- Roccella Jazz

Transcript

- Roccella Jazz
CAULONIA
LOCRIDE
FOTO STORICHE
ROCCELLA JONICA
VALLATA DEL BONAMICO
GERACE E COMUNI LIMITROFI
SIDERNO
LOCRI
STILARO
VALLATA DEL LA VERDE
VALLATA DEL TORBIDO
VIDEO – TELEMIA
Roccella J. (RC): il festival Jazz visto
dal prof.Rossi
Search the site
Si èconclusa la sessione estiva della XXXV edizione del
Roccella Jazz Festival e, mentre l’Associazione Culturale
Home
Jonica ègià al lavoro per quella invernale (che si terrà dal 23
Il Direttore
al 30 dicembre), abbiamo intervistato uno
spettatore “speciale” del festival, il Prof. Giuseppe Rossi,
Contattaci
per fare un bilancio della rassegna di agosto. Rossi
(che èprofessore associato di diritto comparato presso la
Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano
e avvocato del Foro di Milano) segue il Festival dal 1994
ed èun appassionato ed esperto di jazz.
– Prof. Rossi, cosa distingue Roccella Jazz da altri festival e
perché riesce sempre ad avere una certa attenzione da parte dei
media nazionali e internazionali?
Nel panorama affollato dei jazz festival italiani, Roccella
Jonica continua a segnalarsi per la presenza di un progetto
culturale, che fa sì che ogni edizione rappresenti non una
mera rassegna di concerti, con “nomi” piùo meno attraenti,
Seguici su Facebook
bensìun’occasione di creazione artistica e riflessione
Ecodellalocride
culturale intorno a un tema. L’ispirazione
8312 "Mi piace"
iniziale èsintetizzata in modo felice nella denominazione
“Rumori mediterranei”. “Rumori” per indicare, col
riferimento provocatorio al suono non intonato, la
predilezione per ciòche non èconforme alle convenzioni, per
l’inaspettato che ogni adepto del jazz ricerca, sulle orme dei
grandi. “Mediterranei” per alludere alla pluralitàdi culture
Mi piace questa Pagina
Di' che ti piace prima di tutti i tuoi amici
che concorrono, sin dai tempi di New Orleans, alla
definizione del linguaggio jazzistico, comprese,
inaspettatamente, quelle mediterranee (gli atti del
convegno su jazz e culture mediterranee, organizzato molti
anni fa nell’ambito del Festival, hanno oggi un valore
pionieristico). La “mediterraneita’” dei “rumori” ha però un
altro, piùsottile, significato: il jazz, al contrario di altre forme
CINEMA NUOVO
SIDERNO
di espressione musicale, non ricerca l’asetticità, ma vive di
interazione con il contesto. Il jazz di
Roccella è”mediterraneo” perchési alimenta delle sensazioni
che i luoghi del Festival suscitano: èjazz che nasce a Roccella
e vi assume una fisionomia, anche quando èsuonato da
musicisti d’oltreoceano, portatori di una loro definita
poetica, magari aliena da ogni percettibile forma di
mediterraneità.
– In che modo il festival riesce a essere terreno fertile per
l’innovazione?
Il Festival privilegia da sempre le produzioni originali,
favorisce incontri tra musicisti ed artisti di altri ambiti,
Sponsor
magari inattesi, cerca di innescare la chimica di artisti,
luoghi e pubblico che conduce non a semplici esibizioni piùo
meno riuscite, ma alla reale comunicazione di sensazioni. Il
Festival, dunque, non èsoltanto una manifestazione
concertistica, ma il vero e proprio apporto di Roccella, e del
territorio circostante, ad una storia artistica universale,
come èormai quella del jazz.
– Secondo lei è cambiato questo tipo di approccio negli
Meta
ultimi tempi?
Accedi
La XXXV edizione èrimasta fedele a questo approccio
caratteristico, a partire dal titolo “African Noises”:
l’africanizzazione dei “rumori” allude non soltanto al tema
classico del rapporto tra jazz e Africa, con la sottintesa
ricerca delle “radici”, ma anche al relativamente nuovo
RSS degli Articoli
RSS dei commenti
WordPress.org
fenomeno del jazz “afro-europeo”, nato dall’integrazione
tra musicisti europei, di cultura jazzistica, ed africani.
– Ci sono dei progetti, ascoltati quest’anno, che l’hanno
colpita più di altri?
Tra i progetti presentati nell’ambito del Festival che hanno
evocato espressamente la musica popolare – delle “radici”,
non per forza africane – il duo denominato, appunto,
“Radici” del pianista Virginio Aiello e del sassofonista Danilo
Guido ed il quintetto del contrabbassista Francesco
Marcocci, che ha presentato il progetto Folklorica. Il duo ha
indotto a pensare quanto fosse ingenerosa, ed in fondo di
maniera, l’affermazione, attribuita a Miles Davis, secondo
cui il jazzista non afroamericano sarebbe qualcuno che parla
una lingua straniera: piuttosto, ènaturale,
nell’improvvisazione che rispetta una grammatica jazzistica,
ricercare ed esprimere le proprie radici musicali, generando
un’interazione che non snatura, ma arricchisce i linguaggi. Il
quintetto di Marcocci ha innestato elementi di varie
tradizioni folcloriche, italiane e sudamericane, di ritmo e
melodia, su un robusto impianto jazzistico, assicurato da
una sezione ritmica innervata dal drive del leader e dal
solido pianismo dell'”astro nascente” Leo Genovese, e dalla
front line composta dal sassofonista Godwin Louis, notevole
per sonoritàed inventiva, e dall’ospite e collega di strumento
Gavino Murgia. Quest’ultimo ha confermato di essere una
delle voci piùoriginali del jazz non solo italiano, capace, in
particolare, di arricchire la lezione dei maestri del sax
soprano con elementi di schietta originalità, ispirati dalla
vocalitàe dai fiati della tradizione sarda.
– Il festival ha ospitato dei nuovi talenti. Chi si è distinto per
spessore?
La profonditàdei linguaggi del jazz contemporaneo
si èpercepita in modo nitido nel piano solo di Francesco
Scaramuzzino, che ha mostrato una gamma di influenze
assai piùampia, anche in senso storico, rispetto agli
inevitabili riferimenti di molti pianisti, soprattutto italiani,
contemporanei. Echi di Teddy Wilson, Bud Powell, Jaki Byard,
Herbie Hancock, accanto a composizioni originali non prive
di interesse, hanno attraversato un concerto che ha
ricordato che il piano jazz nonècominciato, ne’ finito, con Bill
Evans o Keith Jarrett.
– Nella storia del Festival c’è stata sempre una componente
di rischio nella scelta dei musicisti.Poche cose scontate.
Quest’anno erano presenti dei gruppi di afro-europei e
alcuni di essi erano delle assolute novità per l’Italia. Cosa ne
pensa di queste scelte?
I concerti di jazz afro-europeo hanno mostrato esiti alterni,
che si prestano a varie riflessioni. Il sassofonista nigeriano
Julius Orlando, affiancato dall’onesto gruppo di
accompagnatori inglese Heliocentrics (nessun riferimento a
Sun Ra …), e da una grintosa cantante-danzatrice di grande
presenza scenica, ha divertito molto, e fatto ricordare
quanto la ricezione del jazz “di ritorno”, in contesti extrastatunitensi, abbia influenzato, magari re-innestandosi su
quegli stessi elementi tradizionali apportati al jazz, la musica
cosiddetta “pop”, un tempo chiamata “leggera”, contro cui
Adorno, invero senza troppe distinzioni e con uso generico
del termine “jazz”, lancio’ i suoi strali, ritenendola svilimento
e mercificazione dell’arte musicale. Questo fenomeno,
ancora in gran parte da approfondire, ha certamente
interessato l’Africa sub sahariana, non èrimasto estraneo
alla creazione di stili caraibici, come lo ska e il reggae. Nel
concerto di Julius Orlando, comunque, c’era ben poco di
“europeo”: o meglio, si èrivelata l’origine africana di riff e
schemi ritmici che affollano da decenni il rock ed il pop
europei. Altri esempi proposti dal Festival possono meglio
definirsi “afro-europei”: in alcuni casi, come quello dei
Gansan e Tamount Ifassen, il mix tra jazz europeo e
musiche delle tradizioni africane – in quel caso –
maghrebine, ha funzionato meglio: in altri si èpencolato
pericolosamente dalle parti della world music, una mistura
di tradizioni musicali eterogenee che, come certi piatti con
troppi ingredienti, finisce col non aver sapore alcuno.
– Quali sono state le produzioni più importanti del Festival
di quest’anno, secondo Lei?
Le vere perle della XXXV edizione, comunque, sono state i
concerti del trio di Roscoe Mitchell e del Golden Quartet di
Wadada Leo Smith, che hanno tratto autentica linfa
dall’atmosfera speciale del Teatro al Castello (caratterizzato
dal fatto, raro quanto assai indovinato, di offrire ai musicisti
sul palco, anzichéal pubblico, il panorama migliore, che
svolge cosìla funzione di fonte di ispirazione, anzichéquella
consueta di scenografia naturale).
– Si tratta di musicisti che appartengono alla cosiddetta
scuola di Chicago. Cosa rappresenta questo movimento
d’avanguardia nella storia del jazz?
La scuola di Chicago rappresenta un vertice della
creativitàmusicale del secondo novecento: formatasi intorno
alla figura carismatica e fortemente innovativa di Muhal
Richard Abrams (protagonista di un memorabile concerto al
Festival negli anni ottanta, NdR), nel suo ambito si sono
sviluppate, nell’arco di un cinquantennio,
personalitàmusicali che, pur richiamandosi ad una
medesima estetica, hanno sempre mostrato spiccatissime
individualità.
L’ereditàafricana ècertamente uno degli elementi
caratteristici della scuola di Chicago, cui risale lo stesso
concetto di “great black music”, e che ha sempre enfatizzato
la forte continuitàdel percorso musicale afro-americano, a
partire dalle radici africane, sintetizzata in modo felice dal
motto “ancient to the future”. I chicagoani, pur attingendo
ampiamente ad altri ambiti, come le avanguardie “colte”
europee ed americane, hanno rivendicato in modo costante
la negritude della propria musica, a livello estetico (i trucchi
di scena di alcuni componenti dell’Art Ensemble of Chicago),
tematico (i richiami alla storia afroamericana contenuti
pressochéin ogni lavoro dei membri della scuola, da ultimo
il monumentale “Ten Freedom Summers” di Wadada Leo
Smith, o le evocazioni delle vicende di popoli africani o di
origine anche africana, come i giamaicani), e strettamente
musicale.
– L’attenzione dei critici, infatti, si è polarizzata su di loro.
Perché?
Roscoe Mitchell ha presentato il proprio trio, completato dal
contrabbassista Jaribu Shahid, di grande potenza e
flessibilità, con una lunga esperienza al fianco di Sun Ra, e
dal batterista Tani Tabbal, il cui stile si caratterizza per la
continua frammentazione e ricostruzione del tempo. Il
concerto è stato un’ininterrotta esplorazione sul suono e sul
ritmo, caratterizzata dall’inaspettato, cominciando
dall’apertura: una partitura per batteria sola, sfociata in un
lungo assolo di Tabbal. Sax e contrabbasso sono entrati con
il brano “Chant”, lunga sequenza di seconde minori
discendenti e maggiori ascendenti, ispirata dal
mimimalismo, su cui basso e batteria, svolgendo ruoli, in
effetti, solisti, hanno innestato melodia segmentata e ritmo
continuamente frammentato. Le improvvisazioni di Mitchell,
che ha alternato il sax soprano all’inconsueto sopranino, si
sono imperniate non solo sulla velocitàe sull’ampiezza del
fraseggio, resa possibile dall’ampio uso della respirazione
circolare, ma soprattutto sulla capacitàdi scegliere intervalli
e scale caratterizzate, piùche da dissonanze, da costante
ambiguitàtonale, che genera al tempo stesso tensione ed
ipnosi, al punto da dare spesso l’impressione che a suonare
fossero due sassofonisti. In chiusura, il classico “Odwalla”,
eseguito dal leader al sax alto, ha dato una sensazione
rassicurante: la presentazione dei musicisti scandita sul
tempo da Roscoe Mitchell ha emozionato non poco
chiunque ricordi i concerti della formazione storica dell’Art
Ensemble (“yours truly Roscoe Mitchell on woodwinds …”).
– Come giudica, invece, la perfomance di Smith?
Wadada Leo Smith è uno dei musicisti più creativi sulla
scena mondiale, ed il Golden Quartet, completato da tre
fuoriclasse come il pianista Anthony Davis, il contrabbassista
John Lindbergh ed il batterista Pheeroan AkLaff, e’ la sua
attuale formazione di riferimento. Il concerto di Roccella ha
mostrato la capacità della musica di Wadada, che non a caso
compone per gruppi cameristici ed orchestra, di unire un
respiro autenticamente orchestrale ad una costante
tensione ritmica. Alla tromba, il leader, la cui mera presenza
sulla scena èdi grande capacità evocativa, ha una sonorità
tersa che, evolvendo dal modello davisiano, sottintende una
grande sensazione di forza dietro l’apparente fragilità: gli
interventi di Wadada, mai sovrabbondanti, hanno definito il
mood di esecuzioni in cui gli altri musicisti, non certo
relegati al ruolo di pura sezione ritmica, hanno potuto
mostrare le proprie qualità di solisti. Il pianismo di Anthony
Davis si ècaratterizzato per l’unione di una grande
libertàimprovvisativa alla cantabilita delle melodie, oltre che
per il pieno sfruttamento, non frequentissimo nel jazz, delle
risorse dinamiche e timbriche dello strumento. AkLaff e’ un
batterista straordinario, che offre un sostegno ritmico
scattante, con momenti di intensa spettacolarità. Le parole
dell’indirizzo finale di Wadada al pubblico rappresentano
una bella sintesi del Festival: “music is made of love, mind
and heart”.Chi era presente non può che essere d’accordo.
ALESSANDRA BEVILACQUA
0
0
0
Eco della Locride Copyright © 2015.
0
0