni
dopo, con la caduta del muro di
Berlino, fu persino rilanciato e
ripubblicato in quest’ottica. Fatica inutile. Il comunista è il ritratto dolente di un modesto parlamentare emiliano, catapultato a
Montecitorio piuttosto casualmente, nella sua mesta vicenda,
sia ideale che personale, di - bellissima e indimenticata definizione - uomo parabolico. Ovvero
di uomo troppo discreto, troppo
onesto, troppo sincero - un vero
«sfiorato» - per poter trionfare
nella Vita con la v maiuscola. Un
grande romanzo, credetemi! Che
ha ancora bisogno di essere riscoperto e studiato, una buona volta,
nella sua vera matrice interiore e
puramente letteraria.
Il romanzo molto buono è invece
Contropassato-prossimo. Ma prima di brevemente descrivervelo, occorre rammentare al lettore
che il povero Morselli, dopo ogni
romanzo regolarmente respinto,
e dopo un periodo di comprensibile depressione interiore da riscattare, ricominciava sì a riscrivere ogni volta una nuova opera,
ma mutando clamorosamente stile e registro! Con l’illusione di
compiacere il gusto respingente
degli editori. E così, dei sette romanzi che Morselli ci ha lasciato,
non ne troverete nessuno minimamente somigliante. E se potremmo definire Il comunista un
romanzo esistenziale, Contropassato-prossimo è definibile invece
con la voce «romanzo storico»;
ma con un punto di partenza clamorosamente originale. Il romanzo racconta infatti la storia
dell’umanità come se la Prima
guerra mondiale fosse stata vinta
dai Tedeschi. Stupore? Sana
preoccupazione? Scarsa voglia
di cimentarsi in una consimile
lettura? Sentimenti tutti ben giustificati. Il romanzo è curioso,
anche pesante, farraginoso, ma
abilissimamente congegnato.
Un’operazione intellettuale colta
ma anche letteraria. Un romanzo,
infine, tutto da riscoprire.
Guido Morselli: Il comunista
(1964; pubblicato da Adelphi
nel 1976) e Contropassato-prossimo (1966; pubblicato nel
1975)
S t los
storia
e storie
pagina
Il sacco di Roma da parte dei Visigoti in un dipinto
romantico. La battaglia di Adrianopoli aprì le
porte dell’Impero romano alle orde barbariche
ro proprio finito in mezzo a
un gruppo di inguaribili tiratardi: sulla terrazza dell’hotel Lido, a Silemi, alle
due di notte suonate, ancora si chiacchierava allegramente di
fronte a una bottiglia di vino bianco siciliano, di quelli che fanno impazzire
i capellidistoppa del Nord, italiani,
celoduristi e teutonici. Dopo un brindisi che credevo fosse l’ultimo, Giuseppe, con fare misterioso, propose:
«Procediamo?»
Tutti aderirono circospetti e anche io
che non sapevo nulla mi accodai. Venne sistemato un grande tavolo tondo
al centro del quale improvvisamente
apparvero cartelle di cartone sulla
quali erano disegnate le lettere dell’alfabeto. Sedemmo tutti intorno, e
non appena stringemmo le mani la
luce si spense. Aspettammo. Aspettammo a lungo, forse dieci minuti, finché una specie di bagliore apparve
sulla lettera A. Qualche attimo dopo,
si accese, diciamo così, la lettera D e
via di questo passo sino a farci intendere che la parola che gli spiriti ci
suggerivano era Adrianopoli. Guardai il datario dell’orologio: era il 9
agosto e capii.
Sembrava un’estate come le altre: una
calura umida, insopportabile, in attesa
che il temuto vento di Nord-est, il
Meltemi, arrivasse a mitigarla, mettendo i mari in tempesta, costringendo i
contadini a serrare porte e finestre per
evitare che prevalesse la polvere, il
flagello che il Signore dei cristiani e
gli dei avevano inventato per indurre
gli uomini a riflettere sulla propria finitezza e imperfezione.
Ad Antiochia, la capitale che preferiva
a quella ufficiale, Costantinopoli, Flavio Valente, imperatore romano d’Oriente, aveva messo al bando le indecisioni che lo tormentavano, stabilendo
di affrontare i Goti in modo risoluto,
verso un accordo stabile o, in mancanza, una battaglia campale. Da quattordici anni, da quando cioè suo fratello
Valentiniano lo aveva nominato, governava con mano insicura, sia per la
sua fede religiosa - ariano, era una
specie di fondamentalista ante litteram - sia per un carattere fragile, volto comunque a utilizzare più i mezzi
del palazzo che quelli della politica
chiara e percepibile.
In precedenza aveva ottenuto un certo
successo proprio con i Goti, il popolo
barbaro che, incalzato a oriente dalle
orde unne, s’era avvicinato all’impero
e aveva chiesto d’essere ammesso nel
suo territorio - grosso modo nell’odierna Bulgaria - a causa dell’estrema
miseria e, soprattutto, della fame. Era
9 agosto 378 . Il primo grande disastro dell’Occidente nella millenaria
ungo dorso di drago addormentato, stagliato contro il nitido cielo d’estate, l’Appennino, che ha per «placche» il diroccato
matildico castello di Carpiteti e, davanti a Castelnuovo ne’Monti, il dantesco «cacume» di Bismantova…
Calanchi come vene discendenti al
Secchia, fiume iroso talvolta e simile
ad un lungo serpente scintillante.
È questo l’Appennino della mia infanzia, da Milano in vacanza dai nonni materni nell’adorata Argentina di
Cavola (Toano, Reggio Emilia). Anni dopo, altre età, altro versante d’Appennino: Toano, Casabonci nella casa in pietra dei miei nonni paterni.
In vetta alla collina la medievale Pieve di Matilde di Canossa - colonne e
suggestivi capitelli - a destra il Monte Cusna, di fronte Montefiorino «Repubblica della Resistenza» 1944/18
giugno.
Dorso boscoso questo dell’Appennino lambito dalla valle del Dolo.
IL CANTO DEL MONDO. In Toscana la seconda edizione del Festival
E
L
sfida contro l’Oriente. Ad Adrianopoli si decidono in un giorno soltanto
i destini della più grande potenza della storia. Uno scrittore, Domenico
Cacopardo, rievoca la data in una specie di allucinazione spiritica
Se la fine del mondo
è un incubo d’estate
VIVE A PARMA. CONSIGLIERE
DI STATO. ULTIMO ROMANZO
"L’ACCADEMIA DI VICOLO BACIADONNE" (BALDINI, 2006)
DOMENICO CACOPARDO
stata negoziata una buona intesa: regolarizzazione della presenza gota nei
confini dello Stato, fornitura di cibo e
servizio nelle milizie imperiali.
Una politica ormai antica per i romani, abituati ad accogliere guerrieri barbari, a utilizzarli nell’esercito e ad assimilarli. Molti di loro erano diventati generali e qualcuno aveva raggiunto la suprema magistratura.
Ma un destino perverso era in agguato: le difficoltà finanziarie dell’impero e la corruzione diffusa avevano impedito la distribuzione del cibo secondo gli impegni assunti: la fame era diventata così acuta da costringere i capifamiglia ad alimentarsi anche con le
carogne dei propri cani e a vendere i
figli come schiavi in cambio di grano
e altri cereali.
La zona nella quale i Goti erano ristretti era diventata una polveriera. Il
governatore romano, Lupicino, aveva
deciso di trasferire i profughi verso
l’interno del paese, là dove i funzionari imperiali stavano allestendo quei
campi, Cept ante litteram, che avrebbero, nelle sue intenzioni, attenuato le
tensioni. Ma non era stato così.
Giunti in prossimità di Marcianopoli,
i Goti, al cui comando era Fritigerno,
non avevano trovato nulla di ciò che
era stato loro promesso. Anzi gli abitanti della città si erano asserragliati
dentro le mura come se avessero di
fronte pericolosi nemici da cui era necessario difendersi.
Così, dall’inefficienza della burocrazia
e dalla paura della cittadinanza era
stata innescata la più sanguinosa ribellione che si fosse mai vista. La sedizione si era allargata e consolidata. Ogni
tentativo di raggiungere un compromesso era fallito, costringendo l’imperatore Valente a lasciare Antiochia per
affrontare di persona la crisi.
Il 9 agosto, di fronte ad Adrianopoli,
sull’odierna linea di confine tra Turchia e Bulgaria, i due eserciti si schierarono. Da un lato le orde barbare, tumultuanti e poco disciplinate, dall’altro più di venti reggimenti romani, in
perfetto ordine di battaglia. Nitrivano
i cavalli trattenuti per le cavezze, gli
occhi coperti da drappi scuri, le narici
dilatate per gli umori eccitanti del
campo di guerra. Fritigerno e gli altri
capi barbari proposero all’imperatore
un negoziato e inviarono una delegazione. Ma Valente, constatando come
i plenipotenziari goti fossero guerrieri di basso rango, si offese e chiese
un’ambasceria più qualificata. I suoi
generali, che dalle alture avevano effettuato una ricognizione, gli avevano
intanto riferito che le forze in campo
erano nettamente in suo favore.
La giornata stava ormai declinando e il
tempo passava tra le discussioni. Il
caldo torrido, però, accese fuochi nella pianura riarsa. Spontanei o indotti
dai soldati delle due parti, impazienti
di farla finita, gli incendi divamparono. Gli eserciti ineluttabilmente si avvicinarono e iniziarono a ingaggiare le
scaramucce che presto si trasformarono nella battaglia vera e propria. I romani, forti di nutrite squadre di arcieri appiedati e a cavallo, presero il sopravvento.
C’era, però, una brutta sorpresa in agguato: i generali dell’impero non avevano capito che la cavalleria barbara
che avevano visto dalle alture era solo
una minima parte di ciò di cui i nemici disponevano. Il più era impegnato
in ricognizioni alla ricerca di cibo e di
buone razzie. Richiamata dal clamore
degli scontri, mentre imbruniva, una
immensa schiera di cavalieri spuntò
sul campo di battaglia, spazzando via
d’impeto i reggimenti romani. Come a
Canne con Annibale: la fanteria, mentre avanzava in perfetto ordine chiuso,
venne investita di fronte, di fianco e di
spalle da migliaia di cavalieri armati di
daghe, pugnali e picche. E si sbandò,
permettendo così agli assalitori di dilagare. L’imperatore, che combatteva
coraggiosamente insieme ai generali
più importanti, una volta che la sua
guardia venne spazzata via, si rifugiò
tra le schiere dei fanti…
Quattordici reggimenti vennero distrutti, quaranta generali caddero sul
campo. Dell’imperatore Valente non si
seppe più nulla, anche se è probabile
che fosse morto insieme ai fedelissimi.
Non riconosciuto, fece di sicuro la fine degli altri le cui teste rimasero sui
pali più alti dell’accampamento goto
sino alla completa distruzione a opera
di corvi e avvoltoi.
La seduta era finita. L’imperatore Valente aveva inviato il suo criptico messaggio: «Ego fuit.» Mi sentii stanco e
indispettito, s’erano fatte le quattro.
Una pendola batté le ore del mio fastidio.
Mi consolai subito, però, pensando: il
disastro non fu la fine dell’impero.
Sopravvisse sino al 1453, per oltre
mille anni, assorbendo ribellioni e
barbari, governandosi con la mano
conciliante dell’illuminata saggezza
di governo dell’antica Roma, sino ai
tempi dello sfacelo e dell’esaurimento. Da Romolo a Bisanzio, una lunga
marcia attraverso la storia, la cui attualità può essere anche oggi rivendicata, tenuto conto delle difficoltà in
cui si dibatte l’impero occidentale, al
quale sarebbe bello poter augurare
altri mille anni di vita.
L’Appennino della mia infanzia
ATTRICE. DOPO "DISTRETTO DI
POLIZIA" RECITA IN "INCANTESIMO". IN TEATRO È HELGA IN
"LO ZIO",
LONGHI
REGIA
CLAUDIO
IVANA MONTI
Qui non magie di draghi ma canti e
storia. Primo filo conduttore la ineguagliata voce di tenore leggero di
mio padre, tornato in pensione da
Milano a Toano per cantare con lo
splendido Coro Valsolo del Maestro
Fontanesi.
Altre voci Renzino Martinella, storico di Toano e Andrea Barbato, il mio
sposo (1934/1996), che fu pieno di
LA KERMESSE ESTIVA
Poeti e cantafole insieme a rinverdire la tradizione orale
Il Festival «Il Canto del mondo", alla seconda edizione,
è nato da un’idea di Maurizio Maggiani e Alba Donati e
si tiene tra luglio e agosto nel quadrilatero del Parco dell’Appennino, che comprende i territori della Garfagnana, della Lunigiana, del Parco del Gigante e il versante
appenninico parmense. Si incontrano scrittori, poeti, attori, musicisti, maggianti, cantafole e cantastorie, tutti
uniti da una passione: la narrazione orale. «Il Canto del
mondo» consente di far conoscere il Parco dell’Appennino con i suoi castelli, i mulini, i borghi, i boschi di castagni, i laghi, le pievi. Tra gli ospiti, ci saranno Ascanio
Celestini, Alba Donati, Ivana Monti, Elisabetta Salvato-
ri, Lisetta Luchini, Marco Cattani, Vincenzo Pirrotta,
Mauro Chechi, la Compagnia del Maggio della Val
d’Asta e Andreino Campoli detto «Tatone il Contafole».
Molti hanno posto la narrazione al centro del loro lavoro, sia esso di tipo testuale, sia musicale che teatrale. Alcuni di loro (come Maggiani, Donati, Monti) hanno anche un legame biografico con l’Appennino, essendovi
nati o avendo scelto di viverci. In occasione del Festival,
la Provincia di Lucca inserisce nel programma un’appendice fuori dal parco: Maurizio Maggiani ha elaborato,
con la collaborazione di David Riondino e Dario Vergassola, un programma di due giorni sul racconto epico.
V
11
O
C
I
PREMI
GIOVANE CRITICA
CONCORSO A BERGAMO
L’Associazione Premio nazionale
di narrativa Bergamo ha bandito la
prima edizione del Premio «Giovane critica». Il comitato scientifico è
formato da Marco Belpoliti, Mario
Barenghi, Andrea Cortellessa e Daniele Giglioli. Possono partecipare
giovani critici, collaboratori stabili
o saltuari della carta stampata periodica italiana con particolare attenzione per le testate giornalistiche
quotidiane, settimanali e mensili. Il
candidato dovrà avere meno di 35
anni alla data del 9 novembre 2006.
Gli aspiranti al Premio devono inviare alla segreteria un massimo di
cinque articoli comparsi nei due anni precedenti l’uscita ufficiale del
bando in copia originale (così come
stampati sul periodico). Sono ammessi a partecipare solo articoli o
brevi saggi di argomento letterario
(letteratura italiana o straniera) apparsi come recensione su periodici
italiani non-specialistici. Il materiale dovrà pervenire entro la data
del 30 settembre 2006 (farà fede la
data del timbro postale) al seguente indirizzo: Flavia Alborghetti, Segreteria organizzativa Premio nazionale di narrativa Bergamo, Via
G. Paglia, 19, 24122 Bergamo. La
cerimonia di premiazione si svolgerà il 9 novembre nell’ambito di
un convegno appositamente organizzato. Quest’anno il tema è «La
crisi della Critica».
SCRITTURA CREATIVA
MYSTERY E NOIR
IN ESTATE A CASINA
Torna quest’anno la Scuola di scrittura residenziale «Alla ricerca dell’ombra» promossa al Castello di
Sarzano dal Comune di Casina
(Re). Dal 30 agosto al 3 settembre si
affronteranno temi di letteratura e
altri linguaggi espressivi, con particolare attenzione al genere mystery-noir, sotto la guida del direttore Davide Bregola. L’appuntamento si incrocia con il concorso letterario che vedrà la premiazione dei
vincitori proprio il 30 agosto. Informazioni all’indirizzo www.castellodisarzano.it.
commossa ammirazione per la Repubblica di Montefiorino e per la Resistenza dell’Appennino Ligure-Tosco-Emiliano sulla linea gotica.
I suoi pensieri…li ho studiati…e li ho
scritti in Mia cara madre…
E anche io, come lui, oggi sono piena
di commossa ammirazione per i protagonisti coraggiosi dell Resistenza:
«La battaglia degli Appennini è vinta
dal Tirreno all’Adriatico con il contributo con il contributo decisivo dei
partigiani… il fatto è raccontato dagli
Alleati» (così Roberto Battaglia).
Ma, aggiungo io, con il contributo
altrettanto decisivo di chi li aiutava, i
partigiani, nelle case, senza armi, di
chi, a rischio della vita e di stragi ahimè consumate - ha dichiarato l’autorità di una fede e di un’appartenenza.
Care genti dell’Appennino, già propositori, in Lunigiana, di una ancora
impensata eguaglianza nell’Italia del
censo post unitario.
pagina
12
rivaru - curtu e amaru, si dice dalle mie parti. Quest’anno febbraio, oltre che amaro, è volubile; nei giorni di
sole la tramontana soffia il
freddo e il gelo del nord, nei giorni di
pioggia lo scirocco alita vorticosamente il fiato umido e appiccicoso
del sud. Qui in casa mia, inoltre, spira
il vento dell’est; non avrei mai immaginato di poterlo accogliere come
ospite fisso. Sì, in gioventù e anche un
po’ oltre, avevo ceduto al fascino slavo, da Dostoievski a Tolstoi, quest’ultimo grazie soprattutto alle pagine più
belle da me lette nella mia lunga vita,
quelle dedicate alla morte di Ivan Il’ic;
ma è un mondo che serbo in biblioteca dopo averne ricavato tutte le emozioni e turbamenti possibili. Forse mi
è rimasto più vicino, insieme con Cecov, Gogol ora che l’Ucraina abita in
casa mia e ha sparso fiori nel mio
giardino.
Attraverso i vetri appannati dello studio vedo il vaso dei ciclamini giganti
che Roma, la badante venuta dall’oriente, ha deposto sul tavolo bianco
del giardino, una grande macchia di
sangue vivo sulle sfumature tornate
intorno autunnali. Sono ciclamini avuti in regalo a Natale da Ciccì la zia di
mia nuora, ancora dritti e gagliardi
nonostante gli acquazzoni e le grandinate che li avevano abbattuti e dati per
morti più volte. E se aguzzo lo sguardo riesco a notare i piccoli ciclamini
spontanei di un colore anemico, nascosti tra i folti fili d’erba del prato.
Abbasso gli occhi e vedo sul davanzale della finestra fiori stagionali nei vasi lunghi di terracotta, macchie colorate ohimè effimere. Roma me ne dice i
nomi, in ucraino, lingua di cui so dire
solo dobre e petruscha, mi pare di riconoscere però la viola del pensiero,
volgarmente panzè, subito mi viene in
mente una canzoncina e me la canto in
silenzio: «Oh!, che bella panzè che
hai, me la dai, me la dai, me la dai la
tua panzè?!»
In tarda età i ricordi richiamano spesso le canzonette che scandirono i capitoli della giovinezza, anche e forse
soprattutto quelle scurrili. Ora comincia a cadere una precoce pioggerellina
di marzo e, immalinconito, distolgo lo
sguardo dal giardino. D’improvviso
mi accorgo che fiori dominano l’interno della casa e me ne consolo. Nel
soggiorno vedo gli arbusti delle bocche di leone che ho regalati a Silvana
per il San Valentino, Roma li tiene in
vita al massimo tagliuzzandone le
punte inferiori perché inspirino meglio l’acqua del vaso.
Ai piedi di un mobiletto antico è un fascio di tulipani, portati in dono da
Alessia, la nipote di Roma: hanno
strani colori antichi simili a quelli,
sfumati, di una vecchia stoffa da parato. Davanti alla tenda si fa notare l’alberello di azalea di Annalisa mia nuora; sul mobile bar Roma ha messo un
bouquet di belle rose vermiglie che
mia sorella Francesca ha scelto dal
fioraio egiziano qui all’angolo; sul tavolino si inchinano le campane di fiori gigliacei portate da mia figlia Carla
e a cui Roma ha reciso i pistilli - una
vera e propria castrazione - perché
macchiano indelebilmente chi li tocca.
Mai tanti fiori tutti insieme in casa
mia! E dire che quando abitavamo a
Monte Mario Alto, in una villetta stile littorio con l’orto dietro e il giardino davanti, dove a maggio e ad ottobre
esplodevano sui cespugli e gli alberelli mille rose variopinte, avremmo potuto tappezzarne tutta casa, e invece
mai ne staccammo una. Mia moglie
che le curava ci impose di lasciarle
sfiorire sui rami.
«I fiori non si tagliano» diceva e la frase mi piacque tanto che la adottai come titolo di una mia commedia. Per
Silvana era commettere sacrilegio e
assassinio non lasciare che i rami fossero culle e bare della fioritura. E ora
invece eccoli qui tutti intorno i cadaveri della nostra coscienza perduta tra
la sopravvenuta indifferenza di Silvana. Solo nel mio giardino i ciclamini e gli altri fiori nascono e muoiono
indisturbati.
Oltre ai fiori hanno invaso la mia casa
le ucraine, che vengono in visita o
che telefonano a Roma, di cui, mi pare, esse riconoscano l’autorità di un
capo colonia. Io favorisco questo insediamento; capisco che, lontane dalle
loro case, dai loro cari, provino
conforto a trovarsi di tanto in tanto insieme. Sono qui a lavorare duro e
spesso umilmente per fare soldi da
mandare alle famiglie rimaste in patria. L’Italia, dove a torto e a ragione
piangiamo miseria, è per loro il paese
di Bengodi; solo che la loro povertà è
portata con dignità, nobile povertà.
Le due nipoti di Roma, per esempio,
sono giovani signore di gradevole e civile aspetto, dotate di buona educazio-
F
S t los
primo
piano
13
«Roma» è la badante ucraina che vive in casa
dando esempio di umanità, sacrificio, amore
familiare, dedizione. Una testimonianza dal vero,
frutto di sensazioni quotidiane ed emozioni
I fiori non
si tagliano
in Ucraina
VIVE A ROMA. PRODUTTORE
CINEMATOGRAFICO. "LA VALIGIA DI FIBRA" (SELLERIO,
2002), "GIÒN" (PIRONTI,
2000)
TURI VASILE
ne, hanno lasciato a Leopoli mariti e
figli a cui sono affezionatissime, per
strofinare pavimenti, lavare piatti, accudire e pulire vecchi. Eppure sono
sempre a posto, si muovono con leggerezza come farfalle che invece di
pulire water suggono nettare dai fiori.
I mariti laggiù lavorano per salari che
fanno inorridire persino chi da noi ha
la pensione minima; i figli studiano e
sostituiscono nei lavori domestici la
madre lontana.
Cristina, per esempio, è una giovane
robusta che aiuta Roma nei lavori pesanti ed è sempre allegra, cinguetta,
forse per nascondere la tristezza che a
volte fa capolino tra le pieghe. Un
mattino si è presentata con un maglione di uno squillante giallo canarino. «Cip! Cip!» mi è venuto di esclamare. E da quel momento lei ha perso
il suo nome per chiamarsi Cip-cip, e
talvolta Cippina. Legge molto, ha
sempre con sé un dizionario italoucraino e si appassiona alle vicende
politiche del suo paese che da secoli
cerca il riscatto e il riconoscimento
della sua indipendenza. Durante la rivoluzione arancione le fornivo le pagine dei giornali con le cronache degli
avvenimenti del suo paese; lei le leggeva e le commentava con le sue amiche. Mi diceva ridendo che io ero diventato il capo dell’ufficio stampa
d’Ucraina distaccato a Roma. E Roma
annuiva anche lei divertita, sentendosi doppiamente coinvolta.
Pensare che fino a ieri l’Ucraina era
per me poco più di una espressione
geografica, richiamava ricordi scolastici tipo quello dei bersaglieri in Crimea. Poi l’Unione Sovietica l’aveva
inghiottita e io frequentavo suoi scrittori come se fossero russi. Di Gogol
ho già detto, per di più mi sembra di riconoscere in lui alcune affinità con la
narrativa siciliana; ma è la sua farsa
metafisica Il Revisore a interessarmi
maggiormente, l’ambiguità dell’inquietante autoinchiesta sulla nostra
sporca coscienza. Di Babel - altro
oriundo - resto affezionato a quelle pagine de L’armata a cavallo in cui si
narra del successo strepitoso ottenuto
a Sanpietroburgo da Giovanni Grasso
recitando l’Otello di Shakespeare in
siciliano. Non è per sfoggio che dico
queste cose ma per significare che
l’Ucraina ha in questi ultimi tempi
occupato la mia curiosità. A tal punto,
per passare dal dilettevole all’utile,
che avendo bisogno di un idraulico
per far riparare le condutture del bagno e avendo invano inseguito l’artigiano romano che conoscevo, mi sono
rivolto ai tecnici del condizionamento
d’aria che ho sentito parlare in ucraino
con Roma il giorno che son venuti a
convertire gli apparecchi dal freddo al
caldo
«Ucraini, no - dissero - polacco sì».
E fu così che il mitico idraulico polacco fece ingresso a casa mia. Gli aprii
io stesso; nel vano della porta apparve
un uomo grande e grosso, dal testone
pelato, con la borsa dei ferri a tracolla.
«Sono Bobbo - disse - l’idraulico».
Lo guidai nel bagno e lo lasciai solo a
lavorare. Di lì a poco lo sentii cantare,
un motivetto infantile. Incuriosito, tornai in bagno; Bobbo lavorava in ginocchio e cantava giulivo.
«Gente allegra, - il Ciel la aiuta!» mi
venne da dire scherzosamente perché
pagina
il mio non sembrasse un rimprovero.
Ammutolì, e voltò verso di me un faccione che mi ricordò quello di mio cugino Santo idrocefalo che aveva un viso d’angelo e occhi ridenti color cielo.
Bobbo mi sorrise e con un vocione
rimbombante disse:
«Aspetto bimbo!»
Aveva appena saputo che la sua compagna era rimasta incinta e lui ne era
così felice come se avesse ritrovato
qui la sua patria. Questa gente mi è
parsa attaccata alla vita che nasce. Più
la loro vita è grama, più desiderano
tramandarla. La domenica sostituisce
Roma una sua compatriota che ha aria
di brava donna di casa e un comportamento rispettoso. Disse di chiamarsi
Miroslava, per comodità Mira. E io,
per quella botta di stupidità con cui
tento di distrarmi dall’angoscia, mi
misi a cantare l’inno della processione
del mio paese, di solito accompagnato dalla banda municipale: «Mira il
tuo popolo, o bella Signora, che pien
di giubilo oggi ti onora!»
Mi guardò interdetta e io le chiesi il
permesso di chiamarla, per mia comodità, «Mira-il-tuo-popolo». Accettò,
e, presa confidenza, mi disse di essere preoccupata per la malattia di sua
madre e di sentirsi molto triste per
non aver potuto assistere alle nozze di
sua figlia. Il ritardo nel rinnovo del
permesso di soggiorno glielo aveva
impedito e ora trepidava da lontano
per la gravidanza della sposina. Così
ne ho seguito, attraverso i suoi racconti settimanali, tutto il decorso, dalle
nausee fino al terzo mese al suo ristabilimento, dagli allarmi per false doglie all’ansia per il trasporto della priella mia vita non lascerò tracce, né figli, né opere. Soltanto
una parola. La inventai al liceo, in un’epoca non troppo remota.
Allora fare lo studente significava sacrificio. Mattinate tolte al libero girovagare per i vicoli, il corso e i giardini pubblici di una cittadina che conteneva tutto quanto poteva servire a tirare la giornata senza stancarsi. Occhi
obbligati a fissarsi su facce di coetanei
bolsi e butterati di acne. La mano costretta alla penna ed impedita nel gesto
più spontaneo di tutte le generazioni:
la sega. La mia oasi era il cesso del liceo. Qui si gridava, si sbadigliava e ci
si esibiva in oscene piroette che finivano in spintoni e colpi a tradimento
sullo scroto.
«Dammi una zigomaffia» chiesi una
mattina d’inverno ad un grumo maleodorante, qualche anno più giovane
di me. Per zigomaffia intesi sul momento sigaretta. Ma non volevo che
lui capisse. Il piacere più sottile del
linguaggio è propinarlo agli altri come
una sfida e una minaccia. Assaporai,
dunque, la perplessità del malcapitato
e gli chiarii l’oggetto della mia richiesta portando due dita sulle labbra. La
parola «zigomaffia» fu immediatamente riconosciuta come il segno di
un avvento già avvenuto: quello del
sottoscritto. Le mie quotazioni balzarono alle stelle, dalle stalle di cui odoravano le classi del liceo. I ragazzi
scoprirono in me una levatura che io
per primo ignoravo. Le ragazze presero a cercare il mio sguardo, o solo a
sperarvi, mentre continuavo ad evitarle, preferendo alla loro scarsa opulenza odorosa di mestruo le statuarie immagini femminili che evocavo nelle
mie masturbazioni. Mi si invitò a festini tra sconosciute comitive, dov’era
tutto un circolare di zigomaffie. Egregio Zigomaffia, avrei potuto scegliere
di chiamarmi, gettando il mio vero
D
mipara. E finalmente il bimbo è nato!
Si chiama Dimitri, pesa tre chili e
mezzo, è alto cinquantatre centimetri,
è calvo perciò sarà biondo: «Mira-iltuo-popolo» è alle stelle e al tempo
stesso non si dà pace, perché si sente
esclusa, emarginata.
La domenica scorsa mi accorgo che
Roma non ha preparato, come fa sempre, il pranzo da consumare in sua assenza; sospetto che se ne sia, per la
prima volta!, dimenticata. «Mira-iltuo-popolo» mi dice:
«Non si preoccùpa, signòr, ho portato
tutto io».
Insalata russa che da loro mi sembra
che si chiami insalata italiana, due filetti di bue, una bottiglia di vino, una
torta al cioccolato. Sento montarmi
addosso la contrarietà, «Come si permette, Mira!» quasi grido.
Lei mi guarda umiliata e io ho il tempo per pentirmi del mio scatto di superbia. Cerco di modulare la voce:
«Non voglio, Mira, perché lei si sacrifica a lavorare anche la domenica per
mettere insieme i soldi da mandare ai
suoi, e lei li spreca così».
Mira apparecchia in silenzio; io fingo
di interessarmi alla televisione. Infine
lei si decide a domandare, sommessa:
«Arrabbiato, signòr?»
«No, no - le assicuro - arrabbiato no,
dispiaciuto sì».
È che... - confessa - è che ieri battezzato Dimitri e non avevo cuore di festeggiare da sola».
Mi sono sentito un verme, avrei voluto abbracciarla, chiederle perdono.
«Evviva! - esclamo con improvvisata
euforia - Stappi subito la bottiglia!»
Mira esegue; io riempio due bicchieri.
«No, no, signòr... io non bevo».
«Ma io non ho cuore a brindare da solo! - dico facendole il verso. Si convince; leviamo in alto i bicchieri. Benvenuto tra noi, Dimitri!»
A lei si inumidiscono gli occhi. Ora so
già che cosa accadrà; attraverso i bollettini di sua nonna, Dimitri crescerà
anche in mezzo a noi; assisteremo al
suo svezzamento, alla sua prima pappina; esamineremo il colore della sua
cacca; lo vedremo muovere i primi
passi, qui, nel mio giardino, e Chiara,
la mia pronipotina che avrà allora due
anni lo guiderà; e magari, chissà, all’allegra brigata si unirà il bimbo di
Bobbo, l’idraulico polacco che ormai
accorre puntuale a ogni nostra chiamata.
Tutto si svolge come in un sogno da
cui ho paura prima o poi di risvegliarmi e di ritrovarmi solo con Silvana.
Lei mi guarda con gli occhi sbarrati,
parla sempre meno, ma continua a
cantare appena io intono - si fa per dire perchè sono stonatissimo - un motivo dei tempi andati. Per l’occasione
abbiamo cantato insieme tutto l’inno
«Mira il tuo popolo, o bella Signora...»; e la domenica recitiamo ancora,
insieme, il «Padre Nostro» che il cele-
S
RACCONTI DELL’IO
brante dice durante la messa televisiva; ma la sua voce è sempre più incerta e sempre più tremante è il braccio
che tenta di alzarsi per segnarsi alla
benedizione del Papa per l’Angelus. E
io non so se lei sotto la sua maschera
di indifferenza da cui sempre più raramente sgorga una lacrima, si renda
conto dell’ultimo sogno della nostra
vita. Non so se sia accorta che il vento dell’Est, impetuoso, ha spalancato
la porta di casa nostra e si aggira nelle nostre povere stanze e sul nostro
splendido giardino dove ha sparso il
suo polline. Il vento, demone invisibi-
le, che mi insegue da una vita e di cui
udii nella mia più remota infanzia la
voce contorcersi sui fili del telegrafo
di Capo d’Orlando, soffiando dalla
sua reggia in mezzo al mare.
E Roma si aggira silenziosa, prevede
tutto, previene tutto, anche il più muto dei nostri desideri, principalmente
quelli della sua bella Signora che continua a dire:
«Grazie, Bianca» ad ogni sua attenzione. Ed è tanto l’amore che Roma ci
mette da averne ancora per travasarlo
nel piccolo giardino dove i fiori non si
tagliano, divenuto un’oasi grazie alle
sue cure e di cui va tanto orgogliosa da
mostrarlo a tutti come fa un anfitrione
che illustra agli ospiti il suo castello
incantato. E tutti ne restano ammirati,
non per compiacenza ma per convinzione, perchè sentono che quel pezzetto di terra è concimato con l’amore.
Oggi, 23 febbraio 2006, cade il sessantesimo anniversario del nostro matrimonio. Di primo mattino Roma torna dal mercato con due grandi rami
fioriti di pesco dai petali rosati e trasparenti.
«Uno per te, signor Turi, e uno per Signora Silvana».
La compagnia
della zigomaffia
parola gli aveva ricordato tutto ciò
che non sapeva del mondo.
«Sì, una zigomaffia, no, non ce
l’ho…» e fece cenno agli altri di seguirlo verso lidi più adatti alla meditazione.
Tornai in provincia dopo aver imparato che in città non c’è nulla da imparare, semmai da insegnare, come avevo
dimostrato nel confronto con quei giovani sprovveduti. Intravidi dunque la
mia vocazione e decisi di fare il concorso a cattedra. Lo vinsi affascinando
la commissione con un tema assolutamente privo di significato e un esame
orale in cui sfoderai comportamenti da
lobotomizzato. Ciliegina sulla torta,
una mia lapidaria risposta al presidente del collegio esaminante, che per
mettermi a mio agio esordì:
«Può accendersi una sigaretta, se crede».
«Grazie, no. Fumo solo zigomaffie».
Il caso, che non è mai casuale, mi volle insegnante in quello stesso liceo
dove fui studente. Un nuovo preside
mi accolse con la cordialità del primo
giorno, pronta a divenire astio e bile
man mano che i rapporti fossero divenuti più assidui. Nel corso dell’incontro monologò sul concetto:
«In questa scuola vige la democrazia,
perciò comando io». Poi protese un
portasigarette, offrendo: «Gradisce
una zigomaffia?»
«Come?»
«Già, lei è nuovo».
La zigomaffia non rimane tra queste
mura. Altri germi si aggiungono a
quelli che io ho già sparso e continuo
a spargere per il mondo. Così, forse,
un giorno tutti si scorderanno del termine sigaretta, avendolo sostituito
con la parola «zigomaffia». Potrei
pensare ad altri neologismi. Ma me
ne basta uno. L’umanità è troppo stupida per meritare il dono di un nuovo
linguaggio.
«
VIVE A FOGGIA. TRADUTTORE, INSEGNA SCRITTURA CREATIVA. ULTIMO TITOLO "IL
COMPLOTTARIO" (AVAGLIANO, 2006)
ENZO VERRENGIA
nome nel cesto. Ma vinsi la tentazione, sapendo che avrei rischiato di entrare nella leggenda sotto mentite spoglie.
Sul palcoscenico della scuola, in quell’era perduta nelle brume del tempo,
un telegiornale dopo l’altro, il ruolo
più ambito non era di applicato di segreteria, come ora accade. Esisteva
una carica che soverchiava per prestigio perfino quella del preside: il capoclasse. Il capoclasse era l’insostituibile intermediario tra la feccia appollaiata nei banchi e l’empireo dei poteri
forti, che sedevano in cattedra. Metà
alunno, metà borghese già cresciuto e
marcio dell’immoralità adulta, iniziato all’arte dell’ammanicamento. Il capoclasse non poteva che essere un
personaggio, ed io, inventore della zigomaffia, mi qualificavo per diritto
naturale a divenirlo. Sarebbe stato come rendere compartecipi della sua origine i miei compagni. Mi offrirono di
fare il capoclasse a suffragio universale. Votarono anche gli insegnanti, entrati nella spirale della parola e sempre
pronti ad appropriarsi del successo di
alunni che, al contrario, lo avevano ottenuto andando dritti per la loro strada,
in barba alle regole scolastiche. Ma ri-
tavamo in camera da letto,
dai nonni. In piedi sul comò
mio cugino Vito arringava il
pubblico: un pubblico costituito da me, da mio fratello Ninni e da Ginetta, la figlia dei vicini. Ed è vero che ogni tanto dalla cucina veniva ad affacciarsi alla porta Maria Consiglia, cameriera di casa e confidente di noi bambini, e diceva: «Per
carità di Dio, creature mie, non date
retta al signorino Vito. Lui mica è come noi, lui è siciliano, perciò è di testa
fantasiosa, e vi conta solo bugiarderie». Ma lo stesso noi eravamo affascinati. Perché mio cugino - che all’epoca di cui parlo d’estate se ne tornava in
Sicilia, dovete sapere che era nato dal
matrimonio tra la sorella di mio padre
e un avvocato di Palermo, ma l’inverno lo trascorreva intero, e a suo
dire con gran disagio, in un famoso
collegio vicino Napoli- mio cugino
quella domenica con arte di consumato affabulatore ci stava raccontando di un suo antenato, Gesualdo faceva nome, al quale da un angelo del Signore era stato comunicato giorno,
ora e minuto della propria morte. Così, all’alba del dì fatale, assieme al
prediletto tra i suoi cani, si era chiuso
nella stanza più appartata. Fuori, nelle sale, negli atri, negli androni, attendevano congiunti, famigli, villani, e le
donne a voci alterne raccomandavano
il morituro alla celeste misericordia.
Ma si erano taciute, tutte, quando all’orologio della torre era battuta l’ora
designata. Dopo l’ultimo tocco, il silenzio. In quel silenzio, la più vecchia
delle nutrici aveva aperto la porta, e,
eccolo, Gesualdo era lì, al suo posto,
devotamente genuflesso: con mani
giunte e occhi sbarrati. Davanti a lui,
sul pavimento di cotto, una crepa bruna: indicava il punto in cui, dopo avergli squarciato il cuore, si era confitto il
fulmine di Dio.
«Vedete, vedete la morte come fa? Rispetta con puntiglio i termini prefissi.
Avete capito, bambocci?» Così aveva
concluso Vito, saltando dal comò.
«Ma perché ci chiami bambocci? Siamo grandi quanto te!»
«Vi chiamo bambocci perché a Napoli vi terrorizzate della morte. In Sicilia
invece ci stiamo in confidenza.Quanto a me, poi, la fisso negli occhi. State a vedere!»
Un nuovo balzo, e, oplà, eccolo sul
davanzale del balcone, che, in bilico
sul vuoto, stavamo al quinto piano,
ballava uno scatenato tip tap, lanciando baci a me e a Ginetta. Noi assistevamo paralizzati. Finché io scoppiai a
piangere. Allora lui saltò giù, e, traendomi in disparte, «Davvero, Mariù disse - davvero avresti avuto tanto dispiacere se cadevo? Senti: ti confido
un segreto. Io, come il nobile Gesualdo, non verrò colto dalla morte di sorpresa. Sarò preavvertito. Per cui, finché non arriva l’avviso dall’aldilà,
fiutai. La modestia è la miglior forma
per far sentire agli altri la propria superiorità.
«Dammi una zigomaffia» era la mia
unica pretesa, che sfoderavo quando
mi girava.
Proseguii gli studi all’università, lasciando la provincia confusa e insensata per una città confusa e insensata, che
non merita esser nominata, perché non
si appare gratis negli annali della zigomaffia. I nuovi professori tracciavano
frettolosi voti sul mio libretto senza accorgersi della mia presenza. Le donne,
ignare della parola di cui ero portatore,
preferivano esemplari del mio sesso
dalle doti molto più appariscenti. Il
resto dell’umanità mi attraversava con
lo sguardo come fossi invisibile. Ma
sorridevo del trattamento riservatomi
dal mondo, ben conoscendo ormai il
mio potere. Le file, i bar, gli autobus:
qui lo esercitavo. E dovunque pronunciassi la parola, restava il segno.
Una sera in metropolitana fui circondato da un nugolo di teppistelli. «Gleba» pensai, tremando. Ancora prima
di diventare l’oggetto dei loro lazzi o
peggio, chiesi a quello che sembrava il
capo:
«Ce l’hai una zigomaffia?» La migliore difesa, avevo sentito dire, è l’attacco.
«No, non ce l’ho una… una…»
«Zigomaffia» ripetei.
Il ghigno ferino sul volto della belva si
era tramutato in umana perplessità.
La maschera gli era caduta e si era ritrovato moccioso fra mocciosi. La mia
ai qual è la prima cosa che fa
la polizia quando arriva sul
posto per i rilievi dopo un incidente grave?». Scuoto la testa. L’eco
delle sirene dei pompieri che sale dal
fondo della strada si mescola con il
basso continuo e insistito di uno stereo
acceso poco più in là. Giù alla via, dietro i palazzi alti sullo sfondo, una tetra
colonna di fumo si allunga, nera e grigia sul cielo chiaro. L’officina è grande e luminosa, piuttosto pulita e soprattutto incredibilmente silenziosa.
La macchina sta su una piccola torre
di metallo, una costruzione lucida di
grasso e illuminata da numerose fonti di luce che splendono a intermittenza come piccole esplosioni di lampi
imbottigliati.
«Il cambio. Vanno subito a vedere la
marcia inserita. Perché, dopo che si è
schiantato con la macchina, nessuno
pensa a metterlo in folle o a inserire una
marcia bassa. E puntualmente la polizia
trova la quarta o la quinta in tratti dove
la terza è già esagerata. E l’assicurazione così ti fotte e non ti paga».
Da una sedia vuota addossata al muro
raccolgo una rivista di motori. All’interno un centinaio di pagine patinate
dedicate a elenchi fitti e minuziosi
con marca dei prodotti, descrizione
dei colori e dei materiali, prezzo, anno
di messa in vendita e statuto ufficiale
delle quotazioni. La serie delle cuffie
per la leva del freno a mano è più ricca e accurata del catalogo di uno stilista milanese d’alta moda. La sezione
centrale, intervallata da numerosi riferimenti al Codice della strada, è costituita da un lungo servizio dedicato ai
neon da installare sotto la scocca: il
pacchetto che va per la maggiore - e
che vale uno stipendio pieno di un
operaio - contiene due neon blu, una
coppia di spruzzini lavavetri con led
dello stesso colore e quattro tappini
coprivalvola per pneumatici che si il-
S
Mi ha sentito dire, non so in quale
occasione, che preferisco offrire a Silvana ad ogni nostro anniversario piuttosto che fiori, rami fioriti, presagio di
primavera. E infatti un’ora dopo il ragazzo della mia fiorista porta i rami
che ho ordinato io. Roma, eccitata, li
spartisce in due fasci, lascia il suo nel
soggiorno contro la tenda vaporosa e
ne sistema uno nel mio studio-letto,
l’altro nella camera di Silvana. Lei
guarda senza espressione, lontana,
quindi finalmente farfuglia:
«Stu-pen-do...».
E mi si allarga il cuore.
Officine a Napoli
specialità lavoretti
VIVE A NAPOLI. COLLABORA
CON L’EDIZIONE CAMPANA DEL
"CORRIERE DELLA SERA" ED È
REDATTORE DELLA RIVISTA ON
LINE "NAZIONE INDIANA"
PIERO SORRENTINO
luminano quando le ruote girano e
formano piccoli e intensissimi cerchi
colorati.
«Ma stiamo provvedendo anche per
quello» sorride il carrozziere che ha
deciso di chiacchierare un po’con me.
Con quella faccia a punta, un po’ affilata sul mento nero di barba e grasso,
l’uomo - chiamiamolo Enzo - caccia
da una tasca della tuta un piccolo congegno a molla corta che termina con
un uncino ricurvo, un manufatto di
una semplicità tale che per un momento dubito della sua vera funzione.
«Si mette qua», indica un punto della
scatola del cambio «e se la macchina
sbatte, tac !, quello si chiama la leva
indietro e la mette a folle».
Due Smart assolutamente identiche
entrano piano nell’officina. Parcheggiano una dietro l’altra con una elegante manovra nel poco spazio a disposizione. I guidatori non hanno più
di 19 anni, maglie firmate, occhiali da
sole costosi, scarpe da 200 euro. «’O
kit» dice uno dei due indicando le automobili con un impercettibile arco
del mento prima di andarsene. Non è
una richiesta, è un ordine. «’O kit» è la
novità del momento per le Smart a
Napoli, e sta tutto in una scatola di car-
tone grossa quanto una confezione da
6 uova; un piccolo computer coi pulsanti rossi dal nome pretenzioso:
Powergate. L’elaboratore agisce direttamente sulla centralina di iniezione e permette al guidatore, comodamente seduto al volante, di modificare le prestazioni del motore riprogrammando - con tre file a scelta di diversa
potenza - la centralina dell’automobile. A questo si abbinano le prese d’aria
superiore per la ventilazione e i parafanghi allargati, i gruppi ottici posteriori e un nuovo spoiler all’altezza del
tettuccio.
«Poi c’è la questione dei vetri oscurati» dice Enzo mentre riprende a smanettare sulle portiere dell’auto issata
sul ponte «li chiedono tutti, ma non
sempre si possono fare. Quelli dietro
sì, davanti invece devono essere visibili per legge, ai posti di blocco devono poter guardare chi c’è dentro l’abitacolo prima che la polizia sia a tiro di
pistola». Chiedo anche delle targhe
delle moto, se è vero che esiste un
congegno che - azionato da un pulsante sotto la manopola del gas - solleva
il portatarga quel tanto che basta da
impedire all’occhio elettronico dell’autovelox o a quello umano degli
agenti di registrarne il numero. Enzo si
ferma, si pulisce le mani con un panno che gli spunta dal taschino della tuta come una laida pochette e mi dice
«Vieni».
Mettiamo i piedi sopra un velo bianco
di vernice polverizzata che riempie i
solchi del pavimento e camminiamo
Un presagio, quasi una profezia. Un patto con
la morte e un’assicurazione sulla vita. Da
vivere nella sua pienezza fino alla fine segnata
dal destino in una Sicilia epifanica ed esiziale
La morte
manda
un avviso
VIVE A NAPOLI. DA AVAGLIANO "QUELL’ANTICO AMORE"
(2004), "LAVINIA E L’ANGELO CUSTODE" (2003)
GIOVANNA MOZZILLO
qualunque cosa mi salti in mente di
fare, stai sicura, non mi succederà
niente».
Insomma,Vito era fatto a modo suo.
Per esempio, le cose o gli piacevano
da impazzire o gli ripugnavano. A
sentir lui, i professori erano un branco
di cretini e le materie roba da voltastomaco, invece per i palazzi d’epoca
stravedeva, e passava le notti nel bagno della camerata a contemplarne le
sagome sui libri d’arte che trafugava
al nonno.
«Com’è possibile? - gli chiesi - per te
non ci sono vie di mezzo. Sei un esagerato cronico».
Lui rise.
«È perché son siciliano. La Sicilia è la
terra dell’iperbole».
«Dell’iperbole? E che significa?»
«Ma come? Sei la prima della classe,
la cocca delle professoresse, e non
sai che significa iperbole?»
Aperse il vocabolario, e recitò. «Iperbole: figura retorica che amplifica o
sminuisce, fino all’inverosimile, la
verità delle cose».
Avvenne così che la Sicilia facesse ingresso nel mio immaginario. La Sicilia: entità anomala, eccentrica, dove
tutto era eccessivo, e la morte stava di
casa e, complice, acconsentiva a rivefino a un armadietto metallico tappezzato di calendari e fotografie di
bolidi da centinaia di migliaia di euro.
Questa zona dell’officina ha l’aria di
essere stata appena svaligiata, con i
cassetti di una scrivania aperti e i fogli
buttati qui e là, tute abbandonate sul
pavimento e maglie maculate di grasso secco ammonticchiate negli angoli. Nella parete, nascosta dal mobile,
una nicchia rettangolare ospita un sacco della spazzatura zeppo di viti, rondelle, piccole pulegge gommate e fili
elettrici con l’anima di rame nuda.
«Mezz’ora di lavoro e passa la paura»
sorride Enzo. Prezzi? «180, 200 euro.
Ma più per il rischio che per il lavoro
effettivo». Tuttavia, mi spiega, il vero
pezzo forte e assolutamente legale che
va per la maggiore di questi tempi si fa
sulle macchine. Anzi, su particolari
modelli, e solo su quelli: Alfa 156,
Punto, Subaru, Fiat Marea e Brava.
«Si fa una piccola sostituzione dell’antenna: al posto di quella normale,
di serie, si mette un’antenna cromata,
grossa e visibile, che nella parte centrale si attorciglia a spirale e torna
dritta sulla punta. È l’antenna delle
auto-civetta della polizia e dei carabinieri. Con quella, e magari una paletta bianca e rossa senza insegne, basta
slacciarsi le cinture di sicurezza e la
trasformazione è perfetta: puoi scorrazzare dove ti pare, nelle corsie preferenziali e in quelle riservate sotto gli
occhi degli addetti dell’Anm, parcheggiare nei posti riservati alle forze
dell’ordine, entrare nelle zone a traffico limitato…». Quante officine fanno
questi lavoretti a Napoli? Enzo posa lo
straccio, si porta una mano al mento e
finge di pensarci. Stacca le labbra come per dire qualcosa, poi ci rinuncia e
fa solo un sorriso storto. In lontananza, il cielo coperto divampa di una
luce arancione annacquato. L’incendio continua.
lare il suo mistero. Era ammaliante
questa arcana Sicilia, ammaliante come Vito. Poi in Sicilia ci andai: due
anni dopo, in autunno. Dovete sapere
che intanto Vito era tornato a Palermo.
E pareva avesse messo la testa a partito in quanto, mi aveva scritto, si era
persuaso che, sebbene la scuola gli ripugnasse, doveva sopportarla per realizzare il suo intento: fare l’architetto.
Come fu che ci andai? Fu perché il padre di Vito, avendo acquistato una casa su un’isola, al largo di Marsala, ci
teneva a mostrare al cognato la nuova
proprietà. Arrivammo di sera: una sera di novembre, anzi di novembre
inoltrato, in cui l’aria era quieta, profumata, incredibilmente tiepida. E, lo
sapete, le sere d’autunno, quando sono tiepide, possono riuscire struggenti: quanto quelle d’estate, ma con in
più come un senso di sfinimento, di
resa persuasa, di languore vischioso e
dolce che impania l’anima e i nervi.
Dunque, Vito. Me lo trovai di fronte
appena scesa dal treno. Era cresciuto,
portava i calzoni lunghi, aveva, mi
sembrò, un’ombra di pelurie sul viso.
Lo guardai interdetta. Lui si accostò
ridendo, al suo solito. «Allora, Mariù?
Cosa c’è? Ti faccio soggezione?» e mi
sussurrò all’orecchio: «Sai, ho fatto
l’amore con una femmina».
Poi ci fu la cassata. Arrivò in tavola la cena era stata lunga, con brindisi,
discorsi, battimani. E io avevo bevuto, un bicchiere o poco più, ma al vino non ero abituata e mi sentivo stordita - arrivò, e subito mi abbagliò: superba, sontuosa, ingioiellata. Mio Dio,
ma era un trionfo, un’apoteosi. E Vito, all’altro lato del tavolo, rideva del
mio stupore. Ma fu al primo boccone
che rimasi trasecolata: un sapore così
non l’avevo mai sentito, mi sdilinquiva i visceri, mi portava in Paradiso.
Vito non smetteva di ridere.
E l’isola. Con quel mare a sorpresa,
un mare in cui si poteva nuotare e
sguazzare, sguazzare a lungo senza
aver freddo, eppure eravamo in pieno
autunno: un’atmosfera sospesa, fuori
del tempo. Ricordo un masso a strapiombo su una piccola insenatura.
L’acqua lì dentro era alta mezzo metro, forse anche meno, e vibrava, trasparente, su un fondo roccioso in cui
si incastonavano i ricci. Improvviso,
Vito vi si tuffò di testa, a pelo d’onda
si girò con un agile scatto di reni, e rapido emerse burlando il mio terrore.
«Vito, sei pazzo. Potevi spezzarti l’osso del collo!»
«Ma no. Tutt’è essere pronti a capriolarsi. E poi, fin quando non mi recapitano la chiamata, io sono invulnerabile, te l’ho detto».
I ricci. Ne aperse uno col coltello della merenda. Me lo porse. «Prova».
Provai.
«Allora, ti piace?»
Mi piaceva, altroché. Ma ero turbata.
Ancora un sapore insospettato, un sapore invasivo, che mi catturava, mi
metteva i brividi a fior di pelle: un sapore impudico.
«Oh Dio, Vito, ma perché, quando
mangio una cosa, mi guardi a quel
modo?»
«Perché, Mariù, è uno spettacolo la
cauta curiosità con cui ti accingi a
sperimentare un gusto nuovo. Il fatto
sta che, con questa faccia di brava
bambina, tu sei in realtà una vorace
cacciatrice di sensazioni».
Mi mortificai. Mi avevano insegnato
che non sta bene essere «voraci». E
forse fu la mia mortificazione a intenerirlo. Cert’è che mi baciò. Io avevo
quasi quattordici anni, lui sedici. Ecco: nella mia vita in seguito ci sono
stati, com’è normale, molti altri baci.
Baci di uomini la cui fisicità mi ha intrigato. Ma a tutti, in confronto a quel
primo bacio, mi è sembrato mancasse
qualcosa. Gli è mancato, credo, il retrogusto del riccio, e il fremito della risata repressa che sussultava sulle labbra di Vito.
Infine, il momento dei saluti, alla partenza del postale. Si accostò la sorella di Vito, una bambinetta più adulta
della sua età.
«Tu - mi disse all’orecchio - che ti credi tu?, ti ho visto che all’isola ti baciavi con Vito. Ma devi stare attenta.
Perché con Vito siete cugini stretti, e
se fate l’amore sta a sentire che succede: dopo nove mesi da qui, dalla pancia, ti viene fuori un mostro. Li sai i
mostri? I mostri come quelli di Bagheria?»
Io a Bagheria non c’ero stata. I mostri
però li avevo visti, nelle figure dell’enciclopedia.
Poi, per anni, in Sicilia non son tornata. Però gli autori siciliani li ho letti
tutti: come diceva Vito, nelle curiosità
sono insaziabile. E sempre a farmi da
battistrada nella scoperta della sicilianità c’era Vito. Con il suo charme e la
sua risata. Per cui la Sicilia, pur assumendo ai miei occhi una identità via
via più definita, mai ha perso per me
i connotati acquisiti durante l’apprendistato emozionale a cui ero stata sottoposta al tempo di quell’indimenticata vacanza. Ha continuato a essere
terra di orrori e dolcezza, disorientamento e fascinazione.
Quanto a Vito, fece faville: a tempo di
record, si laureò, divenne architetto e
scenografo. Ma sua madre, a telefono
con la mia, si disperava perché passava da una donna all’altra, e non pensava a metter su famiglia. Io, quando
mia madre riferiva queste lamentele,
sorridevo. Perché Vito mi aveva scritto: «Mamma vorrebbe i nipotini. Ma,
poverina, aspetterà invano. Lo sai, la
mia fidanzata impossibile sei tu».
E invece si fidanzò. Quando lo seppi,
piansi. Piansi, vergognandomi di
piangere.
Ma due mesi dopo ci telefonarono.
Ecco: la fidanzata di Vito era in macchina col fratello - il quale, si era fatta sfuggire mia zia, pareva avesse intralciato gli interessi di gente pericolosa - e la macchina era esplosa. Vito,da
quando, due giorni prima, era avvenuto il fatto, non mangiava, non parlava.
Alla mia telefonata però acconsentì a
rispondere.
«Sai, Mariù, sono in attesa dell’avviso. Senonché dall’aldilà non si decidono a mandarlo. E allora, ma tienilo
per te, ho pensato di sollecitarlo».
«Non dir sciocchezze,Vito».
«Non dico sciocchezze: è che sono
coerente con me stesso. Lo sai, non
sopporto di annoiarmi. E allora, siccome senza di lei questo mondo per me
è solo noia, noia infinita, come vuoi
non abbia fretta di lasciarlo? Però,
Mariù, a te voglio avvertirti. Quando
sarà il momento, ti chiamerò…»
«Vito!»
Aveva riattaccato.
Forse chiamò davvero. Ma a rispondere non feci in tempo. Vedete, era
una domenica pomeriggio, stavo stesa sul divano, impigrita dal pranzo:
quando alzai il ricevitore, non c’era
più nessuno.
Che era morto lo seppi il lunedì. Si era
schiantato con la motocicletta: dalle
parti di Mondello.
Recentemente son tornata a Palermo.
Di nuovo era novembre, di nuovo era
sera. E come tanti anni fa il tepore dell’autunno siciliano mi ha sorpreso e
incantato. A lungo, senza fretta, ho
camminato nel centro antico. Poi, non
so come, mi son fermata: avanti a un
antiquario. C’erano in vetrina, su un
drappo rosso porpora, due pupi. Antichi, preziosi. Avevano duellato - è logico, essendo paladini - e ora il vincitore con una mano levava in alto la
spada, con l’altra per i capelli impugnava il capo dell’avversario. Vi dirò:
era come se in quella testa mozza l’artefice avesse infuso una fervida vita, e
negli occhi si leggeva una sorta di
gaio stupore, e le guance, tonde e rosate, parevano in attesa di una carezza, e poi c’erano le labbra:le labbra,
mio Dio, carnose, invoglianti, appena
dischiuse in un accenno di sorriso.
Era tenero e atroce quel volto, e mi
straziava e incantava, e a lungo l’ho
contemplato. Immobile, davanti alla
vetrina, mentre i passanti mi spintonavano, nella mite sera autunnale che
sapeva di salmastro e di zagare.
pagina
14
ee Child, nato a Coventry
nel 1954, vive dal 1998
negli Stati Uniti. Dpo aver
lavorato per due decenni
come autore in una televisione inglese, decide nel 1997 di dedicarsi alla narrativa. Diventa così l’apprezzato creatore del detective «seriale» Jack Reacher, ex poliziotto militare e investigatore solitario sempre alle prese con casi complicati e intriganti. Autore molto ammirato per la
capacità di costruire storie avvincenti e nello stesso tempo poetiche, Lee
Child conta numerosissimi fans in
tutto il mondo. Stilos lo ha intervistato
Jack Reacher, al contrario di molti
protagonisti di gialli e thriller seriali, non è alcolista, non si droga, non
è in generale un disadattato, ma
una persona normale, semplice anche se con qualche mistero. Come
mai questa scelta un po’ in controtendenza, quando sappiamo che
conferire ai personaggi qualche caratteristica borderline assicura loro fascino e attira lettori?
Sì, è vero che il mio detective è un po’
in controtendenza; l’ho voluto così
perché, vede, inevitabilmente quando
nei libri si mettono in atto delle tendenze come l’alcolismo, la droga, la
violenza gratuita, queste tendenze poi
subiscono un’escalation inarrestabile.
Per esempio, di solito quando si scrive di serial killer, si parte nel primo libro con 3 vittime, poi nelle storie successive diventavano 20, delle quali
la maggior parte magari bambini, e
via dicendo. C’è sempre un crescendo
terribile di violenza e di «dannazione». E lo stesso è sempre avvenuto
con le caratteristiche dei personaggi.
Si creano i personaggi, questi cominciano ad avere qualche problema, poi
diventano talmente problematici da
essere grotteschi. Diventano disfunzionali, persone che non sono più
quasi capaci di stare in piedi perché
troppo ubriachi o troppo drogati o
troppo depressi. Io non volevo andare avanti su questa strada così di moda e continuare su questa tendenza;
volevo ritornare a una persona che si
comportasse in maniera più normale.
Soprattutto volevo ritornare a un tipo
di eroe più nobile e più puro per riagganciarmi anche a una tradizione più
antica rispetto a quella di questi
«eroi» contemporanei così compromessi. Non volevo un eroe che si
commiserasse, ma che comunque
avesse qualcosa di misterioso, come
Reacher ha; senza però fare di questa
indeterminazione una caratteristica
troppo importante.
Visitando il suo sito si coglie un particolare rapporto che lei ha con il
suo protagonista, un rapporto molto stretto, quasi lo considerasse una
persona vera e propria più che un
personaggio letterario. Corrisponde a verità?
Sì, corrisponde a verità; ho un rapporto molto stretto con lui. Credo che
molti scrittori abbiano un rapporto
del genere con il proprio protagonista,
un po’ come se fosse un fantasma che
è sempre presente. Condivido con lui
parecchie cose: certo, Jack Reacher a
differenza di me può fare delle cose
che io non sono in grado di fare e può
anche permettersi di commettere delle azioni che, se le facessi io, mi condurrebbero direttamente in carcere.
Questo perché lui vive in un libro e io
no. Ma solo queste sono le differenze;
per tutto il resto è praticamente come
me.
A proposito appunto delle azioni
che Reacher si permette di fare: lui
è abituato a quanto pare a farsi giustizia da solo e ad arrivare come
una sorta di «esecutore» dove la legge non riesce ad arrivare. Ha mai
avuto problemi, non so, reazioni di
contrarietà da parte della critica o
dei lettori in generale per questo detective che esercita giustizia sommaria e che spesso si pone bellamente al di sopra della legge?
Posso dire che le reazioni variano
moltissimo a seconda degli Stati nei
quali i miei libri escono. Negli Usa, in
Gran Bretagna, in Francia è abbastanza accettato il fatto che possa esserci una legge diciamo più «naturale» rispetto alla legge scritta. In altri
Paesi, soprattutto per esempio nel
Nord Europa, penso alla Scandinavia
e ai Paesi Bassi soprattutto, per quanto il personaggio di Jack Reacher sia
apprezzato, c’è più preoccupazione
per questi suoi metodi.
A prova di killer narra del sistema
di sicurezza americano ed è infarcito di tantissime nozioni che riguardano le procedure, le armi, nozioni
di medicina e via dicendo. Che ricerche ha effettuato per riuscire a
essere così preciso?
La risposta davvero pretenziosa a
questa domanda sarebbe che tutta la
S t los
autori
stranieri
L
Nella foto Lee Child, autore per Longanesi
di A prova di killer
IL LIBRO
LEE CHILD
"A prova di killer"
Trad. Adria Tissoni
pp. 469, euro 18,60
Longanesi, 2006
Ci sono pure crimini
che valgono un test
Considerato il più riuscito tra i
numerosi libri dell’inglese Lee
Child, questo thriller dal ritmo
sostenuto e concitato vede ancora il detective Jack Reacher,
alle prese con i complicati sistemi di sicurezza presidenziali
Usa. Un’affascinante addetta
alla difesa del vicepresidente
americano contatta Reacher e
senza mezzi termini gli chiede
di commettere un crimine: cercare di violare il sistema di sicurezza dell’uomo politico. Naturalmente è solo un test, un sistema per appurare la sicurezza dell’apparato difensivo; ma
al vicepresidente cominciano
davvero ad arrivare misteriose
lettere anonime che lo minacciano di morte. Chi è il mittente? Fino a che punto arriverà?
LEE CHILD. Un intrigo che coinvolge la presidenza degli Stati Uniti e che
mette a dura prova il protagonista dei thriller seriali dello scrittore
inglese sul quale gli Stati Uniti esercitano un fascino maggiore
dell’Inghilterra anche per la deregulation delle norme di comportamento
Il detective Jack Reacher
ha la sua legge naturale
VIVE E LAVORA A MILANO.
COLLABORA CON DUE IMPORTANTI SITI ITALIANI SULLA
NARRATIVA NOIR
MADDALENA BONACCORSO
vita di uno scrittore è ricerca; quindi
tutto quello che si legge, tutto quello
che si vede nella vita, tutto ciò di cui
si viene a conoscenza è in qualche
modo utile. In effetti io per anni ho
letto varie cose che riguardano questo
àmbito, dalla biografia di Kennedy
alla storia dell’attentato di Dallas, l’attentato a Reagan, le varie procedure,
e anche storie di agenzie federali.
Quindi questo costituisce l’informazione di base. Poi ci sono delle informazioni specifiche che ho avuto, nel
caso particolare, da alcuni agenti di sicurezza che hanno lavorato nella protezione di Bill Clinton e che hanno acconsentito a fornirmi alcune informazioni in cambio della promessa di non
rivelare alcuni dettagli cruciali; io ho
pensato che fosse un buon accordo.
I suoi lettori hanno mai trovato errori nei suoi libri?
Sì, è successo soprattutto nei primi libri della serie. E quasi esclusivamente per quanto riguarda le armi; perché
io, provenendo dall’Europa, non avevo una conoscenza approfondita delle armi, soprattutto dal punto di vista
pratico, cosa che invece moltissimi
americani hanno. Quindi mi sono stati segnalati errori riguardanti appunto
l’uso delle armi. Ma ironicamente a
volte quelli che sono ritenuti errori e
quindi segnalati come tali, in verità
non lo sono. Per esempio, senza voler
svelare troppo della storia di A prova
di killer, a un certo punto la vita di
C’è anche
C un Cristo
A raffreddato
T
A
L
O
G
O
Reacher viene salvata da un’arma che
non funziona come dovrebbe. Qualcuno in America mi ha detto che una
cosa del genere non è possibile così
come l’ho descritta. Che non succederebbe mai. In realtà questo è un dettaglio che mi è stato raccontato da un ex
militare britannico delle forze speciali, pluridecorato e ormai in pensione;
un vero esperto di armi. Mi ha raccontato questo episodio, io gli ho creduto e credo proprio che in questo caso
chi ha segnalato l’errore si sia sbagliato!
Quali sono state le sue influenze letterarie? In A prova di killer c’è per
esempio una citazione di Dostoevskij…
Sicuramente molto importanti per me,
anche dal punto di vista proprio personale, sono stati gli autori russi del
diciannovesimo secolo. Inoltre ho
amato molto la mitologia greca e romana, ma anche le saghe norrene. I
romanzi epico-cavallereschi mi hanno pure molto influenzato. E per passare a grandi classici più moderni, sicuramente mi ha molto segnato La
scelta di Sophie di William Styron.
Quanto alla citazione del libro, è un
po’ strategica; questo libro potrebbe
esistere tranquillamente anche senza
quella citazione, ma vede, quando si
spera di avere un pubblico ampio bisogna anche considerare che parte di
questo pubblico sarà fatto di lettori
abituali e altra parte di gente che non
legge poi così tanto. Mi piace mettere questi riferimenti, che danno soddisfazione a chi li riconosce e possono
essere ignorati tranquillamente dagli
altri. In questo senso è come se fosse
un cd a doppio strato, ci sono diversi
livelli di profondità.
Come mai, lei inglese, ha scelto per
DAVID MEANS
"Il pesce rosso
segreto"
Trad. Silvia Pareschi
pp. 188, euro 13
Einaudi, 2006
Una raccolta singolarissima ed extravagante di
racconti in cui Means opera esplorando tutte le
possibilità di fusione di modelli narrativi eterogenei combinando impensate invenzioni come quella di immaginare un Cristo che parla al vento
raffreddatissimo o un pesce che è testimone della
disgregazione di una famiglia. Il micro ed il macro in un disposto che conserva naturalità.
Tra
pastiche
e horror
la saga di Jack Reacher un’ambientazione americana e un «eroe» americano? È stata una scelta di cuore,
o di mente? Perché è risaputo che in
questo tipo di romanzi l’ambientazione americana attira molti lettori.
È una decisione presa con il cuore
per una mia personale preferenza. Ma
lei ha ragione; e d’altro canto non ci
vedo una contraddizione con l’attenzione al pubblico, le due cose non si
escludono. Qualsiasi prodotto di intrattenimento, e sicuramente un libro
lo è, è una transazione che avviene tra
diversi soggetti; quindi se una persona scrive un libro e nessuno lo legge,
viene spontaneo chiedersi «Questo
libro esiste?». Quindi ecco, io penso
che il pubblico non sia una sorta di
premio o di lusso, ma che sia veramente essenziale.
Come ha fatto ad appropriarsi in
modo perfetto del linguaggio americano, così diverso da quello inglese, dei tempi narrativi d’oltreoceano, dei dialoghi soprattutto; caratteristiche queste che appaiono in
modo palese a chi legge il libro in
lingua originale?
Io conoscevo molto bene l’America,
c’ero già stato svariate volte nei
vent’anni precedenti al momento in
cui mi sono messo a scrivere. In più
sono sempre stato appassionato di
film americani. Quindi difficoltà
enormi non ne ho avute. E devo dire
che è proprio questo che mi piace di
più nello scrivere, l’attenzione al linguaggio. Trovo che sia una cosa non
semplicissima ma anche estremamente divertente. È un piacere lavorare
con la lingua.
Solitamente nei thriller le donne ricoprono ruoli marginali. In A prova
di killer e nei suoi libri in genere in-
JOE R. LANSDALE
"In un tempo freddo
e oscuro". Trad. Luca
Conti e Luisa Piussi pp .231, euro 13,80.
Einaudi, 2006
Mai immaginato un coniglio di un metro e ottanta che corteggia un turista in un cimitero egizio.
O un uomo che si sveglia legato a una sedia di
fronte a un doberman scatenato. Lansdale non si
lascia intimidire dall’esorbitanza della capacità
inventiva. Racconti tanto improbabili quanto più
realistici tra horror e pastiche umoristico in una
salsa che mantiene lo schietto gusto lansdaliano.
vece troviamo caratteri femminili
molto belli e di primaria importanza. Si tratta anche in questo caso di
una reazione a ciò che non le piace
nel filone letterario del thriller?
Un po’ è proprio una reazione a queste figure che sono presenti nei romanzi del genere. Nei thriller le donne sono appunto sempre figure deboli, viste un po’ come un peso. Sono
sempre lì in attesa di essere salvate e
basta. Reacher è un postmoderno, per
lui una persona è una persona; gli capita di incontrare delle persone forti,
delle persone interessanti e nel 50%
dei casi queste persone sono donne.
Poi c’è anche da dire che a me, come
uomo, piacciono le donne forti e intelligenti; e siccome quando scrivo un libro mi trovo a condividere con i miei
personaggi sei mesi di vita, preferisco
che questi personaggi siano come
piacciono a me. Per questo i miei libri
hanno sempre delle donne che rappresentano dei «buoni esempi» in questo
senso; e so che questa cosa piace anche ai lettori.
Quindi impiega sei mesi per ogni libro, regolarmente? È molto metodico?
Sono molto metodico perché scrivere
è un’attività artistica e creativa ma è
anche un lavoro, una professione;
quindi come qualsiasi altra persona
creativa e professionista considero le
scadenze parte del processo, una parte importante. Non serve a niente scrivere un libro bellissimo se poi arriva
con dieci anni di ritardo. Io impiego in
genere sei mesi, regolarmente, per
scrivere un libro e questo mi lascia
nell’arco dell’anno abbastanza tempo
a disposizione per promuovere il libro
e anche per le vacanze.
Non sente il desiderio di prendersi
una pausa dal detective Reacher e
magari di dedicarsi a un altro personaggio?
A volte mi capita, scrivendo un libro,
che mi piaccia molto un altro personaggio a parte Reacher. Per esempio,
in A prova di killer c’è questa poliziotta, Frances Neagley, che mi piace
molto. Certo sarebbe divertente scrivere una storia con lei come protagonista; ma poi continuo sempre con
Reacher, perché è come se avessi fatto una promessa implicita ai miei lettori e a questa promessa non voglio
venir meno.
A proposito di lettori: lei ha un rapporto molto diretto con i suoi fans e
questo appare evidente dal suo sito
web. Molti autori così famosi, se
non tutti, non sono così disponibili.
Cosa le piace di più nel contatto con
i suoi lettori?
In effetti la cosa che non siano poi
tanti gli autori disponibili con i propri
fans mi ha sempre sorpreso. A me
piace avere un rapporto con loro, e poi
considero internet un mezzo molto
sicuro; non si dà il numero di telefono, non si dà l’indirizzo, e quindi si è
molto tutelati. Poi c’è anche da dire
che, essendo quello dello scrittore un
mestiere solitario, io sono sempre
molto contento di avere qualche possibilità di interazione umana. Interazioni che in questo caso sono molto
preziose perché avvengono con persone che sono lettori e lettrici; sono le
persone «migliori», con le quali è divertente e molto costruttivo avere un
rapporto. Naturalmente poi si parla
anche di molte altre cose, non solo di
libri. Devo dire che qualche volta ricevo critiche e spesso ricevo anche
storie particolari dalle quali potrei
prendere spunti interessanti. Ma il più
delle volte questo è un po’ difficile
perché le storie più interessanti mi
arrivano dai carcerati che leggono i
miei libri; e in genere queste idee non
possono essere usate per tutte le problematiche legali che racchiudono.
Reacher pur nella sua contemporaneità ci appare come un eroe western, un cavaliere senza macchia e
senza paura. E ho letto che soprattutto il suo primo libro è un vero e
proprio western. Che rapporto ha
con questo genere?
Non sono un esperto di questa tradizione, ma sicuramente mi ricollego
anche io, come appunto il western, al
filone del «cavaliere errante», lo straniero misterioso che viaggia da solo e
non ha niente di stabile, nella sua vita. Era una tradizione popolare anche in Europa quando non c’era ancora una densità di popolazione così alta e il continente aveva quindi delle
società dove c’era più spazio per il
mistero. Quando poi l’Europa è, diciamo, «maturata» e la popolazione è
aumentata a dismisura, non c’è stato
più spazio per questo mito. Che si è
trasferito nella tradizione western degli Usa. Io faccio numerosi riferimenti a questo filone letterario perché è
stato un elemento davvero centrale
nella storia della narrativa.
S C A F F A L E
MICHEL BOUNAN, Logica del
terrorismo, trad. Elena Paul, pp.
75, euro 9, Duepunti edizioni,
2006
Scritto con lo stile stringente del
pamphlet, il libretto di Bounan, medico, francese, già autore di saggi
oggetto di vivaci polemiche in
Francia, mostra con un nuovo tentativo di classificazione e di definizione del terrorismo come l’interpretazione comune del fenomeno promossa dalle istituzioni e dai media
tenda a nasconderne le reali implicazioni. Postfazione di Gian Carlo
Caselli e nota di Giusto Catania.
MARCEL SCHWOB, I mimi,
trad. Silvia Baroni, pp. 76, euro 9,
Duepunti edizioni, 2006
Filologo, romanziere, traduttore,
scrittore eclettico e prezioso, grande viaggiatore, Schwob (18671905) è stato uno degli intellettuali
più attivi e celebrati del XIX secolo. I suoi mimi, in risposta all’esile
ombra infernale inviata dal poeta
Eronda, che viveva nell’isola di
Kos all’epoca di Tolomeo, sono impregnati, come quelli, del profumo
dei lividi fiori degli inferi e di quello delle erbe selvatiche della terra.
Postfazione di Roberto Speziale.
EMILY MAGUIRE, La bestia a
due schiene, trad. Massimo Gardella, pp. 334, euro 16,50, Rizzoli, 2006
Un erotismo torrido e disperato per
lo scabroso romanzo d’esordio della australiana Maguire. La storia di
Sarah, quattordicenne di Sidney,
coinvolta in una storia di passione
sfrenata con il suo insegnante d’inglese. È lui che trasmette a Sarah la
voglia di vivere esperienze estreme
di sesso, quella «bestia a due schiene» senza freni, oltre ogni barriera,
che divora la vita stessa.
PIERRE ARNAUD JONARD, Il
paradiso del sesso, trad. Marco
Rinaldi, pp.175, euro 8,90, Newton Compton 2006
Pierre è un conoscitore di tutti i piaceri della vita. Non potrebbe mai
farne a meno e sono tanti: sesso
con uomini e donne, droga, abiti
firmati, il cinema di Truffaut, Céline e Pasolini. Egli stesso parecipa a
dei film in cui interpreta il bisessuale di turno. È sempre festa e lo
squillo del telefono significa un invito ad una serata o ad organizzarne
una. Forma orge nelle quali si fanno
interessanti conoscenze di uomini e
donne. Ma se durante una di queste
orge conoscesse la donna della sua
vita? Allora cambierebbe il suo stile diventando un romantico?
FRED HALLIDAY, Cento miti
sul Medio Oriente, trad. Piero Arlorio, pp. 100, euro 15, Einaudi
2006
Fred Halliday prova a smontare tanti luoghi comuni sul Medio Oriente
che sono stati tramandati come un
lascito del passato, frutto dell’immaginazione. Non è scontato infatti che quella popolazione non abbia
il senso dell’umorismo o che le
donne debbano portare il velo obbligatoriamente o che gli arabi siano un popolo del deserto o che esista una lingua unica dall’Iraq al Marocco. Halliday ha elaborato una
mappa intellettuale e non gli risulta
che il Medio Oriente sia un’area
nella quale il passato politico e religioso vi spadroneggino. Gli stati
compresi nella definizione di Medio Oriente sono anzi entità moderne con la moderna civilizzazione occidentale si misurano in un
rapporto paritario e competitivo.
JONATHAN SMITH, Finestre di
morte, trad. Emanuela Cumbo,
pp. 332, euro 9,90, Newton
Compton 2006
Il presidente Patrich Balfour è rispettabile nella sua normalità, separato e due figli. Per un equivoco
viene accusato di un furto di benzina ma vengono fuori indizi per indirizzi e fotografie di siti di pedofilia.
Si ritrova senza amici e parenti che
lo sfuggono mentre emergono particolari che lo inchiodano. Qualcuno lo ha incastrato per assumerne
l’identità impeccabile. Dovrà smascherarlo e farsi giustizia da solo
contro un ignoto nemico che gioca
con la sua identità seminando indizi e false piste.
S t los
utto cominciò con Il cerchio di pietre. Claire Randall, infermiera inglese in
viaggio in Scozia con il
marito dopo la Seconda
guerra mondiale, vi si imbattè casualmente e in breve si trovò catapultata
nel Settecento nel pieno della rivolta
giacobita contro lo strapotere inglese,
rivolta politica e religiosa. Ma non
tanto da ignorare l’amore e la passione, che travolsero e spinsero Claire
nelle braccia del nobile Jamie Fraser,
bello, coraggioso e all’occorrenza anche amante da non buttare via. Da
quel momento - era il 1991 - la scrittrice americana Diana Gabaldon, che allora aveva 35 anni, è andata avanti e
indietro nel tempo, un po’XVIII secolo, un po’ gli anni Duemila (compresi
Beatles e Rolling Stones) scrivendo la
saga di Claire e Jamie. Sei romanzi,
che in Italia sono raddoppiati (vedremo perché), quattordici milioni di copie vendute, storie di fantasy, su cui
molto si potrebbe opinare, ma che sono storicamente documentatissime e
stracariche di avventure e colpi di scena. Che sono piaciuti ad americani e
australiani, a tedeschi e russi, a spagnoli e italiani culturalmente globalizzati.
Diana Gabaldon, che nel frattempo ha
50 anni, conserva occhi castani vividissimi, una faccia da messicana-tedesca e la capacità tutta americana di ridere di cuore quando le si fa una domanda imprevista, è venuta a Milano
per il lancio italiano del nuovo capitolo della saga Tamburi d’autunno in
cui compaiono due grandi novità, l’arrivo di un’altra protagonista, Brianna,
frutto dell’amore tra Claire e Jamie e
perciò figlia del ventesimo secolo con
facoltà d’ingresso nel XVIII, e lo spostamento della scena sulla Nuova
America degli esuli, rifugio di libertà
ma anche fonte di segreti, entro i quali la fanciulla entrerà per ritrovare
mamma e papa, Jamie & Claire. Stilos
l’ha intervistata.
Jamie e Claire ritornano. Per un esigenza d’autrice o a grande richiesta?
Nessuna delle due cose, in realtà è la
storia che vuole essere raccontata. Ci
sono ancora altre cose che devono succedere e quindi devo scriverle. E poi
per fortuna piace anche ai lettori.
Come nasce una saga e soprattutto
come si forma nella mente di chi la
scrive?
Comincio da piccoli frammenti. Non
ho mai in mente una storia pianificata
fin dall’inizio. In genere parto da un’idea che muove da uno spunto qualsiasi, una musica, un’immagine, una persona, una frase. In genere è un’immagine molto vivida che mi è rimasta
impressa o anche una frase. Mi chiedo
chi l’ha detta, in quale periodo dell’anno, e tante altre cose. È come un’ostrica che si forma uno strato dopo l’altro.
Così le scene cominciano a prendere
forma. Nel frattempo, faccio ricerche
per cercare altri spunti e man mano comincio a mettere gli eventi in relazione tra loro. È un processo molto organico, che dura due-tre anni prima che
si completi un libro.
Nei suoi titoli di studio non c’è niente di «fantastico». Allora come si forma il fantasy in una zoologa?
Si pensa spesso che gli scienziati siano
esseri logici, lineari e un po’ più creativi. In realtà scienza e arte sono facce
della stessa medaglia e alla base di
entrambe sta la capacità di estrarre dal
caos dei modelli. Per la scienza il caos
è il mondo naturale nel quale con l’osservazione si identificano schemi che
si ripetono e da cui si formano ipotesi
che vanno testate e validate. L’artista
fa una cosa analoga. Il caos è quel che
gli sta intorno, quello che vede dentro
di sé e all’interno di questo mondo in
cui si trova immerso cerca anch’egli
modelli e forme. Così scaturisce un’opera d’arte, come l’ipotesi dello scienziato che viene poi messa alla prova
del pubblico.
Come si sta in alto nella classifica
delle vendite? E questo che responsabilità dà alla scrittrice?
Nella foto l’americana Diana Gabaldon,
autrice per Corbaccio di Tamburi d’autunno
T
Biografia
C senza
A i fatti
T
A
L
O
G
O
DIANA GABALDON . La fantascienza declinata nelle forme del thriller e
dell’ucronia. Spazio e tempo che si confondono in una sola «realtà»:
dove i sentimenti e le passioni mantengono un loro stato di intangibilità
e di dominio. Vendutissima negli Usa, torna in Italia la saga dei Fraser
La mia vita divisa tra oggi
e il mondo di due secoli fa
VIVE A GENOVA, DOVE SVOLGE
PROMOZIONE CULTURALE. PER
IL LIBRO
DIANA GABALDON
"Tamburi d’autunno"
Trad. Valeria Galassi
pp. 606, euro 18,60
Corbaccio, 2006
MOLTI ANNI CAPO DELLE PAGINE
CULTURALI DEL "SECOLO XIX"
SERGIO BUONADONNA
È una buona sensazione. Innanzitutto
un’opera d’arte esiste in quanto raggiunge l’utente finale. Se è un best-seller è chiaro che raggiunge molti lettori e questo dà molta soddisfazione.
Che cosa piace di più delle sue storie? Le avventure meravigliose e
sorprendenti, la miscela tra presente e un passato cavalleresco, il sesso,
l’intrattenimento, la magia?
Naturalmente tutte queste cose. Ma
dai lettori ricevo i commenti più svariati. Qualcuno ama la sensazione di
essere trasportato in un mondo e in un
tempo diversi, proprio perché ci si lascia trasportare nella storia e questo
porta via da se stessi. Un altro motivo
è imparare qualcosa perché le ricostruzioni storiche sono precise e accurate. Ad altri piacciono l’avventura e i
legami dei personaggi.
Ma viaggiare nel tempo la fa sentire
una donna di oggi, una donna di
duecento anni fa o la divide a metà?
Per me è stato sempre naturale lavorare su livelli diversi contemporaneamente. E comunque una prerogativa
delle donne è che dovendo occuparsi
dei figli contestualmente sanno fare
anche altro. Lo facevo già a scuola,
leggevo un romanzo mentre l’insegnante spiegava, ma ero pronta a intervenire quand’era il mio turno. Per cui
non mi viene tanto difficile stare nel
mondo di due secoli fa e qui nello
stesso tempo.
Perché a base delle sue storie ha scelto il movimento giacobita riesumando la battaglia di Culloden in cui il
movimento fu distrutto e disperso?
È stato un caso. Volevo scrivere un romanzo per fare pratica, per verificare
come funziona visto che avevo scritto
già cose di vario genere - fumetti per
Walt Disney, testi, articoli -, e mi sono
chiesta quale fosse la forma di roman-
FERNANDO PESSOA
"Il libro dell’inquietudine"
Trad. Piero Ceccucci,
Orietta Abbati
pp. 321, euro 6
Newton, 2006
Pubblicato per la prima volta in una versione inedita,
curata dal lusitanista Piero Ceccucci, questo «libro dell’inquietudine» raccoglie le tante riflessioni sparse in
una sorta di zibaldone, del più noto eteronomo dell’autore, Bernardo Soares. Pensieri tragici e ironici, sulla vita e
sulla morte, sull’anima e sul tempo, sulle emozioni e sulla memoria, una specie di diario esistenziale che si snoda
per sentieri impervi molto più di un’autobiografia.
Alla ricerca nel ’700
dei genitori perduti
Brianna, la figlia di Claire
Randall e Jamie Fraser (che si
sono conosciuti e amati nel
Settecento dopo che la prima è
tornata nel passato del secondo), ha scoperto il segreto dei
propri genitori e vuole tornare
nel passato per salvarli e cambiare il destino. Va in Scozia
dove si trova un magico cerchio di sei pietre che funziona
come macchina del tempo.
zo più adatta a me per fare questa prova. Ho pensato che il più semplice
fosse il romanzo storico perché non ha
confini, può assumere svariate forme,
può essere una biografia o un romanzo storico leggero, difficile, impegnato. Quel che è certo è che i dettagli devono essere accurati, realistici. Ma su
questo non avevo difficoltà essendo
già una ricercatrice scientifica, ma non
avevo una preparazione specifica in
storia e perciò cercavo un luogo adatto per ambientare il mio primo romanzo. Ed è capitato che ho rivisto una replica di una vecchia serie televisiva
britannica che si chiamava "Doctor
Who", un Lord che veniva da un altro
pianeta e viaggiava nel tempo, raccogliendo personaggi. In un episodio in
particolare trovava un giovane scozzese nel 1745 che indossava il kilt. E
questo è diventato il mio spunto: la
Scozia del XVIII secolo. Così ho cominciato le ricerche, mentre avevo una
certezza: che per alimentare l’interes-
Crisantemi
di
Hollywood
se del lettore ci vuole un conflitto. E i
conflitti certamente non mancavano
in quel periodo in Scozia. Il principale era appunto la rivolta dei giacobiti
contro il principe Carlo.
L’America è rifugio e libertà, e il suo
Tamburi d’autunno si apre laddove
La collina delle fate si chiudeva.
Brianna, la figlia di Jamie e Claire
che vive nel nostro tempo, cercherà
di penetrare nel cerchio magico che
le aprirà le porte del passato per impedire che il destino compia la sua
terribile profezia. Qual è il significato? Una difesa della libertà, della
famiglia, dell’amore, del matrimonio attraverso una fiction da grande
schermo?
Tutti i miei libri potrebbero essere trasformati in film ma sono abbastanza
complessi, quindi ci vorrebbe un lavoro di adattamento particolare e ben
fatto. Si vedrà. Ognuno di questi libri
poi sviluppa di più un particolare tema.
In Tamburi d’autunno il tema che
emerge è quello della comunità, dei
doveri che regolano i rapporti tra persone, la convivenza, i contratti sociali.
E quindi gli obblighi di una persona
verso se stessa, la famiglia, il passato,
il futuro. Per la maggior parte delle
persone forse non c’è questo senso del
dovere verso il passato ma per chi
viaggia nel tempo sì.
I dogmi della Chiesa spuntano nel
personaggio di Jamie come a sottolineare l’incrollabilità della fede. C’è
qualcosa in questa scelta che può far
dire che lei si oppone agli autori altrettanto fantasiosi come Dan
Brown?
No, non ho nemmeno letto Il codice
Da Vinci e non ho intenzione di leggerlo perché se n’è già parlato tanto,
però non scrivo mai con riferimento ad
altri autori. La questione della fede
che ritorna nei miei libri sta un po’sotto le storie di superficie, cioè le avventure, le vicende d’amore che attraggono la maggior parte dei lettori. Ma c’è
anche chi vuole approfondire. C’è un
lettore, per esempio, che mi ha detto di
aver letto ventitrè volte Tamburi d’autunno. Estremi a parte, io spero che i
BRUCE WAGNER
"Il palazzo dei crisantemi"
Trad. Mariangela Pizzera
Rosa
pp. 284, euro 16,50
Baldini Castoldi Dalai, 2006
Nell’immaginario del romanzo di Wagner, «il palazzo
dei crisantemi» è ad Hollywood ed è Hollywood stessa.
Una sorta di città straniata, vista con gli occhi dei ricchi
e famosi: come Bertie Krohn, figlio della famosa serie televisiva di fantascienza «Starwatch: i Navigatori», Clea,
figlia di una star del cinema e Thad Michelet, figlio di
uno scrittore pluripremiato. L’amara visione di Hollywood, alla maniera del Grande Gatsby.
Il mistero
di Pico
a Firenze
miei libri si possano rileggere, che ci
sia qualcuno che facendolo scopra
qualcosa in più, come questi aspetti di
spiritualità che ci sono sempre.
Il mistero è per lei una trama da
portare alla luce. È così che ha cominciato 15 anni fa?
Diciamo che in tutti i buoni romanzi
c’è del mistero, c’è qualcosa di ambiguo che si cerca di capire leggendo.
Nei gialli c’è una domanda a cui bisogna rispondere, ma per ora i miei soggetti possono e devono lasciare aperte
tante risposte. Però col mio editore ho
un contratto per scrivere dei gialli, sto
lavorando anche a quelli.
Però prima deve concludere la saga. E già ad agosto uscirà il prossimo
capitolo di Jamie and Claire, Passione oltre il tempo.
Sì, va detto che l’editore italiano suddivide in due parti ciascuno dei miei
volumi perché sono molto lunghi.
Quindi quello che uscirà ad agosto in
realtà è la fine di Tamburi d’autunno.
I miei romanzi di questa serie scritti finora sono sei, ma in Italia ne sono
usciti quattro. Negli Stati Uniti ce ne
sono fuori già altri due, "The Fiery
Cross" e "A Breath of Snow and
Ashes". Quindi possiamo immaginare
che in Italia dovranno uscire ancora
cinque titoli.
Questo accade perché gli editori italiani sono più furbi o perché il lettore italiano non regge il romanzone?
È una questione culturale, gli editori
italiani ritengono che così vadano di
più. Io ho proposto la stessa cosa negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna e mi
hanno risposto che lì invece i lettori
preferiscono libri più spessi. Ma probabilmente avrò ancora da scrivere
uno o due romanzi per concludere la
saga perché devo giungere al termine
di quel periodo storico.
Lei ha detto di avere cominciato con
i comic, ma un comic e un romanzo
di ottocento pagine che cos’hanno
in comune?
È una cosa molto elementare in realtà,
hanno in comune i principi basilari.
Gli editori di Walt Disney mi hanno
spiegato in tre minuti come devono essere strutturati i fumetti. E di fatto io
non so nient’altro a livello formale del
modo in cui deve essere un’opera di
narrativa. In genere nella prima pagina
di un fumetto c’è un riquadro più grande e tre piccoli. Nella prima scena si
vede il protagonista della storia, mettiamo Paperino, collocato in una situazione che già annuncia l’avventura
che l’aspetta: non so Paperino che legge un giornale con un’ape che gli ronza attorno. Vuol dire che prima o poi
arriveranno altre api. Le altre tre vignette devono spiegare l’incipit. Nella prima pagina cioè i personaggi devono essere pronti per lo sviluppo dell’avventura. E in effetti qualsiasi buon
romanzo funziona così. All’inizio c’è
qualcosa che aggancia il lettore, soprattutto il protagonista della storia.
Dopodiché non c’è bisogno di tornare
indietro, non so ai suoi genitori, alla
sua infanzia, come altri fanno per dare più informazioni al lettore. Come si
concludono i fumetti? Con due vignette che riportano alla situazione iniziale.
Hollywood s’è interessata alle sue
storie? Di film della serie "Fraser"
magari con un Russell Crowe protagonista?
Sì, l’interesse c’è, ci sono sempre richieste da parte di società di produzione cinematografica. L’opzione sui diritti di tutta la serie è stata già ceduta
quattro volte ma non se n’è fatto nulla
per la difficoltà di trovare i finanziamenti. Anche De Niro si è interessato
ma poi ha fatto marcia indietro.
Chi sono i suoi maestri, quali autori l’hanno influenzata di più?
L’ultimo mio romanzo, "A Breath of
Snow and Ashes", l’ho dedicato appunto ai miei cinque punti di riferimento letterari, visto che avevo esaurito tutte le dediche ai miei familiari. E
sono Charles Dickens, Robert Louis
Stevenson , Dorothy L. Sayers, John
D. Mc Donald e P.G. Woodehouse.
Caspita. E li legge sempre?
Sì, e dentro di me chiedo loro aiuto.
ÉRIC DESCHODT
JEAN-CLAUDE LATTÈS
"Vita segreta di Pico"
Trad. Cristina Cavalli
pp. 312, euro 16,90
Barbera, 2006
Tutti i misteri attorno alla morte di Pico della Mirandola, morto per avvelenamento il 17 novembre del 1494, in
un romanzo storico e poliziesco, autore Deschodt, giornalista, romanziere e biografo, e di Lattès, dell’omonima
casa editrice. Un romanzo «fiorentino», giacché i due autori hanno trascorso diversi mesi a Firenze, a cercare e
scoprire nelle biblioteche documenti inediti che gettano
una nuova luce sui fatti.
pagina
15
Capoverso
autori
stranieri
IDOLINA LANDOLFI
MATTEO MARCHESINI, I CANI ALLA TUA TAVOLA, PP. 60, EURO 7,50,
EDIZIONI ATELIER, 2006
Seconda raccolta poetica del ventisettenne bolognese, dopo Asilo
(Edizioni degli Amici, 2003), ne
ripropone alcune liriche, tra cui
quella che era allora l’epigrafica,
La città della polvere: sorta di
microepopea padana fatta di non
luoghi, di un tempo sospeso «tra
incuria e redenzione». Epopea
del «no» appena sussurrato («Ma
non si parla come non si dorme /
e non si dorme come non si
ama»), è questa di Marchesini,
del teatro polveroso di memorie
infantili, di infatuazioni letterarie,
di fuggevoli indizi seguiti con
mente appannata. Talvolta il dolore sordo riaffiora, ed è quando
si preferisce ritrarsi in una zona
apparentemente franca, un’intercapedine tra il pensiero e il gesto,
dove tutto è ancora di là dal cominciare. Giustamente scrive
Paolo Febbraro nella prefazione
ad Asili, citando una poesia qui
ripresa: «Il mondo si schiude appena, come altrove il corpo desiderato nell’atto d’amore, ma per
far uscire la voce che parla dei
nostri dubbi. Troppo spesso la
potenza disegna, promette ma
non precipita in atto: in Ci sono
cose la mente "si fa prendere / dai
ritardi e dalle accelerazioni /
scambia la volontà col fatto / il
coltello col sangue / gli oracoli
con le inclinazioni"». Dosatura
sapiente, aggiungerei, tra vita e
ammutinamento segreto ad essa,
tra l’abbandono al «quieto incantamento» delle cose e la perplessità, l’inciampo.
Ne I cani alla tua tavola l’autore
dimostra innanzitutto di conoscere la scienza della versificazione,
di avere un senso forte della scansione ritmica e dei metri: fatto
che non va dato per scontato, in
giorni in cui si dà nome di poesia
ai più prosastici esperimenti. Il libro, poi, è diviso in tre sezioni, legate da quello che è il Leitmotiv
della raccolta: l’atmosfera rappresa, come abbiamo detto, il
tempo bloccato per sortilegio;
quasi una morte che si desideri
avere accanto in eterno, infinitamente protratta, non rigettata e
non consumata. La prima sezione, "suite del tamburo", è un lungo dialogo con un imprecisato
(ma spesso scoperto) «tu»: e vi si
disegna, in nove frammenti, la
geografia di anime che recano in
sé le tracce di qualcosa di innominato, di perduto, sul quale costruiscono la loro sottile mitografia: «un dolore che non ha memoria / di se stesso, ma ferite soltanto / uguali a segni senza più la
chiave / della lingua in cui furono
scritti». Ancora i paesaggi padani fanno da sfondo a modeste peripezie interiori, un «carnevale
misero» per chi «non smette di
morire». Il seguito dell’epica minimale nella seconda sezione, "i
mendicanti", coi suoi personaggiombra dalle labbra dischiuse per
impossibili parole, e dai sonni
grevi (non basta un conforto di
madre a riscuoterli dal loro infermo torpore, frutto della raggiunta consapevolezza: «Quieto si
chiede / dove sia il suo posto
[…]: Infanzia); con le dimore
fantasmatiche in cui si aggirano
creature vittime di giorni sempre
uguali, straniate tra le parvenze
più familiari; e immagini simboliche come quella del pagliaccio, ribaltata nella feroce confessione dell’aridità del cuore, del
possesso lontano di spettatori
ignari e complici al contempo
("Discorso del pagliaccio"). Non
manca l’incontro con la poesia, e
l’allusione a certo proprio apprendistato nella lirica dedicata a
un Pasolini disincarnato, colui
che ha perduto gradatamente il
suo corpo, per divenire un oggetto da esposizione, una figura sacrificale nelle mani di abili necrofori. Il libro si chiude con i
sette sonetti della terza sezione,
"corona per un ballo".
S t los
autori
stranieri
pagina
16
PATRIZIA DANZÈ
icono che la «Jackie Collins» dell’India, la bella
Shobhaa Dé, giornalista
e scrittrice affermata, abbia cambiato la faccia del
romanzo popolare indiano, ma anche
che abbia scandalizzato l’opinione
pubblica. Tutti i suoi tredici libri, tra
fiction narrative, testi autobiografici e
non-fiction, hanno ottenuto un grandissimo successo, al punto da essere
oggetto di studio nei corsi universitari
di letteratura comparata. La spiegazione di questo fenomeno letterario
sta nel fatto che Shobhaa ha raccontato il suo paese senza infingimenti, cogliendo un’altra Bombay e soprattutto
facendo parlare e agire la donna, anche
nei territori proibiti della sessualità,
del matrimonio, dell’adulterio. La
scrittrice indiana è stata a Milano, dove Stilos l’ha intervistata.
La sua è una storia di famiglia ma
anche un affresco spietato della società indiana.
Le due cose sono connesse, perché è
impossibile raffigurare i rapporti familiari senza il contesto. Il neo-materialismo che caratterizza la società contemporanea sta portando alla violenza
nei rapporti; per questo il ritratto è
spietato: mi disturba, mi addolora, perché sono cresciuta in un ambiente gentile.
I suoi romanzi sono molto popolari
nel suo paese, benché lei non sia tenera con il suo mondo. Come si spiega?
Le persone di solito reagiscono positivamente alla verità, che uno scrittore
ha la responsabilità di raffigurare. Cercare di vedere i nostri difetti e le nostre
debolezze può aiutare, perché l’immagine sgradevole di noi stessi può indurci a cambiare. In genere gli uomini
preferiscono, come direbbe Freud, il
diniego, dicendo che la cosa riguarda
altri, non loro. Allora tocca alle donne
costringerli a fare i conti con questi loro aspetti negativi. Per contro, le donne stanno copiando gli aspetti più negativi degli uomini, diventando «pseudo uomini», cosa che potrebbe portare a una pessima parità.
È anche vero che si dice che lei abbia
scandalizzato l’India e messo sottosopra la scena letteraria del suo paese. Qual è stato lo scandalo: aver
parlato liberamente di sesso o aver
dipinto la società indiana?
Il primo libro che ho pubblicato, "Socialite Evenings", non descriveva scene di sesso esplicito, ma portava l’idea
che una donna potesse rompere il matrimonio perché voleva qualcosa di
più. Questo è stato motivo di scandalo.
Ma hanno gridato allo scandalo i critici, mentre le lettrici erano pronte a
quanto avevo scritto.
La storia che lei racconta in Sorelle
è a metà tra tradizione indiana e Occidente. Sembra la prima però a farne le spese con i suoi intrighi e gli odi
radicati. L’Occidente sembra invece
un’isola felice. È questo che pensa?
Non è una situazione bianca e nera, né
una lotta tra Occidente e tradizione
indiana. In realtà si tratta piuttosto del
desiderio che la società contemporanea trovi la giusta misura e non si
comporti come un pendolo che passa
da un estremo all’altro. L’Occidente
non è un’isola felice e sarebbe stupido
per i giovani pensarlo; ma, soprattutto
riguardo agli aspetti professionali, ci
sono molte cose a cui ispirarsi. Una
persona in gamba sa quali caratteristiche respingere e quali adottare. L’errore più grande sarebbe respingere del
tutto la tradizione.
Al centro della sua storia stanno due
donne che, benché moderne e occi-
Nella foto l’indiana Shobhaa Dé, autrice
per Tea di Sorelle
IL LIBRO
D
SHOBHAA DÉ
"Sorelle"
Trad. Susanna
Sinigaglia
pp. 283, euro 8,50
Tea, 2006
L’impero di famiglia
e la sorella ritrovata
Dopo la morte dei suoi genitori
in un incidente aereo, Mikki
Hiralal si trova improvvisamente a dirigere l’impero industriale del padre. Catapultata dalla realtà dorata di New
York, dove studia, in quella intricata di Bombay, la sua città,
si trova alle prese con la bancarotta del padre e finisce per
sposare un uomo senza scrupoli. Tra le sorprese non manca quella di ritrovare una sorella, l’affascinante Alisha, figlia illegittima di suo padre,
che si è presentata al funerale.
È l’unica che può veramente
aiutarla nella conduzione dell’impresa. Ma Alisha odia
mortalmente Mikki.
SHOBHAA DÉ. I temi dell’amore, della famiglia, della società,
dell’emancipazione femminile in un romanzo che coniuga intrigo e passioni
e che soprattutto si offre come specchio di un continente dove le classi
emergenti vagheggiano la ricchezza e uno stile di vita di tipo occidentale
India, nuova ossessione
per il successo materiale
dentalizzate, sono tuttavia sottomesse all’uomo. Rispecchia una realtà
vera?
Sì, è vero, perché le due donne sono
intrappolate tra due mondi completamente opposti, in mezzo ai quali cercano la dignità personale. Non è facile
stare tra questi due fuochi, ma la struttura familiare continua ad avere così
tanta importanza in India che credo
possa dare sostegno e attutire le cadute che dovessero verificarsi in questa
situazione di particolare difficoltà e
confusione.
Se la donna appare vittima, l’uomo,
almeno nella sua storia, appare prepotente, criminale, libertino o sciocco. Non c’è speranza che ci sia una
Gioiello
C sparisce
A e ritorna
T
A
L
O
G
O
figura maschile positiva?
Sto cercando di creare spunti per un
personaggio maschile positivo. Ma finora ho perso la battaglia… Vorrei essere generosa nei loro confronti, perché meritano la nostra solidarietà collettiva, visto che presto diventeranno
vittime. Sarà interessante vedere questa inversione di ruoli.
Il lieto fine conclude una vicenda
amara e terribile. L’amore è al primo posto nelle sue storie?
L’amore non è forse la cosa più importante al mondo? Nei miei romanzi forse non c’è l’amore convenzionale o romantico, ma comunque, sì, c’è l’amore.
Nella nuova India da lei descritta
EMMANUELLE DE
VILLEPIN
"Tempo di fuga"
pp. 288,
euro 16,60
Longanesi, 2006
Ricchi ebrei fuggono al tempo del nazismo verso
la Svizzera, due giovani orafi si amano in Russia,
un vuoto ménage coniugale a Torino degli anni
Settanta: qualcosa lega questi episodi. Un gioiello
a forma di uovo, incastonato di rubini, viene
strappato dal collo di una donna da un ufficiale
nazista e ricomparirà dieci anni dopo in una sera
di intriganti risvolti sensuali.
Il passato
che non
passa
quali sono i valori che contano?
I soldi, i soldi, e ancora i soldi. Lo stile di vita, il fare colpo sugli altri, avere una casa più grande, un’auto più
bella, un vestito più elegante. La borghesia indiana si è dimenticata di tutto quello che ci ha reso quello che siamo. È una società con l’ossessione nei
confronti del progresso materiale. La
famiglia, almeno, continua ad essere la
spina dorsale di questa società. Preoccupata, mi chiedo per quanto.
Nel suo romanzo non manca la suspense che si scioglie solo in conclusione, con la punizione dei «cattivi»
e il trionfo dei «buoni». Secondo lei
è una linea di demarcazione definita quella tra buoni e cattivi?
ANDREI MAKINE
"La donna che aspettava"
Trad. Anna Maria Ferrero
pp.133, euro 11
Einaudi, 2006
Un giovane scrittore lascia Leningrado e si reca a
Mirnoe in una lontana regione del Nord nell’intento di raccogliere materiale per la stesura di
una satira anti-sovietica. Ma s’imbatte ancora
nel passato che non passa: la guerra che ha distrutto villaggi e che ha consegnato vecchie a morire nella solitudine. Incontra Vera che vuole ridare a quelle vecchie le loro case in rovina.
Sì, forse senza rendermene conto, continuo la tradizione mitologica indiana,
che divide nettamente il bene e il male.
Sesso, amore e intrighi: sono gli ingredienti che preferisce nelle sue storie?
Credo che del sesso non sia stata riconosciuta l’importanza che riscuote in
un rapporto. Per la società tradizionale il sesso è un argomento che viene tenuto nascosto e alle donne non è concesso parlarne in pubblico. Ma non
credo nei tabù nella narrativa, quindi è
mia prerogativa concentrarmi su questo argomento come elemento importante. L’amore, come ho già detto, non
è forse la cosa più importante al mondo? Per quanto riguarda gli intrighi,
credo che la vita sarebbe noiosissima
senza. Anche nelle famiglie più semplici, sotto la superficie c’è sempre un
gioco di strategie, a volte anche inconsapevolmente, ma magari con conseguenze disastrose. Questo mi affascina.
Matrimonio e amore non sembrano
camminare di pari passo nelle sue
storie. Come è vissuto il matrimonio
nel suo paese?
In tutto il mondo le donne stanno riscrivendo l’equazione del matrimonio cambiandone le regole. Oggi ci
sono maggiori donne che lavorano,
c’è più mobilità, più opportunità. Così c’è il rischio che non rimangano più
passive, né soddisfatte con il vecchio
modello di valori. Sono più esigenti e,
dando un contributo economico alla
famiglia simile a quello dell’uomo,
possono richiedere uguali diritti, cosa
che ha portato a un nuovo bilanciamento dei ruoli. La stabilità della nostra società dipende dalla stabilità della famiglia. L’istituzione del matrimonio e della famiglia è sacra. Senza di
essa, la società crollerebbe. In India la
versione moderna del matrimonio
combinato non è come crede l’Occidente. È più un accordo sociale. I giovani vengono fatti incontrare dalle famiglie, ma non sono obbligati. Questo,
però, è un fenomeno contemporaneo
delle città, dove le ragazze sono anche
giovani cacciatrici che spesso prendono l’iniziativa. Nei villaggi, invece,
le femmine non hanno scelta. Nella
mia esperienza, nell’India di oggi anche i matrimoni per amore hanno la
stessa probabilità di fallimento di quelli combinati.
I personaggi protagonisti del suo libro appartengono alla classe alta.
Perché questa scelta?
È la classe che conosco meglio, la
realtà che capisco. So che riguarda solo una piccola realtà dell’India, ma
non per questo non dev’essere raffigurata o sentita.
Tra i personaggi di questo romanzo, tutti con qualche ombra, ce n’è
uno estremamente positivo: Amy.
Chi rappresenta Amy?
Un modo equilibrato di vedere la vita,
dotato di buon senso e personalità
spiccata.
Ed è presente anche il motivo degli
odi di classe. Tutto quel che succede
infatti a Mikki ed Alisha è per una
questione di invidia di classe. O di
altro ancora?
In una società di contrasti così evidenti e radicali tra ricchi e poveri, è
inevitabile che si guardi attentamente
l’altro e si provi risentimento. Spesso
le classi alte sono un bersaglio, a cui
fare sentire un senso di colpa e da portare a scusarsi per i loro privilegi. Le
classi medie oggi hanno maggiore disponibilità economica che in passato,
e il boom economico sta facendo venire meno il contrasto con le classi alte.
Tra le classi medie e le povere invece
c’è un divario enorme, che ha più a che
fare con l’istruzione.
S C A F F A L E
ORHAN PAMUK, Il castello
bianco, trad. Gianpiero Bellingeri, pp. 172, euro 9,80, Einaudi
2006
Un gentiluomo veneziano viene
catturato dai pirati e poi venduto
ad un astrologo turco. Due culture
diverse, che coltivano però gli stessi interessi e collaborano insieme a
delle ricerche, studiano e progettano orologi parlando sempre di
astronomia. Si assomigliano come
fratelli ma si guardano sospettosi
vivendo a stretto contatto per anni.
Maometto affida loro la costruzione
di una grande macchina durante la
guerra in Polonia, ma la macchina
non funziona. Si dividono e solo
uno dei due tornerà in Turchia. Ma
chi? Romanzo che è metafora del
legame tra Oriente ed Occidente.
RHIANNON GUY, Portala al cinema, trad. Luigi Giacone, pp.
175, euro 10, Einaudi 2006
L’interesse del libro sta nelle mille
curiosità e nelle domande che gli
appaffionati del cinema si pongono:
troveranno una risposta banale o
interessante. Quanti Martini ha bevuto James Bond o qual è il film più
lungo? Il libro è ricco di opinioni ed
informazioni che si possono accettare o discutere. Comunque riuscirà
a soddisfare il più fanatico amante
di film il quale amplierà la sua conoscenza divertendosi.
PAUL SIMPSON, Elvis Presley,
trad. Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pp. 376, euro 14,50,
Vallardi 2006
Il libro è dedicato a colui che ha rivoluzionato la storia della musica
popolare del Novecento, con il
rock’n’roll, nell’America uscita dal
conflitto mondiale. La sua vita è
costellata di successi e delusioni fino alla morte misteriosa e prematura. Questo libro è un almanacco dei
suoi album, amori, amici, film, essendo Elvis Presley una icona della
cultura popolare pop mondiale.
STEFAN GLOWACZ, On the
rocks, trad. Valeria Montagna,
pp. 319, euro 19,60, Corbaccio
2006
La passione di Stefan Glowacz è arrampicare. Nel 1993 conclude la
sua carriera come vice campione
mondiale. Ama le pareti più impegnative della Terra. Con i suoi compagni non usa aiuti esterni e insieme
trasportano da soli viveri e attrezzature. In questo libro «sulla punta
delle dita» Glowacz racconta le sue
avventure giovanili di salite e cadute e i luoghi meravigliosi di Patagonia, Canada, Kenya, Antartide e
Messico.
CHRIS INGHAM,
Frank
Sinatra, trad. Barbara Ponti e
Vanna Lovato, pp. 367, euro
14,50, Vallardi 2006
Questo libro è una guida completa
per conoscere Frank Sinatra. Narra
l’incredibile storia del cantante di
My Way, Strangers in the night e i
successi cinematografici dove si
guadagnò un Oscar con il film Da
qui all’eternità. Quel ragazzo mingherlino di origini italiane cominciò
calcando le scene di piccoli locali
del New Jersey diventando «the
Voice».
S t los
RONLYN DOMINGUE. Il tema metafisico del
Un primo romanzo
nato da un racconto
Ronlyn Domingue è nata nel
1969 a Baton Rouge, in Louisiana, negli Usa. Laureata in
giornalismo alla Louisiana State University, ha lavorato come
project manager, consulente di
organizzazioni no-profit e insegnante di scrittura creativa,
pubblicando nel contempo
racconti su alcune riviste specializzate e non. La grazia dell’aria sottile è il suo primo romanzo, nato dallo sviluppo di
uno di questi racconti. Venduto in dieci Paesi, ha ricevuto
l’unanime plauso della critica
statunitense che lo ha paragonato per la sua forza evocativa
al bestseller Amabili resti di
Alice Sebold e per la romantica
e «soprannaturale» storia d’amore che è intrecciata alla
«ghost-story» al film Ghost.
I miei
fantasmi
d’amore
D
VIVE A MILANO DOVE ESERCITA ATTIVITÀ DI INSEGNANTE.
DIRIGE LA SEZIONE SUI LIBRI
DEL PORTALE SUPEREVA
LIDIA GUALDONI
no al 1998-99. Allora frequentavo un
corso di scrittura per racconti e in questo ambito ho scritto una storia con
protagonista Raziela e con diversi assi temporali. Un racconto però che è
nato già come romanzo vero e proprio,
perché ne conteneva tutti gli elementi.
Spesso mi è stato chiesto come mai
non ho scelto di scrivere un romanzo
con uno sviluppo lineare della trama,
piuttosto che con tutti questi assi temporali che si intersecano. Io ho risposto
semplicemente che è sempre stato così, che fin dall’inizio l’ho pensato in
questo modo. Persino in quel primo
racconto c’era uno schema simile. Io
ho scritto aiutandomi con uno «storyboard», praticamente ho messo su un
pannello tutti i segmenti della trama,
dando ad ogni periodo un colore diverso e controllando che tutti si intersecassero in modo logico. Nonostante
questi accorgimenti, il romanzo si è un
po’ scritto da sé e tutti gli assi temporali si sono connessi da soli, quasi come se avessero vita propria. Di fatto
quindi c’è stato uno sviluppo organico,
cioè ho scritto la trama dall’inizio alla
fine, controllando che tutto avesse un
nesso logico, ma non sono intervenuta molto, perché è stato come un fluire della mia scrittura. Probabilmente
questo è avvenuto perché gran parte di
quello che scrivo, dopo un lavoro di
preparazione molto accurato, io ce l’ho
già tutto in testa.
Non ha mai pensato che la struttura
della trama potesse invece disorientare il lettore?
Credo che ogni storia, ogni romanzo,
possieda una propria natura, che si
manifesta man mano che la narrazione
procede. Non ho mai pensato che La
grazia dell’aria sottile potesse venir
raccontato diversamente. Per catturare
l’attenzione del lettore ho cercato sempre di dare il riferimento temporale
ad un anno preciso o ad un periodo
particolare all’inizio dei capitoli. È anche vero che, per mantenere il coinvolgimento emotivo, un po’di disorientamento è necessario. E questo avviene
nella prima parte del romanzo, nelle
prime cinquanta, sessanta pagine. Poi
la storia prende avvio e qui la struttura che ho descritto si impone. Una
struttura che ho scelto anche in relazione al funzionamento del nostro cervello, perché noi non pensiamo sempre in
modo lineare: siamo qui, ora, per questa intervista e ci ricordiamo improvvisamente di qualcosa che abbiamo fatto ieri o quando avevamo dodici anni… Ad ognuno di noi vengono in
mente fatti differenti ed è quindi molto importante l’idea del passato che ritorna nel presente, che ha un impatto
sul futuro e che crea una connessione
a livello emotivo fra il lettore e la storia.
Mi sembra allora che questa struttura le sia congeniale: la userà anche per il prossimo romanzo?
Quando frequentavo il corso Nfa di
specializzazione per migliorare come
scrittrice ho avuto diversi diverbi con
un professore che odiava i flash-back,
odiava i ritorni al passato: era convinto che la narrazione dovesse avere uno
sviluppo lineare. Io non sono mai stata d’accordo con lui, perché ritengo
che nella nostra vita il passato è molto
importante: influenza il presente e il
17
L’ A U T R I C E
revenant associato a quello di una love story tutta
terrena. Un esordio, lungamente studiato, che
risveglia il genere storico del gotico romantico
efinire La grazia dell’aria sottile una ghoststory, sarebbe alquanto
riduttivo; così come definirla una storia d’amore e
d’amicizia. È vero, c’è il fantasma di
Raziela Nolan, che è in grado di usare
olfatto, udito e vista come mai avrebbe immaginato, che può muoversi liberamente in questo mondo e che usa
i suoi trucchi a casa di Amy e Scott gli oggetti vengono risistemati o spostati, le stazioni radio cambiano da un
momento all’altro, i libri rimangono
aperti in luoghi insoliti, strani colpi
alla porta disturbano il silenzio e le biglie cadono dal condizionatore d’aria
rotolando sul pavimento in leggere
pendenza -, ma i due, almeno all’inizio, sembrano più divertiti che spaventati. E poi c’è l’appassionante storia d’amore vissuta settantacinque anni prima e ricostruita per il lettore pagina dopo pagina, dai ricordi di Razi,
che è anche la voce narrante di tutto il
romanzo. Ci sono cioè tutti gli elementi classici di questi due generi, cui
si aggiungono sentimenti di nostalgia
per ciò che si è perduto, di sofferenza
per i segreti che non abbiamo avuto il
coraggio di confessare, di compassione per chi condivide i nostri stati d’animo, ma anche di speranza per la
possibilità di riallacciare un legame
con le persone scomparse.
Temi e situazioni che la Domingue
però propone in una dimensione del
tutto moderna, a partire dalle due principali figure femminili, impegnate, anche se a distanza di anni, nell’affermazione dei diritti per l’uguaglianza fra i
sessi. Attraverso l’amicizia di Amy e
di Chloe, Raziela rivive il legame con
la fedele Twolly, mentre il ricordo di
Andrew e il rimpianto per la vita che
avrebbe potuto avere la spingono a
salvare il loro matrimonio, in crisi a
causa di un dolore antico e mai confessato. Da sottolineare anche la complessa struttura del romanzo che non si
sviluppa linearmente, ma attraverso il
sovrapporsi di almeno due piani temporali: la vita di Raziela negli anni ’20
e le vicende attuali che legano Amy a
Scott e all’anziana zia Twolly, ovvero
a quella che era stata la migliore amica di Raziela stessa.
Il finale, pur consegnando gli avvenimenti ad una logica interna al romanzo, lascia aperte tutte le interpretazioni che la sensibilità del lettore saprà e
vorrà dare: dopo una lettura di questo
genere chiunque sarà portato a considerare molti aspetti della vita, propria
e altrui - il più leggero cambiamento
dell’aria che ci circonda, il riaffiorare
di un profumo che credevamo dimenticato, un brivido improvviso sulla
pelle - in modo diverso. Stilos ha inetrvistato l’autrice.
La grazie dell’aria sottile è un romanzo dalla struttura molto particolare, in cui vicende narrate in tempi
diversi si intersecano e i personaggi
sono legati gli uni agli altri da rapporti che a volte essi stessi ignorano: ce ne vuole parlare?
L’idea è nata molti anni fa, circa dodici. All’epoca lavoravo in una società di
consulenza ed ero responsabile di
un’équipe di circa venti persone, tutti
uomini. Un giorno mi è capitato di
avere uno scambio piuttosto vivace
con uno di loro, perché era un collega
che mi stava mettendo sotto pressione.
Così gli ho detto: «Se non la smetti, mi
farai morire, dopodiché ritorno e non ti
lascio più in pace: ti perseguito come
fantasma». Quest’idea del fantasma è
rimasta da allora, ma l’ho messa su
carta solo molti anni dopo, cioè intor-
pagina
Nella foto Ronlyn Domingue, che da Sonzogno
ha pubblicato La grazia dell’aria sottile
Trovarobe
autori
stranieri
IL LIBRO
RONLYN DOMINGUE
"La grazia dell’aria
sottile"
Trad. Michele Piumini
pp. 340, euro 17
Sonzogno, 2006
Promessa mancata
se la morte
arriva prematura
Raziela Nolan è morta la mattina del 10 luglio 1929, a ventidue anni,
prima di poter dare una risposta ad Andrew O’Connell - al quale
era legata da profonda passione e da sincero amore -, che le aveva
chiesto di sposarla. Ora, dopo tanto tempo, la sua essenza spirituale,
che ha voluto rimanere in una dimensione di mezzo per ritrovare
Andrew, si rende conto di aver seguito una vita che non era quella
del suo amato, ma di un omonimo, uno sconosciuto. Di nuovo sulle
sue tracce grazie ad una libreria che gli era appartenuta e che nasconde preziosi ricordi, Razi decide di stabilirsi presso una coppia,
Amy e Scott, che l’ha appena acquistata. Ma la loro convivenza non
sarà priva di qualche inconveniente.
nostro futuro, le reazioni e i comportamenti. Il passato è fondamentale e continua a ritornare. Per quanto riguarda il
mio romanzo, come ho detto, non
avrebbe potuto avere una struttura diversa, mentre il secondo, che è in preparazione e su cui sto lavorando, sarà
un libro diverso, con una struttura diversa, ma posso dire che ci saranno
sempre questi ritorni della storia al
passato, perché i personaggi, soprattutto il protagonista maschile, sono influenzati dal passato così come sono
influenzate dal passato le loro azioni
nel presente. Non sarà forse una trama
altrettanto complessa, ma ci saranno
ancora questi interludi.
Leggendo la sua biografia, lei sembra avere molto in comune con Razi: si riconosce in lei o, piuttosto, in
un altro dei personaggi femminili?
Potrei dire che capisco profondamente Razi, un po’ perché questo personaggio è un’attivista ed anch’io lo sono stata negli anni ’90. Inoltre posso
dire che, grazie al rapporto che mi lega al mio partner Tod, io sono riuscita
a raccontare l’amore fra Razi ed Andrew, un rapporto profondo ed esclusivo. È vero però che sono anche molto
diversa da lei e che ho molto in comune con Twolly. Capisco profondamente vari aspetti dei caratteri di ogni personaggio, sia maschile, sia femminile,
altrimenti non sarei stata in grado di
descriverli. C’è un po’ di me in ognuno di essi.
Quindi, per descrivere un rapporto
ed una passione così esclusivi l’immaginazione non è sufficiente, oc-
Bambino
C prodigio
A e bugiardo
T
A
L
O
G
O
corre anche l’esperienza?
Sicuramente l’immaginazione è importante perché, di fatto, il rapporto
che c’è fra Razi e Andrew non uguale
a quello che io ho con Tod, però posso
dire che nel mio caso l’esperienza è
stata importante per rappresentare il
nucleo di questo sentimento e della
sua profondità. Vedremo che cosa
succederà nel prossimo romanzo, dove il narratore è un uomo - e io non sono mai stata un uomo! - e dove, quindi, l’esperienza non potrà aiutarmi:
dovrò basarmi sulla capacità di empatia, sull’intuito; cosa che del resto ho
fatto anche per quanto riguarda i personaggi maschili di questo libro.
Ricorre nel romanzo il tema dell’emancipazione femminile, soprattutto sessuale, dell’uguaglianza fra i
sessi, dei rapporti uomo-donna. Le
stava a cuore parlare di queste problematiche o era semplicemente un
argomento funzionale alla trama?
Sono tematiche che mi interessano fin
da quando ero più giovane. Ricordo
che quando ero alle medie, avevo circa dodici anni, il mio professore di
storia ci aveva permesso di organizzare un dibattito in classe su una legge
che riguardava l’uguaglianza dei diritti fra uomini e donne, un emendamento che poi non stato ratificato, ma di
cui si parlava molto. A dodici anni ero
forse un po’precoce, ma capivo questi
argomenti e mi rendevo conto di come
si inserissero in un contesto più vasto
che andava oltre quella legge. Sono
questi i temi che si ritrovano nel romanzo, ma che io non ho imposto ai
STEFHEN FRY
"Il bugiardo"
Trad. Marco Rossari
pp. 310, euro18,50
Baldini Castoldi Dalai, 2006
La storia di un incredibile bugiardo, Adriano Healej, bambino
prodigio che vive per strada e le cui bugie escono dalla sua bocca con voce ipnotica di verità. La sua infanzia è tutta piena di
macchie e oscurità fino all’università dove con le sue strategie
potrebbe fare carriera ma viene smascherato da un professore
che lo convince a usare il suo diabolico genio per alcune operazioni nei servizi segreti. È pure un genio nel proporre un pornografico Dickens. Healej muove tutto tra comico e drammatico.
personaggi. Razi è nata figlia di una
suffragetta ed è stata così fin dall’inizio. È chiaro che volevo anche trovare un elemento di connessione fra Razi e Amy, ed ho riproposto preciò le
problematiche legate al rapporto fra i
sessi.
Parlando di rapporti fra i sessi, oltre
all’amore, il romanzo è pervaso da
forti legami di amicizia, sia fra persone dello stesso sesso, sia fra uomini e donne…
Sicuramente quella dell’amicizia è una
componente molto importante. Negli
Stati Uniti abbiamo un detto che suona pressappoco così: «gli amici sono la
famiglia che ti scegli». È fondamentale la ricchezza che gli amici portano alla nostra vita, perché se è vero che i familiari ti conoscono in maniera più
profonda perché c’è un legame di sangue, gli amici ti danno dell’altro. Nel
romanzo ci sono forti amicizie fra
Amy e Chloe e fra Razi e Twolly e, in
questo caso, con un affetto che dura
dopo la morte a distanza di decenni.
Nessuno prima d’ora mi aveva fatto
questa domanda sull’amicizia, cosa
che trovo sorprendente, proprio perché
è un tema che ricorre. Io, ad esempio,
ho amici di lunga data,che conosco
fin da quando ero bambina, ed altri che
ho incontrato successivamente. In entrambi i casi, gli amici mi hanno dato
molto ed hanno giocato un ruolo molto importante nella mia vita.
Nel romanzo ci sono diversi riferimenti a religioni, credenze, teorie
scientifiche, ma alla fine Razi dichiara di essere un’anima. Può approfondire questo aspetto?
Quando stavo elaborando il personaggio di Razi, il mio mentore mi ha fatto una domanda. Mi ha chiesto: «Che
cosa pensa di essere Razi?». Io sapevo
che questo personaggio era più empirico, orientato verso la scienza e non
avrebbe mai creduto nella vita oltre la
morte, almeno nel modo in cui viene
tradizionalmente spiegata e descritta.
Quindi ho fatto ricerche, anche nell’ambito della fisica quantistica, per
cercare di contestualizzare in maniera
diversa questo concetto. Razi, allora, è
arrivata a vedersi come anima in senso scientifico e non solo religioso. Storicamente, se ritorniamo a Platone e
via di seguito, scienza e religione sono
sempre state in stretta connessione.
Solo più di recente è stata operata una
netta divisione fra i due ambiti, che qui
vanno a ricongiungersi. Anima, dunque, ma non in senso esclusivamente
religioso. Io sono stata educata nell’ambito della religione cattolica, ma
mentre scrivevo, ho capito che c’era
un modo diverso di intendere l’anima,
che poteva essere vista contemporaneamente anche in senso scientifico. È
solo una questione di linguaggio: non
si ascrive ad un ambito piuttosto che
ad un altro, ma semplicemente è un
modo diverso di descriverla a parole.
Visto che la fine non è chiara e che a
lei possiamo chiederlo: che cosa
stanno facendo adesso Razi e Andrew?
Dipende da come si legge e si interpreta l’ultimo paragrafo del romanzo! Mi
è capitato di ricevere e-mail di lettori
che mi chiedevano: «Ma che cosa succede davvero alla fine?», e mi hanno
scritto la loro versione. La mia risposta
è stata che se per loro la fine era quella, andava bene così. Ho voluto scrivere la parte finale tale da non supportare un modo di credere o un altro, ma da
lasciare il lettore libero di pensare ad
un proprio finale. La cosa importante è
che rimanga un senso profondo di connessione con la storia.
GIULIO MOZZI
CARTA E TAVOLETTE
È l’8 luglio. Sono a Tortona.
L’articolo che avevo spedito a
Gianni Bonina ieri, da Milano,
non è arrivato a destinazione.
Non è la prima volta che succede. Forse c’è un destino che si
accanisce su di me. In questo
momento sto dettando un nuovo
articolo all’amico Demetrio
Paolin. Demetrio è di Torino, ma
in questo momento è a Bologna.
Tra un quarto d’ora, quando
avremo finito, spedirà l’articolo
alla redazione di Stilos che è Catania. Per molti anni s’è parlato
di morte del libro: si profetizzava che in breve tempo saremo
tutti andati in giro con delle tavolette elettroniche contenti centinaia o miglia di testi, e che il risparmio di carta sarebbe stato
grandioso. In realtà l’esperimento degli e-book è stato fino ad
oggi fallimentare. Il libro di carta è un oggetto troppo comodo,
troppo tecnologicamente perfetto, troppo fissato nella nostra
idea di che cos’è la lettura e di
che cos’è il mondo. Niente potrà
convincermi che questo piccolo
parallelepipedo di fogli sfogliabili sia meno adatto alla lettura di
una tavoletta elettronica.
Come tanti grandi viaggiatori o
pendolari io uso il treno come
sala di lettura. Non c’è un luogo
più comodo per leggere di una
poltrona di un Eurostar, e si impara abbastanza in fretta a focalizzare l’attenzione su di un testo, lasciando fuori le chiacchiere dei vicini, gli strilli dei bambini e gli annunci del capotreno.
La lettura per me è una esperienza delocalizzata ed è proprio
la disponibilità del libro di carta
alla delocalizzazione che me lo
fa preferire a qualunque altro
supporto della lettura. Tuttavia,
in questo preciso momento, sto
facendo l’esperienza di una scrittura completamente delocalizzata. Io non sono a casa mia,
Demetrio non è a casa sua, il testo che sto dettando si materializzerà in una città distante mille
chilometri da dove sono io e da
dove è Demetrio, e poi sarà distribuito per tutta l’Italia.
Potrei domandarmi, a questo
punto, che cosa c’è di materiale
nella mia scrittura, in questo testo che non potrò rileggere, che
non sto scrivendo con le mie dita, che viene scritto da Demetrio
con le sue dita su un supporto
elettronico e che io potrò vedere
solo quando, con i tempi lunghi
delle Poste, Stilos mi arriverà a
casa. E mi rispondo: non c’è
quasi niente di materiale. L’atto
di scrittura di questo articolo somiglia più alla lettura di un testo
su una tavoletta elettronica che
alla lettura di un libro. Non è allora che il mio pregiudizio verso
le tavolette elettroniche è appunto un semplice pregiudizio? Non
è che io stesso così appassionato
alla carta la sto già tradendo e
abolendo nel dettare questo articolo? Certo: per decenni e decenni i corrispondenti dei giornali hanno scritto i loro articoli
dettandoli al telefono, soprattutto quando si trovavano a fare
cronaca dell’emergenza. Questo, peraltro, è un articolo scritto
da me che sono «uno scrittore» e
scritto anche da Demetrio, che è
anche lui «uno scrittore». Questo
articolo, benché sia un articolo,
dovrebbe essere comunque un
«oggetto letterario». Però non
ha né tempi né modi di scrittura
di un oggetto letterario. Si può
dire: anche Dino Buzzati, che
era «uno scrittore» molto più di
me e Demetrio messi insieme,
quando mandava certe sue corrispondenze al Corriere della Sera,
le dettava al telefono. Eppure
oggi quelle corrispondenze sono
raccolte in libri e sono sicuramente letteratura. Come spesso
mi succede, sono capace delle
domande, ma non ho idea di dove stiano di casa le risposte. Magari ne parliamo un’altra volta.
18
’omaggio a E.M. Forster è
palese fin dalle prime righe del romanzo Della
bellezza di Zadie Smith e i
lettori che conoscono Casa Howard saranno deliziati di seguirne le tracce, riconoscendone i segni pur modificati e arricchiti per inserirli nel nuovo contesto del secolo
XXI. La lettera di Helen Schlegel alla sorella con cui iniziava il libro di
Forster è qui sostituita da una e-mail
di Jerome Belsey a suo padre; una
Helen estatica annunciava il fidanzamento con Paul Wilcox, un Jerome
esultante annuncia il suo con Victoria
Kipps; là un telegramma e qui un
messaggio di posta elettronica, che
smentiscono quanto detto, non arrivano in tempo per fermare l’intervento
di un parente che si precipita sul posto.
«Non siamo più nel 1910!», dice Kiki
Belsey, e infatti l’opposizione tra il
mondo «dei telegrammi e della rabbia» dei Wilcox e quello dell’intelletto delle sorelle Schlegel è sostituito
nel romanzo della Smith dal contrasto
tra i liberali Belsey e i conservatori
reazionari Kipps; le classi sociali nettamente distinte nel romanzo di Forster sono scomparse nella società
multietnica dalle molte possibilità che
Zadie Smith ritrae così abilmente, come già nel primo romanzo che l’ha resa famosa, Denti bianchi.
È come se Leonard Bast, il misero impiegato con ambizioni culturali di Casa Howard, ce l’avesse fatta ad elevarsi, perché l’inglese bianco Howard
Belsey, figlio di un macellaio, è diventato un accademico e sua moglie Kiki,
la cui trisavola era una schiava, è direttrice d’ospedale, nonché proprietaria della bella casa in cui abitano, lasciata in eredità alla nonna da un dottore bianco (forse un tentativo di mettere a tacere i sensi di colpa?). Ma c’è
sempre un Leonard Bast in ogni società e in Della bellezza il suo posto
viene occupato da un giovane di colore, Carl, poeta e musicista di strada
che i Belsey incontrano ad un concerto - e qui Zadie Smith prosegue nel
suo gioco con il testo di Forster: i risvolti comici del furto dell’ombrello
di Leonard da parte di Helen Schlegel
si ripetono in quello del lettore di cd
preso per sbaglio da Zora Belsey.
I Belsey contro i Kipps, dunque, in
tutti i campi, ad iniziare da quello dell’arte: il pittore Rembrandt, soggetto
di studio sia di Howard Belsey sia di
Monty Kipps, viene glorificato da
Monty e visto da Howard come un
semplice artigiano per niente trasgressivo o originale; in contrasto con
Howard, Monty Kipps è strettamente
religioso e sostiene che l’uguaglianza
è un mito, che la società multiculturale è un sogno, che le minoranze esigono una parità di diritti che non si sono
meritata. Per non dire che lui - il nero
che «è arrivato» - continua a parlare
con disprezzo dell’«uomo di colore»,
come se si compiacesse a guardare gli
altri dall’alto del suo successo, escludendoli. Ed è a questo punto, al di là
dei vari episodi in comune che hanno
il romanzo inglese di un secolo fa e
quello della giovane Zadie Smith, che
ci interroghiamo sulla possibilità dell’utopistico desiderio espresso nel
motto introduttivo di Casa Howard
che è poi anche la chiave di lettura di
tutti i romanzi di Forster: «Only connect».
Fino a che punto è possibile connettere due mondi, due diverse concezioni
di essere, due interpretazioni del proprio posto nell’ordine delle cose? Il
quadro che rappresenta la Venere Nera o la Vergine Violenta - l’eredità discussa che nel libro della Smith sostituisce l’ambita casa di Mrs. Wilcox in
Forster - è forse la risposta della giovane scrittrice, figlia di padre inglese
e madre giamaicana: l’immagine è
quella di una donna nera, interamente nuda, circondata da piante e uccelli tropicali. Rappresenta tutto, l’amore ma anche la gelosia, la bellezza e la
purezza ma anche la vendetta e la discordia, la fortuna, la buona volontà e
S t los
Nella foto Zadie Smith, autrice per Mondadori
di Della bellezza
L
La moda
C double
A face
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A
L
O
G
O
ZADIE SMITH. «Nella mia vita ci sono l’arte e mio marito. Per molti scrittori
l’arte ha preso il primo posto, ma per me l’amore è la cosa più importante.
Credo nell’amore e nell’apprezzamento del mondo. Ma rinuncerei a tutto per
amore. Spero di non doverlo fare. La bellezza è la bellezza dell’amore»
Prove di connessione
tra due mondi opposti
LIGURE, VIVE A MILANO,
IL LIBRO
DOVE HA INSEGNATO INGLESE
ZADIE SMITH
"Della bellezza"
Trad. Bernardo Draghi
pp. 514, euro 19
Mondadori, 2006
NEGLI ISTITUTI SUPERIORI.
SI OCCUPA DI TRADUZIONI
MARILIA PICCONE
la salute. Sono temi che appaiono tutti nel romanzo di Zadie Smith che incominciava con la storia d’amore
abortita tra l’ingenuo Jerome e l’esperta Victoria per poi esplorare l’unione coniugale di Howard e Kiki,
sostenuta dalla generosità di lei, indebolita dai tradimenti di lui e definitivamente affossata dalle sue menzogne
- pari a quelle del suo ipocrita rivale,
Monty Kipps. Stilos ha intervistato
Zadie Smith, che ha appena ricevuto
l’Orange Prize per questo romanzo, il
maggior premio inglese per un libro
scritto da una donna.
Della bellezza è il suo terzo romanzo: come ci si sente ad essere così
giovane ed avere già scritto tre romanzi?
A volte mi sento soddisfatta e a volte
mi sembra di avere fatto poco tra i 20
e i 30 anni. Anche scrivendo solo 500
parole al giorno, avrei potuto scrivere
chissà quanto: sembra molto lavoro,
ma non lo è. A volte mi pare che 10
anni della mia vita siano andati in fumo. Ho scritto tre romanzi ma, nella
vita reale, è come se io non avessi fatto niente. Quando scrivo non mi occupo d’altro, tutto resta in attesa, sembra
proprio che non faccia nulla e può essere irritante per chi mi sta vicino.
Passo il tempo a rimuginare: forse sarebbe stato meglio avere una vera e
propria occupazione per passare il
tempo.
Casa Howard è il romanzo che preferisce di Forster o l’ha scelto perché le offriva il materiale migliore
per sviluppare il suo romanzo?
No, paradossalmente Casa Howard
non è il mio libro preferito di Forster,
quello che preferisco è Maurice. Mi è
YUNIJA KAWAMURA
"La moda"
Trad. Maria Luisa
Bassi
pp.161, euro 11,50
Il Mulino, 2006
Nella moda si distingue il prodotto materiale che è il capo d’abbigliamento dall’idea culturale. Ciò porta a sfatare il mito dello stilista come creatore e artista che viene
oscurato dal sistema delle istituzioni, della pubblicità,
del giornalismo ecc. Un gioco di successi e sconfitte il cui
svolgimento sfugge ai consumatori per i quali la moda risulta un fatto sociale e culturale e si risolve in un fenomeno appariscente e tutto sommato incomprensibile.
Professori
universitari
in stato di rivalità
Howard Belsey, inglese, studioso di Rembrandt, vive in una cittadina americana assieme alla moglie, l’afroamericana Kiki, e tre figli.
Quando un altro accademico suo rivale, il caraibico Monty Kipps,
arriva dall’Inghilterra per insegnare nella sua stessa università,
scoppia tra di loro un conflitto su ideali e professione, coinvolgendo
le famiglie in una crisi di identità di coppia. Eppure, quello che
emerge dai contrasti è il valore della bellezza della vita umana.
difficile rispondere, anche perché, da
quando è stato pubblicato il romanzo,
la mia passione per Forster è andata
scemando, credo che non lo leggerò
mai più. Originariamente sono stata
attratta dall’empatia di Forster, dalla
sua volontà di esprimere simpatia verso gli altri. Forster non è un esteta
come Henry James, non è un moralista come Jane Austen, è un inglese
della periferia, è un uomo di compagnia, è socievole. Mi piace Virginia
Woolf, ma supponiamo che io potessi incontrarla e chiederle di prendere
una tazza di tè insieme: lei mi direbbe
certamente di no, mentre Forster direbbe: «Sì, con piacere». Forster era
una persona molto generosa che amava stare con gli altri, sentiva che la vita vera è quella intima: avrebbe tradito il paese per un amico.
Questa volta solo una piccola parte
del romanzo si svolge in Inghilterra
e la maggior parte negli Stati Uniti,
come mai?
L’ho fatto anche per mettermi alla
prova. In parte c’è stata, alla base, la
mia paura di diventare troppo inglese,
il prossimo libro, però, sarà ambientato di nuovo a Londra. Mi piaceva l’idea di variare, di descrivere un altro
paesaggio, una diversa maniera di sta-
Cia, da
cacciatore
a preda
re nel mondo. E poi l’America è, oltre
all’Italia, il paese straniero che conosco di più e che amo.
Quando è stata per la prima volta in
Italia?
L’Italia è stata il primo paese straniero che ho visitato, quando avevo 14
anni e sono stata invitata dalla famiglia di un’amica ad andare con loro
nella casa che avevano affittato a Tellaro. E a novembre verrò a vivere a
Roma per un anno, perché voglio imparare l’italiano. Le mie letture mi
avevano dato un’idea romantica dell’Italia e ho trovato che la realtà coincidesse appieno con quell’idea. Per un
inglese è un sollievo gustare la gioia
cattolica del piacere. Perché qui la
gente si diverte e poi chiede perdono,
non si macera nella colpa. Bisogna
aver vissuto nella cupezza dell’atmosfera protestante per capire che cosa
voglio dire.
Uno dei punti più discussi nel romanzo è il diritto allo studio a cui si
oppone Monty Kipps. Come pensa
si possa gestire questa esigenza messa in luce di recente dal numero di
volontari per la guerra in Iraq che
non avevano altre alternative?
Il diritto allo studio in un’epoca in
cui praticamente moriremo tutti sul
BARRY EISLER
"Rain Storm, Pagato
per uccidere".
Trad. Gianni Pannofino
pp. 361, euro 16,50
Garzanti, 2006
Jihn Rain ha chiuso con la Cia ma la sua esperienza in
fatto di uccisioni gli fa accettare un ultimo incarico. In
Medio Oriente dovrà eliminare un tafficante d’armi.
Qualcun altro ha il suo stesso incarico e capisce allora
che lui è il bersaglio di quella missione insidiosa. Diventa
la pedina di un gioco pericoloso tra cacciatore e preda.
Rain Storm. Pagato per uccidere ci mostra un Oriente nero, violento e cospiratore.
Assassino
con alte
protezioni
posto di lavoro è una priorità: quei tre
anni dedicati allo studio sono una necessità per tutti, rappresentano una libertà di cui tutti dovrebbero godere.
Ed è demoralizzante vedere che non
sia la meritocrazia il criterio di ammissione alle università. In America
c’è questa legge dell’azione positiva,
ma è demoralizzante dovere l’accesso
all’università al fatto di essere nero.
Penso che ci dovrebbe essere una procedura selettiva caso per caso. Quando feci domanda a Cambridge, era
chiaro che la mia preparazione non
era buona quanto quella degli altri e
che i miei voti non sarebbero stati
uguali ai loro, ma i miei esaminatori
hanno fatto una scommessa su di me.
Non si possono basare le ammissioni
su una legge: una legge è troppo rigida, non può andare bene per un procedimento selettivo del genere.
Il romanzo è anche l’anatomia di
una coppia: è essenziale la fedeltà
nel matrimonio?
Sono sposata da troppo poco tempo
per sapere come reagirei in caso di tradimento. Chiunque sa che ci sono diverse maniere per non essere fedeli. Il
mio impegno spirituale e mentale è
una cosa molto profonda, non tradirei
mai, come non tradirei un amico. Nella coppia Kiki-Howard, Kiki sopravvivrà sempre, il problema è quale vita avrà Howard, se imparerà qualcosa.
Kiki resta nel matrimonio per amore
di lui, perché le donne sono emozionalmente più indipendenti.
I Kipps contro i Belsey: i Belsey ci
piacciono di più, anche se Howard
è il meno amabile di loro e Levi il
più simpatico. Levi assomiglia a
qualcuno che conosce?
Il personaggio di Levi è basato sul
mio fratello minore. Da bambina ero
solita pensare che la mia vita sarebbe
stata più felice, che avrei trovato le risposte a tutto, che avrei capito tutto,
quando avessi avuto più cultura,
quando fossi stata più istruita. E poi ti
imbatti in qualcuno come Levi che
non ha alcuna idea della cultura, non
gliene importa niente ed è felice lo
stesso. Mi interessa il mondo in cui si
muove mio fratello, così limitato e in
cui lui si trova così bene. Faccio un
esempio, forse ne parlo anche nel libro. Stavamo aspettando insieme un
treno sul marciapiede della stazione e
io leggevo un libro su Enrico VIII.
Mio fratello mi ha chiesto perché lo
leggessi e gli ho risposto che mi interessava la storia. Di rimando lui mi ha
chiesto «Perché?». Ecco, mio fratello
è tutto lì, eppure anche in questa vita
limitata può trovare felicità e soddisfazione più di altri.
C’è una scena in cui Carlene Kipps
dice che quello che importa nella vita è per chi si è vissuto - e lei ha vissuto per l’amore. Non le è mai importato del mondo ma le è importato della sua famiglia. Kiki Belsey,
così generosa in tutto, è un passo
avanti a Carlene?
Sì, penso di sì. Mi stupisce sempre osservare come ci siano donne con una
grande famiglia che si dedicano con
amore ai figli derivandone grande felicità e ce ne siano altre che invece si
dedicano alla politica, ad esempio, e
tutto il resto è secondario. Kiki è più
completa di Carlene e forse, poi, Carlene appartiene ad un’altra generazione, è sottomessa all’idea della maternità. Kiki sembra avere una capacità più ampia di affetti e di interessi.
Il romanzo termina con la descrizione di un ritratto della moglie di
Rembrandt dipinto dal pittore: è
questo che significa il romanzo Della bellezza? Che la bellezza dell’arte coincide con quella dell’amore?
La mia vita è molto esplicita riguardo
a questo: nella mia vita c’è l’arte e il
mio rapporto personale con mio marito. Per molti scrittori l’arte ha preso il
primo posto, ma per me l’amore è la
cosa più importante nella vita. Credo
in quello, nell’amore e nell’apprezzamento del mondo. Ma rinuncerei a
tutto per amore. Spero di non doverlo
fare. La bellezza è la bellezza dell’amore, prima di tutto.
RENNIE AIRTH
"Marea rossa"
Trad. Stefano
Bortolussi
pp. 403, euro 17
Longanesi, 2006
L’ispettore Madden, dopo dieci anni, rimuove la morte
della moglie e della figlia risposandosi con una dottoressa che gli ridà la serenità. Ma si ripresentano delitti di
vittime innocenti che risvegliano in lui l’istinto della caccia che gli aveva permesso tempo prima di catturare un
criminale introvabile. Ricerca l’assassino di bambine ma
si presenta una spiacevole verità: l’assassino è protetto
dai servizi segreti inglesi, ma Madden non desiste.
Altro
pagina
autori
stranieri
WALTER PEDULLÀ
ATTENTI AL FIATO
Da alcuni anni, forse decenni,
mi capita di far parte, o persino
presiederle, di almeno cinque
giurie di premi letterari (ma potrebbero essere il doppio). Così
succede che io incontri una cinquantina di critici letterari, narratori o professori di letteratura
contemporanea.
Anzitutto
un’occasione per parlare di narrativa, poesia e critica come
sempre più raramente capita di
fare altrove. Un luogo di confronto, una delle ultime spiagge
della conversazione culturale. Il
meglio dei premi è quello che
c’è dietro. Una volta si litigava
molto. Ci si collocava su versanti opposti: neorealisti o
neoermetici, sperimentalisti o
nostalgici, neoavanguardia o tradizione del nuovo, gaddiani contro moraviani. Ora invece il clima è più disteso: conta il libro in
sé, fuori corrente, che non tira
più da nessuna parte. Meno attenzione alla struttura (lo scheletro, che è fattore di dinamismo
culturale), più orecchio verso la
scrittura (che non ha più fretta di
andare altrove). Molti libri sono
scritti bene ma non leggi più di
cinquanta pagine.
Si comincia col dire quasi sempre: «Brutta annata! C’è poco
da leggere, fatico a indicare un
titolo, comunque non più di uno
o due, altra cosa i narratori stranieri, ce ne sarebbero tanti tra loro da segnalare». Al che qualcuno giustamente obietta che tra i
candidati c’è un bravo scrittore
finlandese (per esempio, Paasilinah), un turco (Pamuk), uno spagnolo (Marias), un portoghese
(Antunes), i due soliti israeliani,
un francese (per esempio,
Houellebecq), due inglesi, tre
americani del Nord e qualcuno
del Sud (in verità sempre di meno), un tedesco (Timm), un paio
di giapponesi (Ishiguro?) e di cinesi. Insomma narratore in rappresentanza di una nazione o di
una lingua. Se però ci si potesse
limitare a qualche narratore, due
o tre li avremmo pure noi italiani negli ultimi dieci anni degni di
essere esportati.
Si impara molto alle riunioni delle giurie, se non si passa subito ad
elencare i propri autori. C’è qualcuno che propone un testo noto e
un’interpretazione notevole. Ho
cambiato opinione dopo aver
ascoltato un collega, e qualcuno
potrebbe averla cambiata per aver
sentito le ragioni per cui sostenevo un altro libro. Cadono spesso
le candidature di comodo o di necessità, il regalo a un amico, la
gratitudine a un editore. Chi ha
messo in conto tutto ciò non si
scandalizza. D’altronde nei piccoli e medi premi, gli editori esercitano una pressione minore, diciamo proporzionale agli effetti
sul mercato. E ci sente più onesti
e incorruttibili. Non essendoci
quasi più il conflitto culturale,
esplode lo scontro dei gusti personali. Dopo le impressioni buttate
lì, si entra nel merito e si motiva il
parere: il gusto è ancora una buona chiave per entrare in un testo.
Quando si passa da trenta libri a
tre, il fiuto individuale diventa
un’altra cosa. Così, partendo da
percorsi diversi ci siamo incontrati, c’è stata convergenza, anzi
unanimità, o quasi. Tutte le strade
conducono ancora a Roma?
Facile mettersi d’accordo su
Caos calmo di Veronesi (Bompiani) o Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti.(Feltrinelli): li spingevano le recensioni favorevoli. La sorpresa
maggiore ci fu quando scoprimmo che a tutti erano piaciuti i racconti di Piero Grossi, specialmente il primo della raccolta che si intitola Pugni (Sellerio). In tal caso
il gusto è ancora deperibile o possiamo tornare a chiedergli di aiutarci a distinguere un libro bello
da uno brutto? A chi esalta il fiuto, qualcuno risponde: «Attenti
al fiato!».
«
a politica culturale egiziana manca di credibilità» ha dichiarato Gamal Ghitani in un’intervista al settimanale
egiziano "al-Ahràm Weekly". Non sorprende dunque che nel 2004 abbia rifiutato di rappresentare il ministero
della Cultura alla Fiera del libro di
Francoforte, e non abbia ceduto, lo
scorso anno, alle lusinghe del premio
della Conferenza del romanzo arabo
del Cairo.
Ghitani è scrittore raffinato, vicino al
premio Nobel Mahfuz - al quale peraltro lo lega un’antica amicizia - per temi e temperatura stilistica, e dirige al
Cairo la prestigiosa rivista letteraria
"Akhbar al-adab", dopo essere stato
impegnato per anni come corrispondente sul fronte dei conflitti araboisraeliani. Intellettuale disorganico,
sempre critico nei confronti del potere,
nel 1966 fu incarcerato con l’accusa di
aver aderito a un gruppo marxista clandestino.
Di questo periodo della storia egiziana
non è difficile ravvisare echi in Schegge di fuoco, suggestivo libriccino di
racconti scritti tra il 1992 e il 1996 e
pubblicato lo scorso anno da Jouvence,
per il quale ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera.
Stilos lo ha intervistato.
Lei è il primo scrittore arabo - o meglio, il primo arabofono - a ricevere
il Premio Grinzane. Pensa che questa occasione possa rappresentare
per l’Italia una vera prova di apertura nei confronti di una letteratura
ancora pressoché sconosciuta?
Sono molto contento di questo premio
perché sono convinto che sia un’occasione importante, sia per la cultura italiana, sia per quella araba. Perché le
due culture - ma in generale la cultura
islamica e quella occidentale - negli ultimi dieci anni si sono notevolmente allontanate l’una dall’altra. Nel passato
un simile distacco non s’era mai dato,
e anzi i contatti, anche quando erano
soltanto quelli commerciali, sono sempre stati molti.
La letteratura in questo senso può
costituire un ponte tra Oriente e Occidente.
Non solo la letteratura. Io sono uno
scrittore ma mi ritrovo a rispondere ai
giornalisti a domande riguardanti l’Islam, il terrorismo. Come se la nostra
cultura si fondasse sul terrorismo. Siamo in parte responsabili come arabi,
ovviamente, di questo atteggiamento,
ma siamo, al contempo, anche vittime
di un pernicioso pregiudizio. Siamo
diventati tutti terroristi o esperti di questioni religiose e politiche.
Edward Said in una intervista disse
L
EMILIA PAGLIANO
arrone, giallo, azzurro: ogni
capitolo del romanzo La Madonna di Excelsior del sudafricano Zakes Mda si apre con la tavolozza dei colori di padre Claerhout,
singolare prete cattolico che dipinge
scure madonne nude. Il marrone della
terra e della pelle dei nativi del Sudafrica, il giallo dei girasoli che occhieggiano al sole, l’azzurro dei mantelli
delle madonne sulle forme nude e
quello degli incredibili occhi di Popi,
la protagonista che racchiude in sé la
storia tormentata di un paese. Popi è
una dei bambini comparsi a giudizio
con le madri di colore in un processo
che verrà ricordato come dei «19 di
Excelsior»: 14 donne nere e 5 uomini
bianchi erano stati imputati di aver infranto l’Immorality Act, la legge che
proibiva rapporti sessuali o relazioni di
qualunque tipo tra le due razze.
Il processo, nodo centrale della prima
parte del romanzo, diventa una grande
farsa, il trionfo dell’ipocrisia, la glorificazione dell’immoralità dell’Immorality Act: tutti sanno che è tradizione
che i giovani afrikaner perdano la verginità sotto le gonne delle loro «tate»
nere, che è difficile resistere all’attrattiva sensuale delle donne di colore,
che è ancora più difficile per le donne
sottrarsi alle voglie dei bianchi, la prova che rapporto carnale c’è stato è davanti agli occhi di tutti, in quei bambini per cui si inventa la denominazione
di «colorati» e che verranno disprezzati da ambo le parti («tutte queste
cose discendono dai peccati delle nostre madri», viene spesso ripetuto, con
triste ironia).
Eppure gli uomini provano a discolparsi, adducendo la trita giustificazione avvallata dalla Chiesa - è il demonio che ha sempre usato le donne nere per tentare gli afrikaner -, finiscono
per pagare la cauzione delle donne,
tutto si conclude ma niente viene dimenticato.
I quadri del sacerdote pittore per cui
posano come modelle Popi e sua ma-
M
GHAMAL GHITANI . L’amore per Buzzati derivato dalla concezione del
tempo, della vita e della morte: «Questi sono da sempre i miei temi.
L’impossibilità di porsi un obiettivo raggiungibile al di là della nostra
condizione di esseri viventi. Ogni grande scrittore si concentra su un tema»
Immagino me stesso
come Giovanni Drogo
VIVE IN PROVINCIA DI SASSARI. DOTTORANDA A LINGUE.
COLLABORA A "DIARIO",
"L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE" E "LA NUOVA SARDEGNA"
SILVIA LUTZONI
una volta che il suo celebre libro
Orientalismo è stato letto più approfonditamente in Occidente piuttosto che nei Paesi arabi, dove la parola «orientalismo» ha appunto finito per essere utilizzata come un insulto.
Penso che avesse ragione a pensarlo.
Edward, oltre ad essere un mio personale amico, ha anche scritto la prefazione alla traduzione inglese del mio
romanzo intitolato Zaini Barakat. La
sua era una coscienza davvero pura, la
sua prospettiva veramente originale,
se è vero che la sua conoscenza dell’oriente e dell’occidente era una conoscenza dall’interno. Edward è morto
ormai da tre anni circa e la situazione è
notevolmente peggiorata. La contrapposizione tra culture è diventata sempre più aspra, se è vero che quotidianamente assistiamo alle sortite di una
Oriana Fallaci e a criminali che strumentalizzano addirittura i nomi dei
primi musulmani - e Abu Mussab, il
nome scelto da Zarqawi, era uno di
questi - per presentarsi al mondo nel
nome dell’Islam.
Il problema allora è l’ignoranza.
Sì, ci dovrebbe essere uno scambio
che porti a una maggiore conoscenza
reciproca. L’Occidente spesso dimentica che la cultura araba sta nei suoi
stessi fondamenti. Come arabi, allo
stesso modo, non possiamo dimenticare che quella occidentale è parte di noi
stessi, pensiamo soltanto alla scienza,
alla tecnologia. Io credo di avere conosciuto l’Italia prima di tutto attraverso
la sua letteratura. Noi, da parte nostra,
continuiamo ad essere aperti alla cultura italiana: continuiamo a tradurre libri
italiani e, attraverso l’Accademia egiziana di Roma, incoraggiamo i nostri
studenti a studiare la vostra cultura,
così come allo stesso modo incoraggiamo gli italiani a conoscere la nostra.
Quali sono gli autori italiani che ha
letto nella sua vita?
Ovviamente l’imprescindibile Dante.
Anche se devo dire che ci sono alcuni
autori contemporanei ai quali mi sento
particolarmente vicino, come ad esempio Dino Buzzati, del quale sono stati
tradotti in arabo diversi titoli, non solo
il più famoso Deserto dei tartari, che
ho letto negli anni Sessanta e ho pubblicato nella mia casa editrice per ben
due volte. Non esagero quando dico
che a volte penso a me stesso come a
Giovanni Drogo. Sono molto affascinato anche dai suoi racconti: il mio
preferito è, in assoluto, I sette piani.
Che cosa la accomuna a Buzzati?
La concezione del tempo, della vita e
della morte. Questi sono da sempre i
miei temi. L’impossibilità di porsi un
obiettivo raggiungibile al di là della nostra condizione di esseri viventi. Penso
che ogni grande scrittore si concentri,
nei suoi libri, su un unico tema, al quale di volta in volta tenta di assegnare un
diverso colore. Per Buzzati penso fosse il tempo.
Nei suoi romanzi la storia ha un ruolo molto importante. Uno fra tutti
Zaini Barakat (edito in Italia da
Giunti) tradotto in ventiquattro lingue. Ma, vista e considerata la consolidata tradizione che questo genere ha in Egitto, possiamo parlare di
romanzi storici?
In realtà Zaini Barakat è quanto di più
lontano dal romanzo storico possa esistere. Sebbene sia infatti ambientato
nel periodo dei Mameluchi, e sebbene
io abbia svolto approfonditissime ricerche riguardo a quel periodo storico,
l’ho fatto con il proposito chiaro di
modificarlo, quel periodo storico, apportando una specie di contaminazione
nel romanzo tra passato e presente che
è risultato, pare, il punto di forza del libro. La mappa del Cairo, i nomi delle
ZAKES MDA. Sesso e morale in Sudafrica
Un processo imbarazzante
dre Niki segnano il passare del tempo
in Sudafrica: quando il viso di Popi
traspare nelle sembianze sia del bambino sia della madonna si avvicina la
liberazione di Mandela e la fine dell’apartheid, e la storia personale di Niki
- la donna con la pelle deturpata dalle
creme sbiancanti - e quella di Popi che
pregava perché le lentiggini sulla sua
pelle si unissero, per poter sembrare
nera come gli altri bambini della
township, diventano la storia dell’evoluzione politica di un paese in cerca di
un nuovo equilibrio. Stilos ha intervistato Zakes Mda.
La Madonna di Excelsior è un libro
molto diverso da quello precedente. Verranno dal mare era pieno di
storie del passato, di tradizioni e di
folklore, La Madonna di Excelsior è
colmo di dolore e di rabbia, è un libro più realistico: qual è la causa di
questo cambiamento?
Semplicemente mi piace adottare uno
stile diverso per ogni romanzo che
scrivo, ogni romanzo segna un passo
nel mio progresso come artista. Così
nell’ultimo che ho scritto, che non è
ancora pubblicato in Italia, "The Whale Caller", adotto uno stile ancora differente. E tuttavia spero che, anche
nella diversità, si senta sempre traccia
della mia voce.
Ogni capitolo de La Madonna di Excelsior inizia con la descrizione di
un quadro: perché?
Quando ho deciso di scrivere un romanzo sul processo di Excelsior, ho
scoperto che un prete che conoscevo e
di cui avevo ammirato i quadri sin da
bambino - sono anche io un pittore abitava proprio lì. Ho riguardato i suoi
quadri, mi sono reso conto che descrivono perfettamente il paesaggio e
la gente del luogo e mi sono detto
che, se lui lo aveva già fatto per me, io
IL LIBRO
ZAKES MDA
"La Madonna di Excelsior"
Trad. Maria Baiocchi
e Anna Tagliavini
pp. 298, euro 16,50
Edizioni e/o, 2006
Cittadini di Excelsior
davanti ai giudici
Nel 1971 diciannove cittadini
di Excelsior, nel Sudafrica, furono processati per aver avuto
rapporti sessuali tra neri e
bianchi. Il bianco che ha sedotto Niki si suicida per la vergogna.
potevo descrivere i suoi quadri invece
del paesaggio e della gente. I quadri
hanno anche un altro intento: possono
guarire i miei personaggi, servono nel
processo di guarigione dei miei personaggi. Ecco perché ho usato un quadro ad introdurre ogni capitolo.
Chi è questo prete-pittore, Frans
Claerhout? Forse un simbolo, l’uccello dorato che ha dipinto per lei e
al quale lei dedica il suo libro?
Non so perché il pittore abbia scelto di
dipingere quell’uccello dorato per me:
sono andato a trovarlo con mia figlia,
aveva uno studio pieno di quadri, mi
ha dato un catalogo delle sue opere e
poi ha dipinto per me quell’uccello.
Frans Claerhout è un pittore molto
noto in Sudafrica, ora è molto anziano,
è nato in Belgio ma vive in Sudafrica
dal 1947.
C’è stato veramente, dunque, il processo da cui prende l’avvio il suo romanzo?
Il processo c’è stato e si è svolto proprio come racconto nel romanzo. Anche le conseguenze sono state quelle
di cui parlo nel libro: un uomo si è ucciso per la vergogna, uno si è sparato
in un occhio ed è sopravvissuto. Era
un processo imbarazzante per il governo, perché le persone coinvolte
erano membri del partito al potere e
quindi avevano infranto quelle leggi
dell’apartheid che loro stessi avevano
promulgato. Ecco perché il processo
venne chiuso frettolosamente per insufficienza di prove.
Molti romanzi di scrittori del Sudafrica trattano dell’apartheid: è una
ferita che si può rimarginare?
La fine dell’apartheid è di dodici anni
fa, questa è una ferita che stiamo cercando di curare. È ancora troppo recente- basta pensare alla tragedia degli
ebrei, avvenuta mezzo secolo fa e ancora sempre presente nella mente di
tutti. Parleremo dell’apartheid per
molti anni ancora. L’apartheid era il
discorso dominante nella società per-
pagina
Nella foto sopra l’egiziano Gamal Ghitani. In basso il sudafricano
Zakes Mda, autore per e/o di La Madonna di Excelsior
strade, le tradizioni, i colori dei vestiti,
il cibo (nel libro non si parla per esempio del caffè, che in quel periodo era
ancora in discussione se fosse permesso dall’Islam oppure no), appartengono al sedicesimo secolo. Ad essi ho aggiunto elementi di finzione ed elementi riconducibili all’epoca di Nasser. La
sconfitta di cui si parla, per esempio,
non è quella di Sultan al-Ghuri, ma la
nostra sconfitta del 1967. Anche per
quanto riguarda la lingua sono andato
a studiare antichi manoscritti dai quali ho tratto la lingua che ho deciso di
utilizzare.
È un romanzo metaforico allora.
Sì, un buon modo per parlare dell’epoca contemporanea. Quando il libro uscì
a puntate sul settimanale indipendente
"Rose El-Youssef" tra il 1970 e il 1971,
ho dovuto subire le quotidiane visite
della censura che, però, non poté che
constatare che fosse innocuo dal momento che era, o che poteva essere
niente più che un vecchio manoscritto.
Nei suoi libri, anche nella raccolta di
racconti Schegge di fuoco, un importante ruolo gioca la tradizione mistica sufi.
Sono nato e cresciuto vicino alla moschea di al-Husein, una moschea che
prende il nome dal nipote martire del
Profeta, personaggio molto amato da
noi egiziani, nonostante non siamo
sciiti. Ho scritto un romanzo di mille
pagine, tradotto lo scorso anno in Francia nel quale parlo della storia di al-Husein, di Nasser e di mio padre, il cui titolo è "Kitab at-tagialliyat", libro delle
illuminazioni. In questo libro si vede
chiaramente quanto la mia visione del
mondo sia vicina a quella dei mistici
islamici, che si riflette nella lingua stessa che ho utilizzato (sono contro i clichés ogni romanzo porta in sé la sua
forma specifica, il suo specifico stile).
Questo non significa che mi sento disancorato dalla realtà - sono socialista
-, ma negli ultimi anni, essendomi trovato tra la vita e la morte, ho cominciato ad avvicinarmi al sufismo, partendo
dall’insegnamento del grande poeta
mistico Ibn Arabi, che nelle sue poesie
ci ha dato la più grande lezione di tolleranza e di pace. Basti ricordare una
delle sue famose poesie nella quale afferma: «Il mio cuore s’è aperto a tutte
le forme: è un pascolo per gazzelle, un
chiostro per monaci cristiani, un tempio per gli idoli, la Ka’ba del pellegrino, le tavole della Torah e il libro del
Corano». Il problema nasce quando si
rifiutano le differenze e certi interpreti dell’Islam, per esempio quelli che si
richiamano al Wahabismo, considerano se stessi come gli unici portatori di
verità e rifiutano le differenze tra i
mussulmani.
ché toccava ogni aspetto della vita:
nella vita privata l’apartheid ti diceva
chi potevi amare, in che luoghi potevi
entrare, che lavoro potevi fare, quale
autobus prendere, in che scuola andare. Era impossibile scrivere una storia
ambientata in Sudafrica senza parlare
dell’apartheid, neppure una storia d’amore poteva prescindere dall’apartheid. Adesso le cose sono cambiate, molti nuovi romanzi non ne parlano, neppure io ne parlo nel mio ultimo
romanzo, "The Whale Caller". Ma ci
saranno ancora storie con riferimenti
all’apartheid perché continua ad influenzare le nostre vite. Parliamo della riconciliazione tra neri e bianchi e
tra gli stessi neri, ma non ci sarebbe bisogno di nessuna riconciliazione se
non ci fosse stato l’apartheid. L’apartheid ha creato delle fratture anche
all’interno della comunità nera perché
c’erano i neri che si avvantaggiavano
delle leggi, quelli che le facevano rispettare, quelli che erano scelti dai
bianchi per governare gli stessi neri. E
la riconciliazione è necessaria anche
all’interno della società bianca, perché
c’erano i bianchi che sostenevano la
lotta dei neri. L’apartheid era il sistema del «dividi e impera». E l’eredità
dell’apartheid si farà sentire per molti anni nel futuro.
Popi, la bambina che odia i suoi occhi azzurri, è l’opposto della bambina del romanzo L’occhio più azzurro
di Toni Morrison che, invece, prega
ogni sera per svegliarsi con gli occhi blu: è perché una vive in una società nera e l’altra vive tra i bianchi? D’altra parte Niki, la mamma
di Popi, si sbianca la pelle…
È vero, è una contraddizione. È così,
anche se adesso le donne nere non si
sbiancano più la pelle, solo nei villaggi l’uso persiste. Anche perché già il
vecchio governo aveva proibito l’uso
delle creme sbiancanti, perché nocive.
E Popi vorrebbe gli occhi neri per essere come tutti i bambini intorno a
lei: forse solo crescendo sarà felice di
quel colore diverso che la rende
straordinaria.
19
Occidente
S t los
autori
stranieri
VANNI RONSISVALLE
SUDATE CARTE
2006. Amori, passioni, amplessi
focosi. «Due sudori che si mescolano» secondo Whody Allen,
ma qualcosa del genere circola
anche nell’Ars amandi di Ovidio. Sudori ai riti letterari dell’estate. Sudori, passioni (malcelate,
scomposte) telefonate quasi in
punto di morte di autori in lizza,
timori e tremori che esorbitano
dalla letteratura e dilagano come
i Cavalieri Mongoli nel deserto
del Gobi in territori psicoanalitici, eccitazioni e depressioni.
Scrittori sono celebrati, scrittori
celebrano, non vi è tempo per
passare da una parte o dall’altra
del lungo tavolo ora in un ruolo
ora in un altro. Come il balletto di
Joos ispirato alla Società delle
Nazioni nel ’36, statisti in finanziera e braghe a righe del tight
che danzano di qua e di là dal tavolo delle trattative. Sudori d’estate. Nessuno si stima, comunque non tanto quanto spergiuri. I
luoghi sono belli, ma per quanto
tali non compensano gli sfaceli
interiori dei partecipanti. Dame
tribolate da perversioni sadomaso siedono da decenni imperterrite in prima fila annuendo onnicomprensive qualunque sciocchezza si elabori da parte degli
oratori, a loro persino ammiccando. Non ricambiate. Bah! I
luoghi sono belli in città monumentali: il grande architetto che
disegnò Villa Giulia che ne poteva sapere dello Strega? Sandali
dai tacchi acuminati e mocassini
di politici che non si sa perché
passino da qua, scavano solchi
nei vialetti ghiaiosi, sollevano
polvere che si deposita sulle basse siepi di bosso, nelle narici più
delicate di intellettuali che muovono il capino a scatti, guardinghi come i passeri sui fili del telefono, narici di intellettuali: da
cui il fulminante emunthae naris,
colpo di genio di un grande critico (Gianfranco Contini) che ad
ogni modo non ne era esente egli
stesso. Scenderà mai dal cielo
una pioggia purificante? Quest’anno è accaduto. Luoghi di
mare, cinquine (come alla tombola di Natale benché si sia a luglio, ad agosto, a settembre), finalisti come ai Mondiali del calcio e finaliste ma con sudori meno innocenti nei décolletés abissali e bitumati dal sole… Luoghi
di montagna, come non farvi una
capatina anche se i migliori degli
habituées sono stramorti e raccogliere funghi nei boschi intorno a
Cortina costa multe salatissime?
Ma una volta si era sparsa la voce che vi crescessero allori sub
specie aeternitatis…
1910. Tra carte di famiglia (l’altra, quella etnea) un biglietto da
visita di ringraziamento dopo una
visita a Zafferana, antico casino
di campagna di nullafacenti rentiers a cui Oblomov avrebbe fatto un baffo. Convenevoli autografi alla padrona di casa e data
(Catania, 3 luglio 1910) nel margine superiore del cartoncino; e
sotto stampato: «Mario Rapisardi non iscrive nei giornali; non
accetta nomine accademiche, né
candidature politiche; non vuol
essere aggregato a nessun sodalizio; non ha tempo di leggere tutti i libri che gli mandano. E di ciò
chiede venia ai discreti».
Oh sì, il caratteraccio si addice
agli scrittori, anche se mediamente importanti. Rapisardi, al di
là delle pochezze o grandezze
letterarie, ne aveva dignitose ragioni: l’insulto del vate Carducci
(…tenorino di provincia…) ma
di più, di più per gli infortuni coniugali imputabili a Giovanni
Verga, lui già drappeggiato nel
successo nazionale… Così si vociferava in quella rovente Catania, il demone meridiano che si
intrufola sotto sudaticce lenzuola: allettante sì, ma mai come abbandonarsi alle calunnie, agli
odii, ai rancori: oh, letterati!
pagina
20
S t los
autori
stranieri
R e c e n s i o n i ENRIQUE SERNA . Dai documenti di un processo
ENRIQUE SERNA
storico nel Messico del Seicento una storia che
"Angeli dell’abisso"
combina realtà e finzione per raccontare
Trad. Raul Schenardi
pp. 521, euro 18
l’Inquisizione come sarebbe piaciuto a Borges
Edizioni e/o, 2004
Nella foto sopra Enrique Serna, autore per e/o di Angeli dell’abisso. Sotto Hans-Georg Behr, che da Einaudi ha pubblicato Quasi un’infanzia
odia con tutto se stesso il teatro, considerandolo un luogo di perversione
diabolica, e teme come la peste l’attrazione che invece la figlia prova verso
quel mondo. Si inserisce a questo punto una scena che è forse una sorta di
chiave della storia: quando, verso l’inizio del romanzo, il padre sorprende
la piccola Crisanta addormentata, ed
accanto a lei scopre un libro sulla vita
di Santa Teresa. La bambina lo stava
leggendo come un copione di teatro
per trovare ispirazione in vista di una
recita scolastica, ma il padre crede
che la figlia sia sulla via di una esaltazione religiosa da lui tanto desiderata.
Nasce a questo punto un equivoco di
portata strutturale ai fini della narrazione: Onèsimo pensa che la bambina
abbia finalmente abbandonato il suo
amore peccaminoso per il teatro,
quando invece sta succedendo esattamente l’opposto. Poco dopo infatti
Onèsimo sorprende la figlia mentre
prova in segreto la parte e si convince
che sia veramente in preda a crisi mistiche. Crisanta capisce l’equivoco,
ma decide di approfittarne: «Aveva
scoperto che il teatro poteva burlarsi
dei suoi nemici».
Siamo nel pieno di una situazione barocca e da questo punto in poi la storia
gira a spirale con un movimento «a
doppia elica», come quello delle colonne berniniane. Ci si inoltra sempre
più nel «giardino dei sentieri che si
biforcano» e il ritmo monta in un avvicendarsi di personaggi e situazioni
innestati in un quadro storico efficacemente ricostruito: gli intrighi di pote-
re, la corruzione della Chiesa, le città
attraversate dalla miseria, le vessazioni a cui sono sottoposti gli indios, tutto questo è raccontato con passione e
volontà di denuncia, ma anche con il
rigore che compete ad un romanzo
storico. Del romanzo storico infatti
Angeli dell’abisso ha il respiro corale,
la dimensione dell’affresco, ma questo
è solo uno dei mille volti di una scrittura cangiante che ingloba elementi
del romanzo picaresco, mima gli schemi della commedia degli equivoci,
echeggia i toni del melodramma, si
inoltra nel racconto psicologico e nel
finale a sorpresa ricalca persino il modello della fiaba con tanto di deus ex
machina risolutivo.
La sua cifra più profonda però è forse
nella dimensione erotica. Un’accesa
sensualità pervade la narrazione intera. Dalle erezioni incontrollabili dell’adolescente Tlacotzin agli amplessi
selvaggi che i due protagonisti vivono
con gioiosa innocenza, alle depravazioni solitarie che il maligno fra Juan
Càrcamo pratica con terribili sensi di
colpa, all’esaltata passionalità della
giovane Leonor, alle fiammate di eccitazione del vecchio poeta Sandoval
Zapata: è una corrente di erotismo che
filtra a fatica, arde come brace tenuta
al coperto, intrecciandosi ai pregiudizi e alla repressione religiosa, ma che
nello stesso tempo attraversa le pagine come una ventata di sano vitalismo.
A scene dure, impressionanti per il
crudo realismo, si alternano momenti
di fresco lirismo, di calcolata suspence, di ironico divertissement, affiorano
inserzioni colte che rivelano quando
meno te l’aspetti le vastissime conoscenze dell’autore. I personaggi prendono forma con naturalezza e senza
schematizzazioni, partecipano del bene e del male, attraversano i confini
fra le fedi e le morali, scavalcano conversioni e ricadute, vivono e «recitano» in un immenso palcoscenico barocco.
Serna, che è uno tra i maggiori scrittori del Messico contemporaneo, mette
in moto una macchina narrativa complessa e geometricamente perfetta. Sapienti colpi di scena, alternanza di comico e drammatico, un ritmo perfettamente calibrato sul respiro, rendono
questo romanzo travolgente e leggibile d’un fiato, nonostante la mole.
e solite cose: com’è ovvio tutti i luoghi, le persone e gli av- HANS-GEORG BEHR. Una testimonianza dal nazismo
venimenti sono liberamente
inventati. Casuali somiglianze sono
volute». Questa è la nota dell’autore
che appare alla fine di Quasi un’infanzia di Hans-Georg Behr. Una nota che
dovrebbe sgombrare il campo da equiloro cugini del nord.
VIVE A MILANO. "CATTIVO
voci sulla quantità di autobiografia
Spostandosi con la madre per conSANGUE" (BALDINI, 2005),
contenuta nel testo, se non fosse che, a
certi il ragazzo conosce Furtwaen"LE COSE COME STANNO"
leggerla e a rileggerla, a me è parsa
gler, compromesso col nazismo e
(BALDINI, 2003)
sottilmente ironica soprattutto nel finaquindi fuori gioco, e l’ebreo Bruno
le, quando si indicano «causali somiWalter, che invece può riprendere in
FRANZ KRAUSPENHAAR
glianze volute». La lettura di questo
piena forma la sua sfolgorante carrieromanzo sulla guerra e il dopoguerra
ra; questi nomi già allora molto famoosservati attraverso gli occhi prensili di traerea ad Amburgo. E il suo capo per
si e passati alla storia della musica di
un bambino, egregiamente tradotto da il bambino si chiama zio Hermann
ogni tempo al ragazzo non dicono
Silvia Bortoli, mi ha condotto alla con- (Goering), e oltre a lui ci sono stati in
niente, egli è come un fantasma balclusione che Behr abbia voluto gioca- visita altri «zii berlinesi» piuttosto
bettante ma intelligentissimo che vere con il lettore ma senza prenderlo in simpatici, come zio Josef (Goebbels),
de e annota tutto nella sua mente con
giro in nessun modo, mescolando e zio Albert (Speer).
innocenza mista a una certa spavaldecom’è giusto verità e una certa dose di Il bambino odia il mondo da subito
ria; e quella che per molti sarebbe ecfinzione romanzesca ma basandosi perché è troppo diverso da quello dei
cezionalità per lui è solo normalità,
proprio su di una solida verità che sol- libri che comincia a sfogliare con famentre soltanto qualche sgranare
tanto una sottile ironia, che fa da scor- melica curiosità; e fuori dall’avita di- suicidi, si regolano i conti, ci si ridi- d’occhi, ogni tanto, lo fa un poco sobrevole impalcatura a tutto il romanzo, mora dei nonni nei dintorni di Vienna mensiona nella paura mischiata al sol- balzare dal suo involucro mentale, da
poteva a mio avviso rendere capace di c’è gente che marcia restando tutto il lievo per una guerra, ancor più che quella spugna di sensazioni e sentidiluirne la portata alquanto scomoda. giorno in «pigiama». Il KZ per la non- perduta, deflagrata. Eppure il bambi- menti che trattiene tutto; ma niente di
Il bambino - così viene chiamato il na del bambino è un posto «dove pri- no, nonostante i divieti, non si sottrae speciale lo colpisce davvero, niente
protagonista, senza cognome e nem- ma ti picchiano in modo terribile e poi a certe esperienze: il suo primo in- che gli procuri una particolare gioia o,
meno un nome- non può avere alcuna voli attraverso il camino». Nella sua contro col sesso avviene con un pri- all’inverso, un particolare fastidio.
colpa se la sua famiglia è stata com- innocenza, il bambino pensa che vola- gioniero russo, tempo dopo assiste al- Gli americani, la prima Coca Cola
promessa col regime di Hitler; ha cin- re attraverso il camino, come potreb- l’incontro carnale tra un maniaco ses- che non gli piace, la gomma da mastique anni nel pieno
be fare una strega, suale e la dodicenne Elke, che prima care che invece gli piace, la madre che
della
Seconda
dev’essere poi di darsi allo sconosciuto adulto stava deve arrangiarsi e trasformarsi in loR e c e n s i o n i non
guerra mondiale,
così male. Il nobile per mostrare al quasi ragazzo le sue candiera per «cafoni pieni di boria».
fa parte di una fanonno, padre della intimità; la ragazzina verrà in seguito Il ragazzo viene mandato a studiare in
HANS-GEORG BEHR
miglia aristocratimadre del bambi- uccisa dal maniaco seriale.
un collegio di preti e lì conosce vessa"Quasi un’infanzia"
ca (Behr è effettino, è un vecchio li- La madre dell’ormai ragazzo, nono- zioni a non finire, soprattutto a caratTrad. Silvia Bortoli
vamente figlio di
berale che ha sem- stante le perdite (il marito viene giusti- tere omoerotico. Nonostante quel
pp. 324, euro 18,50
una cantante d’opre disprezzato i ziato a Norimberga), tenta di tornare al puzzo infernale d’incenso e di ipocriEinaudi, 2006
pera discendente
nazisti. La nonna suo vecchio mestiere di cantante d’o- sia, il ragazzo resiste, va avanti, regida una nota famiglia dell’aristocrazia spesso fa le veci della figlia nel pic- pera, fa sfoggio di serate liederisti- stra come sempre tutto anche in queaustroungarica, la Esterhazy-Galaton, chiare il bambino se non ottempera ai che, alterna nevrotiche risa e dispera- st’opera di «rieducazione», sorta di
e il padre era un importante industria- suoi doveri, o se, specialmente, balbet- ti pianti; e intanto si procede alla dena- paradossale lavatura dalle macchie di
le tedesco) vive nella villa dei nonni ta, cosa assolutamente imperdonabile. zificazione a tappeto dell’Austria, nel- un passato per il quale non ha alcuna
mentre il padre è altrove, in Germania, Passano pochi anni e finalmente si ar- la quale è divenuta un’onta essere te- responsabilità. Per i preti del collegio
occupato in faccende che a lui, il bam- riva alla disfatta del Terzo Reich: si deschi, per cui gli austriaci ci tengono è un ragazzino viziato, testardo, e conbino, non possono che risultare del cerca di salvare il salvabile, il fratello a separarsi - in tutto e per tutto, anche tinua a balbettare, e quello rimane il
tutto incomprensibili. Fare il bambino più grande del bambino, che ormai è per mezzo del ricorso al dialetto - dai suo vizio, la sua mancanza tuttora ima quei tempi e in quel tipo di famiglia quasi divenuto un ragazzo, crede anera compito arduo, o meglio terribile cora nella «vittoria finale» e muore
condizione, e non c’era niente da fare: schiacciato da un carroarmato russo
gli adulti stessi erano stati picchiati al- vicino a casa. La sorella ingoia una paSenso vietato
lo stesso modo dai loro genitori e co- stiglia di cianuro per sottrarsi alla viodi Massimo Onofri
sì andava il mondo e ancor di più del lenza dei soldati nemici, il padre litiga
mondo, in un certo senso, così si tra- con «zio Hermann», torna in Austria,
PREMIO STREGA 2006
smetteva una tradizione inesorabile. poi riparte. Dalla grande casa passa di
La madre del bambino - dal cuore tutto: soldati della Wehrmacht in ritiTra i giovani
c’è la nostra
spesso tarato a temperatura ambiente- rata e in pausa di rifocillamento, e poi
più baldi
Rimoaldi
è «l’addetta alle botte» perché il padre i russi dell’Armata Rossa e i socialisti
è sempre via, comandante della con- della nuova Austria. Si consumano
perdonabile.
Il tempo passa, il ragazzo ha ormai
quattordici anni, sta per finire il collegio, le sue sensazioni maturano; e
nell’«epilogo» ci sarà una sorta di
riassunto che ci porterà a capire che
per il bambino divenuto da tempo
adulto, sebbene sia finita da un pezzo
una lunghissima epoca tragica, al fondo delle cose umane nulla è destinato
veramente a cambiare.
Ecco dunque cosa ha fatto Behr in
questo romanzo di lenta e inesorabile
masticazione: attraverso gli occhi vigili ancorché spesso sognanti del bambino-ragazzo, ha mostrato con l’abilità
di un affrescatore puntiforme le tragedie di un mondo condannato alla disfatta in un tono del raccontare spesso
ironico e puntigliosamente svagato; e
in questo modo le stesse tragedie, agli
occhi del lettore, come magicamente
si ridimensionano. Questo resoconto
particolareggiato fino all’ossessione
scritto da un adulto quasi anziano
(Behr è del 37) sta tutto in una campana protettiva nella quale - tramite il
raccontare dell’adulto che filtra con
grande abilità lo sguardo d’innocenza
del bambino - si attutisce spesso in
una configurazione ironica e persino
grottesca della realtà patita in un mondo affollato di follia.
Per Behr si è trattato, con ogni probabilità, del raccontare la sua storia - e
quella della sua famiglia - nel delicatissimo svolgimento di un’infanzia
che è, non a caso, quasi un’infanzia. È
proprio quel quasi, posto forse per serio gioco davanti alla parola che indica la fase della vita che ci condiziona
traendoci tutti verso il nostro destino,
che segna il senso di un romanzo fluviale, che macina senza tregua piccoli sbalordimenti, colpi d’occhio, fraintendimenti continui, sensazioni in formazione, sentimenti sfumati, in un
meccanismo narrativo che ingrana nomi, dettagli anche minimi, persone di
ogni condizione sociale, un refolo di
vento e una giornata di sole e una di
pioggia battente, tutto quello che il
bambino infine divenuto ragazzo ha
per la più parte, in un pervasivo dolore, stoicamente visto e vissuto e registrato, e che sostanzialmente è stato il
tramonto di un breve periodo di follia
collettiva posto all’interno di un tramonto ancora più grande e ora divenuto veramente definitivo, quello dell’impero austroungarico nei suoi decennali singulti d’agonia.
’è un quadro della pittrice
messicana Frida Kalho intitolato "Le due Fride" che è un doppio autoritratto, sgargiante e dolente, nel quale l’autrice si scinde in due
figure femminili speculari e diversissime. L’artista vuole certamente raffigurare la collisione delle sue due anime, ma forse più in esteso allude alla
tormentata convivenza delle diverse
identità, i doloranti cocci rotti, di cui si
compone l’universo messicano, così
divaricato e irto di contraddizioni che
affondano le loro radici nella storia più
remota, i tempi della colonizzazione,
quando l’invasione spagnola si è abbattuta con violenza sulle millenarie
civiltà precolombiane originando ferite non ancora sanate. Proprio per questa sua forte valenza evocativa il quadro di Frida Kalho avrebbe potuto benissimo figurare nella copertina di Angeli dell’abisso, romanzo fiume del
messicano Enrique Serna ora pubblicato in Italia dalle Edizioni e/o nella
cristallina traduzione di Raul Schenardi (che ne è anche il curatore).
Ambientata nel Seicento più sulfureo, ai tempi di un Messico ancora
fresco di colonizzazione, l’opera di
Serna racconta infatti questa natura
doppia dei territori colonizzati. Romanzo sontuoso e labirintico (se è vero, come sostiene Borges, che il labirinto è un «giardino dei sentieri che si
biforcano», dunque figliolanza del
doppio), narra dell’aspirante attrice
Crisanta Cruz, che si rassegna a recitare la parte di una «finta beata» in
preda a estasi mistiche per sopravvivere in un mondo che la respinge con
violenza, ricavando vantaggi d’ogni
genere dalla sua messa in scena (alla
quale tutti, dal popolo alle famiglie
spagnole più potenti, prestano fede
come se fosse una vera manifestazione del divino). Realtà e finzione, vita
e teatro si intrecciano nel racconto sino a quando Crisanta cade nella rete
della Santa Inquisizione ed è condannata a morte.
La storia si ispira a un processo reale
istituito nel secolo XVII dall’Inquisizione della Nuova Spagna contro Teresa Romero, meglio conosciuta come
«la falsa Teresa di Gesù». Tuttavia
nel romanzo di Serna non resta quasi
nulla del processo reale, il racconto
C
La donna che si finse
beata per sopravvivere
VIVE A BELLUNO. "PICCOLO INVENTARIO DEGLI SPECCHI" (STAMPA ALTERNATIVA, 2003) E "UN
BELLUNESE DI PATAGONIA"
(STAMPA ALTERNATIVA, 2005)
ALFONSO LENTINI
prende un corso immaginario (e persino il nome della protagonista da Teresa diventa un più sensuale Crisanta).
La struttura a specchio è evidente soprattutto nella prima parte, sin nella disposizione dei capitoli che oscillano
nella presentazione di due vicende parallele attraverso una sorta di montaggio alternato grazie al quale la storia della bimba Crisanta, stuprata in un
clima di impressionante sfacelo morale dal padre alcolizzato, si affianca a
quella del ragazzo Tlacotzin, un indio
combattuto fra la fedeltà alla religione
ormai clandestina dei padri e le suggestioni della nuova fede imposta dai
dominatori. Il doppio percorso a sua
volta presenta due esperienze di sdoppiatura: Tlacotzin è incerto fra le due
fedi ed è scisso in due sofferte identità
sino ad assumere un doppio nome
(Tlacotzin per i nativi, Diego per gli
spagnoli), Crisanta è contesa tra le fascinazioni del teatro (che le derivano
da una madre attrice da lei mai conosciuta) e il mondo degradato e corrotto verso il quale vorrebbe instradarla il
padre Onèsimo, che a sua volta oscilla fra gli eccessi alcolici e le crisi religiose più o meno sincere che lo sospingono sull’orlo del fanatismo. Nella sua confusa esaltazione Onèsimo
L’ A U T O R E
Romanzi, racconti
ma anche elzeviri
Nato a Città del Messico nel
1959, è uno tra i maggiori
scrittori e saggisti messicani.
Ha pubblicato cinque romanzi,
due raccolte di racconti e un
volume di saggi, e collabora
con importanti testate giornalistiche. È stato tradotto in
Francia e negli Stati Uniti e ha
ricevuto importanti premi.
«
L
I mostri di un bambino
S C A F F A L E
DANIEL ARASSE, L’ambizione
di Vermeer, trad. Valeria Zini, pp.
153, euro 22, Einaudi 2006
Libro di successo in Francia, L’ambizione di Vermeer è stato eltto anche come uno strumento di approccio all’arte quando si costituisce come «religione della pittura» dallo
studioso francese. È il caso di Vermeer del quale Arasse dimostra
l’intento di fondo nel creare un effetto voluto in ciò che sembra il risultato ineffabile di una poetica: visibile e invisibile, precisione e indistinzione sono espressamente ricercati dall’artista.
JAMES ROLLINS, Amazzonia,
trad. Andrea Molinari, pp. 482,
euro 8,60, Tea 2006
Quando padre Garcia, sacerdote
nella missione di Wauwai in Amazzonia, incontra un uomo emaciato e
ricoperto di piaghe che si accascia
ai suoi piedi e muore non sa che faceva parte di una spedizione scientifica poi svanita nel nulla. Per la
Cia l’uomo è invece Gerald Clark,
un ex agente delle Forze Speciali, la
cui carriera era stata stroncata dalla
perdita di un braccio durante una
missione in Iraq. Ora, però, Clark
ha entrambe le braccia e per scoprire il mistero il governo incarica
Nathan Rand di organizzare una
nuova spedizione nella giungla.
JAMES PATTERSON, Maximum Ride, l’esperimento Angel,
trad. Emanuela Cervini, pp. 496,
euro 18,60, Nord 2006
Una nuova storia dal padre del detective Alex Cross: Max ha quattordici anni e vive con cinque ragazzi
con i quali non ha legami di sangue,
tutti svegli, simpatici, tosti, ma soprattutto tutt’altro che «comuni».
Max, Fang, Iggy, Nudge, Gasman e
Angel, infatti, sono stati creati da alcuni scienziati e sono cresciuti in un
laboratorio-prigione. Ma un giorno
riescono a scappare.
MATTHEW RELLY, Area 7,
trad. Gorge Maag, pp. 459, euro
18, Nord 2006
Il giovane australiano Relly ha un
sito frequentatissimo giacché le sue
storie appassionano molti. Come
quella che vede in azione Charles
Russell, nome in codice «Caesar»,
un ex generale dell’Aeronautica accusato di tradimento che ha fatto installare nel cuore del presidente Usa
un microchip per trasmettere segnali ai fini di un attentato.
JAENNE KALOGRIDIS, Alla
corte dei Borgia, trad. Marina Visentin, pp.290, euro18,60, Longanesi 2006
Alla fine del XV secolo la famiglia
Borgia è al centro di insidie, gelosie, divisioni tra signorie e territori
della chiesa. Vige la lussuria ed il
disordine. Savanarola invoca la fine
del mondo. Protagonista assoluta è
Lucrezia Boria che sposerà Alfonso, fratello di Sancia, dolce fanciulla che presto però dovrà imparare a
difendersi per sottrarsi dagli inganni con l’unica arma che possiede:
uno stiletto e la «cantarella», famoso veleno dei Borgia.
PENELOPE LIVEL, Un’ondata
di caldo, trad. Corrado Piazzetta,
pp.223, euro 14,50, Guanda 2006
Pauline è una redattrice freelance,
trova concentrazione nella campagna dalla figlia Teresa, il genero
Morice ed il nipotino. Anche Morice scrive incontrando spesso il suo
editore. A Pauline non sfuggono lo
sguardo ed i sorrisi dell’editore diretti a Teresa e rivive l’angoscia di
una sua esperienza passata. Nessuno parla, le labbra sigillate. Pauline
dovrà risparmiare alla figlia il dolore e trovare la soluzione in quel silenzio assurdo.
ARTURO SCHWARZ, Il mondo
accanto, pp. 41, euro 10,50, Book
2006
Nella grammatica del suo corpo è
segnata la poesia, cui si dedica da
sessant’anni. Schwarz, nato ad
Alessandria d’Egitto, ma da sempre
italiano di Milano, parla il linguaggio di un amore durevole come
quello poetico, rinnovato e riscritto
quotidianamente dal suo corpo e
dalla sua mente. Nel testo due acqueforti di Sandro Chia.
S t los
schede
libri
LAVANYA SANKARAN, Il tappeto rosso, trad. Gioia Guerzoni, pp.
220, euro 14, Marcos y Marcos
2006
Lavanya Sankaran, indiana di Bangalore con una formazione accademica
targata Usa e una carriera nel mondo
dell’alta finanza, ha sempre coltivato
la passione per la scrittura letteraria,
quasi per compensare l’immediatezza
e la rigidità cui è stata a lungo «costretta» come firma del "Wall Street
Journal". Il tappeto rosso è il suo libro
d’esordio: in otto racconti ambientati
nell’India moderna si dipanano come
fili colorati gli umori, le sensazioni, le
idee di una India moderna, tecnologica, competitiva, dove l’antica danza
del kathakali brilla di stelle accanto a
quelle più giovani di Bollywood, e
dove all’immagine di una India rurale povera si contrappone quella supertecnologica facendo di città come
Bangalore le Silicon Valley del subcontinente indiano. Bangalore, la
«musa errante» come la definisce la
stessa Sankaran, fa da sfondo a un
paese in continua trasformazione, mutevole, nomadico nella sua erranza
protesa verso la definizione di una
nuova identità tra sacro e profano, tra
vecchio e nuovo, tra mito e realtà. Lo
sguardo migrante di Sankaran legge
attraverso prospettive nuove l’esperienza di un mondo femminile che sta
contribuendo a svelarsi in un’India
dalle infinite potenzialità.
Attraverso i suoi personaggi femminili, tratteggiati con una prosa morbida
e immediata, Sankaran afferma che la
vera «terra promessa» dove tutto è
possibile è l’India, che pur continuando a cullarsi nelle calde braccia della
tradizione e per contro nelle innumerevoli disparità sociali, vede sorgere
mode e tendenze. (Valentina Acava
Mmaka)
21
ALMANACCO
LOREDANA MAGAZZENI E ANDREA SIROTTI
l volume raccoglie una selezione
ricca e dettagliata della sensualità e
dell’amore nella poesia delle maggiori poetesse contemporanee di lingua inglese. Il testo prosegue l’indagine di Sirotti sulla presenza del maschile nella poesia femminile inglese (si ricordi il bellissimo volume di traduzioni Men/Uomini. Ritratti maschili nella poesia femminile contemporanea, a
cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, 2004, pp. 202, euro 15),
selezionando le voci più interessanti
del panorama internazionale. La diversa grana di questa poesia sta nella
tensione narrativa, quasi che i versi
raccontassero storie: sono trame liriche, che tessono scene in cui si affaccia l’umorismo, la tenacia, un realismo che non è mai crudo né mai completamente trasfigurato.
Le parabole per declinare l’amore le
donne le prendono da mondi tangenti
e spesso concreti, così da rendere la
passione cerebrale anche corpo, anima
che si cucina lenta nel ribollire del
tormento, estasi olfattiva, palato insaziabile: «Vorrei rivestire / ogni tuo
membro / di una seconda pelle zuccherina. / Voglio sciroppare ogni / dolcissimo pezzo di te. / Voglio amarti /
finché i denti mi faranno male» (Gayle Brandeis, Confetto). Il visionario
prende l’anima più innocente e perturbante delle favole, nella reinterpretazione giocosa del travestimento fem-
I
L’umanità secondo le genti nomadi
JACQUES ATTALI
"L’uomo nomade"
Trad. Luciana Brambilla
pp-544, euro 25
Spirali, 2006
FELICE PIEMONTESE
Escursioni per le strade dell’attualità
Nelle poesie di Felice Piemontese,
raccolte in questo volume, c’è una
scelta meditata e coraggiosa, che è
causa ed effetto dell’essere nel tempo,
osservatori e protagonisti, dolenti e
cinici, speranzosi e senza speranza.
È la scelta d’una rappresentazione ontologicamente sommessa che, pur
provenendo da una terra spagnoleggiante, tutta scoppiettii e orpelli come
Napoli (la città delle carrozze funebri
a otto scalpitanti cavalli impennacchiati), rifiuta anche le maiuscole per
appiattirsi col mondo dei nostri giorni.
Un appiattirsi che tuttavia non cela il
sentimento alto che le percorre e le
anima, quel sentimento alto leggibile
in tanti pensatori-scrittori della Napoli alta, espressione di una grande
storia tormentata, capaci di nulla concedere alla rettorica dei luoghi per
concentrare il proprio volto serio sulle questioni fondamentali. Oggi Gerardo Marotta, ieri Benedetto Croce e
Francesco De Sanctis.
Felice Piemontese, con la sua poetica
asciutta, imbevuta di implicanze e risonanze che mutuano esperienze maturate con profitto in ambito soprattutto giornalistico, ci conduce per le vie
dell’attualità commovendoci, epperò
invitandoci a vedere: «Con un piccolo
/ binocolo, che cercava / di allontanare
le metafore», «Questo disastroso naufragio / lo trovo necessario», «C’è stata la guerra, / del resto. Si va a giocare
/ tra le macerie, tra / gli scheletri dei palazzi / sventrati. Cercano archetipi, / ir-
FELICE PIEMONTESE
"Il migliore dei mondi"
pp. 80, euro 10
Manni, 2006
ridendo la tua verginità / tanto al lungo
preservata / di memorabile c’è una gita / a Pompei, in una barca / azzurra,
molti anni prima / della catastrofe».
E un effetto imprevedibile si avverte
subito al termine dell’ultima pagina di
Felice Piemontese: la sensazione d’avere attraversato l’allucinata esperienza dei giorni nostri, d’essere amareggiati e consapevoli, ma non scontenti,
non demoralizzati, quasi addolciti dal
sapore della parola piana sconsolatoria despagnolizzante, quella parola
che avevamo già letto nel suo Dottore
in niente, ora riproposta:
«Un vento selvaggio / ci impedì di
passeggiare sulla spiaggia, così inutile il mio / cappello da marinaio appena acquistato, con foto antiche / di
Sant-Malo. Sparavano petardi, per tenere lontani / gli animali. Lì di fronte,
ad alcune migliaia / di chilometri».
Se, come diceva Lenin e ripeté Piemontese, non si può fare la frittata
senza rompere le uova, il valore della
parola poetica permane anche in una
padella nella quale olio rancido e morchioso frigge la sua puzza quotidiana.
Domenico Cacopardo
EVELIO JOSÉ ROSERO
Lettera a una ragazza in bicicletta
Un uomo solitario sente il bisogno
improvviso di scrivere una lettera
per colmare la sua solitudine o forse
per sentirsi più solo rimarcando il
suo isolamento. Ma a chi scrivere?
Camminando nel parco, incontra
una incantevole ragazza in bicicletta; è per lei che scriverà.
Le parabole per declinare l’amore
minile, da sempre caro alle artiste:
«Dico solo che vado dalla nonna. / Il
cestino è un pretesto furbetto, / una
scusa per incontrarlo / nella parte più
scura, più profonda del bosco» (Renee
Carter Hall, Rosso).
Queste scritture franche suonano fresche nelle pagine come spudorate dichiarazioni di pienezza di vita, che
spesso s’incrociano con la grandezza
di concederla, di poterla mettere al
mondo: «Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei
seni / di una donna incinta / al quarto
mese? (...) Chi capisce la logica / dietro questo desiderio?» (Sujata Bhatt,
Asparago bianco). Alla routine dell’amore quotidiano, fatto di premure e
ottemperanze, di riflessioni e sparecchiamenti, contrapposta al gesto estremo del viaggio, della creatività, dell’impulsività sentimentale, è dedicata
molta dell’opera poetica di Erica Jong,
LOREDANA
MAGAZZENI
ANDREA SIROTTI (cura)
"Gatti come angeli. L’eros nella poesia femminile di lingua inglese"
pp. 232, euro 21
Medusa, 2006
da noi conosciuta per i suoi dissacranti romanzi, ma in America celebre
poetessa e studiosa del Settecento:
«Quest’è il canto della biancheria
sporca - / dacché viaggiammo di città
in città / accumulando intimo macchiato & camicie sudate / & jeans incrostati & coagulati dei nostri fluidi /
& T-shirt raggrinzite dalla nostra gloriosa confusa passione» (Erica Jong, Il
canto della biancheria sporca). Segue, nella declinazione di questo iter
sull’erotismo femminile, la descrizione della prima volta, così naturale e ar-
LORETTA MARSILLI
"Il sole è un cowboy"
pp. 105, euro 10
Franco Puzzo Editore,
2006
La dipendenza
impedisce
la libertà
li antichi chiamavano gli schiavi «pendagli da forca» e li consideravano dei bugiardi per natura; in realtà era la condizione in cui si trovavano a vivere che li costringeva spesso a una natura infida. Anche le donne, nella storia dell’umanità, sono state spesso costrette a una doppia natura per
garantirsi la sopravvivenza. Sembra dunque che la parola «verità» mal si coniughi con la parola «donna»: ad esserne convinta pare l’autrice di questo sfizioso libretto, Lorella Marsilli. Giornalista televisiva e traduttrice, già autrice di novelle per "Intimità" e "Love story", la Marsilli racconta la storia di una donna
che ha incentrato i suoi affetti sugli uomini della sua vita e ora, arrivata al suo
quarantottesimo compleanno, si volge ad osservare il suo passato per fare il punto e cercar di trovare un nuovo equilibro. Ma la possibilità di vivere in modo sereno le è inficiata da una condizione di base, il rapporto di incompiutezza che
si tramanda di donna in donna, di madre in figlia per cui la donna deve sempre
vivere «in funzione di» «in rapporto a» e così via.
Un legame profondamente condizionante con la madre ha bloccato la sua crescita interiore e in qualche modo ha segnato la sua esistenza. Nonostante una
vita abbastanza libera, una discreta fortuna e una certa dose di cinismo, Lella,
la protagonista di Il sole è un cowboy ha dei pesanti condizionamenti che producono insoddisfazione e solitudine. Sottilmente la madre le ha insegnato a non
essere se stessa, ad apparire più che a essere, a darsi sempre un contegno «perché gli altri ti vedono dall’esterno e ti giudicano». Ma poi, smessi i panni della donna brillante, quando ritorna nella sua casa, Lella è sola con se stessa. E la
casa diventa complice delle sue
profonde insoddisfazioni. Ne diventa quasi lo specchio.
Nel percorrere la propria esistenza
la protagonista crede di aver trovato più volte il bandolo della matassa, di esser riuscita a capire perché
- pur dopo una vita nell’insieme
abbastanza fortunata - si ritrovi per
così dire svuotata, nonostante la
condizione per lei nuova e felice di
futura nonna. Poi comprende che la
sua infelicità ha radici lontane. «Per
quanto mi sforzassi non riuscivo a
staccarmi dalla malefica catena
simbiotica che mi teneva legata alla mia famiglia, a mia madre soprattutto». Il legame con la famiglia
d’origine viene visto come un limite che ha impedito alla protagonista
di esistere in modo soddisfacente.
«Nemmeno il matrimonio era riuscito mai a staccarmi. Non diventai mai una moglie. Rimasi per tutti, - me compresa, - la figlia che si era sposata». Marco, il marito, non si sarebbe mai permesso di staccarla davvero dalla sua famiglia. Mentre lei - dice la protagonista
- avrebbe avuto bisogno «di una mano barbara e senza scrupoli che mi strappasse a quella roulette estenuante di interdipendenze per tenermi poi prigioniera nel buio, finché il tempo non fosse trascorso mettendomi davanti l’evidenza che, anche con me lontana, erano sopravvissuti tutti». La dipendenza quindi impedisce la libertà. Di madre in figlia, sostiene l’autrice, ci si palleggia una
condizione che impedisce autonomia e crescita. Come venirne a capo? Curiosamente nel capitolo finale un’umanità primitiva che vive nella condizione di
felici e «buoni selvaggi» viene vista come l’unica possibile condizione di felicità. Se all’interno del percorso storico la pista seguita dalle donne è stata perdente, e anche le vittorie degli ultimi decenni non sono che delle mistificazioni, secondo la Marsilli bisognerebbe liberare la parte istintuale di noi, quella che
affiora nei sogni, con la sua carica di aggressività e di libertà per ridisegnare confini che la società civile ha bloccato entro margini troppo stretti.
Marina Torossi Tevini
G
JACQUES ATTALI
L’umanità divisa tra nomadi e stanziali. I primi sono gli inventori delle
forme tecnologiche e della democrazia; i secondi delle fortezze, dello Stato, delle tasse. La storia dell’uomo ricostruita dal punto di vista
e dagli interventi delle popolazioni
che non hanno fatto casa.
pagina
EVELIO JOSÉ ROSERO
"L’uomo che voleva
scrivere una lettera"
Trad. Antonella Aversa
pp. 77, euro 6,50
Salani, 2006
FARIAN SABAHI
tificiosa insieme, nell’estasi dell’indicibile, che in questa poesia di Sujata
Bhatt diviene quasi una pioggia nel pineto: «Ha il sole negli occhi, lei / e si
avvicinano alla pineta. (...) Dove finisce la terra / e comincia lei?» (Il Kama
Sutra ridetto).
Nel rapporto a due, l’eros è solo la prima parte di un’unione intima e quasi
cosmica, del femminile terragno con
l’afflato verso il cielo dell’uomo, come si evince dalla splendida orazione
all’erezione di Jane Hirshfield: «Se
fossimo angeli, / e noi lo siamo, e voglio di te tutte le parti capaci di sollevarsi» (Di gravità e angeli). Altri temi
indagati, il rapporto con le madri degli
uomini, la frequente incomprensione
che ne consegue, lo sfaldarsi del corpo nella vecchiaia, che non elimina il
desiderio ma lo trasforma: «Quando
ero giovane / amavo uomini spinosi
con ghigni ascetici / tutti gomiti e parole e cartilagini (...) Ora cerco uomini le cui pance serene / mostrano piacere per la carne e per la tavola (...) che
non pensano che a pelare patate / gli
diventi piccoli; uomini con dita larghe
/ e palle violette come fichi» (Marge
Piercy, Gatti come angeli). Leitmotiv
è scoprire che in queste cartografie
l’eros non è mai tormento, inquietudine, sublimazione, ma leggerezza, humour, il sapore accogliente di un piatto cucinato bene.
Chiara Cretella
ROBERTO GIARDINA. Pizza
con crauti, pp. 355, euro 15, Mondadori, 2006
È davvero un giallo atipico quello in
cui, a parte un omicidio/suicidio subito risolto all’inizio, i «veri» morti,
quelli cioè su cui indagare, fanno la loro apparizione solo a pagina 170, ovvero a metà del romanzo. Il libro in
questione è Pizza con crauti, il primo
noir di Roberto Giardina, palermitano, giornalista, che ha lasciato da tempo la Sicilia per Torino prima, per
Amburgo, Parigi poi e, infine, per
Berlino, dove è rimasto anche come
corrispondente de "Il Resto del Carlino" e "La Nazione".
Il protagonista, Federico, ha fatto fortuna in Germania, dove si è trasferito
da ragazzo in cerca del padre, emigrato prima di lui, di cui si erano perse le
tracce. Federico ora possiede un ristorante, «Le Due Sicilie», frequentato da
tedeschi famosi e da italiani nostalgici, che gli assicurerebbe una vita agiata e tranquilla, se non fosse per la
grande famiglia di cui si deve, suo
malgrado, occupare. La madre, accanita e sfortunata giocatrice d’azzardo;
una sorella con troppi amanti e un’altra timida intellettuale; la giovane nipote, attiva protagonista di una squadra di calcio multietnica… Senza dimenticare la ex moglie, una «parrina»,
ovvero una donna prete, e l’amica
commissaria Martina.
Lo sguardo di Giardina ha saputo cogliere tutte le sfumature di quel complesso rapporto italiani/tedeschi in
Germania e italiani/tedeschi in Italia,
più precisamente, in Sicilia, dove Federico è tornato dopo molti anni, per
concludere le sue ricerche. Ci sono ancora tutti gli stereotipi e i vecchi pregiudizi, da una parte e dall’altra, e
l’autore si rivela attento conoscitore di
entrambe le realtà. (Lidia Gualdoni).
DOROTHY L. SAYERS
Ricca eredità dietro un doppio delitto
Un generale novantenne muore in
un club e la sorella a poca distanza
nella sua casa. Lord Peter Wimsey
indaga per passione su un caso dietro
il quale balugina una ricca eredità.
Nuova prova di eleganza narrativa
della signora inglese del giallo, Dorothy Leigh Sayers.
DOROTHY L. SAYERS
"Lord Wimsey e il mistero del Bellona Club"
pp. 224, euro 21
Donzelli, 2006
LUCA CANALI
Guerra di anime al tempo della guerra
Nella pagina rivelatrice del bel romanzo di Luca Canali, la pagina in cui
il delirio ecolalico del nazista Hans
Brot, il colto e spietato tenente delle
SS di stanza, nel 1943, nella famigerata via Tasso di Roma, divaga su colpe oscure e infinite da scontare per
giustificare la mostruosa anànke della guerra, è racchiusa tutta la fatalità
dell’inestricabile intreccio del bene e
del male della storia, il congegno diabolico dell’«innocenza dei colpevoli».
«Quid faciam?» urla, mentre guida
febbrilmente verso Fregene, il giovane aguzzino tedesco, dotato di un
grande potere in quell’anno terribile
della storia italiana, ma anche misero
relitto di quel mega kakòn, di quello
sporco affare che è la guerra.
Anànche, fatum, monstrum, la guerra,
la storia: è lì che si giocano i destini
dei popoli, ed è nei loro marci interstizi, nell’abbandono ai fantasmi infernali dei pensieri scomposti barattati
per ideologie coerenti e convinte, che
le ragioni degli altri diventano il male abietto e ineluttabile.
Una guerra meno che mai giusta e
necessaria nell’L’innocenza dei colpevoli, romanzo né politico né storico e
neppure «tendenzioso», come avverte Canali nella postfazione, ma certamente - intende ricordare l’intellettuale e il fine traduttore - di evidente
spirito «resistenziale» in un periodo in
cui è in corso un revisionismo filofascista che ha punte letterarie di indubbio valore e ricerche storiche «og-
LUCA CANALI
"L’innocenza
dei colpevoli"
pp. 171, euro 14
Manni, 2006
gettivamente» antipartigiane. Linea
costante di questo libro è piuttosto,
continua Canali, quella dell’individuazione delle motivazioni (non però delle giustificazioni) sottese alle azioni
del «nemico», cioè alla «ragione degli
altri».
Ma sulle ragioni del protagonista, il
conte Luigi Corsieri, di cui seguiamo
la vita nella narrazione rigorosamente realistica di Canali (tutt’altro che
immaginaria, eccettuati alcuni dettagli, alcuni personaggi e la conclusione), non ci sono che delle date (unici
«titoli» dei cinque diseguali capitoli
che costituiscono il romanzo) illuminanti per la storia che è principalmente una guerra di anime.
«Domine non sum dignus», sembrano
gridare i filofascisti Luigi Corsieri,
Guido Nutria, Olga, e ancora il tenente Brot, la spia Silvana e Furiani, il
severo fabbro comunista, in quel limbo maledetto del 1943, annus horribilis per tanti, troppi italiani. Il povero
Luigi si riduce svuotato e scorato a vagare per una Roma straniata, non c’è
chi possa dire parola per sanare anime
guaste forse sin dall’infanzia.
Patrizia Danzè
MICHEL ONFRAY
La polveriera iraniana e le ultime micce L’amore (libero) è una cosa meravigliosa
Uscito tre anni fa, questo libro ritorna in una edizione aggiornata fino
alla scorsa primavera dando così
conto degli ultimi avvenimenti sullo
scacchiere orientale. Sabahi è considerato un’autorità e insegna a Scienze politiche di Torino. Alle questioni islamiche ha dedicato più libri.
FARIAN SABAHI
"Storia dell’Iran"
pp. 298, euro 15,50
Bruno Mondadori, 2006
Dopo avere scandalizzato con Trattato di ateologia, l’intellettuale francese destruttura l’amore come portato del matrimonio e della fedeltà.
Ispirandosi a idee settecentesche,
Onfray scristianizza l’etica e propone una teoria dell’amore basata sul
desiderio e la libertà contrattuale.
MICHEL ONFRAY
"Teoria del corpo amoroso"
pp. 209, euro 14
Fazi, 2006
pagina
22
Ultime vicende
politiche
messe in scena
MARCO BOCCIARELLI
"Orfani del muro"
pp. 128, euro 12
Tracce diverse, 2006
arco Bocciarelli è un regista teatrale indipendente che ha più volte esercitato la scrittura scenica tratta o ispirata da opere letterarie. Interessato al teatro di narrazione e al teatro civile, opera da anni un recupero della memoria storica su temi scottanti della nostro recente passato come il
terrorismo, l’istituzione carceraria, la stagione delle stragi.
In questo lavoro editoriale Bocciarelli mette in scena un lungo pezzo teatrale che
può essere benissimo letto sotto forma di poema. Il testo ripercorre molte delle vicende politiche degli ultimi anni: le guerre, gli scandali politici, la situazione italiana. Il risultato è un monologo corale, quello di un uomo con una valigia di sogni che cerca a tentoni nella giostra del nulla i riferimenti ormai scomparsi della sua identità. Le precauzioni d’uso di Orfani del muro sono come la
luce del sole nel mito della caverna. Siete state avvertiti, liberi lettori del cielo,
ogni schianto sulla materialità della cruda realtà sarà a vostro rischio e pericolo. L’orfano del muro è colui che non si rassegna all’indistinto magma del buonismo politico occidentale. Tutta questa bontà non è che la maschera del
marketing capitalistico che si presenta al migliore offerente nella sua veste truccata.
L’orfano del muro non si rassegna alla realtà così vicina della guerra, declinata come un’epopea distante in cui eserciti arcaici si fronteggiano per motivazioni che al telespettatore appaiono completamente estranee. L’orfano del muro conosce i gradi sulle spalline dei soldati, le divise e le stragi. E sa chi li ha pagati. L’orfano del muro non si rassegna, e come lui altri reietti, alla riduzione della lotta di classe a semplice espressione di disagio generazionale, reinserito nell’indistinta inquietudine dei giovani borghesi: «Arrivano da lontano. Dritti dritti dagli anni della rivolta. Arrivano con la pancia piena di ideologia e su di essa hanno faticosamente, con un ardore che fa loro onore, costruito il rudere ormai abbandonato della loro vita». L’orfano del muro capisce che esiste un principio fisico per cui ribellarsi è giusto, e nessuna immobilità col suo carico di
odiosa pulizia, potrà fermare questa marea di persone, di popoli che si mischiano, nella ricerca della comune felicità. L’orfano del muro è stanco: gli hanno
confuso le categorie come carte su un tavolo da gioco, e credono che lui possa
continuare a giocare, ma stavolta a loro favore. L’orfano del muro non cerca
spiegazioni, cerca l’azione. Gli specialisti del disagio, loro, il volto buono della polizia, gli dicono che lui è semplicemente pazzo. Ma stavolta, visto che è
matto, le carte le darà lui. Scoprirà che poesia è il folle volo verso una verità luminosa. Non basteranno ali di cera ma scarpe ben modellate per percorrere il
viaggio della memoria, alla ricerca di quel piccolo grumo di energia, quell’entropia, che soffierà di nuovo via le carte. Ecco, sul palcoscenico della realtà, cala il sipario vero. Il buco nel cielo, con le sue torri di carta.
Chiara Cretella
M
L’AUTORE. Regista e sceneggiatore teatrale, in arte usa lo pseudonimo
di Item Maestri. Dopo una stagione di impegno politico si è occupato assiduamente di scrittura e teatro civile secondo una pratica d’inchiesta
sulle storie: diversi testi sono stati il frutto di una stesura collettiva con
gli autori di quegli anni. Con la Cooperativa Macchine Teatrali ha realizzato Don Gennaro in Blues (insieme con Michele Santeramo) con le
Opere Spontanee concesse da Lawrence Ferlinghetti; Requiem scirocco
da un testo di Oscar de Summa; Una piazza d’Italia tratto da Piazza d’Italia di Antonio Tabucchi. In collaborazione con Barbara Balzerani e
con il Centro di Cultura Popolare del Tufello ha scritto e messo in scena
lo spettacolo Rumore, storia dei movimenti contestativi dal ’68 al G8 di
Genova raccontati da quattro generazioni di donne.
mare le scale, più di ogni altra
cosa: sostare sul pianerottolo e
nel silenzio ascoltare i rumori,
le voci, oltre la porta, della domestica
intimità; incrociare chi scende o chi
sale salutandolo con un gran sorriso;
aiutare la vecchina a raggiungere la
propria porta. Oppure amare, smodatamente, la roba d’altri: al punto da
non comprare mai le sigarette riuscendo sempre a chiederne una; e usare per dire - il rasoio elettrico solo quando si è fuori di casa, meglio ancora se
sul treno; quando si è ospiti in casa di
qualcuno, poi, usare il suo shampoo, il
suo sapone e così sempre: una forma
di rivincita, dentro una vita da perdente, nei confronti degli altri. O ancora,
l’amore ossessione per i libri di cucina, o per il tubetto dell’aspirina. L’amore - è la costante - per gli oggetti del
nostro quotidiano. Sono alcuni degli
amori, comici e amari, raccontati da
Gilles Ascaride: una godibilissima lettura. Ma non solo: anche una indagine, dietro lo schermo del riso, dell’uomo contemporaneo di fronte all’amore, tra solitudine e ossessione.
L’autore è per la prima volta tradotto
in Italia; in Francia, dove è nato una
A
S t los
schede
libri
cinquantina di anni fa, al suo attivo già
una decina di libri, gode di una discreta attenzione. Per la vivace casa editrice di Ravenna è questo il primo libro
di narrativa straniera: un battesimo
fortunato, che lascia ben sperare per il
futuro.
I racconti più belli e avvincenti, in
Amori moderni, sono quelli dalla misura più breve, spietati nella loro perentoria quanto ossessiva dichiarazione d’amore. La voce del narratore si
rivolge in modo diretto, senza mediazioni, al lettore, di cui ricerca (con
un’ostinazione che si rivela irresistibilmente comica) una forma di consenso, comprensione, conforto alla
propria solitudine. Pare dire al lettore:
«Ora ti convinco quanto il mio amore,
contrariamente alle apparenze, è grande, è - come tutti gli amori - impareggiabile e unico». Il personaggio-narratore vive i suoi amori in maniera totalizzante, fino ad annullarsi in essi; non
c’è niente o nessuno che riesca a distrarlo dalla sua ossessione, anche solo per poco. E così - pare di capire sarà per sempre.
Le storie dei suoi amori sono tante
volte della serie come volgere a pro-
ALMANACCO
Mario Bocciarelli / Marco Ercolani /
Lucetta Frisa / Gilles Ascaride /
Anacleto Verrecchia
MARCO ERCOLANI
LUCETTA FRISA
"Anime strane"
pp. 160, euro 11
Greco & Greco, 2006
Malati psichici
sottoposti
a introspezione
ono un mistero, io. Ma, se vuoi sapere cosa nascondo, te lo dico subito. Dentro di me puoi guardare finché vuoi: non c’è niente». Questo è
quello che dice al suo dottore una delle voci che affollano Anime strane.
Marco Ercolani e Lucetta Frisa hanno collezionato le «visioni del mondo» di
decine e decine di persone affette da problemi psichici e ne hanno fatto un libro, perché - come dice lo stesso Ercolani nella quarta di copertina - il pudore
nel renderle pubbliche è stato superato solo dal timore del silenzio in cui sarebbero cadute in assenza di un narratore che le divulgasse. E in effetti non si può
accusare gli autori di avere strumentalizzato la sofferenza in nome della gloria.
Marco Ercolani e Lucetta Frisa hanno invece sentito il dovere di dare corpo a
queste parole, ai desideri, agli incubi, alle urla dei diversi, degli zombi (come
si definisce uno di loro) rincretiniti dai farmaci, di fare da testimoni alla follia
senza lasciarsi andare a compiacimenti letterari. Servendosi di uno stile asciutto e controllato, i due autori hanno dato vita a un tenero ma allo stesso tempo
straziante libro sulla deviazione mentale, che non lascerà indifferente chi ha
amato le opere di Oliver Sacks (citato espressamente da Ercolani).
La lettura di Anime strane può essere paragonata a una gita, ma non nei paraggi di un lago costellato di belle ville abitate da uomini azzimati (sensazione che
ci assale a volte leggendo alcuni libri alla moda); bensì come una spedizione
verso una terra primitiva, verso una landa deserta ai confini del mondo, fino ad
arrivare nei pressi di uno sprofondo e, una volta giunti ai margini dell’abisso,
guardare in giù e ascoltare gli echi delle persone che vi sono cadute. Echi che
corrispondono a lamenti, confessioni di delitti spaventosi, odio per sé e per gli
altri, per i propri cari come per gli estranei, per l’umanità e per il suo pianeta,
voglia di distruggere e di annichilirsi, di partire per gli spazi sconosciuti e lasciarsi la realtà alle spalle, di cancellarsi nel nulla da cui non c’è ritorno.
Eppure, in mezzo a tanta desolazione gli autori non arretrano e non mancano
mai di farci sentire il soffio della grazia, il lampo che illumina sia le nostre menti sia quelle dei protagonisti di Anime strane. «Lo psichiatra, durante il colloquio del pomeriggio, non vuole rivelargli che non esiste nessun gin, che le sue
dita non suonano le corde, che i suoi occhi vedono perfettamente tutto perché
sono perfettamente sani. "Se quel pensiero basta a fargli vedere almeno delle
ombre, non sarò io a negarglielo", sostiene di fronte ai membri dell’équipe, che
lo accusano di rinforzare un’illusione». La letteratura che indaga sulla pazzia,
e sul rapporto tra arte e pazzia, tra le nostre «legittime» illusioni e quelle affascinanti e sconsiderate perché deliranti, fuori dal solco, dei diversi, si è oggi arricchita di un nuovo testo.
Angelo Orlando Meloni
S
«
GILLES ASCARIDE
"Amori moderni"
Trad. di Elena Battista
pp. 96, euro 10
Fernandel, 2006
L’amore in tutte
le forme come
un’autodifesa
prio vantaggio le avversità della vita.
Una forma di difesa. Si prenda il primo episodio, intitolato "Amo il mio
museo": il protagonista è stato lasciato da sua moglie, dopo dieci anni si ritrova così in una casa vuota e piena di
ricordi, ogni angolo gli rinnova il dolore dell’abbandono. Fino a quando
comincia a fare di quella stessa casa
un museo da illustrare ai suoi visitatori: qui c’è la credenza dove la sua ex
moglie gli fece trovare il biglietto
d’addio, questo è il divano dove si
guardava assieme quel certo programma in televisione, illustrando nel dettaglio le tecniche che avevano per
stendere la biancheria o per lavare i
piatti, nonché quelle che adottavano pezzo forte della visita guidata - in camera da letto. Le visite al «museo della mia vita» si svolgono tutti i giorni
eccetto il martedì, giorno di chiusura,
a gruppi di quattro persone al massimo. Una felicità perfetta, solo il ritor-
L’AUTORE. Gilles Ascaride, ultracinquantenne marsigliese, ricercatore all’università
della Provenza, psicologo, si è guadagnato
una certa notorietà in Francia a seguito di
una decina di romanzi perlopiù umoristici e
costruiti nei modi della commedia. Proprio
per il teatro ha scritto testi che sono stati
rappresentati anche in Belgio. Anche da
Amori moderni è stata tratta una pièce.
Complicazioni
italiane
in soggiorno
ANACLETO VERRECCHIA
"Schopenhauer e la vispa Teresa"
pp. 212, euro 14
Donzelli, 2006
nacleto Verrecchia è un filosofo e germanista, autore di pochi libri ( tra
i quali vale la pena ricordare La catastrofe di Nietzsche a Torino, 1997
e Giordano Bruno: la falena dello spirito, 2000,) che non consentono
mediazioni o titillamenti: la sua scrittura caustica e livorosa sembra incarnare
l’antica massima secondo la quale solo dall’indignazione può generarsi la (grande) letteratura. Si astengano dunque dalle sue pagine coloro che preferiscono
le plaghe malmostose del politically correct o l’ipocrita prudenza dei moralismi mainstream perché la sua prosa ondeggia tra il luciferino ed il fumantino,
agitata da furibonde invettive. Questo «gioco» replicato in maniera parossistica nel corso dell’intero libro consiste nell’infilzare, sottoponendoli agli strali di
una critica velenosa, personaggi celebri e famosi, che vengono svillaneggiati e
vilipesi: che Verrecchia sia contagiato da una specie di sindrome di Erostrato?
Saint-Beuve, comunque, a suo confronto, pare un monaco trappista. Basti leggere, in questo libro, il trattamento riservato ad Hegel o a Nietzsche: il primo,
colpevole di lesa maestà in quanto avversario, ideologico e nella carriera universitaria, di Schopenahuer, viene sbeffeggiato per tutto il libro e persino post
mortem non gli viene risparmiato l’ultimo affronto («Sulla sua [di Schopenhauer] nel cimitero di Francoforte ho sempre visto fiori, mentre su quella di
Hegel, che somiglia d un paracarro e si trova nel cimitero di Berlino est, ho visto l’erbaccia»); del secondo viene detto che, durante il suo viaggio in Italia, non
sapeva distinguere un silos dal pantheon, che utilizzava una «prosa franta e sincopata che sta a quella di Schopenhauer come una fontana intermittente ad una
cascata»: insomma, erano due «lasagne fredde» per dirla con l’autore.
Tutto il libro è comunque incentrato attorno ad un episodio biografico che riguarda direttamente Schopenhauer, ovverosia la permanenza in Italia del filosofo tedesco divisa in due soggiorni, contrassegnati da una serie di complicazioni sentimentali ed incanti erotici, talvolta però solo congetturarti dall’autore in base ad una serie di sillogismi e ricostruzioni che rimandano più alla tipologia del romanzo giallo che ad una ricerca che si vorrebbe più rigorosa e scrupolosa. In realtà, di certo c’è solo l’affare amoroso del filosofo tedesco con la
veneziana Teresa Fuga, di cui rimane una lettera, riportata integralmente,
scritta in uno sgrammatico, ma melodiosissimo italo-veneziano. Sinceramente, la cronaca di queste relazioni amorose, ipotizzate o reali che siano, sembrano costituire solo un pretesto narrativo tale da poter offrire a Verrecchia la possibilità di poter snodare la lunga sequela delle sue idiosincrasie e avversioni,
messe all’incanto ed in bella mostra, senza pruderie o timore alcuno. Già dalla prima pagina della prefazione, quando ancora si è ben lungi dall’entrare in
medias res, Verrecchia si scaglia contro i suoi colleghi, rei di avergli copiato un
titolo senza citare la fonte («in nessun campo, come in quello letterario, si ruba tanto») e, appena qualche riga dopo, attacca a testa bassa l’ipertrofia egotico-compulsiva-grafomane di tanti autori: «Nietzsche incominciò a scrivere autobiografie fin da ragazzo; Goethe si prese un segretario che raccogliesse tutto ciò che gli usciva di bocca,[…] Thomas Mann ci ha inondati di diari in cui
descrive perfino il colore delle sue scarpe, come se la cosa fosse di capitale importanza per la posterità; Wittgenstein annota anche i suoi sacrifici alla Venere solitaria». Nel leggere questo catalogo di odi e furori, si è colti da una specie di vertigine anacronistica, come se stessimo sfogliando un vecchio numero di "Lacerba" dove il gusto di épater les bourgeois si sostenta dell’irriverenza di una prosa sempre al calor bianco, quasi teppistica: Nel finale il libro poi
sembra sfilacciarsi e perdere di unitarietà, con aperture verso il gineceo di casa Schopenhauer, la madre-matrigna e la sorella Adele che, assieme alle sue
amiche Ottilie von Goethe e Sybille Mertens-Schaaffhausen, sembrano offrire l’immagine di Muse di raro decoro.
Linnio Accorroni
A
no della ex moglie - sia mai! - potrebbe infrangerla.
Il narratore-protagonista talora appare
come un novello Marcovaldo, per
l’ingenuità ostinata dei suoi gesti, come ad esempio - la cornice urbana
serve a fare più stringente il richiamo
- nel racconto intitolato "Amo la campana del vetro": dove il protagonista,
che conduce una vita senza scopo dopo la morte della moglie, si affeziona a
tal punto alla consuetudine di gettare il
vetro nell’apposito contenitore, che
rinnova quanto più frequentemente gli
è possibile questa incombenza, recuperando tutto il vetro che gli riesce. La
sua ormai è una vera vocazione, che
coltiva col fervore del devoto più zelante. Quale meraviglia, per lui, scoprire un giorno una seconda campana del
vetro, sorta accanto alla prima: nuovo
alimento al suo amore smisurato.
L’amore sensuale, nel racconto dei
suoi amori-feticcio, non è mai del presente, al più appartiene al passato; oppure, e in maniera emblematica, è custodito dentro l’album fotografico,
che tra i suoi amori in forma di racconto è quello posto in fondo al volume e riepilogativo di tutti: l’album in-
fatti raccoglie le foto delle donne con
cui ha fatto l’amore (o, per dirla altrimenti, con cui ha consumato un rapporto: perché con l’altro sesso sempre
i rapporti si consumano; diverso è l’amore per i suoi oggetti-feticcio, che
recano in sé l’anelito all’eternità).
Donne che sono poi le medesime - si
scopre - cui ha dedicato i suoi racconti d’amore; e a ciascuna donna il racconto dedicato è legato per qualche
sottile ma tenace rimando. La frase
conclusiva del racconto ultimo, nonché chiusa del libro, si riferisce al suo
amatissimo album di fotografie, e dice così: «Ebbene, che arrivino pure, i
tempi moderni! Io ho i miei amori». Il
richiamo al film di Chaplin, Tempi
moderni, è perseguito fin dal titolo:
come in quello il protagonista era vittima e cavia delle macchine che letteralmente lo mangiavano, così negli
amori di Ascaride il protagonista rischia d’essere inghiottito dalla moderna società che condanna alla solitudine, salvo trovare una via di fuga negli oggetti-feticcio della quotidianità,
ad esempio il telefonino, gli orologi, il
tubetto dell’aspirina.
Marcello D’Alessandra
S t los
schede
libri
a nessun’altra parte si è esasperato il sogno di diventare grandi scrittori fino a capovolgerlo in un incubo come negli Stati Uniti. Un Paese condannato dalle sue stesse origini a non poter mai nutrire i suoi intellettuali dello spessore europeo. Richard Yates, quindi, persegue la stessa ricerca vana ricerca che prima di lui ha dannato Hemingway, Miller e le due generazioni succedutesi a raffica: la lost e la beat. Lo si capisce scoprendo a oltre quarant’anni dalla prima uscita il suo secondo libro, Undici solitudini. Il bestiario
americano di questa antologia è la riproduzione scritta dei quadri di Edward
Hopper: disadattati che si scambiano per grandi solo perché intorno a loro vorticano folle di idioti con cappelli e vestiti grigi in uscita dagli uffici di Manhattan dove all’inizio si produce il benessere della classe media e poi la distruzione della medesima con il liberismo privo di regole.
Tutti i personaggi di Yates appartengono a un simile universo alienante e alienato, che può produrre solo disagio e isolamento. Anche quando, come nel racconto "Un buon pianista di jazz", la scena si sposta addirittura a Cannes, sulla
Costa Azzurra, per una specie di omaggio a Fitzgerald, lo scrittore che più influenzò Yates. Il quale, come altri connazionali, tara sempre il meccanismo narrativo alla scansione liquida dell’alcool, quello trangugiato a fiumi per attivare il circuito delle idee. Mai una volta che, al di là dell’Atlantico, chi vorrebbe
produrre letteratura sospetti la possibilità di un’altra fonte ispirativa: la cultura autentica, la persistenza di un lungo apprendistato fatto di assimilazione e rielaborazione.
Perciò Undici solitudini manderà in visibilio le miriadi di emuli di Carver, a sua
volta imitatore di Yates. Saranno loro a bearsi con le piccole discese nel limbo
di un alunno disadattato, che nella civilissima Italia d’oggi avrebbe l’insegnante di sostegno e nella barbara America degli anni ’50 deve competere con l’ostilità dei compagni, in "Il dottor Geco". O con il reduce dell’artiglieria che tenta il linciaggio di un comunista in "Il mitragliere". Più ancora, con l’aspirante,
frustrato, scrittore di "Costruttori", autobiografia in miniatura dello stesso Yates, che si raffigura squattrinato e disposto a tradurre in storie gli aneddoti di un
tassista pur di trovare una via all’affermazione. Lo si era già visto in Chiedi alla polvere, di John Fante. Almeno, il figlio di emigrati abruzzesi esprimeva con
più folklore il retaggio di inadeguatezza portato nel retaggio caratteriale della
terra paterna dinanzi alle frivole complessità della metropoli americana.
Yates, al contrario, come Hemingway vuole raccontare l’impossibilità di raccontare, anziché sfornare un qualcosa che abbia la forma della narrazione compiuta. Lo stesso per gli altri pezzi dell’antologia. Le paure di una promessa sposa già certa di convolare a nozze con un mediocre ("Tutto il bene possibile"),
la tempra di un sergente che non cerca di attirarsi simpatie dalla truppa ("Jodi
ha il coltello dalla parte del manico"), l’ipocrisia di una moglie che tradisce il
marito tubercolotico subito dopo averlo visitato all’ospedale ("Nessun dolore"),
un individuo che trasforma il fallimento in stile di vita ("Una gran voglia di punizione"), il giornalista che non si piega alle mezze misura ("Contro i pescecani"), un’insegnante refrattaria finanche al Natale ("Il regalo della maestra"), tubercolotici che festeggiano Capodanno ("Abbasso il vecchio").
Le solitudini descritte da Yates sono connaturate alla civiltà che partorisce se
stesso e la sua scrittura. Sebbene l’autore abbia vissuto a più riprese in Europa,
nel vano inseguimento di carenze strutturali della cultura americana, quest’ultima finisce per impregnarne le frasi scarne e smozzicate, la riduzione forzata
delle psicologie alle mere spinte di base.
Bisognerebbe rileggere certi modelli narrativi alla luce di tutto quanto è stato
fatto in Italia, particolarmente, dagli anni ’60 all’inizio degli anni ’80, per riavvicinare il romanzo a quello che era prima del montaggio cinematografico,
quando scorrere i capitoli significava immergersi nel riepilogo degli strumenti cognitivi, grammatica compresa. Oggi, tuttavia, un mezzo ancora più fuorviante del film, la trasmissione televisiva, ha fatto parecchio per uniformare l’esistenza peninsulare alle peggiori imitazioni americane. Perciò gli alcolisti e gli
«spostati» di Yates rischiano di somigliare parecchio ai nuovi abitatori dei condomini, ormai estranei l’uno all’altro e degni di figurare in una galleria di solitudini.
Enzo Verrengia
D
eniale pittore dell’ipermoderno, David Foster Wallace alterna la scrittura di opere narrative a deliziosi e bizzarri ritratti della cultura americana pop»: così si
legge sulla quarta di copertina della
prima edizione di Considera l’aragosta, raccolta di «reportage, indagini
erudite, pezzi di costume, diari intimi». Dall’11 settembre all’influenza
di Kafka sugli studenti universitari
statunitensi, da un viaggio nel mondo
della pornografia da Oscar al tragico
destino delle aragoste: Wallace in quest’ultimo pamphlet ci offre una sorta
di talk show di carta condotto da un
autore idolatrato e da molti considerato, oltre che un genio, uno scrittore
reazionario.
In realtà David Foster Wallace è un
classico autore da esibire: più commentato che letto, più osannato che
amato, è un fenomeno che dice molto
sull’attuale situazione della letteratura giovane non solo americana e, soprattutto, sulla misera condizione nella quale sono obbligati a barcamenarsi lettori e critici. È un mondo senza
memoria il nostro: e fa bene Wallace
ogni volta a ricordarcelo riproponendo, come nuove, idee che con un eufemismo si potrebbero definire obsolete. Sempre rinchiuso tra le gabbie da
definizione, passando agevolmente
dall’essere il «portavoce di una rinnovata metanarrativa» ad «ultimo esponente del postmoderno» sino a «punta di diamante dell’avant pop più
estremo», Wallace non è altro che un
prodotto, un logo da esportazione sinonimo di una qualità narrativa più
ventilata che effettiva, di una ricerca
più vicina al marketing intellettivo
che all’intelletto.
La sua prosa, poi, è quasi sempre siderale, quasi sempre autoreferenziale,
sicuramente sempre noiosa: tant’è che
leggendo il saggio «E unibus pluram»
(inserito nella raccolta Tennis, tv, trigonometria, tornado, pubblicata da
minimum fax) viene quasi da pensare
G
«
23
RICHARD YATES
"Undici solitudini"
Trad. Maria Luciani
pp. 264, euro 10
minimumfax, 2006
Antologia
del bestiario
americano
ALMANACCO
Régis Burnet / Franco Mondini /
Christian Rocca / Richard Yates /
David Foster Wallace
L’esistenza?
Necessità
di suonare
FRANCO MONDINI
"Fuck Fiction"
pp. 165, euro 13
Pendragon, 2006
a vostra lunga giornata è finita. Il dovere lo avete messo da parte, e adesso arriva il momento per godervi un po’ di sano relax. Dunque, sedetevi
su una comoda poltrona e ricordatevi di prendere due cuscini. Sollevate
bene le gambe, per stare più comodi. Il vostro film di carta sta per cominciare.
Fuck Fiction, signori, non vi deluderà. Parola di Franco Mondini, il regista. Solo se siete deboli di stomaco e avete studiato ad Oxford, potrete chiudere gli occhi e cancellare dal vostro cuore alcune scene, quelle cosiddette forti.
Il protagonista, cari avvertiti, è un vecchio jazzista. Lo vediamo seduto dinanzi la sua macchina per scrivere. Ah, non vi illudete. Il volto del protagonista non
si rivelerà mai. La sua schiena sarà sufficiente a farvi comprendere le peripezie di una esistenza vissuta senza risparmi. Con Fuck Fiction entrerete in molte camere, constaterete la consistenza dei materassi a molle. Annuserete l’odore delle stanze e i profumi delle donne. Di molte donne: tutte diverse l’una dall’altra. Capirete soprattutto che per raccontare il proprio fallimento non è necessario essere dei falliti. Questa sarà una pellicola avara di dialoghi: parole misurate e mai abusate. Partirete da lontano, e non vi sentirete contemporanei. Il
1935, per gli uomini con il telefonino incollato all’orecchio, non che voi lo siate, è lontano anni luce. Il pregio di questo intreccio è dato dal ritmo, che trasmette pulsioni continue. Vedrete situazioni che vi divertiranno e in sottofondo non
potrete non ascoltare (e riconoscere) la musica di Chet Baker.
Tra le «parole misurate», forse vi rimarrà nella mente qualche frase. A chi il film
di carta già lo ha visto è rimasta incastrata nel cervello questa: «Era una vita spericolata, come dice quel buffone di cantante che ha fatto troppi soldi sulla buona fede di tanti giovani sballati». So che non vi occorre la carta d’identità… Il
jazz che rimbomberà in ogni cambio di scena sarà invadente e i vostri piedi, inconsapevolmente, si muoveranno per seguire le note. Non mancheranno gli
espedienti per sbarcare il lunario. Sentirete forte, sempre più forte, l’odore sgradevole delle auto di lusso dalla parte di chi le ha solo guardate partire. Sì, perché quella che narra Mondini è una vita sempre sulla strada, una vita di locali
fumosi e pieni di atmosfere, di auto stipate di strumenti e di bottiglie vuote.
Avrete modo persino di odorare la droga, in questo Fuck Fiction. Sia che si chiami morfina, sia che si chiami Palfium. Il protagonista tenterà di uscirne, tra disperazione e metodi di recupero a dir poco violenti: vedasi il vocabolario sotto la voce «elettroshock».
Nel tortuoso e liberatorio sentiero seguito da Mondini per arrivare alla fine, non
mancherete di conoscere la storia della musica, e quindi verrete a sapere della
supremazia dei jazzisti rispetto ai rocher. La pellicola - che sa di inchiostro - si
avvicinerà agli ultimi fotogrammi ma prima vi consentirà di mettere piede a Torino e di respirare l’aria di montagna della Val Pellice. Le parole più ricorrenti
sono «Mi ricordo…». Qui Mondini ha dichiarato il suo amore, indirettamente, per Georges Perec e per il pittore americano Joe Brainard. E allora perché
non chiudere il pezzo allo stesso modo?… Mi ricordo di aver conosciuto un uomo che ha vissuto con la necessità di suonarle, a tutti. Mi ricordo che quest’uomo si chiama Franco Mondini.
Gianni Paris
L
che Wallace prenda in giro il lettore rimarcando la sua distanza proprio dall’autoreferenzialità. In "Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso", invece, dietro la maschera di «scrittore
difficile» - nient’altro che una copia
sterile e mal riuscita del peggiore
Barthes - si vuole vedere l’esperimento di «un racconto che usa le tecniche
alla metafiction per operare una critica feroce alla metafiction stessa» perché, per Wallace, la metafiction ha
raggiunto ormai «un rassicurante status istituzionale». E allora? Forse esiste ancora qualcosa che non sia diventato istituzionale? Forse bisogna leggere Wallace per capire che «la cultura di massa è la grande ninna nanna
che culla gli Stati Uniti d’America col
suo affettato la la la»? Che «la realtà
diventerà fiction che diventerà realtà»
è forse una scoperta? Bisogna leggere
Wallace per capirlo? Non basta guar-
L’ultima
esibizione
della noia
ambiare regime. La sinistra e
gli ultimi 45 dittatori è un pugno allo stomaco, un libro che
provocherà quasi certamente un vivace dibattito culturale e qualche inevitabile strumentalizzazione politica. Il
saggio di Christian Rocca ruota attorno alla critica al pacifismo antiamericano, responsabile - secondo l’inviato
del "Foglio" - di compromettere qualsiasi approccio costruttivo nella difesa
e nella diffusione della democrazia e
dei diritti umani. «Il paradosso è che
l’idealismo, la promozione della democrazia e la chiarezza morale nelle
relazioni internazionali oggi sono entrati nella retorica di destra. E il cinismo, il mantenimento dello status quo
e la difesa di fatto delle dittature sono
diventate parte integrante della politica estera di una sinistra illiberatrice».
Di qui prende le mosse la requisitoria
di Rocca sulla politica estera della sinistra dell’Europa continentale, colpevole di dimenticare, se non di rinnegare, gli ideali democratici che pure era-
Un pamphlet
troppo
ideologico
C
pagina
M
libro che paralizza la critica e spiazza
il lettore: i recensori, impallidendo
davanti alle mille e passa pagine del
romanzo, hanno preferito incensarlo
(evidentemente senza leggerlo) e seguire ciecamente quegli intellettuali
americani, soprattutto la lobby underground capitanata da Larry McCafferry&Co, che considerano questo libro come un capolavoro di originalità;
il lettore invece impallidisce perché,
non solo a libro chiuso, si rende conto di essere stato preso in giro, di trovarsi di fronte ad una lettura banale, dispendiosa e soprattutto inutile. Infinite Jest non è altro che una sorta di
blob cartaceo a bobina impazzita dove
di originale non c’è proprio nulla, anzi: è una sorta di remix usurato che non
cita nemmeno le fonti e che si vuole
spacciare come esempio di «nuova
frontiera della metanarrativa».
Dell’idea chiave di tutto il libro - la de-
CHRISTIAN ROCCA
"Cambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori"
pp. 254, euro 14,50
Einaudi, 2006
porre un raffronto tra Mussolini e Saddam per il solo fatto che quest’ultimo
abbia citato il dittatore italiano in uno
dei suoi ultimi discorsi. Sarebbe stato
interessante approfondire gli aspetti
più controversi dei neoconservatori
americani, il loro legame culturale ed
ideologico con la religione ed una certa iattanza identitaria ben rappresentata dalle parole dall’editorialista del
"Washington Post", Charles Krauthamer, che in un editoriale si è chiesto:
«Abbiamo il Grand Canyon, la Silicon Valley e South Beach. Abbiamo
tutto. Di che altro potremmo mai avere bisogno?». Questi limiti, insieme
con quelli sull’omissione del campo di
prigionia di Guantanamo Bay e sulla
ricostruzione storica delle relazioni
tra Pci ed Unione Sovietica, non offuscano tuttavia gli indubbi meriti del libro di Rocca, capace di scardinare,
come un astuto cambrioleur d’altri
tempi, alcuni stereotipi pacifisti ormai totalmente obsoleti.
Filippo Maria Battaglia
le occidentale, qui Rocca sembra richiamare Il contratto sociale di JeanJacques Rousseau e Per la pace perpetua di Immanuel Kant.
Nonostante la verve polemica e brillante, Rocca non si pone tuttavia il
problema dei limiti agli interventi di
ingerenza umanitari e non cita alcuna
alternativa all’attuale sistema di cooperazione del diritto internazionale.
Poco convincente appare la tesi - già
sostenuta da alcuni intellettuali americani ed europei come Paul Berman,
Cristopher Hitchens ed André Glucksmann - che la guerra irachena sia antifascista perché «l’assenza di democrazia è già fascismo». Così come
sembra azzardato e strumentale pro-
RÉGIS BURNET
"Maria Maddalena. Dalla
peccatrice pentita alla sposa
di Gesù"
Trad. Argia Michettoni
pp. 136, euro 9
San Paolo, 2006
aria Maddalena è una figura modellata dalla mistica, dalla pietà, dall’agiografia; è una creazione della letteratura cui si aggiungono sermoni, meditazioni, racconti storici e, con Dan Brown, romanzi. Una tesi, quella contenuta in Maria Maddalena. Dalla peccatrice pentita alla sposa
di Gesù del francese Régis Burnet che, di fronte ad un accumularsi di testimonianze sulla santa, cerca di focalizzarsi sulla figura contemporanea, non prima
di aver esaminato su quale substrato evangelico si fondino le sue rappresentazioni. Solo dopo aver definito i tratti messi in valore e i tratti rifiutati nel corso
dei secoli, avremo tutti gli elementi per rispondere alla domanda iniziale: com’è
stato possibile l’identificazione di Maria Maddalena con il Graal?
Le donne che vengono menzionate nei Vangeli non solo non sono ben individualizzate come gli uomini, ma spesso, quando hanno un nome, si chiamano
«Maria». E se risulta facile distinguere Maria, la madre di Gesù, le altre sono
circondate da una certa confusione: almeno tre donne sono state assimilate al
personaggio che sembrava più importante, l’amica di Gesù. Esse sono Maria
di Magdala, Maria di Betania e la peccatrice. Ma se ripercorrendo tutta l’agiografia della santa, risulta evidente l’esitazione fra due estremi, l’assimilazione
e la dissociazione delle tre Marie, l’elemento più caratteristico della Maddalena dei nostri giorni è un ritorno alle origini, alle fonti.
Per i moderni, la figura centrale è Maria di Magdala che gioca un ruolo fondamentale grazie alla testimonianza portata dopo la scoperta della tomba vuota:
di colpo essa diventa indispensabile per la fede cattolica e la sua trasmissione,
diventa apostola apostolorum, apostola degli apostoli. Perché, allora, pur essendo stata accertata la presenza delle donne, e in particolare di Maria di Magdala, presso la tomba, e il loro ruolo determinante nella costituzione della futura
religione cattolica, esse hanno poco spazio nei Vangeli e, successivamente, nella Chiesa? Si tratta forse di un complotto ordito innanzitutto dagli apostoli?
Ma il ragionamento può spingersi ancora più in là: Maria di Magdala possiede un ruolo differente nei tre vangeli sinottici rispetto al Vangelo di Giovanni.
Questo infatti tenta di svalutare la figura di Pietro a favore del discepolo prediletto e, di conseguenza, anche a favore del ruolo delle donne, e di Maria di Magdala in particolare, come testimone della resurrezione di Gesù. Ci sono autori
dunque che seguendo questa interpretazione arrivano a intravedere nel brano
del Vangelo di Giovanni dedicato all’apparizione di Gesù risorto la rivendicazione secondo cui Maria Maddalena sarebbe stata il suo successore; altri, la sua
identificazione con il discepolo che più amava.
L’esumazione della Maddalena non passa però solo attraverso i Vangeli: essa
utilizza anche altri testi. Frutto di un cristianesimo non maggioritario, spesso di
tendenza gnostica, dove alla donna viene attribuita un’importanza maggiore rispetto ai vangeli canonici, essi sono i cosiddetti «apocrifi»: il Vangelo secondo Tommaso, la Sophia di Gesù Cristo, la Pistis Sophia e, infine, il Vangelo di
Maria, un vangelo attribuito proprio a Maria di Magdala. A questo punto ci sono ormai tutti gli elementi perché, gnostica, amante, iniziata e doppio di Cristo,
la Maddalena ritorni ad interessare i nostri contemporanei. Certo, per arrivare
fino a noi sotto queste spoglie, ha dovuto attraversare il Medioevo, durante il
quale la sua biografia, diventata ormai leggenda, si è arricchita di particolari, e
i secoli successivi, che hanno visto la sua strumentalizzazione e il rovesciamento brutale del suo ruolo, dovuto anche alle raffigurazioni artistiche della santa.
Citazioni e riferimenti a testi di storia della religione e della società sono alla base del percorso lungo il quale l’autore ci guida. In conclusione, egli stesso ammette che la decodifica contenuta nel libro non convincerà certo i sostenitori della Maddalena «graalica», ma essa riesce almeno a spiegare come nel romanzo
di Dan Brown questa identificazione si basi «su alcuni legami ipotetici, certe
manipolazioni della realtà e una discreta dose di malafede». È il destino di un
personaggio che, a causa di un’estrema discrezione dei vangeli e della confusione di cui è stata oggetto, si è sempre prestato a tutte le strumentalizzazioni:
«Come uno specchio condotto lungo le strade della storia, essa rimanda l’immagine dell’epoca che se ne è appropriata. Essa fornisce indicazioni sui disegni, le manipolazioni, i sogni dei suoi adoratori più che su di sé». Dan Brown
è avvertito.
Lidia Gualdoni
DAVID FOSTER
WALLACE
"Considera l’aragosta"
Trad. Giovanna Granato
pp. 388, euro 15,50
Einaudi, 2006
dare fuori dalla finestra o, al limite
della fiction, leggere uno Shopenhauer di due secoli fa per capire
che «la vita è una tragedia recitata da
commedia»? Forse il filosofo tedesco
aveva bisogno delle coordinate morali dettate dalle sit com a stelle e strisce
o delle pirotecniche trovate di Wallace? La realtà è che il più delle volte
David Foster Wallace è di un tedio e di
una scontatezza intellettuale che sconvolge e che tutte le sue teorie si potrebbero riassumere in dieci pagine: una di
testo e nove di citazioni delle fonti.
Infinite Jest, ad esempio, è il classico
no costitutivi della sua nascita e della
sua diffusione. Per tirarsi fuori da questa rovinoso cul-de-sac non resta che
«favorire la creazione di società democratiche e ribaltare la politica estera americana ed europea degli ultimi
anni», che «in nome della stabilità ha
tollerato e scusato l’oppressione poliziesca in Medioriente».
Il ripudio del realismo americano degli anni ’70 diventa così inevitabilmente funzionale ad una visione «progressista» in difesa della democrazia e
la guerra in Iraq una sfida mancata per
la coalizione progressista italiana.
Piuttosto che lo Spirito delle leggi del
barone di Montesquieu, livre de chevet di buona parte della destra libera-
Lo strano ruolo
di Maria
di Magdala
nuncia di una società ormai cancrenizzata dalla «metastasi del guardare» - ,
ad esempio, ne parlava già nel 1800
(ma è solo il primo dei tanti) un certo
William Wordsworth (d)enunciando
in versi profetici la «tirannia dell’occhio corporeo».
Dell’altra idea guida - i pericoli di una
società che ha il suo unico credo nel
divertimento - ne hanno invece scritto
in modo sicuramente più incisivo Aldous Huxley nel romanzo Il mondo
nuovo (1932) e Neil Postman nel saggio capolavoro Divertirsi da morire.
Che dire poi di quella che Wallace
definisce «la propria polifonia linguistica che rappresenta l’impazzimento
della società»? Prima di lui (sempre
qualche anno prima…) ci erano già
arrivati il Robbe-Grillet di Progetto
per una rivoluzione a New York
(1970) e persino l’Andy Warhol di
"From A to B and back again" (tradotto in italiano con il titolo A). E ancora:
l’idea di una società dominata dalla
pubblicità non è forse mutuata da I
mercanti dello spazio di Fredrick Pohl
e C.M. Kornbluth (1953)? Della merce «imbevuta di una traccia utopica»
non ne aveva forse già parlato Walter
Benjamin? Che dire, infine, delle imbarazzanti somiglianze con molti passaggi de Le perizie di William Gaddis
(1955), del Limbo di Bernard Wolfe
(1952) o di Uno zoo lungo la strada di
Tom Robbins (1971)?
Più che un «geniale pittore dell’ipermoderno» Wallace ci appare così: un
abile miniatuirista, un furbo riciclatore capace di mettere la testa di lettori e
critici in centrifuga. Un radical chic,
scampato agli anni ’70, e inghiottito
da quell’idrovora ipno-televisiva che
ha ridotto la carta in una succursale di
pixel catodici. Si possono cambiare le
pagine certo, ma non canale: le sue
frequenze sono sempre le stesse. Così potenti da incantare il mercato editoriale. Così basse da incatenare alla
noia del già (a) letto.
Gian Paolo Serino
pagina
24
iamante non sapeva che
potesse esistere una donna poeta. L’unico poeta
che conosceva era Dante
Alighieri - la testa virile
coronata d’alloro, il naso adunco, l’espressione grifagna. Invece la poetessa romana aveva il sorriso timido e gli
occhi di un daino. Le labbra carnose,
le sopracciglie scure, l’espressione
malinconica. Sembrava piuttosto una
madonna - come quelle dei musei.
«Io mi chiamo Iole e tu?» diceva la ragazzina. «Lo sai già. Charlot», rispose Diamante, inchinandosi. La bruna
Emma nascose il sorriso dietro una
manina guantata di pelle. Una poetessa di vent’anni? Possibile? «Sei un
marinaio?», chiese Iole, ammiccando alla divisa. «Più o meno», rispose,
vago. Iole volle sapere su quale nave.
Diamante cercò di darsi importanza.
Si vantò di aver navigato sull’Atlantico. In fondo, era vero. Raccontò delle
onde alte venti metri. Raccontò dei
delfini che seguono le navi. Delle costellazioni estive. Dell’odore di salsedine che impregna la pelle dei marinai. Iole-Vita lo ascoltava a bocca
aperta. La sua spontaneità lo incantava. Se non avesse avuto dodici anni, si
sarebbe dannato per lei. A dodici anni,
Vita lo ascoltava così: con illimitata fiducia. La madonna bruna non apriva
bocca. O era incredibilmente timida o
lo giudicava un povero cristo. A un
tratto, volle piacerle. Le offrì l’ombrello e lei afferrò Iole e gli camminò accanto mentre attraversavano i giardini.
I suoi capelli profumavano di violetta.
Erano così vicini che le sfiorò più volte, inavvertitamente, il braccio. Lei
non evitò il contatto. E anche se non
pioveva più, non lo fece notare e gli si
strinse accanto sotto l’ombrello. L’inquietudine che lo aveva attanagliato
per tutta la domenica lasciava il posto
a una eccitante esaltazione. Avrebbe
voluto che il giardino non finisse mai.
«È tardi, dobbiamo andare», disse a
un tratto la bruna alla ragazzina. Avevano raggiunto l’estremità opposta
della piazza. Iole-Vita alzò le spalle,
scontenta. «Addio marinaio», gli disse. Emma si congedò con un sorriso.
Dunque, un incontro tanto promettente finiva così, nel nulla. Anche se
adesso lui aveva la sensazione che la
madonna non fosse andata in quel cinema per caso. Che anzi, ci fosse entrata proprio per incontrarlo. Che fosse venuta a riscattare la sua vita mancata, a innalzarla verso insperati orizzonti. Intuizione. Lei gli era stata mandata. Invece lo avevano lasciato solo
sotto i portici bui, con l’ombrello pa-
D
narrazioni
inedite
S t los
SEGUE DALLA PRIMA
La Königin Louise aspetta
chi sogna il nuovo mondo
teticamente aperto sotto il cielo di
aprile che andava facendosi limpido.
Solo come il vagabondo alla fine del
film. Non poteva perderla. Iole-Vita
continuava a voltarsi indietro. Le raggiunse, correndo. «Come posso rivedervi?», s’affrettò a dire. «Torna domenica alle comiche», gridò Iole, raggiante. La bruna annuì. Domenica!
Chissà dove sarebbe stato, domenica.
Mancava troppo tempo. Era abituato a
vivere alla giornata. Non aveva mai
fatto progetti settimanali. Fra sette
giorni poteva essere in viaggio sulla
Königin Louise, poteva essere a Tufo
dai suoi genitori, poteva spendersi lo
stipendio in un casino o aprire un conto alla posta. Poteva restare a Roma,
tornare a New York, dimenticare, osare, perdonare, cambiare. Poteva ancora tutto. Le perse di vista quando svoltarono in via Machiavelli.
Quasi non s’accorse di seguirle. Camminava venti passi dietro di loro. Le
sentiva bisbigliare. Fu assolutamente
certo che Iole-Vita disse: «È mio, l’ho
visto prima io». E che l’altra - ma si
chiamava davvero Emma? aveva sentito bene? - rispose: «Ma tu sei troppo
piccola». Dunque, la poetessa contendeva un marinaio sconosciuto alla
sua domestica. Perché certo Iole-Vita
doveva essere la sua domestica. La
bruna era una signora. Bastava guardarle i guanti, di capretto, il taglio all’ultima moda del vestito, e quella
piuma color
pervinca. In
fondo, avrebbe
potuto fermarsi a
Roma fino a domenica. In fondo,
era una grande città.
O almeno, la più grande che poteva trovare su questa riva
del mondo. La via
diventava
sempre più solitaria, i passanti più radi. Era quasi ora di cena. Le due camminavano l’una accanto all’altra. Che
differenza. La ragazzina aveva una figura minuta, svelta, a tratti saltellava,
come se non potesse contenere l’esuberanza. La bruna un portamento controllato, pieno di dignità. «Non ho mai
amato una donna così». In realtà, non
le aveva neanche mai parlato. Non
conosceva nessuna donna che sapesse
anche solo cosa fosse una poesia.
Quando aveva provato a recitarle a Vita, lei aveva riso. La parola amore la
faceva ridere. Amava, e basta. Svoltarono in una traversa. La strada buia,
senza neanche un’insegna, si chiamava via Ferruccio. I palazzi erano stati
costruiti dai piemontesi da poco
più di trent’anni, ma già cominciavano a sfaldarsi, e l’intonaco color patata era una ragnatela di crepe. Le due ragazze scomparvero
in un portone. Era il numero 30.
Il palazzo aveva sei piani, centinaia di finestre e neanche un balcone. L’androne, tetro, tenebroso, col soffitto basso, era
Nella illustrazione una stampa primo novecentesca
sui flussi migratori negli Usa via mare
rischiarato a malapena da una lucina
fioca, simile a quelle dei cimiteri. La
lampada perpetua ardeva sotto una
madonnina di cera azzurra. In fondo,
c’era un magazzino di stoffe all’ingrosso, con le imposte tutte scolorite.
Una scala ripidissima s’inerpicava
verso il primo piano, ma i gradini, su
cui aleggiavano riccioli di polvere,
scomparivano nel buio. Sentì una voce femminile dire: «Vi pare l’ora di
tornare a casa, voi due? fortuna che
vostro padre non è ancora rientrato».
Deluso, realizzò che le ragazze abitavano qui. In un modesto palazzo, un
alveare di appartamenti minuscoli, accalcati a otto per piano, destinati a essere affittati a inquilini senza pretese.
E la ragazzina non era la domestica
dell’altra. Erano sorelle. S’affacciò
nel cortile - profondo come un pozzo
tra incombenti pareti. Gli gocciolò acqua sul colletto. Ma non era la pioggia. Dozzine di lenzuoli gonfiati dal
vento pendevano sui fili sospesi nel
vuoto. Mutande, federe, calzini, grembiuli: il palazzo era sovraffollato. C’era un unico spazio che i costruttori
non avevano messo a frutto: il ballatoio. A ogni pianerottolo, infatti, si
apriva un vasto loggiato a tre vani,
guarnito da due tozzi pilastri quadrati
e da una balaustra di legno che decenni prima doveva essere stata verniciata di bianco. La dolce bruna probabilmente non era una poetessa.
Di certo non era una signora. Era
povera. Come lui. O forse perfino
più di lui. Perciò non gli era stata
mandata per salvarlo. L’aveva incontrata solo per caso. Guardò in
alto. Si disse, risoluto: non devo rivederla. Se domenica vado all’appuntamento con questa donna,
non partirò mai
più. Al primo piano, due marmocchi scalzi rincorrevano un pallone
di stracci. Al secondo piano, dietro alla balaustra
scrostata - tra una
selva di piante di
basilico, salvia,
rosmarino, geranio - qualcuno fumava una cicca
nel buio. Al quarto piano, affacciata, con le mani
strette sul legno
scrostato della balaustra, c’era una
donna che lo
guardava. Era lei.
V
O
C
I
PREMIO ADEI WIZO
ERAN KATZ, ICONA
DEL MONDO EBRAICO
Jerome diventa un genio. Il segreto
dell’intelligenza, di Eran Katz (Barbera Editore) ha vinto il Premio
Adei Wizo 2006, sezione giovani,
assegnato ogni anno a un’opera che
faccia conoscere il mondo ebraico.
Si tratta di un romanzo divertente,
ma al tempo stesso un utile manuale per lo sviluppo della memoria e
dell’intelligenza. Eran Katz è un
noto personaggio televisivo di
Israele e insegna le tecniche di potenziamento della memoria e dell’intelligenza.
PREMIO ACERBI
RICONOSCIMENTO
A LAJOS GRANDEL
La giuria della XIV edizione del
Premio Giuseppe Acerbi, riunita a
Castel Goffredo (Mn).ha proclamato vincitore il romanzo Le campane
di Einstein di Lajos Grendel (Anfora). Al secondo psoto si è piazzato
Alla locanda del Gatto d’argento di
Száraz Miklós György (Anfora) e al
terzo L’ultima Finestra Giraffa di
Péter Zilahy (Alet).
PREMIO CAMAIORE
OPERA PRIMA
VINCE BINAGHI
La commissione del Premio Camaiore per la letteratura gialla ha indicato come finalista della sezione
«opera prima» il romanzo Robinia
Blues di Valter Binaghi, edito da
Dario Flaccovio Editore. Questa la
motivazione: «Binaghi governa con
sapienza le regole e convenzioni
del giallo con l’utilizzo di materiali narrativi che facendo riferimento
a memorie infantili si rivelano capaci di illuminare sia come "eravamo"
sia come "siamo diventati"». La
giura tecnica ha inoltre segnalato il
libro di Cristina Guarducci, Mitologia di famiglia (Fazi Editore) per la
qualità di scrittura e l’originalità
con la quale descrive «un inferno
familiare», e il libro di Sergio Staino Il mistero bonbon edito da Feltrinelli.