Uno scolaro del Savonarola, dimenticato

Ottobre 2005
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IN-FORMAQ5firenze
n CULTURA E RELIGIONE
Uno scolaro del
Savonarola, dimenticato
Prima parte sulla storia di Massimo il Greco
di Giorgio Bubbi
Nel mese di maggio abbiamo scritto
che, in occasione della festività ortodossa di San Giorgio, quando la Curia
fiorentina omaggiò la Chiesa Russa
di Firenze, di una reliquia del Santo
martire cristiano già in possesso
di Santa Maria del Fiore dell’anno
1220, che padre Gheorghi Blatinski,
parroco di detto tempio dedicato
alla natività di Gesù Cristo e di San
Nicola taumaturgo, nel ringraziare
l’autorità ecclesiastica fiorentina per
il preziosissimo dono, alla fine della
celebrazione eucaristica, auspicò
che questo gesto potesse un giorno
essere ricambiato con la donazione
alla Chiesa cattolica di Firenze di un
frammento della reliquia di San Massimo il Greco, il quale visse a Firenze
e fu monaco in San Marco.
Ma chi fu questo scolaro del Savonarola da noi dimenticato e pressoché
sconosciuto? Ecco l’ardua risposta:
Massimo il Greco, monaco e santo
per la Chiesa Russa, è una figura
fondamentale nella storia della cultura cristiana ortodossa delle chiese
orientali del XVI secolo. Fu canonizzato nel Concilio di Mosca del 1988,
in occasione del Millenario del Battesimo della Rus’Kievana nel fiume
Dnjepr ad opera del Gran Principe
San Vladimiro.
Il suo nome al secolo era Michele Trivolis, nacque ad Arta in Epiro, verso il
1470, da nobile famiglia greca. All’età
di venti anni, dopo i primi studi fatti in
patria, si trasferì a Firenze, dove studiò con Lascaris, conobbe Poliziano e
ascoltò le predicazioni del Savonarola.
Quindi fu a Bologna, Vercelli, Venezia,
Padova, Milano da Ludovico il Moro e
infine a Mirandola al servizio di Pico,
qui vi conobbe Zenobio Acciaiuoli, bibliotecario del convento di San Marco
a Firenze.
L’ambiente culturale mirandoliano unì
la sua passione per gli studi umanistici
ad una profonda venerazione per Girolamo Savonarola. Qui nacque in lui
la vocazione domenicana e nel 1502,
vestì l’abito di San Domenico nel convento di San Marco a Firenze dove,
visse per un biennio fino al 1504.
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Nel 1505 Michele si recò sul Monte
Athos per vivere l’esperienza religiosa
ortodossa e fu nel monastero di Vatopedi che divenne monaco prendendo
il nome di Massimo, ma pur impegnato nella sua crescita spirituale seguitò
comunque a studiare.
Nel 1515 arrivarono al monastero
gli ambasciatori dello zar di Russia,
Basilio III, che chiedeva un traduttore
e interprete delle Sacre Scritture,
affinché si recasse in Russia per organizzare la biblioteca lasciatagli dalla
madre. Così, nel 1516 Massimo, pur
non conoscendo la lingua russa, partì,
giungendo a Mosca nel 1518. Durante
il lungo viaggio imparò il russo sotto
la guida di buoni maestri.
A Mosca, messosi ben presto al lavoro, riordinò la biblioteca greca dello
zar, quindi, in altri sei mesi tradusse
il Salterio.
Massimo si accingeva a tornare in
Grecia quando il metropolita Barlaam
e lo zar, gli diedero l’incarico di tradurre il commento agli Atti degli Apostoli
e di revisionare i libri liturgici contenenti svariati errori che il monaco
greco cominciò a correggere.
Nel 1523 il vecchio metropolita era
morto e gli succedette Daniele chiese a Massimo di tradurre la storia
ecclesiastica di Teodoretto di Cirro.
Lo studioso obbiettò che quel testo
conteneva le lettere di Ario e di altri
eretici pertanto la sua pubblicazione
era inopportuna. Il metropolita prese
tale rifiuto come un affronto personale e come un’offesa alla Chiesa Russa
accusando Massimo di aver corretto
i testi liturgici disprezzando la chiesa
stessa esagerando gli errori e di aver
criticato il monachesimo russo.
In Massimo, educato all’ascetismo
del Savonarola, lo spirito di povertà
era strettamente legato a quello di
giustizia sociale, tanto da denunciare
l’iniquo trattamento che i contadini
subivano e soffrivano dall’ecclesialità
monastica in Russia: “Noi monaci
osiamo, dopo aver rinunciato davanti
a Dio a ogni cibo superfluo e riposo
del corpo, procuraci nuovamente ogni
genere di ricchezze e di bestiame
- asseriva Massimo - e ci deliziamo copiosamente di ogni cibo succulento a
piacere, grazie al sudore dei contadini
a noi sottomessi che, affaticati e logorato dalle nostre richieste di copiosi
beni materiali, vivono in continua
povertà e non possono neppure man-
giare il pane di segala – concludeva
il monaco - e lo scarsissimo cibo che
hanno lo mangiano senza sale, per
loro estrema miseria infinita”.
( 1. continua)
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