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Nel 1965, fotografato da Miki Ekstrom per il «New York Times» Sorbonne Sorbonne, l’Università di Parigi, il mito del cambiamento, il maggio incruento di una rivoluzione colorata. Le grandi idee del Novecento in piccoli libri che concentrano l’essenza del pensiero di persone che hanno immaginato altri mondi e prospettive diverse. Ampliando, innovando, spesso ribaltando, le conoscenze o i punti di vista dei contemporanei e delle generazioni successive. Le parole, le derive, i percorsi, le frenate, la corsa. © 2014 Edizioni Clichy - Firenze Edizioni Clichy Via Pietrapiana, 32 50121 - Firenze www.edizioniclichy.it Isbn: 978-88-6799-147-1 Marcel Duchamp Un genio perdigiorno A cura di Renato Ranaldi Edizioni Clichy Parole e Immagini 1967, nella sede della CBS, a New York, fotografato da Ugo Mulas 78 L’opera d’arte è vivere Avrei voluto lavorare, ma in me c’era un fondo enorme di pigrizia. Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare. Io non considero che il lavoro da me realizzato possa avere, nell’avvenire, una qualunque importanza dal punto di vista sociale. Dunque, se lei preferisce, la mia arte sarebbe quella di vivere; ogni secondo, ogni respiro è un’opera d’arte che non è iscritta da nessuna parte, e che non è né visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante. (in: Don Bell, A Conversation with Marcel Duchamp, 1965) 79 Non è più possibile considerare la mia vita come quella di un artista: ci ho rinunciato dieci anni fa. Un periodo abbastanza lungo per dimostrare che la mia intenzione di restare fuori da ogni forma di espressione artistica è rimasta immutata. Il secondo punto è che, coerentemente con la mia posizione, non voglio andare in America per commentare un bel niente nello spirito di un museo d’«Arte» qualsivoglia. Il terzo punto è che voglio restare il più possibile solo. (Lettera a Katherine S. Dreier, 11 settembre 1929) 80 Mi sono voluto servire della pittura, mi sono voluto servire dell’arte per istituire un modus vivendi, un modo per capire la vita, per provare a fare della mia vita stessa un’opera d’arte, anziché passare tutta la vita a produrre opere d’arte in forma di quadri, di sculture. Ho pensato, anzi penso, visto che mentre lo facevo non ne ero consapevole [siamo nel 1966], che si potesse fare della propria vita, del proprio modo di respirare, di agire e di reagire di fronte agli individui, che si potesse fare di tutto ciò un quadro, un tableau vivant, uno schermo cinematografico… (in: Marcel Duchamp, Conversazione con Jean Antoine, 1965) 81 Non vado a New York, me ne vado da Parigi. È molto diverso. Già molto prima dello scoppio della guerra ho smesso di amare la «vita artistica» di cui facevo parte. Questa vita è il contrario di ciò che desidero. Così, con il lavoro in biblioteca, ho cercato di allontanarmi un po’ dagli artisti. Poi, con la guerra, la mia incompatibilità con quell’ambiente non ha fatto che aumentare. Volevo assolutamente partire. Dove? L’unica possibilità era New York, dove c’è lei e dove spero di poter sfuggire a una vita artistica, se necessario anche con un lavoro che mi impegni molto. (Lettera a Walter Pach, 12 marzo 1915) 82 In sé, gli scacchi sono un passatempo, un gioco, a cui tutti possono dedicarsi. Ma io ho preso molto sul serio questo gioco, mi ci sono appassionato, perché ho scoperto che presentava elementi di somiglianza con la pittura. Infatti, quando si gioca una partita a scacchi, è come se si abbozzasse qualcosa, o come se si costruisse la meccanica che farà vincere o perdere. Il lato competitivo della situazione non ha per me alcuna importanza, ma il gioco in se stesso è molto plastico ed è probabilmente questo che mi ha affascinato. (Intervista di J.J.Sweeney a Marcel Duchamp 1955, in: M.D., Scritti, Abscondita, 2005) 83