- Accademia Apuana della Pace
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Notiziario settimanale n. 481 del 09/05/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace Parlamento, Governo e Unione europea potenzino subito il sistema italiano per il diritto d'asilo (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)..................................................................................... 5 Pio la Torre e Rosario Di Salvo (di Enrico Berlinguer).............................. 5 Geopolitica nonviolenta: legge, politica e sicurezza nel ventunesimo secolo (di Richard Falk)............................................................................. 7 Sviluppo e pace, il senso di un progetto transfrontaliero (di Elisabetta Bozzarelli)............................................................................................... 12 Il 25 aprile in quattro righe (di Giuseppe Casarrubea).............................. 13 Dimissioni in bianco, così non va (di Titti Di Salvo)................................ 13 Voci degli invisibili della Casa di Accolienza di Massa: Costantin (di Enio Minervini)................................................................................................ 14 Editoriale 09/05/2014: Assassinio di Giuseppe Impastato avvenu to il 9 maggio 1978. 12/05/2014: Giornata mondiale del commercio equo solidale. 17/05/2014: Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia I gravi, se non sovversivi, applausi al congresso del Sindacato di Polizia " SAP" ci portano a pubblicare una riflessione di Gandhi sulla polizia, che, sicuramente, alla luce dei tanti tragici fatti successi, è quanto mai attuale. Io ho ammesso che anche in uno stato nonviolento potrebbe essere necessaria una forza di polizia. Questo, lo confesso, è un sintomo dell'imperfezione del mio ahimsa. Non ho il coraggio di affermare che potremo fare a meno di una forza di polizia come lo affermo riguardo all'esercito. Naturalmente posso immaginare, e immagino uno stato nel quale la polizia non sarà necessaria; ma se riusciremo a realizzarlo o meno soltanto il futuro potrà deciderlo. La polizia che io concepisco tuttavia sarà di tipo totalmente diverso da quella oggi esistente. Le sue file saranno composte da seguaci della nonviolenza. Questi saranno i servitori e non i padroni del popolo. Il popolo darà loro spontaneamente tutto il suo aiuto, e grazie alla reciproca collaborazione, essi saranno in grado di far fronte con facilità ai disordini, che saranno peraltro in continua diminuzione. La forza di polizia disporrà di alcune armi, ma ne farà uso solo raramente, se non addirittura affatto. Di fatto i poliziotti saranno dei riformatori. Mohandas Ghandi, "Teoria e pratica della nonviolenza" [Einaudi, Torino 1973, 1996, p. 144; è un estratto da un articolo pubblicato su "Harijan" del primo settembre 1940]. (Segnalato dal Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo) Indice generale La riabilitazione tardiva di “Esperienze pastorali” di don Lorenzo Milani (di Antonio Zanni)..................................................................................... 1 I costruttori di pace, di nuovo in Arena, a Verona (di Mons. Giancarlo Bregantini)................................................................................................. 2 Lavoro non bombe. Aderisci alla Marcia per la pace Perugia-Assisi (di Tavola della Pace)...................................................................................... 3 Verso la manifestazione nazionale del 17/05 a Roma (di Forum Italiano del Movimenti per l'acqua)........................................................................ 3 Roberto Mancini – Per dignità. Trasformare l’economia – a cura di Enrico Peyretti (di Roberto Mancini, Enrico Peyretti)........................................... 4 1 La riabilitazione tardiva di “Esperienze pastorali” di don Lorenzo Milani (di Antonio Zanni) La sua Chiesa, quella cattolica e quella diocesana, amata, servita e obbedita, si è riconciliata o continua ad aver paura di don Lorenzo Milani? Ma quando mai? Non è mai stato ‘condannato’. Lo apprendiamo dall’arcivescovo di Firenze card. Betori, il quale, a distanza di 56 anni dalla tragedia di “Esperienze pastorali”, l’unico libro dei tre che hanno sconvolto Chiesa e Stato (seguiranno “L’obbedienza non è più una virtù” e “Lettera a una professoressa”) scritto totalmente di suo pugno, ha inviato un dossier a Papa Francesco che lo ha girato per competenza alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale ha risposto, appunto, che don Lorenzo non è mai stato ‘condannato’. Il suo scritto era stato semplicemente giudicato ‘inopportuno’ e, nel giro di otto mesi, ritirato dalle librerie con divieto di pubblicazioni future. Niente più che due “comunicazioni” del Sant’Uffizio, a distanza di oltre mezzo secolo, hanno aperto e chiuso una delle pagine più dolorose della storia della Chiesa di quest’ultimo secolo. E noi tutti, ingenui e sprovveduti, che avevamo capito che di preti ‘inopportuni’ la Chiesa non ne volesse tra i piedi! Li relegava tra i monti, senza strade, senza telefonini, con ben pochi amici disposti a giocarsi un pezzo di talare per lui. Bentornato, don Lorenzo! Almeno in libreria. Anche se il danno è stato grande e irreversibile. Proprio perché i tempi sono cambiati: non più quelli di un Pio XII al suo tramonto e neppure quelli di un Concilio che nella sua parte più difficile, che fu anche la tua - quella del ritorno della Chiesa ai poveri e dei poveri alla Chiesa - è stato largamente e scandalosamente disatteso. Ne sono passati di papi, anche santi, anche profeti. Due, proprio in questi giorni, saliranno gli altari, dopo aver salito il paradiso. Ma di te non si erano ricordati. Fortuna e Spirito Santo hanno voluto che sul seggiolone del pescatore di Betsaida giungesse a sedersi uno venuto dall’altro mondo, che parla come mangia e crede come gli ha insegnato la nonna, senza latinorum né arzigogoli ipocriti. Ecco, appunto, l’ipocrisia. Come dire che don Lorenzo non ha bisogno di ‘riabilitazione’ perché non è mai stato ‘condannato’. Un provvedimento ‘prudenziale’. Sono i serpenti che hanno bisogno della prudenza. Alle colombe basta la semplicità. Così, a termini di vangelo. Non sono i teologi e gli azzeccagarbugli che hanno bisogno di sapere, anzi vedere e toccare con mano, da che parte sta la Chiesa; sono i poveri e non quelli di spirito, ma i poveri di tutto. Condanne e riabilitazioni che si confondono tra annunci e smentite, come queste sull’asse Roma-Firenze, fanno solo un gran male, creano sofferenza, disagio, danni. E per grazia di Dio c’è stato chi ha rischiato l’inferno e non ha obbedito, conservando il testo nella biblioteca di casa. Tra poco ci sarà un altro banco di prova, di nuovo con più di mezzo secolo in ritardo, protagonista ancora quel ‘rompi’ di Barbiana. Già ce ne sono le avvisaglie. Citiamo solo un titolo: “Cappellani senza stellette, l’ordinariato militare si spacca”. Non è stato risolto allora. Volesse Dio lo fosse oggi: che nessuno possa uscire dal seminario senza lo studio sistematico di quei tre libretti sui quali sono stati stesi cinquant’anni non di un velo pietoso, ma di una pesantissima coltre sotto cui si è ammonticchiata polvere e, più ancora, pantano, privilegi, roba che tappa la bocca e la coscienza. Forza, papa Francesco, forza don Lorenzo! La Chiesa ha bisogno di specchiarsi in voi per sapere quello che deve e quello che non deve fare, dire, insegnare e vivere. Quella Chiesa che era nata per i poveri (i stempi messianici si riconoscono dall’annuncio ai poveri della buona novella) e con loro e per loro aveva camminato nei primi secoli, si è poi a loro affiancata in un cammino che è generoso chiamare parallelo per poi finire spesso a camminare lontano da loro, anche se con non poche e non piccole eccezioni. Ancora, grazie a Dio, eccezioni. (fonte: Il Corriere Apuano, n. 17 del 26 aprile 2014) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2060 Evidenza I costruttori di pace, di nuovo in Arena, a Verona (di Mons. Giancarlo Bregantini) Sarà un grande dono per la città di Verona e per la chiesa italiana tutta il ritorno in Arena dei "costruttori di pace". Ne avevamo bisogno. Perché in questo grave tempo di crisi, che coinvolge tutti, che rischia di travolgerci e non solo di coinvolgerci, può addirittura sembrare "ozioso" manifestare per la pace. Quasi avessimo problemi più grandi da affrontare….e solo dopo, se c'è tempo, ci sarà spazio per le manifestazioni per la pace! Ed invece, credo che sia il contrario. Perché la pace resta la grande sfida dell'umanità. Ed impegnarsi per essa, vuol dire costruire un mondo di vera fraternità. Infatti, i pellegrini della pace di Verona porteranno con sé, nel loro zaino, i passi di fraternità realizzati e condivisi dalle migliaia di manifestanti nella marcia della pace di fine anno, che si è svolta appunto a Campobasso. Un grande evento, che ha scosso questa mite e lenta terra che è il Molise. Terra però dalle relazioni positive, serene, quotidianamente costruite su impegno e speranza, fieri della nostra "marginalità", che con impegno stiamo trasformando in tipicità positiva. Nel cuore dei marciatori per la pace, a Campobasso, sono risuonate quattro domande, che sono rimaste aperte. Su queste sfide si dovranno di certo confrontare i giovani che entreranno in Arena, con i colori variopinti della bandiera arcobaleno e con la mente pronta alla riflessione e alla preghiera. Risuoneranno le profetiche parole di don Tonino Bello, che li scuoteva ad alzarsi in piedi, con vigore e coraggio. Le prima sfida aperta è la sfida del cibo. A Campobasso, in quel giorno memorabile, abbiamo aperto la Mensa per i poveri, chiamata con tono di luce: La casa degli Angeli. Perché non c'è pace senza cibo condiviso e ben spartito. Lo sguardo, allora, andrà verso Milano, allo storico Expo mondiale, per chiamare a raccolta i militanti, perché quell'evento non sia solo una grande manifestazione commerciale, ma un'occasione "ghiotta" per riflettere se realmente il cibo e l'acqua ci sia per tutti. La torta dei beni comuni va spartita equamente, con un no secco alla nuova idolatria del denaro, che governa invece di servire, seguendo la pista della dirompente denuncia fatta da papa Francesco nella sua recentissima Esortazione Evangelii gaudium. Ci basti questo cenno, che denuncia la mancanza di fraternità condivisa attorno al cibo: "Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice"(E.G.56). E' una crisi antropologica, prima ancora che una crisi finanziaria. La riflessione sulla pace ci deve così aiutare ad allargare gli orizzonti della manifestazione ben oltre i garruli colori delle bandiere, sapendo porsi decisamente per un'economia per i poveri e non un'economia senza volto, con la finanza speculativa, dalla tirannia invisibile. La seconda sfida che resta davanti a tutti noi la si sta vivendo nelle scuole. Ci siamo fermati all'Università di Campobasso, con silenzio riverente, per ascoltare Agostino, uno dei discepoli più amati da don Lorenzo Milani. Ci ha rinnovato il pathos della lettera che scrisse, già malatissimo con i suoi 2 ragazzi, ai giudici, chiamati a giudicarlo, per poi, purtroppo, condannarlo: L'obbedienza non è una virtù! Perciò ci siamo impegnati, con acume, a non chiamare più il conflitto del l914-18 con i toni dei gagliardetti: La grande guerra! NO! Usiamo invece le sofferte espressioni che elevò, in piena consapevolezza, papa Benedetto XV, il 1 agosto 1917, quando definì quella guerra l'inutile strage! Immagino il mio docente, in Liceo, che mi spiega l'evento. Su quella lavagna, nella prima aula a sinistra al secondo piano (che rivedo volentieri ogni volta che ritorno al liceo Stimmate di Verona!), è ben diverso scrivere: Oggi parliamo della grande guerra. Oppure, con chiarezza e con tono di voce nel pianto, scrivere: oggi entriamo nel dramma di un'Europa cristiana che compie un'inutile strage tra fratelli! Tutte le guerre, infatti, iniziano sempre nelle aule scolastiche e solo dopo si trasferiscono sui campi insanguinati di battaglia! Così sarebbe bello che rileggessimo con occhi di criticità anche i nostri monumenti ai caduti, nelle nostre piazze o cimiteri dei nostri paesi. Spesso sono un'esaltazione alla guerra e inducono anche all'odio al nemico. In un monumento, in una bella cittadina del Molise, ho visto addirittura scritto: I nostri eroi hanno partecipato ad una guerra giusta! Ho coperto le lettere con un nastro isolante nero. Di certo, ora il vento l'avrà strappato. Spero però che non sia stata cancellato il segno di esecrazione, dal cuore dei ragazzi del paese, con cui ho condiviso il gesto! Per questo, Pax Christi si è impegnata a tener desto questo stile alternativo di trattare la storia nelle scuole! Cioè chiamare le cose per il giusto nome! Stando dalla parte dei poveri e non dei vincitori! La terza sfida che è rimasta da raccogliere e riapprofondire è il senso delle cosiddette " missioni di pace", che l'esercito italiano, in armi, sta compiendo in varie parti del mondo. Ma è proprio questo lo stile di portare la democrazia nel mondo? Forse non è meglio seguire l'esempio delle missioni della Caritas, che nelle zone devastate dal terremoto di Haiti, ha inviato una famiglia di Roma, con due piccoli bimbi. E nell'insediarsi, non hanno scelto la zona dei "bianchi", ma si sono collocati in una piccola casa, tra le case povere della gente nera, permettendo così si loro figli di frequentare la scuola del quartiere nero. Dopo poco, la pace tra le famiglie nere e quelle bianche non l'hanno fatto le armi, ma il sorriso dei piccoli, che, vivendo e giocando con i loro coetanei, sono riusciti a far cadere i muri delle divisioni, per costruire i ponti della pace e del dialogo. Queste sono le vere missioni di pace! Come ci ha insegnato Nelson Mandela, che è stato citatissimo nella marcia a Campobasso. Specie in una frase durissima: conservare rancore nel cuore è come bere veleno sperando che ciò uccida il tuo nemico! Ed è con gioia vera che ho letto sull'ultimo numero del missionario la testimonianza diretta di padre Gianni Piccolboni, saggio compagno di studio e di lavoro a san Leonardo, che affermava di Mandela: "Era un uomo di spessore, dal fascino irresistibile, magico. Ha insegnato a tutti, bianchi e neri, a liberarsi dalla diabolica convinzione che una razza sia superiore ad un'altra, a rispettarsi a vicenda, liberando così i neri dall'odio verso i loro oppressori ed i bianchi ad avere fiducia nel diverso e nel nero!". E' cioè il perenne impegno alla riconciliazione, non solo personale, ma anche sociale, frutto della cultura del perdono, fonte di pace, per cui Mandela, con profetico stile, istituì la commissione per la verità e la riconciliazione tra la sua gente (TRC), eco delle parole di Gesù: "Quando porti l'offerta all'altare e non sei in pace con fratello, riconciliati prima con lui; poi offri il tuo dono! (Mt 5,24) Ed infine la quarta sfida, che è sempre in agguato. La produzione delle armi. Forse, quella bellica è l'unica industria che tira. Purtroppo. Compresa la costruzione dei famosi F/35, che restano uno scandalo, per l'enormità del costo di ogni aereo ed un mistero per cui nessuno si sia opposto alla loro costruzione tra le forze politiche. Tante le sfide, che la cultura della pace deve oggi affrontare! Con lealtà, sapendo però che la sfida più grande sarà quella di costruire un'economia che riesca a dare lavoro ai nostri ragazzi e giovani. La precarietà lavorativa è purtroppo la prima grande negazione della pace. Qui, soprattutto qui, sono attesi, all'Arena di Verona, i nuovi Costruttori della pace! Buon Lavoro! Fonte: Arena di Pace e Disarmo 2014 (fonte: Arena di Pace e Disarmo 2014) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2057 Lavoro non bombe. Aderisci alla Marcia per la pace Perugia-Assisi (di Tavola della Pace) Il lavoro ci da la vita, le bombe ce la tolgono. Il lavoro crea sicurezza, le bombe la distruggono. Vogliamo che i nostri soldi siano spesi per creare dignità e lavoro, non per comprare altre bombe! Vogliamo il lavoro, non le bombe!!! Il lavoro ci da la vita, le bombe ce la tolgono. Il lavoro crea sicurezza, le bombe la distruggono. Vogliamo che i nostri soldi siano spesi per creare dignità e lavoro, non per comprare altre bombe. Senza lavoro non c’è pace, né giustizia. Milioni di persone in Italia non hanno un lavoro dignitoso. Molti altri milioni di persone nel mondo vivono nella miseria sotto l’incubo delle bombe. Bisogna cambiare strada. Tagliare le spese militari per liberare risorse, investire sui giovani, sul lavoro e la sicurezza sociale. Questo chiediamo alla politica e alle istituzioni. Per ritrovare un po’ di pace, per uscire dalla crisi insieme, più liberi ed eguali… Domenica 19 ottobre 2014 Rimettiamoci in cammino… …perché vogliamo lavoro non bombe! Organizziamo insieme la 20a Marcia per la pace Perugia-Assisi INVIA SUBITO LA TUA ADESIONE! Comitato Promotore Marcia Perugia-Assisi via della viola 1 (06100) Perugia, Tel. 335.6590356 - 075/5736890 - fax 075/5739337 email: [email protected] - www.perlapace.it link: http://www.perlapace.it/index.php?id_article=10497 Approfondimenti Beni comuni Verso la manifestazione nazionale del 17/05 a Roma (di Forum Italiano del Movimenti per l'acqua) Basta austerità! basta privatizzazioni! acqua, terra, reddito, casa, lavoro, beni comuni, diritti sociali e democrazia in Italia e in Europa Appello per la costruzione di una manifestazione nazionale il 17 maggio Una nuova stagione di privatizzazione dei beni comuni, di attacco ai diritti sociali e alla democrazia è alle porte. Se la straordinaria vittoria referendaria del 2011 ha dimostrato la fine del consenso all'ideologia del “privato è bello”, e se la miriade di conflittualità aperte sulla difesa dei beni comuni e la difesa dei territori suggeriscono la possibilità e l'urgenza di un altro modello sociale, la crisi, costruita attorno alla trappola del debito pubblico, ha riproposto con forza e ferocia l'ideologia del “privato è obbligatorio e ineluttabile”. L'obiettivo è chiaro: consentire all'enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari di potersi impossessare della ricchezza sociale del Paese, imponendo un modello produttivo contaminante, mercificando i beni comuni e alienando i diritti di tutti. Le conseguenze sono altrettanto chiare: un drammatico impoverimento di ampie fasce della popolazione, sottoposte a perdita del lavoro, del reddito, della possibilità di accesso ai servizi, ai danni ambientali e ai conseguenti impatti sulla salute, con preoccupanti segnali di diffusione di disperazione individuale e sociale. 3 Il Governo Renzi, sostenuto dall'imponente grancassa dei mass-media e in piena continuità con gli esecutivi precedenti, sta accelerando l'approfondimento delle politiche liberiste, rendendo irreversibile, attraverso il decreto Poletti e il Job Act, la precarietà del lavoro e della vita delle persone; continuando a comprimere gli spazi democratici delle comunità costrette a subire gli effetti delle devastazioni ambientali, delle grandi opere, dei grandi eventi e delle speculazione finanziaria e immobiliare; mettendo a rischio, attraverso i tagli alla spesa, il diritto alla salute, alla scuola e all'università, e la conservazione della natura e delle risorse. Dentro questo disegno, viene messa in discussione la stessa democrazia, con una nuova spinta neoautoritaria che toglie rappresentatività alle istituzioni legislative (in particolare la nuova legge elettorale “Italicum”) ed aumenta i poteri del Governo e del Presidente del Consiglio, e con l'attacco alla funzione pubblica e sociale degli enti locali. Tutto ciò in piena sudditanza con i vincoli dell'elite politico-finanziarie che governano l'Unione Europea e che, le politiche di austerità, i vincoli monetaristi imposti dalla BCE, il patto di stabilità, il fiscal compact e l’imminente trattato di libero scambio USA-UE (TTIP), cercano di imporre la fine di qualsivoglia stato sociale e la piena mercificazione dei beni comuni. A tutto questo è giunto il momento di dire basta. In questi anni, dentro le conflittualità aperte in questo paese, sono maturate esperienze di lotta molteplici e variegate ma tutte accomunate da un comune sentire: non vi sarà alcuna uscita dalla crisi che non passi attraverso una mobilitazione sociale diffusa per la riappropriazione sociale dei beni comuni, della gestione dei territori, della ricchezza sociale prodotta, di una nuova democrazia partecipativa. Sono esperienze che, mentre producono importantissime resistenze sui temi dell'acqua, dei beni comuni e della difesa del territorio, dell'autodeterminazione alimentare, del diritto all'istruzione, alla salute e all'abitare, del contrasto alla precarietà della vita e alla mercificazione della società, prefigurano la possibilità di una radicale inversione di rotta e la costruzione di un altro modello sociale e di democrazia. Vogliamo fermare la nuova stagione di privatizzazioni, precarietà e devastazione ambientale. Vogliamo costruire assieme un nuovo futuro. Vogliamo collegarci alle diffuse mobilitazioni europee, per affermare la difesa dei beni comuni nella dimensione continentale, a partire dal semestre italiano di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione Europea. Vogliamo costruire un appuntamento collettivo che nasca in ogni territorio dentro momenti di confronto e iniziative reticolari, che, a partire da oggi, mettano in campo reti e associazioni, comitati, movimenti e organizzazioni sociali per arrivare tutte e tutti assieme ad una grande manifestazione nazionale a Roma per sabato 17 Maggio, con partenza da Piazza della Repubblica alle ore 14.00. Stop privatizzazioni - Stop precarietà - Stop devastazione ambientale Per la riappropriazione sociale dell'acqua, dei beni comuni, del territorio Per la difesa e l'estensione dei servizi pubblici e dei diritti sociali Stop fiscal compact - Stop pareggio di bilancio e patto di stabilità - Stop TTIP Per la riappropriazione delle risorse e della ricchezza sociale Per la difesa e l'estensione della democrazia link: http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php? option=com_content&view=article&id=2640:verso-la-manifestazione-nazionaledel-1705-a-roma Economia Roberto Mancini – Per dignità. Trasformare l’economia – a cura di Enrico Peyretti (di Roberto Mancini, Enrico Peyretti) “Trasformare l’economia”: su questo tema ha parlato Roberto Mancini, filosofo (Università di Macerata e Università della Svizzera Italiana), nel ciclo “Economia e dignità” presso il Circolo dei lettori, il 31 marzo. Qui trascriviamo appunti sintetici dall’ascolto, a cura di Enrico Peyretti. [1] Non si propone qui una tecnica, ma una logica dell’economia, tale che sia un’alternativa di sistema. Oggi vige un falso “principio di realtà”: la società è un mercato globale. I popolo sono ridotti a popolazioni, fatti biologici, e devono adattarsi. Tentiamo qui una mappa del percorso di cambiamento, di uscita dal capitalismo: né riforme, né rivoluzione, ma un percorso di trasformazione. lavorare oggi per domani. Vedo tre passaggi. 1 – Occorrono nuovi concetti, un lavoro filosofico per apprendere diversamente il proprio tempo, disapprendere i concetti del dominio. Bisogna pensare altrimenti. La “meritocrazia” è antitesi dei diritti originari della persona, che non si meritano, ma spettano: cura della salute, istruzione, informazione, … 2 – Il turbocapitalismo agisce a tre livelli: 1) livello visibile, l’economia operativa; 2) livello culturale globale, in cui esso diventa la nostra percezione della realtà sociale: imprime l’idea che il cemento della società è la competizione; invece la vita è cooperazione! Si tratta per noi di disattivare quella idea distruttiva; 3) il capitalismo come “mito” (nel senso di Panikkar), cioè una intuizione originaria pre-comprensiva, inglobante, della condizione umana, che alimenta l’ideologia della competizione. Oggi abbiamo una “società di mercato”, non solo una economia di mercato. La società intera è ridotta a infrastruttura del mercato. Esaminiamo questo mito. Esso afferma: a) l’uomo è egoista, aggressivo, calcolatore «per natura». Invece l’uomo trasforma la propria natura; b) la natura è avara, è scarsità, perciò la lotta! ; c) la verità della vita è la morte: non è un esistere, ma un sopravvivere, rinviando nel tempo la morte, scaricandola sugli altri, come nemici. In questo mito, la morte è l’orizzonte della vita. d) il capitalismo non è ateo come il comunismo sovietico, rispetta Dio e la religione, ma lo pone lontano, dove non si occupa di noi, che per sopravvivere dobbiamo lottare da soli. Già per gli antichi politeisti la vita è abbandono da parte degli dei, perciò lotta e competizione. Il mercato è oggi l’istituzione oggettiva della competizione. Dunque il mercato è guerra, è non-reciprocità. La guerra si fa con l’economia. Competere significa sconfiggere. Dunque, il cambiamento che occorre è spirituale: ciò non significa religioso, in una o altra religione; significa cambiamento del senso dell’esistenza umana: un cambiamento primario, viene prima di tutto. Il mercato è ridotto a finanza. 146 enti sono il cuore del sistema, il nucleo distante dall’economia reale. La finanza è 60 volte l’economia reale. C’è un’alternativa: o capitalismo, o economia di servizio ai bisogni umani. Il capitalismo finanziario è un parassita, svincolato da ogni legge. Oggi, imprenditori e proletari si trovano insieme di fronte ai gruppi speculativi. Per questo l’Occidente entri in dialogo con le altre antropologie sapienti. La globalizzazione è un accentramento, che ha diviso, non unito l’umanità. Una diversa idea umana può venire dall’ascolto delle altre culture. Nessuna grande cultura al mondo riduce l’uomo all’homo oeconomicus. Crisi è parola ideologica. Crisi non è una parola onesta, non è un’anomalia superabile: è un progetto per sostituire il mercato finanziario alla democrazia. L’ideologia è questa: la finanza produce ricchezza, la vita e attività delle società sono un costo. In democrazia devono esserci alternative. Nel 900 c’era un pensiero alternativo. Oggi manca una lettura critica. Con “crisi” diciamo sia gli effetti sia la causa. Vediamo 5 tratti di una antropologia più degna: 1) unicità: ogni essere umano ha un valore unico, mai strumento; 2) relazionalità: nessuno è sradicato dagli altri; l’Occidente si è fondato invece sulla identità. Noi cristiani diciamo “persona”, ma intendiamo “io”, dimenticando l’altro; 3) apertura all’infinito: non siamo un «essere per la morte»; in tutte le culture c’è questa apertura; 4) integrità, per poter essere coscienza del creato (nel pensiero cinese l’uomo è matrimonio tra cielo e terra); 5) responsabilità: l’abbiamo posposta alla libertà. Dicevamo “sviluppo” quando era solo nostro, e il mondo colonizzato soffriva. Oggi parliamo di “crisi” solo per noi. Altra svolta di metodo operativo economico. Qui si tratta di pratiche, non solo di modelli teorici. Il cataclisma sociale è dato da una energia più cattiva informazione. 1 – Relazioni di dono (non vuol dire regalo), cioè relazione che ci lega: non esclusione; opera di riconoscimento. Lo scambio non è reciprocità, è vantaggio. È impersonale. La relazione è cura, empatia, ben più che scambio. Poi è utile anche lo scambio, ma radicato nella coscienza collettiva. Il puro scambio è guerra. Le riforme sono adattamento al sistema, come immodificabile: così il centro-sinistra. La rivoluzione, parola bloccata, è cambiamento repentino, affidato alla violenza. Non libera e non innova. Il lessico non ha parola per il cambiamento strutturale. Propongo “trasformazione”. Non si tratta di crisi, ma di fallimento. È la vittoria dei ricchi, piccolissima minoranza nel mondo. «L’unico rischio per loro è che i popoli prendano coscienza» (dice un dirigente della Deutsche Bank). L’Europa, l’Occidente, questa indubbia civiltà, ha partorito le dittature del 900, e questa economia fallimentare. Come mai? Perché ha creduto nel potere, non nella giustizia e civiltà. Ha individuato il potere del denaro come la massima forma di potere. Ci ha fatti competitivi, flessibili, veloci. C’è una parte benefica della parola “fallimento”: prendere coscienza che il sistema produce danni, diseguaglianza, distruzione del pianeta. Ha prodotto tanti beni materiali, ma a questo prezzo fallimentare. Occorre un’altra cultura, una presa di coscienza collettiva. Bisogna 4 2 – L’economia islamica vieta il prestito a interesse. Ebrei e cristiani hanno distinto l’usura dall’interesse: per l’”aiuto” (dall’alto, gerarchico) occorre denaro, perciò interesse. La tradizione islamica nega che il denaro possa venire da denaro (divieto delle lotterie, …), ma solo dal lavoro. Adriano Olivetti pensò una economia di comunità. La bio-economia, per rispettare il secondo principio della termodinamica, deve farsi compatibile coi vincoli naturali: perciò armonia, non sviluppo; e con le leggi sociali: perciò relazione, non competizione. Altre esperienze nuove, modelli operativi: economia di comunione, economia di cooperazione, dove il profitto è uno strumento, non un fine. Servono economisti critici e costruttivi. 3 – Per una svolta culturale-politica, alcune indicazioni: 1) sviluppo della democrazia, in temporanea alleanza e compromesso col capitalismo. Ma il fondamento della comunità umana è la dignità. Il costituzionalismo è questa filosofia politica della dignità. 2) Il bene comune: non solo i beni comuni, da sottrarre a questo mercato. “Bene” è ciò che accomuna tutti, da riconoscere. È giustizia (restitutiva, riparativa) che risana le situazioni. La giustizia è il metodo della politica. Tutto ciò è forse utopismo? È assai più utopistico, impossibile,«agganciare il treno della ripresa», come si ripete in giro, perché la crisi è fallimento. 4 – Il mutamento è anzitutto personale e sociale: 1) forme di vita dove contano le persone più dei ruoli, zone franche dal principio di competizione; 2) ruolo della conoscenza critica; 3) percorsi educativi critici, dalla grammatica affettiva alla educazione solidale; 4) anche un progetto politico verso un’altra organizzazione sociale. La grande sofferenza sociale di oggi sia come le doglie del parto da una società di mercato a una società della dignità umana. [1] Possiamo rinviare, per un maggiore sviluppo, all’articolo di Roberto Mancini La trasformazione interculturale dell’economia, in www.spaziofilosofico.it 2013. Segnaliamo il suo volume, appena uscito da Franco Angeli, Trasformare l’economia. (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/04/17/roberto-mancini-per-dignita-trasformareleconomia-a-cura-di-enrico-peyretti/ Immigrazione Parlamento, Governo e Unione europea potenzino subito il sistema italiano per il diritto d'asilo (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) Le raccomandazioni e le richieste dell'ASGI di fronte ad un fenomeno largamente previsto e prevedibile di persone in fuga da gravi situazioni che minacciano i loro diritti fondamentali. Di fronte al recente ripetersi di sbarchi, concentrati sulle coste siciliane, dei migranti in fuga dai Paesi di appartenenza o di provenienza e di fronte all’abuso del termine “emergenza” da parte dei mezzi di comunicazione e delle autorità politiche, l'ASGI propone alle autorità italiane ed europee le raccomandazioni e le proposte indicate in un documento che fa il punto della situazione, ricordando che i migranti che oggi sbarcano in Sicilia fanno parte di un fenomeno largamente previsto e prevedibile di persone in fuga da gravi situazioni che minacciano i loro diritti fondamentali ed hanno perciò diritto di chiedere protezione alle autorità italiane, cosi' come garantito dalla Costituzione e dalle norme dell’Unione europea. (fonte: Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) link: http://www.asgi.it/public/parser_download/save/1_0014_asilo_asgidocumenti.pdf Mafie Pio la Torre e Rosario Di Salvo (di Enrico Berlinguer) Siamo qui a rivolgere l’ultimo saluto al compagno Pio La Torre ed al compagno Rosario Di Salvo, dopo che per ben due giorni sono sfilati davanti alle loro salme migliaia e migliaia di cittadini: militanti comunisti, uomini e donne semplici, bambini, intere famiglie. Ma non solo qui a Palermo, e non solo in Sicilia, si è pianto per i nostri due cari compagni. Nelle fabbriche, nelle piazze, in tutti i centri del Paese la notizia dell’infame delitto ha sollevato un’ondata di commozione e di sdegno. 5 E tutte le autorità dello Stato – a cominciare dal Presidente della Repubblica, che oggi è qui con noi, insieme ai rappresentanti del Parlamento, del Governo, della Regione, dei Partiti, delle Organizzazioni sindacali e di massa, della Stampa — hanno reso omaggio a Pio La Torre e Rosario Di Salvo, al loro coraggio, alla loro esemplare milizia politica tutta dedicata alla lotta per la giustizia. Pio La Torre e Rosario Di Salvo: un prestigioso dirigente e un appassionato militante del nostro Partito, quasi uniti da un comune destino! Erano tornati ambedue da poco tempo in una trincea di prima linea, qual è quella contro il terrorismo politico mafioso che da anni insanguina la terra di Sicilia. Rosario Di Salvo da qualche anno aveva lasciato il lavoro di autista nell’apparato tecnico del Partito e si era dedicato con successo ad una attività (ragioniere in una cooperativa) che gli consentiva di fare fronte un po’ meglio alle necessità della famiglia: la moglie e tre bambine. Ma ecco che questo compagno, proprio quando Pio La Torre è rientrato a Palermo con l’incarico di segretario regionale del PCI, abbandona la sua occupazione e chiede di tornare a fare l’attività di Partito. « Guadagnerò di meno, dice, ma questa è la mia vita. Mia moglie ora fa dei ricami in casa. Ce la faremo lo stesso ». Ecco chi era Di Salvo: un compagno mosso da una profonda irresistibile passione politica, da uno spirito di assoluta fedeltà al Partito, di cui vedeva la ripresa di iniziativa e di slancio, con una soddisfazione che lo ripagava delle pene e dei rischi che egli valutava bene, come dimostra il fatto che egli ha estratto la sua ‘pistola ed ha sparato cinque colpi, che forse hanno ferito uno degli assassini. Anche Pio La Torre aveva compiuto la scelta di un ritorno, ben sapendo che si trattava della scelta di un posto di lotta e di lavoro pieno di difficoltà e di pericoli. Era tornato a Palermo da otto mesi, come segretario regionale, su sua richiesta. Pio La Torre era nato nel 1927 in una famiglia di piccoli contadini dell’agro palermitano, a Mezzomonreale, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal luogo dove poi ha trovato la morte. Nel 1945 si iscrive alla FGCI, di cui diventa dirigente. Poco dopo, come responsabile di organizzazione della Federazione di Palermo, partecipa alle lotte dei contadini del Corleonese dove già impera, giovanissimo, il mafioso Liggio. Era quello il periodo nel quale il nostro Partito in Sicilia era diretto dal compagno Girolamo Li Causi, il primo dirigente politico che alzò la bandiera della lotta contro la mafia andando a sfidarne i capi a Villalba, dove fu ferito. Nel corso di una manifestazione per la terra dei contadini di Bisacquino nel marzo 1950, La Torre viene arrestato e resta in carcere per un anno e mezzo . È di quel periodo una sua bella lettera al compagno Paolo Bufalini, allora segretario della Federazione di Palermo, che l’«Unità» ha pubblicato ieri. Scriveva il giovane La Torre: « In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia, a Li Puma, a Rizzotto, a Cangelosi ». Quella prima tragica lista, che La Torre ricordava nel febbraio 1951, si è poi terribilmente allungata, e oggi la conclude l’ultima vittima, proprio lui, La Torre, caduto per quegli stessi principi che allora annunciava, alla vigilia del 35° anniversario della strage di Portella delle Ginestre. Lo stesso compagno Bufalini, in una lettera dell’ottobre 1954 alla Direzione del Partito, nella quale si proponeva di inviare La Torre alla Scuola Centrale del Partito, ricorda lo sforzo del nostro compagno scomparso per legare le sezioni cittadine del Partito alle masse popolari dei quartieri, facendo delle sezioni stesse il centro di un movimento popolare largo contro il tugurio, per la casa e per la libertà: «Il compagno La Torre si giovò in questo lavoro della sua profonda conoscenza delle condizioni materiali e di vita e dell’animo del popolo palermitano. Il movimento ci fu, fu un movimento profondo, di base, portò al costituirsi di larghe alleanze, anche al vertice ». In queste parole lontane ormai quasi trent’anni, c’è l’indicazione di una concezione del partito e di uno stile di lavoro che sono gli stessi che ritroviamo nell’impegno di questi ultimi otto mesi. Nel 1952 il compagno La Torre, convinto che fosse necessario liberare il movimento sindacale — come egli affermava — da elementi di burocratismo e di corporativismo, chiese di passare al lavoro nel sindacato c divenne segretario della Camera del lavoro palermitana. Nello stesso anno fu eletto deputato all’Assemblea Regionale Siciliana. Successivamente La Torre fu segretario regionale della CGIL, e dal 1962 — in un momento anche allora difficile — segretario regionale del Partito, incarico mantenuto fino al 1967, quando divenne segretario della Federazione di Palermo. Nel 1969 il compagno La Torre — che dal IX Congresso era membro del Comitato Centrale e dall’XI membro della Direzione — fu chiamato a Roma dove ricoprì gli incarichi di responsabile della Sezione agraria e poi della Sezione meridionale. Ma, come diceva di se stesso un altro amatissimo compagno recentemente scomparso, Feliciano Rossitto, La Torre era « un siciliano all’estero », e proprio nel senso migliore: nei suoi incarichi di carattere nazionale, infatti, egli mai perse il contatto con quella realtà siciliana di cui conosceva le ingiustizie profonde e del cui popolo si sentiva parte. Nel 1972 La Torre è eletto deputato nazionale e inizia qui la sua intensa attività che con particolare passione e acuta intelligenza egli svolgerà nel lungo e complesso lavoro della Commissione parlamentare antimafia, della quale poi sarà relatore di minoranza. Al XV Congresso del Partito, nel 1979, Pio La Torre fu eletto membro della Segreteria. E qui, ancora una volta, egli seppe dimostrare grandi doti di iniziativa, di inventiva, di tempestività, di senso pratico. Ricordo un episodio assai significativo. Appena ebbe notizia del terremoto in Campania ed in Basilicata, Pio La Torre corse al suo ufficio in Via delle Botteghe Oscure, chiuso per il giorno festivo. Di lì, senza esitazioni e indugi, cominciò a tempestare di telefonate le Federazioni e i Comitati Regionali dell’Emilia, della Toscana, di mezza Italia, dando indicazioni perché immediatamente, la notte stessa, partissero i primi soccorsi alle popolazioni terremotate. E fu così che il giorno dopo, all’alba, nei paesi del terremoto dove ancora non si era sentita la minima presenza delle autorità pubbliche (e tutti ricordiamo la vigorosa denuncia che di ciò fece il Presidente della Repubblica), arrivarono i camions delle Sezioni e Federazioni del PCI e della FGCI e delle Amministrazioni di Sinistra. Al centro del Partito, egli ha lavorato bene, guadagnandosi la stima e l’affetto dei compagni, affermandosi con crescente prestigio nel Parlamento, tra le altre forze politiche, tra gli avversari. Nella Segreteria e nell’Ufficio di segreteria del Partito, è stato un uomo prezioso. Dotato di una giusta visione politica generale, sempre più arricchitosi — nel corso di oltre trent’anni di ininterrotta faticosa milizia politica — di sensibilità e interessi culturali vari ed ampi, Pio La Torre, nella sua attività di dirigente nazionale del Partito, si avvantaggiava di una sua lunga esperienza, di base e periferica, di lotta e di organizzazione. Si avvantaggiava dell’esperienza e affinata capacità di uno che non si limita a fare sfoggio delle parole « masse », « partecipazione », « lotta », « costruzione », ma conosce bene le masse dei lavoratori, le masse popolari, e prime fra tutte quelle della sua terra, della sua Sicilia, e del Mezzogiorno; di uno che sa per diretta esperienza che cosa sia la vita dei contadini, dei lavoratori, che cosa sia il movimento delle masse, da quali semplici e profonde ragioni scaturisca, come lo si susciti, lo si organizzi e lo si diriga: tutte cose imparate dalla gavetta, nella ascesa dagli incarichi più modesti fino a quelli massimi, nel sindacato e nel partito: da costruttore di leghe di braccianti e di minatori, di cooperative di contadini senza terra, a costruttore di sezioni del partito, nel più remoto villaggio di Sicilia, o nella città di Palermo, nei suoi mandamenti, nelle sue borgate; a costruttore e dirigente di federazioni del partito. Per tutto questo, e per altre doti, La Torre a Roma non si limita a contribuire alla elaborazione di una linea politica, e ad esporla in modo limpido, con semplicità e concretezza — come si può constatare rileggendo i suoi articoli —, ma sa muovere le leve che servono a mobilitare e dirigere il Partito, in campagne e battaglie specifiche, determinate; con l’obiettivo di condurle ad una conclusione positiva, 6 nell’interesse delle masse lavoratrici e del Paese; ad un successo pur limitato e parziale, ma che sia una nuova conquista, da cui muovere per altre battaglie, per nuovi progressi. Vi erano in La Torre — così maturatosi — ampiezza di vedute e attivismo. Ecco perché dispiaceva, al centro nazionale del Partito, privarsi della presenza — operosa, generosa, cordiale — di La Torre. E a Roma egli era ben ambientato, con la sua famiglia, con gli amici. Tuttavia egli chiese, con tenacia e forza di volontà, di tornare in Sicilia, nella sua terra: dove aveva visto nel corso degli anni la situazione aggravarsi sempre di più; dove vedeva i compagni chiamati a far fronte a compiti e battaglie sempre più difficili ed aspre, ad esporsi a tutti i rischi. Altro che «proconsole» inviato da Roma in Sicilia — come qualcuno, per la verità isolato, nel grande coro di commossi ed alti riconoscimenti dati dalla stampa a Pio La Torre, ha scritto! Un autentico siciliano, palermitano profondo è stato Pio La Torre, che è voluto tornare nella sua terra per combattervi di persona e in prima fila la lotta di redenzione del suo popolo, sfidando, consapevole, ogni pericolo, e morendo! Appena tornato La Torre in Sicilia, hanno subito preso nuovo spicco i cardini della politica del PCI nell’Isola, e, dall’Isola, dalla sua specifica condizione e posizione, in tutta l’Italia. La lotta per la pace, la distensione, il disarmo; per la cooperazione dell’Italia con l’Africa settentrionale e con il mondo arabo; per una giusta soluzione della tragica questione medio-orientale, minacciosa ed esplosiva; per fare del Mediterraneo un mare di pace; perché la Sicilia faccia da ponte tra due sponde, tra due canali, nel segno della pace, della cooperazione, del progresso, della cultura e della civiltà — nella linea della sua migliore tradizione e storica funzione. La lotta contro la violenza mafiosa, fattasi sempre più barbara, caratterizzata dai modi nuovi, odierni, della speculazione, dallo sfruttamento, dalla seminazione di distruzione e di morte: al primo posto, la droga. Caratterizzata dal dilagare di assassini feroci. E caratterizzata da un tratto nuovo, di estrema gravità: l’aggressione diretta, l’eliminazione fisica, feroce, di uomini investiti di pubbliche funzioni e di uomini politici che dimostrano coerente fermezza nell’adempimento dei loro doveri e nel perseguire, seriamente e concretamente, un disegno di risanamento e rinnovamento politico, sociale, civile. Infine, come fondamento e coronamento di tutte le battaglie, il promovimento e la costruzione di una nuova unità del popolo siciliano, attraverso collaborazioni e intese di tutte le sue forze popolari, di sinistra e democratiche più avanzate, di tutte le sue forze oneste, sane, che aspirano alla pace ed al progresso, che vogliono il rinnovamento. Di tutte le forze che veramente vogliono che si metta fine alle ingiustizie sociali, ai crimini mafiosi, allo spargimento di sangue, agli agguati vili ed ai barbari assassini, ai facili scandalosi arricchimenti, ai sistemi del privilegio delle clientele e della corruttela, alla collusione della mafia con il potere politico che produce omertà e fa da scudo all’attività criminale; che si metta fine alla disoccupazione e inoccupazione e prima di tutto a quella giovanile; di tutte le forze che veramente vogliono riformare la vita ed il funzionamento della Regione autonoma, facendo finalmente dell’Autonomia, che storicamente è grande conquista del popolo siciliano, lo strumento di autogoverno e controllo popolare, centro di aggregazione di tutti i siciliani che aspirano ad uno sviluppo libero, sano, pulito, trasparente, a una Sicilia rinnovata, in una Italia rinnovata, e pacifica. Questi, in Sicilia e per la Sicilia, i cardini, i pilastri portanti, della linea del PCI, chiaramente concepiti, attraverso una elaborazione continuamente aggiornata, da Pio La Torre, e da lui concretamente perseguiti con passione, con tenacia e decisione. Tutti hanno visto in lui un grande animatore, un protagonista nella battaglia per Comiso, per stornare dalla Sicilia la terrificante minaccia della distruzione atomica, per preservarne la pace. Per questo scopo, egli, da un lato ha saputo mobilitare a fondo, ampiamente, il Partito comunista e gli strati popolari da esso influenzati; per altro verso, ha ricercato il collegamento e l’unità con altre forze politiche ed ideali, che, pur muovendo da impostazioni differenti, convergono su questo obiettivo di pace: nel reciproco leale rispetto dell’individualità e autonomia di ogni forza diversa. Per quanto riguarda noi comunisti, ci siamo battuti e ci battiamo — come il compagno La Torre aveva chiaramente precisato — perché si sospendano i lavori di approntamento delle basi per i missili a Comiso, in vista della ripresa e degli auspicati progressi del negoziato Est-Ovest, con l’obiettivo della sicurezza di tutti e dell’equilibrio al livello più basso. Davanti al feretro del compagno La Torre, tenace e intrepido combattente per la causa decisiva della pace, caduto nel vivo di questa lotta proprio nel momento in cui il movimento in Sicilia ha acquistato un’ampiezza e un vigore grandi e quindi un peso effettivo; dinanzi al sacrificio del compagno La Torre e del compagno Di Salvo — compagni, amici, cittadini — noi prendiamo l’impegno di continuare a dare il più grande contributo per sviluppare ulteriormente la battaglia per Comiso e per la pace. L’assassinio di La Torre e di Di Salvo non la fermerà. Nel loro nome, lotteremo con impegno ancora maggiore. Tutti hanno visto come La Torre abbia condotto la battaglia contro il sistema di potere mafioso, contro i suoi crimini. Egli ne conosceva le forme nuove di attività, i metodi, le connivenze, le interferenze e convergenze con settori e punti determinanti della vita politica e amministrativa. Tutto ciò egli ha denunciato, con serenità, con obiettività e misura, con inflessibile coerenza e coraggio. Dal Convegno sulla mafia, promosso da noi a Palermo, con proposte nuove molto serie (come quelle riguardanti gli accertamenti dei rapidi mutamenti patrimoniali e dei facili arricchimenti); alla delegazione di Pio La Torre e di altri parlamentari comunisti dal Presidente del Consiglio, prima della nomina del generale Dalla Chiesa alla carica di Prefetto di Palermo; vi è stato, con la direzione di La Torre, un coerente sviluppo di una lotta concreta e seria contro il sistema di potere mafioso e i suoi delitti. Stroncato La Torre nel feroce e vile agguato, noi, davanti al suo feretro, prendiamo l’impegno di continuare con fermezza e intelligenza, con obiettività e coraggio, questa lotta. Perché hanno ucciso La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denuncie di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio. Era uomo che, alla testa di un grande partito di lavoratori e di popolo, di gente schietta e pulita, era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie alleanze con forze ed uomini sani, democratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpivano nel segno. Era capace di portare avanti una politica di rinnovamento, di giustizia sociale, di sviluppo della Sicilia, di corretta e piena realizzazione della sua autonomia, di unità contro il riarmo e per la difesa della pace. Proprio mandando avanti una tale politica, si recidono radici, si toglie spazio al potere mafioso, alle sue rapine, alle sue prevaricazioni, ai suoi dilaganti crimini efferati. È del tutto evidente che tale attività criminale è diretta, alimentata, sviluppata da forze reazionarie, e assecondata da gruppi economici e politici incapaci di concepire la ricerca di soluzioni dei loro problemi in una visione politica ed economica di libero sviluppo della Sicilia e della sua autonomia, della democrazia italiana, o in una prospettiva di disarmo e di pace. Ciò spiega come ogni uomo che dimostri di volere perseguire un rinnovamento, e di avere capacità e vigore, è considerato da queste forze un nemico, che si deve fare fuori. Questo è accaduto per uomini, fra loro molto diversi, come Piersanti Mattarella e Pio La Torre, come Cesare Terranova e Lenin Mancuso, come Gaetano Costa e Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e molti altri, alla cui memoria noi ci inchiniamo. Noi chiediamo giustizia per loro, per tutti i caduti per mano assassina! Ancora una volta incitiamo tutti i compagni, tutti i cittadini, a dare piena collaborazione alla polizia, alle forze dell’ordine, alla magistratura, a tutte le autorità competenti. Chiediamo alle autorità, ad ogni livello, di adoperare – tutti gli strumenti che, la Costituzione e le leggi mettono a loro disposizione, con rigoroso rispetto democratico, con penetrante impegno, con inflessibile fermezza. Ci hanno strappato uno dei nostri uomini migliori, un compagno fraterno, un dirigente forte, come Pio La Torre. Hanno spento, con vile ferocia, uno dei figli migliori della Sicilia, che ha sempre lottato per la gente povera, per la giustizia, per la rinascita di Palermo e dell’Isola. Un uomo, come ha detto il Vescovo Don Riboldi, buono e pulito! 7 Hanno barbaramente stroncato un giovane compagno, coraggioso e disinteressato, come Rosario Di Salvo. Vogliamo giustizia; vogliamo verità; per loro, per tutti i caduti. Nessuno pensi di averci intimidito. Il Partito Comunista Italiano raccoglie questa sfida. Vigilerà, combatterà, recluterà nuovi militanti, farà avanzare nuovi dirigenti. Lotterà, attraverso grandi movimenti di massa, ampi, decisi, sollecitando le più larghe alleanze, per mettere fine ai delitti, allo spargimento di sangue; per la giustizia sociale, per uno sviluppo economico sano che assicuri a tutti lavoro; per una unità del popolo siciliano, che isoli reazionari e mafiosi, che permetta di realizzare il risanamento morale, il rinnovamento politico e sociale, la piena attuazione, nella pace, della autonomia siciliana e dei suoi scopi. A nome di tutto il nostro Partito ringrazio il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, per essere venuto qui a Palermo a confermare la sua solidarietà al nostro dolore, e la sua adesione all’impegno del popolo siciliano nella lotta per la giustizia e per la libertà. Ringrazio il Presidente della Camera, i rappresentanti del Senato, il Presidente del Consiglio, tutte le altre autorità dello Stato e della Regione, le delegazioni dei Partiti, dei Sindacati, delle Associazioni, degli Organi di informazione. Esprimo tutto il nostro affetto alla moglie, ai figli ed ai familiari del compagno Pio La Torre e del compagno Rosario Di Salvo. Nel loro immenso dolore per la perdita irreparabile, sentano che Pio e Rosario sono stimati e amati e saranno ricordati da una moltitudine di siciliani e di italiani come due intrepidi combattenti che hanno lottato per la causa giusta. A voi, compagne e compagni della Sicilia, e ai compagni di tutta l’Italia, diciamo: sull’esempio e nel nome dei compagni caduti intensifichiamo l’impegno in una lotta più ampia e decisa dei lavoratori e delle forze popolari per il riscatto della Sicilia, per il rinnovamento dell’Italia; per la pace. (fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea - segnalato da: Gino Buratti) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2055 Nonviolenza Geopolitica nonviolenta: legge, politica e sicurezza nel ventunesimo secolo (di Richard Falk) In questo breve saggio il mio tentativo consisterà nell’articolare una concezione di un ordine mondiale basato su una geopolitica nonviolenta nonché nel prendere in considerazione alcuni ostacoli alla sua realizzazione. Concentrandomi sull’interconnessione tra “legge” e “geopolitica” l’intenzione è di considerare il ruolo svolto sia dalle tradizioni normative della legge e della morale, sia l’orientamento “geopolitico” che continua a guidare gli attori politici dominanti sulla scena globale. Un simile approccio mette in discussione la principale premessa del realismo, che la sicurezza, la leadership, la stabilità e l’influenza nel ventunesimo secolo continuino a basarsi principalmente sul potere militare, o su quelle che sono a volte descritte come le capacità del “potere materiale” [1]. In una simile prospettiva la legge internazionale svolge un ruolo marginale, utile per contrastare il comportamento degli avversari, ma su cui non fare affidamento nel calcolare l’interesse nazionale di un paese. In quanto tale, il principale contributo della legge internazionale, a parte la sua utilità nell’agevolare la cooperazione in situazioni in cui interessi nazionali convergano, consiste nel mettere a disposizione una retorica che razionalizza iniziative controverse di politica estera assunte da un paese e nel demonizzare comportamenti paragonabili di uno stato nemico. Questo ruolo digressivo non va minimizzato, ma non dovrebbe neppure essere confuso con l’esercizio di norme di freno in modo coerente ed equo. In questo capitolo la mia intenzione è di fare tre cose: • mostrare il grado in cui le vittorie nella seconda guerra mondiale hanno plasmato, attraverso la Carta dell’ONU, • • essenzialmente un ordine mondiale che, messo in atto nei comportamenti, avrebbe emarginato la guerra e codificato in modo indiretto un sistema di geopolitica nonviolento; in altri termini le fondamenta costituzionali e istituzionali esistono già, ma in forma inerte; criticare il [proporre una critica del] paradigma realista che non molla mai la sua presa sull’immaginario delle élite politiche dominanti e un approccio che non ha riconosciuto l’obsolescenza e i pericoli associati al sistema bellico; e, infine, prendere in considerazione alcune tendenze della vita internazionale che rendono razionale lavorare in direzione dell’incorporazione della geopolitica nonviolenta nella pratica, nelle idee e nei formalismi della legge internazionale. I. La Carta dell’ONU e un approccio legalistico alla geopolitica nonviolenta Nel seguito immediato della seconda guerra mondiale, particolarmente alla luce degli orrendi bombardamenti atomici di città giapponesi, anche quelli che avevano un orientamento realista erano profondamente preoccupati di ciò che il futuro faceva presagire e senza riflettere molto si accordarono su un quadro costituzionale di politica mondiale che conteneva la maggior parte degli elementi della geopolitica nonviolenta. Per un certo verso si trattò della prosecuzione di una tendenza che si era avviata dopo la prima guerra mondiale con la creazione della Lega delle Nazioni, riflettente un incerto avallo del sentimento di Woodrow Wilson che una simile conflagrazione aveva rappresentato “una guerra per por fine a tutte le guerre”. Tuttavia i governi coloniali europei fecero di Wilson oggetto di umorismo e continuarono a credere che il sistema bellico fosse attuabile e costituisse parte integrante del mantenimento dell’egemonia occidentale e la Lega delle Nazioni si dimostrò irrilevante nell’evitare l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma la seconda guerra mondiale fu diversa, perché offrì ai leader politici un ammonimento sinistro su ciò che avrebbe probabilmente comportato una guerra futura tra grandi stati e sembrò affidare il futuro a una coalizione di potenze vittoriose che avevano collaborato contro la minaccia posta dal fascismo e, secondo il punto di vista del leader statunitense Franklin Roosevelt, avrebbero potuto altrettanto bene collaborare per mantenere la pace. In aggiunta a ciò, i ricordi della Grande Depressione e la presa di coscienza che la pace punitiva imposta alla Germania nel Trattato di Versailles aveva incoraggiato l’ascesa di Hitler diede alla dirigenza globale mondiale dell’epoca un incentivo ad agevolare la cooperazione nel commercio e negli investimenti e a capire l’importanza di ripristinare l’economia della Germania, dell’Italia e del Giappone sconfitti, in modo da evitare il ripetersi di un’altra depressione catastrofica. Fu in questa atmosfera che fu concordata la Carta dell’ONU con i suoi principi cardine basati su quanto segue: (1) il divieto incondizionato di ricorso alla forza nelle relazioni internazionali salvo che per autodifesa da un previo attacco armato, che significava la messa al bando della guerra come strumento di politica nazionale; (2) il rafforzamento di questo divieto con un impegno collettivo dei membri dell’ONU ad aiutare qualsiasi stato sia bersaglio di una forza non difensiva, compresi interventi con la forza sotto gli auspici dell’ONU per ripristinare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di un tale stato violato; in nessuna circostanza doveva essere legalmente accettabile che uno stato acquisisse territorio ricorrendo alla forza; (3) l’ulteriore rafforzamento di questo atteggiamento mediante il precedente fissato a Norimberga e Tokyo che ritenne personalmente responsabili penalmente i leader che dirigono una guerra aggressiva e dalla ‘promessa di Norimberga’ che assumeva l’impegno che in futuro tutti i leader politici sarebbero stati soggetti alla responsabilità penale e non [solo] quelli che avevano perso guerre (‘giustizia dei vincitori’); (4) l’impegno a rispettare la sovranità interna di tutti gli stati, piccoli o grandi, attraverso l’accettazione di un obbligo incondizionato di astenersi da qualsiasi interferenza in questioni essenzialmente interne alla giurisdizione nazionale. 8 Tale quadro legale, se messo in pratica, avrebbe efficacemente eliminato le guerre e gli interventi militari internazionali, preservato la struttura statale dell’ordine mondiale e creato un solido insieme di meccanismi collettivi di sicurezza per impedire l’aggressione e per sconfiggere e punire qualsiasi governo e i suoi leader impegnati in guerre aggressive. E’ importante rendersi conto che questa visione legalistica dell’ordine mondiale assumeva che fosse politicamente possibile creare un simile mondo senza guerre e che la razionalità avrebbe prevalso nell’era nucleare per ridefinire l’approccio alla sicurezza assunto dai ‘realisti’. E’ anche rilevante osservare che la geopolitica nonviolenta incorporata nella Carta dell’ONU non implicò mai un abbraccio totale alla nonviolenza come precondizione della vita politica. Era compreso che all’interno degli stati si sarebbero verificate politiche insurrezionali violente e varie forme di conflitti civili, senza violare le norme internazionali. Secondo il piano della Carta le guerre interne erano oltre la portata del contratto sociale sottoscritto dagli stati per rinunciare al ricorso alla violenza internazionale. A questo riguardo anche una guerra interna, a meno che si estendesse oltre i confini per diventare una specie di guerra internazionale, non doveva essere affrontata dall’ONU. Pur nell’ambito di questa concezione legalistica della geopolitica nonviolenta ci sono difficoltà considerevoli. Innanzitutto il conferimento di un diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che significava che nessuna decisione avversa agli interessi vitali degli attori politici più pericolosi del mondo potesse essere raggiunta, e che questa esenzione di fatto dall’impegno alla geopolitica nonviolenta comprometteva gravemente il valore del quadro legale, rendendo assolutamente cruciale, per conseguire le pretese di sicurezza poste dall’ONU, partire dal presupposto ottimistico di una durevole alleanza per la pace. In secondo luogo l’accettazione della sovranità interna come legalmente assoluta significava che non ci sarebbero state basi legali per contrastare efficacemente il verificarsi di genocidi o di gravi crimini contro l’umanità e di altre situazioni catastrofiche in cui finiva coinvolta una società preda di un conflitto civile del genere che attualmente colpisce la Siria. Naturalmente queste carenze legali sembrano quasi irrilevanti nell’ottica della mancanza di volontà politica di attuare la visione della Carta della geopolitica nonviolenta. A posteriori sembra chiaro che prima ancora che la Carta fosse ratificata le élite al governo negli Stati Uniti e in Unione Sovietica avevano riaffermato il loro assegnamento sulla loro forza militare, sulle loro alleanze politiche e sulle loro dottrine di deterrenza per fondare la propria sicurezza nella logica della potenza materiale contrapposta. Inoltre l’alleanza antifascista, così efficace in tempo di guerra, crollò rapidamente in assenza di un nemico comune e seguì la lunga guerra fredda, che assicurò che le dimensioni della sicurezza collettiva della visione della Carta sarebbero rimaste lettera morta, anche se ciò non significava implicare che l’ONU fosse un fallimento totale. In realtà i suoi contributi positivi erano associati alla facilitazione della cooperazione internazionale ogni volta che era presente un consenso politico, operando ai margini normativi della prevalente visione del mondo basata sulla potenza materiale. Questi vuoti legali avrebbero potuto essere superati se la visione del mondo dei principali attori politici avesse veramente abbracciato la geopolitica nonviolenta come qualcosa di più che una specie di vago quadro di sicurezza cui aspirare al quale non doveva mai essere permesso di interferire con la fede realista nella deterrenza e nella forza militare una volta superato lo shock dell’alba dell’era nucleare. C’era un fattore storico che operava contro qualsiasi serio tentativo di limitare questo approccio realista alla sicurezza: la cosiddetta ‘lezione di Monaco’ e cioè che l’aggressione tedesca era stata incoraggiata dalle politiche di conciliazione delle democrazie liberali europee, che a loro volta riflettevano una debolezza militare dovuta al considerevole disarmo successivo alla prima guerra mondiale. Tale visione del passato recente si tradusse in un argomento quasi irresistibile a sostegno di un approccio militarista all’ordine mondiale, che era rafforzato dalla sfida ideologica e geopolitica attribuita all’Unione Sovietica. Ciò che questo significava in rapporto con la posizione sostenuta qui è che la geopolitica violenta o incline alla guerra era pienamente ripristinata, verosimilmente universalizzata, e limitata solo da una qualità di rafforzata prudenza per quanto riguardava i confronti tra grandi potenze, come durante le varie crisi di Berlino e quella dei missili cubani del 1962. La prudenza era sempre stata una virtù politica cardine dell’approccio realista classico, ma non era elevata a un ruolo centrale nell’equilibrare il perseguimento di interessi vitali rispetto al rischio di una guerra catastrofica. (Aron, 1966, articola al meglio questo approccio realista). II. L’argomento etico/politico a favore della geopolitica nonviolenta L’argomento contrastante presentato qui è che i risultati politici dopo la fine della seconda guerra mondiale sono stati principalmente plasmati dall’ingegno dei poteri morbidi che ha piuttosto costantemente superato una condizione di inferiorità militare per ottenere i propri risultati politici desiderati. Gli Stati Uniti controllavano completamente terra, aria e mare nel corso dell’intera guerra del Vietnam, vincendo ogni battaglia e tuttavia perdendo alla fine la guerra, uccidendo sino a 5 milioni di vietnamiti sulla via del fallimento del loro intervento militare. Ironicamente il governo USA proseguì nel coinvolgere il vittorioso governo vietnamita e attualmente gode di rapporti diplomatici ed economici amichevoli e produttivi. In questo senso la differenza strategica tra sconfitta e vittoria è quasi impercepibile, rendendo le perdite e le devastazioni della guerra ancor più tragiche, in quanto inutili da ogni punto di vista. Ciò nonostante i militaristi statunitensi si sono rifiutati di imparare da quel risultato, trattando l’impatto di tale sconfitta come una specie di malattia geopolitica, la “sindrome del Vietnam”, piuttosto che come un riflesso di una tendenza storica a favore delle rivendicazioni legittime di autodeterminazione nonostante la vulnerabilità militare di quei movimenti nazionalisti. I realisti tradizionali hanno ricavato la lezione sbagliata, insistendo che il risultato era un’eccezione piuttosto che la regola, un caso di demoralizzazione del sostegno nazionale alla guerra, non una questione di sconfitta contro un avversario più forte [2]. In effetti, superare la sindrome del Vietnam ha significato ripristinare la fiducia nella politica della potenza materiale e perciò neutralizzare l’opposizione nazionale alla guerra. Questo controllo militarista resuscitato sulla formazione della politica estera statunitense è stato proclamato come conquista della guerra del Golfo nel 1991, che indusse in modo rivelatore l’allora presidente statunitense George H.W. Bush a pronunciare queste parole memorabili sulla scia immediata di tale vittoria militare nel campo di battaglia del deserto del Kuwait: “Ci siamo finalmente liberati della sindrome del Vietnam”. Intendendo naturalmente che gli Stati Uniti avevano dimostrato di poter scatenare e vincere guerre a costi accettabili, senza soffermarsi a notare che tali vittorie erano ottenute soltanto dove il terreno era adatto a uno scontro puramente militare e quando la capacità e la volontà del nemico di resistere erano minime o inesistenti. Non è che la potenza materiale sia obsoleta, ma piuttosto che non è in grado di plasmare gli esiti dei conflitti più caratteristici del periodo successivo al 1945 e cioè la lotta politica per cacciare forze oppressive che rappresentano una potenza imperiale straniera o per opporsi a un intervento militare. La potenza materiale è tuttora decisiva negli scontri con la potenza materiale o in situazioni in cui la parte più debole è indifesa e la parte più forte è preparata a portare il suo dominio militare a estremi genocidi. Non è certo sorprendente che l’affidamento eccessivo e anacronistico alle soluzioni della potenza materiale in situazioni di conflitto abbia portato a una serie di fallimenti, sia riconosciuti (guerra dell’Iraq), sia non riconosciuti (guerra dell’Afghanistan, guerra in Libia). Fintanto che gli Stati Uniti investono in potenziale militare tanto più pesantemente di ogni altro stato, saranno costretti a reagire alle minacce o a perseguire i propri interessi lungo la via della potenza materiale, rifiutando in tal modo di tener conto della chiara tendenza storica a favore del dominio dei poteri morbidi in situazioni di conflitto. 9 Anche Israele ha adottato un approccio simile, affidandosi alla sua superiorità militare per distruggere e uccidere, ma non essendo in grado di controllare i risultati politici delle guerre in cui si imbarca (ad esempio la guerra del Libano del 2006, gli attacchi a Gaza del 2008-09). Un altro costo della potenza materiale o della geopolitica violenta consiste nel minare il rispetto del primato della legge nella politica globale e dell’autorità delle Nazioni Unite. Una seconda dimostrazione dell’anacronismo dell’affidarsi a un sistema di sicurezza basato sulla violenza è stata associata alla reazione agli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono, i duplici simboli dell’imperio statunitense. Una caratteristica di tale evento è stata la rivelazione dell’estrema vulnerabilità dello stato maggiormente dominante in termini militari dell’intera storia umana a un attacco di un agente non statale senza armamenti significativi e privo di grandi risorse. Dopo di ciò è divenuto chiaro che gli enormi investimenti statunitensi nel conseguire un “dominio a pieno spettro” non avevano prodotto una sicurezza rafforzata, bensì il senso più acuto di insicurezza nella storia del paese. Ancora una volta è stata ricavata la lezione sbagliata e cioè che il modo per ripristinare la sicurezza consisteva nello scatenare una guerra indipendentemente dalla natura diversa di questo nuovo genere di minaccia, nel fare un uso irrazionale della macchina militare all’estero e nel ridurre le libertà in patria nonostante l’assenza di un avversario territoriale o di qualsiasi rapporto di mezzo-fine tra il ricorso alla guerra e la riduzione della minaccia [3]. La lezione appropriata, avvalorata dall’esperienza, è che tale minaccia alla sicurezza può essere affrontata meglio da una combinazione di forze di polizia transnazionali e affrontando le rivendicazioni legittime degli estremisti politici che lanciarono gli attacchi. La reazione spagnola agli attacchi di Madrid dell’11 marzo 2004 è sembrata sensibile a queste nuove realtà: ritiro dal coinvolgimento nella guerra dell’Iraq e contemporaneo rafforzamento degli sforzi della polizia per identificare e arrestare estremisti violenti e partecipazione a tentativi di dialogo per ridurre la tensione tra l’Islam e l’Occidente [4]. In un diverso contesto, l’ex primo ministro britannico John Major ha osservato di aver cominciato a fare progressi nel por fine alle violenze nell’Irlanda del Nord soltanto quando smise di pensare che l’IRA fosse un’organizzazione terroristica e cominciò a trattarla da protagonista politico con rivendicazioni reali e proprie motivazioni per raggiungere un accomodamento e la pace. La lezione giusta consiste nel riconoscere l’utilità molto limitata della potenza militare in situazioni conflittuali all’interno del mondo postcoloniale, afferrando la misura in cui la lotta popolare ha esercitato un protagonismo storico nel corso degli ultimi sessant’anni. Ha plasmato numerosi esiti di conflitti che non potevano essere compresi se valutati solo attraverso le lenti della potenza materiale che interpretano la storia come di solito determinata da guerre vinte dalla parte che ha l’esercito più forte e poi decide i termini della pace [5]. Ogni guerra anticoloniale dell’ultima metà del ventesimo secolo è stata vinta dalla parte militarmente più debole, che alla fine ha prevalso pur subendo perdite sproporzionate nel cammino verso la vittoria. Ha vinto perché il popolo era mobilitato nell’interesse dell’indipendenza da forze coloniali straniere e la sua resistenza ha incluso la conquista del controllo completo della superiorità morale. Ha vinto per la verità politica racchiusa nel detto afghano: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Conquistare la superiorità morale ha sia delegittimato il regime coloniale, sia legittimato la lotta anticoloniale; alla fine anche l’ONU, stato-centrica e inizialmente amica dell’impero, è stata indotta ad avallare le lotte anticoloniali con riferimento al diritto all’autodeterminazione, che è stato proclamato diritto inalienabile di tutti i popoli. Questa influenza delle capacità del potere morbido nelle lotte politiche non è sempre stata tale. In tutta l’era coloniale e fino a metà del ventesimo secolo, la potenza materiale era in generale efficace ed efficiente, così come espressa dalle conquiste coloniali dell’emisfero occidentale con piccoli numeri di truppe ben armate, dal controllo britannico sull’India con poche migliaia di soldati o dal successo della “diplomazia delle cannoniere” nel sostenere l’imperialismo economico statunitense nell’America Centrale e nei Caraibi. Ciò che fece volgere la marea della storia contro il militarismo fu l’ascesa della coscienza di sé nazionale e culturale nei paesi del Sud, più spettacolarmente in India sotto la guida ispirata di Gandhi, dove forme coercitive nonviolente di potere morbido rivelarono per la prima volta la loro potenza. Più recentemente, favorita dalla rivoluzione nelle comunicazioni, la resistenza ai regimi oppressivi, basata sui diritti umani, ha dimostrato i limiti del governo dei poteri forti in un mondo globalizzato. La campagna contro l’apartheid estese la lotta contro il regime razzista che governava il Sudafrica a un campo di battaglia simbolico globale dove le armi erano l’affidamento coercitivo nonviolento ai boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni. Il collasso dell’apartheid in Sudafrica fu in larga misura realizzato da sviluppi esterni alla sovranità territoriale, uno schema che oggi è replicato dalla “guerra di legittimitazione” palestinese scatenata contro Israele. L’esito non è garantito ed è possibile che la guerra per la legittimazione sia vinta e tuttavia siano mantenute le condizioni oppressive, come sembra accadere attualmente nel caso del Tibet. Su questo sfondo è considerevole e persino sconcertante che la geopolitica continui a essere mossa da un’unanimità realista che fuori dalla storia ritiene che la storia continui a essere determinata dalla grandiosa strategia dei protagonisti statali dominanti della potenza materiale [6]. In effetti i realisti hanno perso il contatto con la realtà. Sembra corretto riconoscere che rimane un ruolo razionale per la potenza materiale, come argine difensivo dal residuo militarismo statale, ma anche a questo riguardo i guadagni economici e politici della smilitarizzazione sembrerebbero superare di molto i benefici di una dipendenza anacronistica da forme di potenza materiale di autodifesa, specialmente quelle che rischiano guerre combattute con armi di distruzione di massa. Riguardo alla violenza politica non statale, le capacità della potenza materiale sono di scarsa o nulla rilevanza e la sicurezza può essere ottenuta meglio con accomodamenti, servizi d’informazione e forze di polizia transnazionali. Il ricorso statunitense alla guerra nell’affrontare la minaccia di al-Qaeda, come in Iraq e in Afghanistan, si è dimostrato costoso e maldiretto [7]. Proprio come la sconfitta USA in Vietnam ha replicato le sconfitte francesi nelle guerre coloniali scatenate in Indocina e in Algeria, il ciclo dei fallimenti è rinnovato nello scenario globale post 11 settembre. Perché lezioni simili che hanno rilievo nel modificare l’equilibrio tra potenza materiale e potere morbido restano ignorate nel centro imperiale delle manovre geopolitiche? E’ di grande importanza porre questa domanda anche se non è in arrivo alcuna risposta definitiva al presente. Ci sono alcuni indizi suggestivi relativi a spiegazioni sia materiali sia ideologiche. Sul lato materialista, ci sono strutture governative e sociali profondamente radicate la cui identità e i cui interessi di parte sono legati a una dipendenza massima dalla potenza materiale e dalla sua proiezione. Queste strutture sono state identificate in vari modi nello scenario statunitense: “stato della sicurezza nazionale”, “complesso militare-industriale”, “keynesismo militare” e “sistema bellico”. Fu Dwight Eisenhower che più di cinquant’anni fa ammonì circa il complesso militare-industriale nel suo discorso di addio, formulando rimarchevolmente la sua osservazione dopo che non era più in grado di esercitare influenza sulla politica governativa [8]. Nel 2010 sembra esserci una struttura più profondamente radicata a sostegno del militarismo e che si estende ai media dominanti, ai gruppi di esperti conservatori, a un esercito di lobbisti considerevolmente pagati e a un Congresso profondamente compromesso la maggioranza dei cui membri ha sostituito il denaro alla coscienza. Questo paradigma politicamente radicato che collega il realismo al militarismo rende virtualmente impossibile contestare un bilancio militare anche in tempi di deficit fiscali che sono riconosciuti da osservatori conservatori come una minaccia alla vitalità dell’impero USA (Ferguson 2010). La dimensione del bilancio militare, combinata con flotte in ogni oceano, più di 700 basi militari all’estero e un enorme investimento nella militarizzazione dello spazio mostrano l’autoassolutoria incapacità di riconoscere la disfunzionalità di tale atteggiamento globale [9]. Gli USA spendono quasi quanto l’intero mondo messo insieme per la propria macchina militare e più del doppio di quanto spendono i dieci principali stati che li seguono nella classifica. E 10 con quale vantaggio per gli interessi nazionali o globali? Il massimo che ci si può attendere da un aggiustamento dell’unanimità realista in queste condizioni è un certo ammorbidimento dell’enfasi sulla potenza materiale. Da questo punto di vista si nota che numerosi aderenti influenti all’unanimità realista hanno recentemente richiamato l’attenzione sulla crescente importanza di elementi non militari del potere nel perseguimento razionale di una grande strategia che continua a inquadrare la geopolitica con riferimento a presunte “realtà” della potenza materiale, ma che sono allo stesso tempo critici dell’arcimilitarismo attribuito ai neoconservatori (vedere Nye 1990; Gelb 2009; Walt 2005) [10]. Questo stesso tono pervade il discorso di Barack Obama alla cerimonia del Premio Nobel per la Pace nel 2009. Questo rifiuto realista di comprendere uno scenario globale largamente post-militarista è eccessivamente pericoloso, considerata la continua presa del realismo sulla definizione della politica da parte di forze governative e del mercato/finanza [11]. Tale realismo superato non solo si dà a imprese militari imprudenti; tende anche a trascurare una gamma di problemi più profondi che influenzano la sicurezza, la sopravvivenza e il benessere umano, tra cui il cambiamento climatico, il picco del petrolio, la scarsità d’acqua, la fragilità fiscale e la caduta libera del mercato. In quanto tale, questo orientamento politico è incapace di formulare le priorità associate a forme sostenibili e benevoli di governo globale. In aggiunta alla rigidità strutturale che deriva dal radicato paradigma militarista, sorge un’incapacità sistemica di apprendere che non è in grado di analizzare le cause principali dei fallimenti del passato. In termini pratici ciò porta a scelte politiche troppo stesso plasmate da un pensiero privo d’immaginazione intrappolato in un sistema militarista (militarist box). Nella recente esperienza politica internazionale, un pensiero prevalentemente confinato nella scatola militare ha condotto l’amministrazione Obama a intensificare il coinvolgimento USA in una lotta interna per il futuro dell’Afghanistan e a lasciare sul tavolo la cosiddetta opzione militare per trattare la prospettiva dell’acquisizione iraniana di armi nucleari. Un attraente approccio politico alternativo in Afghanistan sarebbe basato sul riconoscimento che quello dei talebani è un movimento che persegue obiettivi nazionalisti in mezzo a un conflitto etnico che divampa. In conseguenza si tenderebbe alla conclusione che gli interessi della sicurezza statunitense si avvantaggerebbero da una fine delle operazioni belliche, seguita da un graduale ritiro delle forze della NATO, da un grande incremento dell’assistenza allo sviluppo che eviti di canalizzare fondi attraverso un corrotto governo di Kabul e da una genuina svolta della politica estera USA verso il rispetto della politica dell’autodeterminazione. Similmente, in rapporto all’Iran, invece di minacciare un attacco militare e di promuovere misure punitive, una sollecitazione alla denuclearizzazione regionale, che insistesse sull’inclusione di Israele, sarebbe un’espressione sia di un pensiero estraneo al sistema militarista, sia dell’esistenza di reazioni non militari che offrano maggiore speranza a preoccupazioni effettivamente genuine per la sicurezza. III. Osservazioni conclusive: opportunità, sfide, tendenze In conclusione, è quasi destinata a realizzarsi una qualche forma di geopolitica, considerate la grossolana disuguaglianza degli stati e la debolezza delle Nazioni Unite come espressione istituzionale di un governo unificato per il pianeta. Specialmente dopo il crollo dell’Unione Sovietica il primato degli Stati Uniti si è inevitabilmente tradotto nella loro ascesa geopolitica. Sfortunatamente questa posizione ha avuto come premessa una fiducia acritica sul paradigma della potenza materiale, che combina militarismo e realismo, producendo una geopolitica violenta in rapporto a conflitti critici non risolti. L’esperienza degli ultimi sessant’anni mostra chiaramente che questo paradigma è insostenibile sia dal punto di vista pragmatico sia dei principi. Non consegue i propri obiettivi a costi accettabili, se mai li consegue. Si basa su pratiche immorali che implicano grandi uccisioni di innocenti e colossali sprechi di risorse. Forse la principale verifica della tesi di questo saggio è la continua lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese, sotto forma di un singolo stato laico includente l’intera Palestina storica o di stato indipendente e vitale per conto proprio coesistente con lo stato israeliano. Come stanno le cose oggi, dopo decenni di occupazione, la lotta palestinese si affida principalmente a una guerra di legittimazione basata su una serie di strumenti di potere morbido, tra cui la diplomazia e la guerra legale, una campagna nonviolenta di boicottaggio coercitivo e di disinvestimenti e una varietà d’iniziative della società civile che sfidano le politiche israeliane. C’è incertezza sull’esito futuro. L’intero orientamento del potere morbido ha fatto un gigantesco passo in avanti grazie alla “Primavera Araba” in cui movimenti popolari disarmati hanno sfidato regimi oppressivi e dittatoriali con alcuni successi notevoli, specialmente in Egitto e in Tunisia, ma ottenendo altrove almeno promesse di estese riforme. Io penso che sempre più le potenzialità della costruzione di un ordine mondiale sulla base di principi di potere morbido stiano guadagnando sostegno, trasferendo l’idea della geopolitica nonviolenta dal campo dell’utopismo al divenire un genuino progetto politico. Naturalmente c’è resistenza, soprattutto da parte degli oppositori guidati da Stati Uniti e Israele. Quelle forze politiche che si affidano all’alternativa di pratiche e principi nonviolenti, per contro, hanno mostrato la capacità di conseguire obiettivi politici e una volontà di perseguire i propri obiettivi con mezzi etici, a volte con grande rischio personale. Il movimento gandhiano che produsse l’indipendenza dell’India, la trasformazione, guidata da Mandela, del Sudafrica dell’apartheid, il potere popolare nelle Filippine e le rivoluzioni morbide nell’Europa Orientale dei tardi anni 1980 sono casi esemplari di trasformazioni nazionali basate sulla lotta nonviolenta che comportavano rischi per i militanti sino, in alcuni casi, al sacrificio della propria vita. Nessuna di queste vittorie dei poteri morbidi ha prodotto società interamente giuste o ha affrontato l’intero ordine del giorno delle preoccupazioni sociali e politiche, spesso lasciando intatti rapporti di classe sfruttatori e amare tensioni sociali, ma esse sono riuscite a superare situazioni immediate di rapporti oppressivi statali/sociali senza un significativo ricorso alla violenza. Bibliografia David Ray Griffin and others, American Empire and the Commonwealth of God (Louisville, KY: Westminster John Knox Press, 2006). Jorgen Johansen & John Y. Jones, eds,, Experiments with Peace (Cape Town, South Africa: Pambazuka Press, 2010). Raymond Aron, Peace and War: A Theory of International Relations (Garden City, NY: Doublday, 1966). Johan Galtung, The True Worlds: A Transnational Perspective (New York: Free Press, 1980). Johan Galtung, “Searching for peace in a world of terrorism and state terrorism,” in Shin Chiba and Thomas J. Schoenbaum, eds., Peace Movements and Pacifism after September 11 (Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2008) 32-48. Richard Rosecrance, The Rise of the Virtual State: Wealth and power in the coming century (New York: Basic, 2002). David Cole and Julius Lobel, eds., Less Safe, Less Free: Why America is Losing the War on Terror (New York: New Press, 2007) Richard Falk, The Great Terror War (Northampton, MA: Olive Branch Press, 2003). Jonathan Schell, The Unconquerable World: Power, Nonviolence, and the Will of the People (New York: Henry Holt, 2003). Richard J. Barnet, The Roots of War (New York,: Atheneum, 1972) Leonard C. Lewin (for Special Study Group), Report from Iron Mountain on the Possibility and Desirability of Peace (London: Macdonald, 1968). Passando allo scenario globale, esistono opportunità analoghe di applicazione di geopolitica nonviolenta. C’è un diffuso riconoscimento del fatto che la guerra tra grandi stati non è una scelta razionale in quanto quasi certamente comporterebbe enormi costi in sangue e denaro e otterrebbe risultati reciprocamente distruttivi diversamente dal chiaro vincitore e perdente del passato. Le opportunità di una geopolitica nonviolenta sono fondate anche sulla volontà del governo di accettare la disciplina sempre più praticamente autolimitante della legge internazionale così come diffusamente avallata da principi morali incorporati nelle grandi religioni e civiltà del mondo. Un altro passo in questa direzione sarebbe un ripudio da parte dei nove stati dotati di armi nucleari delle armi di distruzione di massa, a partire dal proporre una dichiarazione che impegni a non usare per primi gli armamenti nucleari per passare poi a un immediato e urgente negoziato sul trattato del disarmo nucleare che si ponga come obiettivo non utopistico “un mondo senza armi nucleari” (Krieger, 2009). Il secondo passo essenziale consiste nel liberare l’immaginazione morale e politica dai confini del militarismo e dal conseguente pensare all’interno di quel perimetro disfunzionale che continua a restare un componente base della mentalità realista tra i paesi guida dell’occidente, specialmente gli Stati Uniti. La sfida psico-politica dell’abbandonare l’affidamento ai potenziali bellici come pietra angolare della sicurezza è resa più difficile dagli interessi radicati del settore burocratico e privato in un quadro militarista di politica della sicurezza. Niall Ferguson, “The Fragile Empire- Here today, gone tomorrow—could the United States fall fast?” LA Times, Feb. 28, 2010. — Joe Camilleri and Jim Falk, Worlds in Transition: Evolving Governance Across a Stressed Planet (Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2009) Alcune delle idee delle sezioni II e III dell’articolo sono state sviluppate in precedenza in “Renouncing Wars of Choice: Toward a Geopolitics of Nonviolence” [Ripudio delle guerre per scelta: verso una geopolitica della nonviolenza] in Griffin e altri, 2006, 69-85 e in “Nonviolent Geopolitics” [Geopolitica nonviolenta], a cura di Joahnsen e Jones, 2010, 33-40. 11 Chalmers Johnson. The Sorrows of Empire: militarism, secrecy, and the End of the Republic (New York: Metropolitan, 2004). Joseph S. Nye, Jr., Bound to Lead: The Changing Nature of American Power (New York: Basic Books, 1990 Joseph S. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics (New York: Public Affairs, 2004) Leslie H. Gelb, Power Rules: How common sense can rescue American foreign policy (New York: Harper-Collins, 2009) Stephen M. Walt, Taming American Power: The global response to American power (New York: Norton, 2005). Gabriel Kolko, The Age of War: The United States Confronts the World (Boulder, CO: Lynne Rienner, 2006). Ken Booth, Theory of World Security (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2007) James H. Mittelman, Hyperconflict: Globalization and Insecurity (Stanford, CA:Stanford University Press, 2010). David Krieger, ed., The Challenge of Abolishing Nuclear Weapons (New Brunswick, NJ: Transaction, 2009). Note [1] Un’eccezione all’orientamento prevalente è Rosecrance, 2002. [2] Significativamente, ogni leader statunitense dopo Nixon ha fatto del suo meglio per eliminare la sindrome del Vietnam, percepita dal Pentagono come un inibitore indesiderato dell’uso della forza aggressiva nella politica mondiale. Dopo la fine della Guerra del Golfo nel 2001, le prime parole del presidente George H. Bush furono: “Abbiamo finalmente cancellato la sindrome del Vietnam”, intendendo, ovviamente, che gli Stati Uniti erano nuovamente in grado di combattere “guerre per scelta”. [L’espressione, qui come più sopra, “guerre per scelta” si contrappone a “guerre per necessità” – n.d.t.] [3] Bene espresso in Cole e Lobel, 2007; vedere anche il mio tentativo, Falk 2003. [4] Questo paragone è analizzato in modo simile da Galtung, 2008. [5] Documentato significativamente in Schell, 2003. [6] E’ degno di nota che i cambiamenti nel panorama geopolitico globale associati all’ascesa di Cina, India, Brasile e Russia abbiano largamente a che fare con la loro ascesa economica, e per nulla con i loro potenziali militari, che restano banali in confronto con quelli degli Stati Uniti. [7] Mentre le lotte interventiste proseguono di anno in anno con risultati inconcludenti, ma con costi montanti in vite e risorse, le parti che intervengono contraddicono la loro stessa logica bellica, ricercando compromessi e persino invitando il nemico a partecipare al processo governativo. Ciò è stato tentato sia in Iraq sia in Afghanistan, ma solo dopo aver inflitto danni enormi e durature grandi perdite di vite tra le stesse proprie truppe e sopportando grandi spese. [8] Tra gli studi preziosi vi sono Barnet, 1972, e Lewin, 1968. [9] Dimostrato in modo più convincente in una serie di libri di Chalmers Johnson. Vedere specialmente il primo dei suoi tre libri sul tema (2004). [10] Per una critica progressista del militarismo imperiale statunitense vedere Kolko, 2006. [11] Numerosi studiosi eminenti sono da molto tempo sensibili al distacco che separa i realisti, anche prudenti, dalla realtà. Per un importante testo tuttora rilevante vedere Galtung, 1980. Per altri perspicaci studi recenti su queste linee vedere Booth, 2007, specialmente la sezione sul “realismo emancipativo”, pagg. 87-91; Camilleri e Falk, 2009; Mittelman, 2010. 6 aprile 2014 http://znetitaly.altervista.org/art/14684 Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/nonviolent-geopolitics-law-politicsand-21st-century-security/ Originale: Richardfalk.com traduzione di Giuseppe Volpe; revisione a cura del Centro Sereno Regis (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/04/18/geopolitica-nonviolenta-legge-politica-esicurezza-nel-ventunesimo-secolo-richard-falk/ 12 Pace Sviluppo e pace, il senso di un transfrontaliero (di Elisabetta Bozzarelli) progetto I territori posti tra Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan hanno vissuto, per motivi diversi, gravi conflitti negli ultimi decenni. Negli ultimi tempi però la zona è riuscita a trovare una via di pacificazione, con la possibilità di programmare e costruire il proprio futuro. L’organizzazione non governativa ACAV era presente da più di 20 anni nel Distretto di Arua quando nel 2005 si è costituito il nuovo distretto di Koboko dove ha sperimentato un progetto integrato, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri, con l’obiettivo di realizzare una cooperazione sostenibile, responsabilizzante e produttiva e che coinvolgesse il maggior numero possibile di persone e di comunità. Si è lavorato nel settore idrico e sanitario, costruendo pozzi e latrine, ma si è investito soprattutto in agricoltura e per la sicurezza alimentare. Il centro agricolo dimostrativo di Jabara ha dato formazione ed assistenza tecnica a migliaia di contadini e sostegno alle piccole cooperative agricole anche attraverso il credito cooperativo. Altri interventi hanno interessato la formazione tecnica e professionale e il supporto alle amministrazioni locali. Si è così adottato il neonato distretto, accompagnandone la crescita con interventi condivisi e coerenti e dopo sei anni di intenso lavoro è riuscita a essere una presenza visibile e apprezzata. La popolazione che abita nel distretto di Koboko è in maggioranza Kakwa e ha mantenuto lingua e tradizioni comuni con le popolazioni della stessa etnia che abitano nei territori limitrofi, benché separate da confini di stato. Cessati i conflitti armati, gli scambi si sono intensificati ed è cresciuta nelle comunità l’aspirazione ad uscire dall’emergenza e tentare di disegnare un futuro di pace e sviluppo. Koboko per certi aspetti si è posto come modello: in pochi anni è uscito dall’emergenza, con una costante diminuzione della mortalità infantile e delle malattie legate all’acqua non sicura, un miglioramento della produzione agricola destinata al consumo famigliare e ai mercati locali e la nascita di piccole cooperative di contadini. L’intervento è stato poi allargato anche ai territori oltre il confine ugandese e si è date vita ad un progetto transfrontaliero, che ha reso possibile diversi incontri istituzionali fra le autorità, i funzionari e gli esponenti della società civile delle amministrazioni locali. Tutte le persone coinvolte in questo percorso si sono impegnate a capire le potenzialità che derivano da forme di cooperazione tra regioni di stati diversi abitate da popolazioni di culture simili e si sono impegnate a cercare il sostegno dei rispettivi governi centrali. Gli obiettivi che sono stati condivisi vanno nella direzione di uno sviluppo pacifico delle relazioni, attraverso il mantenimento delle identità culturali, l’abbassamento progressivo delle barriere di confine tra gli stati, l’ampliamento dell’area di scambio dei prodotti locali, il confronto e l’armonizzazione delle regole dell’economia tra stati confinanti, l’ autonomia amministrativa da governi centrali troppo lontani. Mentre è in corso questa importante riflessione che per la prima volta vede un confronto tra queste comunità di confine, in attesa che arrivino a compimento accordi e programmi, ACAV ha risposto alle richieste di aiuto più immediato, avviando un programma di cooperazione integrata anche nella Chefferie des Kakwa, RDC e nella contea di Morobo, Sud Sudan. Portare acqua sicura e sostenere i contadini nella produzione del cibo sono i primi obiettivi degli interventi. Una cooperazione allo sviluppo, patrocinata anche dalla Provincia autonoma di Trento, che risponde alle sfide ed ai bisogni dei territori, abita la complessità, fatta dalle storie dei paesi e delle comunità che si intrecciano in un contesto internazionale instabile. La convinzione che crescite diseguali tra territori vicini, considerati “fratelli”, fortemente interrelati, potrebbero alimentare quei conflitti sociali ed economici che nel recente passato hanno provocato violenze, ha fatto scaturire l’idea di proporre una progettualità innovativa. Essa mira non solo ad alleviare le situazioni di povertà, ma cerca di incidere nelle realtà locali con il coinvolgimento, la mediazione ed il supporto della popolazione, delle autorità amministrative, con progetti simile e con uguale forza operativa nei tre stati confinanti, così da dare loro un’occasione di crescita, conoscenza e soprattutto collaborazione. potere, ai padroni delle clientele pseudo culturali. Queste forme di potere introdotte dall’era berlusconiana contro i diritti di chi non ce la fa, oggi si sono perfezionate e moltiplicate fino a travolgere la stessa etica paternalistica ed edonistica, pervadendo in senso orizzontale e verticale la società e lo Stato. Con un connesso mutamento dell’estetica del consenso fatta passare come neocomunicazione politica: il nuovo valore aggiunto alla vacuità della diffusa decadenza dei valori. Non siamo al fascismo, perché nessuno si sente ancora sotto un regime. Ma se non si sta attenti, poco ci manca. Nel contesto africano, dove i nervi scoperti del “tribalismo” e dell’ “etnicità” sono costantemente fonte di problemi e i confini fra gli stati sono spesso artificiosi, c’è grande bisogno di sperimentare forme di autonomia amministrativa in aree transfrontaliere omogenee, che siano fattibili, funzionanti e replicabili. GC L’arretratezza di molte comunità, dove ancora si lotta per la sopravvivenza, convive con la velocità dei cambiamenti economici, l’aumento della scolarizzazione, l’entrata nel mondo della comunicazione globale. Accompagnare il cambiamento nel senso della crescita e della partecipazione dovrebbe essere sentito come una responsabilità forte del mondo occidentale, che invece per svariati motivi fa fatica a intraprendere una cooperazione responsabile e adeguata ai nuovi bisogni. Elisabetta Bozzarelli Direttrice ACAV (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Sviluppo-e-pace-il-senso-di-un-progettotransfrontaliero-145502 Politica e democrazia Il 25 aprile in quattro righe (di Giuseppe Casarrubea) Una data. Ma non solo. Tutti i giorni hanno un loro senso, e se per caso a conclusione di una giornata dovessimo ritenere di non averne avuto qualcuno, dovremmo ricrederci pensando semplicemente al fatto che almeno uno ci è consegnato dal nostro destino. E’ l’obbligo che abbiamo di dare ai nostri figli, o a chiunque altro, ed anche a noi stessi, un preciso dovere, un mandato per il futuro. Questo mandato, sia pure quando tutto si disgrega, muore o si sgretola, è lo sforzo di immaginare un mondo diverso e di agire perché possa veramente esserlo. Una regola generale senza la quale anche lo sforzo supremo che compirono coloro che a questa missione credettero, combattendo, affrontando pericoli, e sacrificandosi, non avrebbe avuto ragione alcuna di esistere. Essi sapevano infatti che l’inerzia dava spazio alla violenza e alla morte, privava ciascuno del valore della sua vita e la consegnava al baratro della barbarie e della follia. Quella che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia fu perciò la scelta decisiva e finale dei singoli e di tanti popoli di imprimere un cambiamento radicale alla loro e alla nostra vita, anche se molti hanno dimenticato la lezione, ritenendola ormai vecchia e inutilizzabile per le generazioni future. Ma non è così. Il 25 aprile oggi è attuale per molti motivi, dei quali mi limito a elencare quelli, a mio giudizio, più indispensabili per la nostra vita quotidiana. Il rifiuto di ogni potere e dittatura come azione criminale contro gli indifesi e contro il diritto di tutti a vivere con dignità e nel benessere. Quindi l’obbligo ci ciascuno di battersi per tale scopo. L’esistenza di numerosi focolai di guerra nel mondo e di vere e proprie guerre che rischiano di allargarsi oltre i loro confini territoriali. Lo sgretolamento dei sistemi democratici e il graduale, ma costante, ricorso al leaderismo, al dominio dei pochi. Cioè il potere concepito come consorteria, che chiama attorno a sé l’uso spregiudicato delle proprie funzioni o del proprio posto di comando visti non più come servizio, ma costruzione di vere e proprie lobby, emersione di gruppi amicali, di amici degli amici. Lobby del consenso latente che utilizzano il successo dei pochi, dei più vicini al 13 (fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea) link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/04/26/il-25-aprile-in-quattro-righe/ Questione di genere Dimissioni in bianco, così non va (di Titti Di Salvo) L'onere della prova a carico della donna licenziata, e per sanzione una semplice multa: la nuova normativa contro le dimissioni in bianco è troppo debole. Così com'è scritto, non tutela le lavoratrici. Un appello al parlamento perché lo cambi: una norma di civiltà non può essere oggetto di mediazione tra interessi. In più occasioni la ministra Elsa Fornero, e per la verità non solo lei, per difendere la riforma del mercato del lavoro, ha citato l'articolo 55 del ddl, che definisce le nuove regole contro le dimissioni in bianco. Certo non era scontato che il governo affrontasse l'argomento, per la semplice ragione che a votare quell'articolo è lo stesso parlamento che nel 2008 ha cancellato la legge 188/2007, dedicata appunto a sanzionare e limitare quell'abuso. Tuttavia grazie alle iniziative promosse da tante donne in questi anni la deprecabilità delle dimissioni in bianco è diventata senso comune ed è difficile ormai chiudere gli occhi di fronte alla consapevolezza diffusa che si tratta di un fenomeno inaccettabile in un paese civile. Ci troviamo infatti di fronte a una pratica tanto diffusa quanto illegale: quella di far firmare in anticipo, al momento dell'assunzione, le proprie dimissioni, da completare, riempiendole con la data desiderata a fronte di una malattia, un infortunio, un comportamento sgradito, o più tipicamente una semplice maternità. In pratica, una spada di Damocle permanente, pronta per ogni evenienza della vita di ragazze e ragazzi neoassunti e buona da usare a piacimento per spezzarne i rapporti di lavoro; e purtroppo ampiamente usata, ci dicono i numeri Istat. Quando la legge 188/2007 è stata abrogata in nome della semplificazione, non ci sono state grosse reazioni, nonostante fosse stata approvata dal parlamento precedente, nell'ottobre del 2007, all'unanimità alla camera e a larga maggioranza al senato. Ma dal momento in cui la 188 è stata cancellata, alcune donne, testardamente, hanno ricominciato a tessere quella tela di consenso e alleanze che aveva prodotto la 188, per riconquistarla con petizioni, raccolte di dati, iniziative pubbliche continue, fino alla decisione di promuovere una legge di iniziativa popolare, decisione maturata nell'autunno del 2011 da parte di un gruppo di donne molto diverse tra di loro per cultura politica, esperienze professionali, generazione. Il cambio di governo e l'insediamento del nuovo esecutivo guidato da Monti ha fatto sperare di poter riottenere rapidamente la legge e il comitato per l'iniziativa di legge popolare si è trasformato nel “comitato per la 188”, a cui si devono le tante iniziative degli ultimi tempi. Innanzi tutto la campagna “188 firme per la 188”, poi la giornata di mobilitazione nazionale per il ripristino della legge con presidi di fronte a tutte le prefetture d'Italia, che si è svolta il 23 febbraio di quest’anno. E ancora gli incontri con la ministra Fornero e il presidente della camera e le tante lettere aperte che hanno inondato la stessa ministra, le istituzioni, i gruppi parlamentari e le redazioni dei quotidiani di lettere aperte. Iniziative grazie alle quali si è formato un senso comune e una consapevolezza che adesso sono difficili da ignorare. Si è arrivati così all'articolo 155, che reintroduce nell'ordinamento il tema dell'abuso delle dimissioni in bianco, lo nomina, lo depreca e definisce le procedure per contrastarlo: un risultato molto importante e non scontato di quella mobilitazione faticosa, paziente e testarda. Ma l'articolo 55 non riesce nel suo intento, per diverse ragioni - È un articolo diviso in 8 commi di difficilissima lettura e interpretazione, e perciò anche applicazione. - Le nuove procedure sono volte a correggere l'eventuale abuso della firma in bianco ma non a prevenirlo, come invece faceva la legge 188/2007 vincolando le dimissioni volontarie alla compilazione di un modulo dotato di codice alfanumerico progressivo di identificazione, non retrodatabile. - L'onere della prova è a carico della lavoratrice e del lavoratore: sono loro a dover dimostrare che, pur essendo autografa, la firma della lettera di dimissioni è stata richiesta al momento dell'assunzione (comma 6 dell'art. 55). - In caso di abuso la sanzione è solamente amministrativa (comma 8 dell'art. 55), una semplice multa. Da notare che su questo punto lo stesso documento ufficiale di policy del governo, precedete di pochi giorni la stesura del disegno di legge, più correttamente paragonava l'abuso del foglio firmato in bianco ad un licenziamento discriminatorio e perciò aveva come conseguenza l'annullamento delle finte dimissioni: altro che multa! L'articolo 55 può essere cambiato Il comitato per la 188 lo ha chiesto con una lettera aperta alla ministra Fornero e alle commissioni lavoro di senato e camera, ma lo chiedono anche molte parlamentari e varie memorie consegnate alle commissioni parlamentari. E lo pretende il buon senso: una norma di civiltà non può essere oggetto della mediazione tra interessi diversi. Ci auguriamo che il parlamento, nella discussione parlamentare del ddl sulla riforma del mercato del lavoro, accolga questo appello. (fonte: InGenere: donne e uomini per la società che cambia) link: http://www.ingenere.it/articoli/dimissioni-bianco-cos-non-va-2012 Associazioni Documenti Voci degli invisibili della Casa di Accolienza di Massa: Costantin (di Enio Minervini) Mentre comincia il viaggio che lo porterà nel Paese dove è nato e dove non è più stato dal giorno in cui lo ha lasciato 7 anni fa, Costantin sente il profumo della primavera che in questi giorni torna ad accarezzare Massa dopo l'ennesimo inverno della sua vita in Italia. Se potesse pensarci, se la mente fosse sgombra da altri pensieri, da altre emozioni e dalla paura del salto verso questa terra madre che potrebbe non riconoscerlo, non saperlo più abbracciare, madre matrigna… se potesse dicevamo - fermarsi a pensare, troverebbe beffarda questa partenza in una giornata così mite, incoerente abbandonare questo velo tiepido e profumato dopo otto inverni passati qui e tante notti gelide, dormendo su una panchina, rimpiattato per difendersi dal freddo e dalle malattie. Ma altri come detto sono i suoi pensieri, ammesso che noi li si sappia riconoscere o per lo meno che regga la finzione di raccontare i pensieri che sono solo i suoi… Perché ora Costantin è di nuovo solo. Negli ultimi giorni della sua vita in Italia, ha tentato di raschiare quanti più soldi possibile. E' stata una preoccupazione ossessiva come non mai. Non ha altri mezzi che chiederli alle persone che conosce, non ha altri strumenti che una gentilezza senza tempo, antica nell'eleganza del mendicante con la schiena dritta, moderna nel recitare il ruolo di crocevia della crisi e della modernità. Ma Costantin interpreta senza fingere mai, recita una vita tragica che è autenticamente sua. I soldi che raccoglie negli ultimi giorni non sono più l'alimento della sua 14 sopravvivenza quotidiana che – paradosso – negli ultimi giorni gli è assicurata. Sa che la sua vita sta cambiando e che da ora in poi non sarà più questo Paese a sfamarlo, proprio mentre la generosità altrui si moltiplica. Costantin incassa solo l'assenso per la sua scelta di andar via, viene ripagato per tutto quello che non chiederà più da domani. Eppure questi soldi che raccoglie più copiosi che in passato, non gli sono mai sembrati così pochi, insufficienti. E' questo che pensa mentre abbandona una primavera che non sente più sua. Misura una sconfitta. Perché tornare indietro dopo sette anni vuol dire confrontarsi con il sogno dei giorni dell'arrivo in Italia: trovare un lavoro, una vita degna, un po' di ricchezza da mandare in Romania, alla mamma, alle sorelle, a tutta la sua famiglia. Riempire le mani vuote che lo attendono per stringerlo a sé. Alla realizzazione di questo sogno, Costantin non si è mai neppure avvicinato. Arrivato nello stesso anno di quella che chiamano crisi globale, l'ha attraversata tutta. Non ha mai trovato un lavoro, non ha mai avuto una vera casa. Di quello che serve nella nostra società lui non sa fare nulla. Non è uomo oeconomicus, della modernità gli manca la sveltezza, il saper stare al passo. La sua qualità più evidente è che quando gli parli, quando ti guarda negli occhi, non lo dimentichi. Difficile spiegare perché, ma per quanto tu possa non essere fisionomista, il suo volto, la sua voce, il colore incomprensibile e intenso dei suoi occhi, tutta la sua persona, perfino il suo nome, ti restano sempre nella memoria. Sempre e per sempre. Non è una dote secondaria per chi vive di elemosina, per chi campa sulla possibilità di raccontare una sua storia toccando tutti i sensi di colpa altrui... non è una dota secondaria... ma è l'unica. Nel corso di sette anni ha vissuto la strada, alcune apparizioni nella casa di accoglienza e una lunga degenza in ospedale per la tubercolosi. Non ha messo da parte nessuna ricchezza, nemmeno per sopravvivere. Non era così che doveva andare. Mentre ci salutiamo mi dice di vergognarsi di tornare in Romania senza avere due soldi per progettare una qualche attività che lo sottragga dalla miseria. Teme l’incontro con la sua terra. Teme di mostrarsi nudo e disarmato alla sua gente, teme la fortuna che non ha fatto venendo in Italia, teme il confronto con le attese e le promesse non mantenute. Teme di non avere un ruolo per sé nei titoli di coda di questo viaggio in Italia. E mentre quei titoli scorrono, Costantin ti guarda ancora negli occhi e sorride con il suo sorriso storto. (fonte: AVAA) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2058