- Accademia Apuana della Pace

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Notiziario settimanale n. 481 del 09/05/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
Parlamento, Governo e Unione europea potenzino subito il sistema
italiano per il diritto d'asilo (di Associazione Studi Giuridici
sull'Immigrazione)..................................................................................... 5
Pio la Torre e Rosario Di Salvo (di Enrico Berlinguer).............................. 5
Geopolitica nonviolenta: legge, politica e sicurezza nel ventunesimo
secolo (di Richard Falk)............................................................................. 7
Sviluppo e pace, il senso di un progetto transfrontaliero (di Elisabetta
Bozzarelli)............................................................................................... 12
Il 25 aprile in quattro righe (di Giuseppe Casarrubea).............................. 13
Dimissioni in bianco, così non va (di Titti Di Salvo)................................ 13
Voci degli invisibili della Casa di Accolienza di Massa: Costantin (di Enio
Minervini)................................................................................................ 14
Editoriale
09/05/2014: Assassinio di Giuseppe Impastato avvenu to il 9 maggio
1978.
12/05/2014: Giornata mondiale del commercio equo solidale.
17/05/2014: Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia
I gravi, se non sovversivi, applausi al congresso del Sindacato di Polizia "
SAP" ci portano a pubblicare una riflessione di Gandhi sulla polizia, che,
sicuramente, alla luce dei tanti tragici fatti successi, è quanto mai attuale.
Io ho ammesso che anche in uno stato nonviolento potrebbe essere
necessaria una forza di polizia. Questo, lo confesso, è un sintomo
dell'imperfezione del mio ahimsa. Non ho il coraggio di affermare che
potremo fare a meno di una forza di polizia come lo affermo riguardo
all'esercito. Naturalmente posso immaginare, e immagino uno stato nel
quale la polizia non sarà necessaria; ma se riusciremo a realizzarlo o
meno soltanto il futuro potrà deciderlo.
La polizia che io concepisco tuttavia sarà di tipo totalmente diverso da
quella oggi esistente. Le sue file saranno composte da seguaci della
nonviolenza. Questi saranno i servitori e non i padroni del popolo. Il
popolo darà loro spontaneamente tutto il suo aiuto, e grazie alla
reciproca collaborazione, essi saranno in grado di far fronte con facilità
ai disordini, che saranno peraltro in continua diminuzione. La forza di
polizia disporrà di alcune armi, ma ne farà uso solo raramente, se non
addirittura affatto. Di fatto i poliziotti saranno dei riformatori.
Mohandas Ghandi, "Teoria e pratica della nonviolenza" [Einaudi, Torino
1973, 1996, p. 144; è un estratto da un articolo pubblicato su "Harijan" del
primo settembre 1940].
(Segnalato dal Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo)
Indice generale
La riabilitazione tardiva di “Esperienze pastorali” di don Lorenzo Milani
(di Antonio Zanni)..................................................................................... 1
I costruttori di pace, di nuovo in Arena, a Verona (di Mons. Giancarlo
Bregantini)................................................................................................. 2
Lavoro non bombe. Aderisci alla Marcia per la pace Perugia-Assisi (di
Tavola della Pace)...................................................................................... 3
Verso la manifestazione nazionale del 17/05 a Roma (di Forum Italiano
del Movimenti per l'acqua)........................................................................ 3
Roberto Mancini – Per dignità. Trasformare l’economia – a cura di Enrico
Peyretti (di Roberto Mancini, Enrico Peyretti)........................................... 4
1
La riabilitazione tardiva di “Esperienze pastorali”
di don Lorenzo Milani (di Antonio Zanni)
La sua Chiesa, quella cattolica e quella diocesana, amata, servita e
obbedita, si è riconciliata o continua ad aver paura di don Lorenzo Milani?
Ma quando mai? Non è mai stato ‘condannato’. Lo apprendiamo
dall’arcivescovo di Firenze card. Betori, il quale, a distanza di 56 anni
dalla tragedia di “Esperienze pastorali”, l’unico libro dei tre che hanno
sconvolto Chiesa e Stato (seguiranno “L’obbedienza non è più una virtù” e
“Lettera a una professoressa”) scritto totalmente di suo pugno, ha inviato
un dossier a Papa Francesco che lo ha girato per competenza alla
Congregazione per la dottrina della fede, la quale ha risposto, appunto, che
don Lorenzo non è mai stato ‘condannato’.
Il suo scritto era stato semplicemente giudicato ‘inopportuno’ e, nel giro di
otto mesi, ritirato dalle librerie con divieto di pubblicazioni future. Niente
più che due “comunicazioni” del Sant’Uffizio, a distanza di oltre mezzo
secolo, hanno aperto e chiuso una delle pagine più dolorose della storia
della Chiesa di quest’ultimo secolo. E noi tutti, ingenui e sprovveduti, che
avevamo capito che di preti ‘inopportuni’ la Chiesa non ne volesse tra i
piedi! Li relegava tra i monti, senza strade, senza telefonini, con ben pochi
amici disposti a giocarsi un pezzo di talare per lui.
Bentornato, don Lorenzo! Almeno in libreria. Anche se il danno è stato
grande e irreversibile. Proprio perché i tempi sono cambiati: non più quelli
di un Pio XII al suo tramonto e neppure quelli di un Concilio che nella sua
parte più difficile, che fu anche la tua - quella del ritorno della Chiesa ai
poveri e dei poveri alla Chiesa - è stato largamente e scandalosamente
disatteso. Ne sono passati di papi, anche santi, anche profeti. Due, proprio
in questi giorni, saliranno gli altari, dopo aver salito il paradiso. Ma di te
non si erano ricordati. Fortuna e Spirito Santo hanno voluto che sul
seggiolone del pescatore di Betsaida giungesse a sedersi uno venuto
dall’altro mondo, che parla come mangia e crede come gli ha insegnato la
nonna, senza latinorum né arzigogoli ipocriti.
Ecco, appunto, l’ipocrisia. Come dire che don Lorenzo non ha bisogno di
‘riabilitazione’ perché non è mai stato ‘condannato’. Un provvedimento
‘prudenziale’. Sono i serpenti che hanno bisogno della prudenza. Alle
colombe basta la semplicità. Così, a termini di vangelo. Non sono i teologi
e gli azzeccagarbugli che hanno bisogno di sapere, anzi vedere e toccare
con mano, da che parte sta la Chiesa; sono i poveri e non quelli di spirito,
ma i poveri di tutto. Condanne e riabilitazioni che si confondono tra
annunci e smentite, come queste sull’asse Roma-Firenze, fanno solo un
gran male, creano sofferenza, disagio, danni. E per grazia di Dio c’è stato
chi ha rischiato l’inferno e non ha obbedito, conservando il testo nella
biblioteca di casa.
Tra poco ci sarà un altro banco di prova, di nuovo con più di mezzo secolo
in ritardo, protagonista ancora quel ‘rompi’ di Barbiana. Già ce ne sono le
avvisaglie. Citiamo solo un titolo: “Cappellani senza stellette, l’ordinariato
militare si spacca”. Non è stato risolto allora. Volesse Dio lo fosse oggi:
che nessuno possa uscire dal seminario senza lo studio sistematico di quei
tre libretti sui quali sono stati stesi cinquant’anni non di un velo pietoso,
ma di una pesantissima coltre sotto cui si è ammonticchiata polvere e, più
ancora, pantano, privilegi, roba che tappa la bocca e la coscienza.
Forza, papa Francesco, forza don Lorenzo! La Chiesa ha bisogno di
specchiarsi in voi per sapere quello che deve e quello che non deve fare,
dire, insegnare e vivere. Quella Chiesa che era nata per i poveri (i stempi
messianici si riconoscono dall’annuncio ai poveri della buona novella) e
con loro e per loro aveva camminato nei primi secoli, si è poi a loro
affiancata in un cammino che è generoso chiamare parallelo per poi finire
spesso a camminare lontano da loro, anche se con non poche e non piccole
eccezioni. Ancora, grazie a Dio, eccezioni.
(fonte: Il Corriere Apuano, n. 17 del 26 aprile 2014)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2060
Evidenza
I costruttori di pace, di nuovo in Arena, a Verona (di
Mons. Giancarlo Bregantini)
Sarà un grande dono per la città di Verona e per la chiesa italiana tutta il
ritorno in Arena dei "costruttori di pace". Ne avevamo bisogno. Perché in
questo grave tempo di crisi, che coinvolge tutti, che rischia di travolgerci e
non solo di coinvolgerci, può addirittura sembrare "ozioso" manifestare
per la pace. Quasi avessimo problemi più grandi da affrontare….e solo
dopo, se c'è tempo, ci sarà spazio per le manifestazioni per la pace!
Ed invece, credo che sia il contrario. Perché la pace resta la grande sfida
dell'umanità. Ed impegnarsi per essa, vuol dire costruire un mondo di vera
fraternità. Infatti, i pellegrini della pace di Verona porteranno con sé, nel
loro zaino, i passi di fraternità realizzati e condivisi dalle migliaia di
manifestanti nella marcia della pace di fine anno, che si è svolta appunto a
Campobasso. Un grande evento, che ha scosso questa mite e lenta terra
che è il Molise. Terra però dalle relazioni positive, serene,
quotidianamente costruite su impegno e speranza, fieri della nostra
"marginalità", che con impegno stiamo trasformando in tipicità positiva.
Nel cuore dei marciatori per la pace, a Campobasso, sono risuonate
quattro domande, che sono rimaste aperte. Su queste sfide si dovranno di
certo confrontare i giovani che entreranno in Arena, con i colori variopinti
della bandiera arcobaleno e con la mente pronta alla riflessione e alla
preghiera. Risuoneranno le profetiche parole di don Tonino Bello, che li
scuoteva ad alzarsi in piedi, con vigore e coraggio.
Le prima sfida aperta è la sfida del cibo. A Campobasso, in quel giorno
memorabile, abbiamo aperto la Mensa per i poveri, chiamata con tono di
luce: La casa degli Angeli. Perché non c'è pace senza cibo condiviso e ben
spartito. Lo sguardo, allora, andrà verso Milano, allo storico Expo
mondiale, per chiamare a raccolta i militanti, perché quell'evento non sia
solo una grande manifestazione commerciale, ma un'occasione "ghiotta"
per riflettere se realmente il cibo e l'acqua ci sia per tutti. La torta dei beni
comuni va spartita equamente, con un no secco alla nuova idolatria del
denaro, che governa invece di servire, seguendo la pista della dirompente
denuncia fatta da papa Francesco nella sua recentissima Esortazione
Evangelii gaudium. Ci basti questo cenno, che denuncia la mancanza di
fraternità condivisa attorno al cibo: "Mentre i guadagni di pochi crescono
esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più
distanti dal benessere di questa minoranza felice"(E.G.56). E' una crisi
antropologica, prima ancora che una crisi finanziaria. La riflessione sulla
pace ci deve così aiutare ad allargare gli orizzonti della manifestazione
ben oltre i garruli colori delle bandiere, sapendo porsi decisamente per
un'economia per i poveri e non un'economia senza volto, con la finanza
speculativa, dalla tirannia invisibile.
La seconda sfida che resta davanti a tutti noi la si sta vivendo nelle scuole.
Ci siamo fermati all'Università di Campobasso, con silenzio riverente, per
ascoltare Agostino, uno dei discepoli più amati da don Lorenzo Milani. Ci
ha rinnovato il pathos della lettera che scrisse, già malatissimo con i suoi
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ragazzi, ai giudici, chiamati a giudicarlo, per poi, purtroppo, condannarlo:
L'obbedienza non è una virtù! Perciò ci siamo impegnati, con acume, a
non chiamare più il conflitto del l914-18 con i toni dei gagliardetti: La
grande guerra! NO! Usiamo invece le sofferte espressioni che elevò, in
piena consapevolezza, papa Benedetto XV, il 1 agosto 1917, quando definì
quella guerra l'inutile strage!
Immagino il mio docente, in Liceo, che mi spiega l'evento. Su quella
lavagna, nella prima aula a sinistra al secondo piano (che rivedo volentieri
ogni volta che ritorno al liceo Stimmate di Verona!), è ben diverso
scrivere: Oggi parliamo della grande guerra. Oppure, con chiarezza e con
tono di voce nel pianto, scrivere: oggi entriamo nel dramma di un'Europa
cristiana che compie un'inutile strage tra fratelli! Tutte le guerre, infatti,
iniziano sempre nelle aule scolastiche e solo dopo si trasferiscono sui
campi insanguinati di battaglia! Così sarebbe bello che rileggessimo con
occhi di criticità anche i nostri monumenti ai caduti, nelle nostre piazze o
cimiteri dei nostri paesi. Spesso sono un'esaltazione alla guerra e inducono
anche all'odio al nemico. In un monumento, in una bella cittadina del
Molise, ho visto addirittura scritto: I nostri eroi hanno partecipato ad una
guerra giusta! Ho coperto le lettere con un nastro isolante nero. Di certo,
ora il vento l'avrà strappato. Spero però che non sia stata cancellato il
segno di esecrazione, dal cuore dei ragazzi del paese, con cui ho condiviso
il gesto! Per questo, Pax Christi si è impegnata a tener desto questo stile
alternativo di trattare la storia nelle scuole! Cioè chiamare le cose per il
giusto nome! Stando dalla parte dei poveri e non dei vincitori!
La terza sfida che è rimasta da raccogliere e riapprofondire è il senso delle
cosiddette " missioni di pace", che l'esercito italiano, in armi, sta
compiendo in varie parti del mondo. Ma è proprio questo lo stile di
portare la democrazia nel mondo? Forse non è meglio seguire l'esempio
delle missioni della Caritas, che nelle zone devastate dal terremoto di
Haiti, ha inviato una famiglia di Roma, con due piccoli bimbi. E
nell'insediarsi, non hanno scelto la zona dei "bianchi", ma si sono collocati
in una piccola casa, tra le case povere della gente nera, permettendo così si
loro figli di frequentare la scuola del quartiere nero. Dopo poco, la pace
tra le famiglie nere e quelle bianche non l'hanno fatto le armi, ma il sorriso
dei piccoli, che, vivendo e giocando con i loro coetanei, sono riusciti a far
cadere i muri delle divisioni, per costruire i ponti della pace e del dialogo.
Queste sono le vere missioni di pace! Come ci ha insegnato Nelson
Mandela, che è stato citatissimo nella marcia a Campobasso. Specie in una
frase durissima: conservare rancore nel cuore è come bere veleno
sperando che ciò uccida il tuo nemico! Ed è con gioia vera che ho letto
sull'ultimo numero del missionario la testimonianza diretta di padre
Gianni Piccolboni, saggio compagno di studio e di lavoro a san Leonardo,
che affermava di Mandela: "Era un uomo di spessore, dal fascino
irresistibile, magico. Ha insegnato a tutti, bianchi e neri, a liberarsi dalla
diabolica convinzione che una razza sia superiore ad un'altra, a rispettarsi
a vicenda, liberando così i neri dall'odio verso i loro oppressori ed i
bianchi ad avere fiducia nel diverso e nel nero!". E' cioè il perenne
impegno alla riconciliazione, non solo personale, ma anche sociale, frutto
della cultura del perdono, fonte di pace, per cui Mandela, con profetico
stile, istituì la commissione per la verità e la riconciliazione tra la sua
gente (TRC), eco delle parole di Gesù: "Quando porti l'offerta all'altare e
non sei in pace con fratello, riconciliati prima con lui; poi offri il tuo dono!
(Mt 5,24)
Ed infine la quarta sfida, che è sempre in agguato. La produzione delle
armi. Forse, quella bellica è l'unica industria che tira. Purtroppo.
Compresa la costruzione dei famosi F/35, che restano uno scandalo, per
l'enormità del costo di ogni aereo ed un mistero per cui nessuno si sia
opposto alla loro costruzione tra le forze politiche.
Tante le sfide, che la cultura della pace deve oggi affrontare! Con lealtà,
sapendo però che la sfida più grande sarà quella di costruire un'economia
che riesca a dare lavoro ai nostri ragazzi e giovani. La precarietà
lavorativa è purtroppo la prima grande negazione della pace. Qui,
soprattutto qui, sono attesi, all'Arena di Verona, i nuovi Costruttori della
pace! Buon Lavoro!
Fonte: Arena di Pace e Disarmo 2014
(fonte: Arena di Pace e Disarmo 2014)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2057
Lavoro non bombe. Aderisci alla Marcia per la pace
Perugia-Assisi (di Tavola della Pace)
Il lavoro ci da la vita, le bombe ce la tolgono. Il lavoro crea sicurezza, le
bombe la distruggono. Vogliamo che i nostri soldi siano spesi per creare
dignità e lavoro, non per comprare altre bombe!
Vogliamo il lavoro, non le bombe!!!
Il lavoro ci da la vita, le bombe ce la tolgono. Il lavoro crea sicurezza, le
bombe la distruggono. Vogliamo che i nostri soldi siano spesi per creare
dignità e lavoro, non per comprare altre bombe.
Senza lavoro non c’è pace, né giustizia. Milioni di persone in Italia non
hanno un lavoro dignitoso. Molti altri milioni di persone nel mondo
vivono nella miseria sotto l’incubo delle bombe.
Bisogna cambiare strada. Tagliare le spese militari per liberare risorse,
investire sui giovani, sul lavoro e la sicurezza sociale.
Questo chiediamo alla politica e alle istituzioni.
Per ritrovare un po’ di pace, per uscire dalla crisi insieme, più liberi ed
eguali…
Domenica 19 ottobre 2014
Rimettiamoci in cammino…
…perché vogliamo lavoro non bombe!
Organizziamo insieme la
20a Marcia per la pace Perugia-Assisi
INVIA SUBITO LA TUA ADESIONE!
Comitato Promotore Marcia Perugia-Assisi via della viola 1 (06100)
Perugia, Tel. 335.6590356 - 075/5736890 - fax 075/5739337 email:
[email protected] - www.perlapace.it
link: http://www.perlapace.it/index.php?id_article=10497
Approfondimenti
Beni comuni
Verso la manifestazione nazionale del 17/05 a Roma
(di Forum Italiano del Movimenti per l'acqua)
Basta austerità! basta privatizzazioni!
acqua, terra, reddito, casa, lavoro, beni comuni, diritti sociali e democrazia
in Italia e in Europa
Appello per la costruzione di una manifestazione nazionale il 17 maggio
Una nuova stagione di privatizzazione dei beni comuni, di attacco ai diritti
sociali e alla democrazia è alle porte.
Se la straordinaria vittoria referendaria del 2011 ha dimostrato la fine del
consenso all'ideologia del “privato è bello”, e se la miriade di conflittualità
aperte sulla difesa dei beni comuni e la difesa dei territori suggeriscono la
possibilità e l'urgenza di un altro modello sociale, la crisi, costruita attorno
alla trappola del debito pubblico, ha riproposto con forza e ferocia
l'ideologia del “privato è obbligatorio e ineluttabile”.
L'obiettivo è chiaro: consentire all'enorme massa di denaro accumulata sui
mercati finanziari di potersi impossessare della ricchezza sociale del
Paese, imponendo un modello produttivo contaminante, mercificando i
beni comuni e alienando i diritti di tutti.
Le conseguenze sono altrettanto chiare: un drammatico impoverimento di
ampie fasce della popolazione, sottoposte a perdita del lavoro, del reddito,
della possibilità di accesso ai servizi, ai danni ambientali e ai conseguenti
impatti sulla salute, con preoccupanti segnali di diffusione di disperazione
individuale e sociale.
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Il Governo Renzi, sostenuto dall'imponente grancassa dei mass-media e in
piena continuità con gli esecutivi precedenti, sta accelerando
l'approfondimento delle politiche liberiste, rendendo irreversibile,
attraverso il decreto Poletti e il Job Act, la precarietà del lavoro e della vita
delle persone; continuando a comprimere gli spazi democratici delle
comunità costrette a subire gli effetti delle devastazioni ambientali, delle
grandi opere, dei grandi eventi e delle speculazione finanziaria e
immobiliare; mettendo a rischio, attraverso i tagli alla spesa, il diritto alla
salute, alla scuola e all'università, e la conservazione della natura e delle
risorse.
Dentro questo disegno, viene messa in discussione la stessa democrazia,
con una nuova spinta neoautoritaria che toglie rappresentatività alle
istituzioni legislative (in particolare la nuova legge elettorale “Italicum”)
ed aumenta i poteri del Governo e del Presidente del Consiglio, e con
l'attacco alla funzione pubblica e sociale degli enti locali.
Tutto ciò in piena sudditanza con i vincoli dell'elite politico-finanziarie
che governano l'Unione Europea e che, le politiche di austerità, i vincoli
monetaristi imposti dalla BCE, il patto di stabilità, il fiscal compact e
l’imminente trattato di libero scambio USA-UE (TTIP), cercano di
imporre la fine di qualsivoglia stato sociale e la piena mercificazione dei
beni comuni.
A tutto questo è giunto il momento di dire basta.
In questi anni, dentro le conflittualità aperte in questo paese, sono
maturate esperienze di lotta molteplici e variegate ma tutte accomunate da
un comune sentire: non vi sarà alcuna uscita dalla crisi che non passi
attraverso una mobilitazione sociale diffusa per la riappropriazione sociale
dei beni comuni, della gestione dei territori, della ricchezza sociale
prodotta, di una nuova democrazia partecipativa.
Sono esperienze che, mentre producono importantissime resistenze sui
temi dell'acqua, dei beni comuni e della difesa del territorio,
dell'autodeterminazione alimentare, del diritto all'istruzione, alla salute e
all'abitare, del contrasto alla precarietà della vita e alla mercificazione
della società, prefigurano la possibilità di una radicale inversione di rotta e
la costruzione di un altro modello sociale e di democrazia.
Vogliamo fermare la nuova stagione di privatizzazioni, precarietà e
devastazione ambientale.
Vogliamo costruire assieme un nuovo futuro.
Vogliamo collegarci alle diffuse mobilitazioni europee, per affermare la
difesa dei beni comuni nella dimensione continentale, a partire dal
semestre italiano di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione Europea.
Vogliamo costruire un appuntamento collettivo che nasca in ogni territorio
dentro momenti di confronto e iniziative reticolari, che, a partire da oggi,
mettano in campo reti e associazioni, comitati, movimenti e
organizzazioni sociali per arrivare tutte e tutti assieme ad una grande
manifestazione nazionale a Roma per sabato 17 Maggio, con partenza da
Piazza della Repubblica alle ore 14.00.
Stop privatizzazioni - Stop precarietà - Stop devastazione ambientale
Per la riappropriazione sociale dell'acqua, dei beni comuni, del territorio
Per la difesa e l'estensione dei servizi pubblici e dei diritti sociali
Stop fiscal compact - Stop pareggio di bilancio e patto di stabilità - Stop
TTIP
Per la riappropriazione delle risorse e della ricchezza sociale
Per la difesa e l'estensione della democrazia
link:
http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?
option=com_content&view=article&id=2640:verso-la-manifestazione-nazionaledel-1705-a-roma
Economia
Roberto Mancini – Per dignità. Trasformare
l’economia – a cura di Enrico Peyretti (di Roberto
Mancini, Enrico Peyretti)
“Trasformare l’economia”: su questo tema ha parlato Roberto Mancini,
filosofo (Università di Macerata e Università della Svizzera Italiana), nel
ciclo “Economia e dignità” presso il Circolo dei lettori, il 31 marzo. Qui
trascriviamo appunti sintetici dall’ascolto, a cura di Enrico Peyretti. [1]
Non si propone qui una tecnica, ma una logica dell’economia, tale che sia
un’alternativa di sistema. Oggi vige un falso “principio di realtà”: la
società è un mercato globale. I popolo sono ridotti a popolazioni, fatti
biologici, e devono adattarsi. Tentiamo qui una mappa del percorso di
cambiamento, di uscita dal capitalismo: né riforme, né rivoluzione, ma un
percorso di trasformazione.
lavorare oggi per domani. Vedo tre passaggi.
1 – Occorrono nuovi concetti, un lavoro filosofico per apprendere
diversamente il proprio tempo, disapprendere i concetti del dominio.
Bisogna pensare altrimenti.
La “meritocrazia” è antitesi dei diritti originari della persona, che non si
meritano, ma spettano: cura della salute, istruzione, informazione, …
2 – Il turbocapitalismo agisce a tre livelli: 1) livello visibile, l’economia
operativa; 2) livello culturale globale, in cui esso diventa la nostra
percezione della realtà sociale: imprime l’idea che il cemento della società
è la competizione; invece la vita è cooperazione! Si tratta per noi di
disattivare quella idea distruttiva; 3) il capitalismo come “mito” (nel senso
di Panikkar), cioè una intuizione originaria pre-comprensiva, inglobante,
della condizione umana, che alimenta l’ideologia della competizione.
Oggi abbiamo una “società di mercato”, non solo una economia di
mercato. La società intera è ridotta a infrastruttura del mercato.
Esaminiamo questo mito. Esso afferma: a) l’uomo è egoista, aggressivo,
calcolatore «per natura». Invece l’uomo trasforma la propria natura; b) la
natura è avara, è scarsità, perciò la lotta! ; c) la verità della vita è la morte:
non è un esistere, ma un sopravvivere, rinviando nel tempo la morte,
scaricandola sugli altri, come nemici. In questo mito, la morte è
l’orizzonte della vita. d) il capitalismo non è ateo come il comunismo
sovietico, rispetta Dio e la religione, ma lo pone lontano, dove non si
occupa di noi, che per sopravvivere dobbiamo lottare da soli. Già per gli
antichi politeisti la vita è abbandono da parte degli dei, perciò lotta e
competizione.
Il mercato è oggi l’istituzione oggettiva della competizione. Dunque il
mercato è guerra, è non-reciprocità. La guerra si fa con l’economia.
Competere significa sconfiggere.
Dunque, il cambiamento che occorre è spirituale: ciò non significa
religioso, in una o altra religione; significa cambiamento del senso
dell’esistenza umana: un cambiamento primario, viene prima di tutto.
Il mercato è ridotto a finanza. 146 enti sono il cuore del sistema, il nucleo
distante dall’economia reale. La finanza è 60 volte l’economia reale. C’è
un’alternativa: o capitalismo, o economia di servizio ai bisogni umani. Il
capitalismo finanziario è un parassita, svincolato da ogni legge. Oggi,
imprenditori e proletari si trovano insieme di fronte ai gruppi speculativi.
Per questo l’Occidente entri in dialogo con le altre antropologie sapienti.
La globalizzazione è un accentramento, che ha diviso, non unito
l’umanità. Una diversa idea umana può venire dall’ascolto delle altre
culture. Nessuna grande cultura al mondo riduce l’uomo all’homo
oeconomicus.
Crisi è parola ideologica. Crisi non è una parola onesta, non è un’anomalia
superabile: è un progetto per sostituire il mercato finanziario alla
democrazia. L’ideologia è questa: la finanza produce ricchezza, la vita e
attività delle società sono un costo.
In democrazia devono esserci alternative. Nel 900 c’era un pensiero
alternativo. Oggi manca una lettura critica. Con “crisi” diciamo sia gli
effetti sia la causa.
Vediamo 5 tratti di una antropologia più degna: 1) unicità: ogni essere
umano ha un valore unico, mai strumento; 2) relazionalità: nessuno è
sradicato dagli altri; l’Occidente si è fondato invece sulla identità. Noi
cristiani diciamo “persona”, ma intendiamo “io”, dimenticando l’altro; 3)
apertura all’infinito: non siamo un «essere per la morte»; in tutte le culture
c’è questa apertura; 4) integrità, per poter essere coscienza del creato (nel
pensiero cinese l’uomo è matrimonio tra cielo e terra); 5) responsabilità:
l’abbiamo posposta alla libertà.
Dicevamo “sviluppo” quando era solo nostro, e il mondo colonizzato
soffriva. Oggi parliamo di “crisi” solo per noi.
Altra svolta di metodo operativo economico. Qui si tratta di pratiche, non
solo di modelli teorici.
Il cataclisma sociale è dato da una energia più cattiva informazione.
1 – Relazioni di dono (non vuol dire regalo), cioè relazione che ci lega:
non esclusione; opera di riconoscimento. Lo scambio non è reciprocità, è
vantaggio. È impersonale. La relazione è cura, empatia, ben più che
scambio. Poi è utile anche lo scambio, ma radicato nella coscienza
collettiva. Il puro scambio è guerra.
Le riforme sono adattamento al sistema, come immodificabile: così il
centro-sinistra. La rivoluzione, parola bloccata, è cambiamento repentino,
affidato alla violenza. Non libera e non innova.
Il lessico non ha parola per il cambiamento strutturale. Propongo
“trasformazione”.
Non si tratta di crisi, ma di fallimento.
È la vittoria dei ricchi, piccolissima minoranza nel mondo. «L’unico
rischio per loro è che i popoli prendano coscienza» (dice un dirigente della
Deutsche Bank).
L’Europa, l’Occidente, questa indubbia civiltà, ha partorito le dittature del
900, e questa economia fallimentare. Come mai? Perché ha creduto nel
potere, non nella giustizia e civiltà. Ha individuato il potere del denaro
come la massima forma di potere. Ci ha fatti competitivi, flessibili, veloci.
C’è una parte benefica della parola “fallimento”: prendere coscienza che il
sistema produce danni, diseguaglianza, distruzione del pianeta. Ha
prodotto tanti beni materiali, ma a questo prezzo fallimentare.
Occorre un’altra cultura, una presa di coscienza collettiva. Bisogna
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2 – L’economia islamica vieta il prestito a interesse. Ebrei e cristiani
hanno distinto l’usura dall’interesse: per l’”aiuto” (dall’alto, gerarchico)
occorre denaro, perciò interesse. La tradizione islamica nega che il denaro
possa venire da denaro (divieto delle lotterie, …), ma solo dal lavoro.
Adriano Olivetti pensò una economia di comunità. La bio-economia, per
rispettare il secondo principio della termodinamica, deve farsi compatibile
coi vincoli naturali: perciò armonia, non sviluppo; e con le leggi sociali:
perciò relazione, non competizione. Altre esperienze nuove, modelli
operativi: economia di comunione, economia di cooperazione, dove il
profitto è uno strumento, non un fine. Servono economisti critici e
costruttivi.
3 – Per una svolta culturale-politica, alcune indicazioni: 1) sviluppo della
democrazia, in temporanea alleanza e compromesso col capitalismo. Ma il
fondamento della comunità umana è la dignità. Il costituzionalismo è
questa filosofia politica della dignità. 2) Il bene comune: non solo i beni
comuni, da sottrarre a questo mercato. “Bene” è ciò che accomuna tutti, da
riconoscere. È giustizia (restitutiva, riparativa) che risana le situazioni. La
giustizia è il metodo della politica.
Tutto ciò è forse utopismo? È assai più utopistico, impossibile,«agganciare
il treno della ripresa», come si ripete in giro, perché la crisi è fallimento.
4 – Il mutamento è anzitutto personale e sociale: 1) forme di vita dove
contano le persone più dei ruoli, zone franche dal principio di
competizione; 2) ruolo della conoscenza critica; 3) percorsi educativi
critici, dalla grammatica affettiva alla educazione solidale; 4) anche un
progetto politico verso un’altra organizzazione sociale.
La grande sofferenza sociale di oggi sia come le doglie del parto da una
società di mercato a una società della dignità umana.
[1] Possiamo rinviare, per un maggiore sviluppo, all’articolo di Roberto
Mancini La
trasformazione
interculturale dell’economia, in
www.spaziofilosofico.it 2013. Segnaliamo il suo volume, appena uscito da
Franco Angeli, Trasformare l’economia.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2014/04/17/roberto-mancini-per-dignita-trasformareleconomia-a-cura-di-enrico-peyretti/
Immigrazione
Parlamento, Governo e Unione europea potenzino
subito il sistema italiano per il diritto d'asilo (di
Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)
Le raccomandazioni e le richieste dell'ASGI di fronte ad un fenomeno
largamente previsto e prevedibile di persone in fuga da gravi situazioni
che minacciano i loro diritti fondamentali.
Di fronte al recente ripetersi di sbarchi, concentrati sulle coste siciliane,
dei migranti in fuga dai Paesi di appartenenza o di provenienza e di fronte
all’abuso del termine “emergenza” da parte dei mezzi di comunicazione e
delle autorità politiche, l'ASGI propone alle autorità italiane ed europee le
raccomandazioni e le proposte indicate in un documento che fa il punto
della situazione, ricordando che i migranti che oggi sbarcano in Sicilia
fanno parte di un fenomeno largamente previsto e prevedibile di persone
in fuga da gravi situazioni che minacciano i loro diritti fondamentali ed
hanno perciò diritto di chiedere protezione alle autorità italiane, cosi' come
garantito dalla Costituzione e dalle norme dell’Unione europea.
(fonte: Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)
link:
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/1_0014_asilo_asgidocumenti.pdf
Mafie
Pio la Torre e Rosario Di Salvo (di Enrico
Berlinguer)
Siamo qui a rivolgere l’ultimo saluto al compagno Pio La Torre ed al
compagno Rosario Di Salvo, dopo che per ben due giorni sono sfilati
davanti alle loro salme migliaia e migliaia di cittadini: militanti comunisti,
uomini e donne semplici, bambini, intere famiglie.
Ma non solo qui a Palermo, e non solo in Sicilia, si è pianto per i nostri
due cari compagni. Nelle fabbriche, nelle piazze, in tutti i centri del Paese
la notizia dell’infame delitto ha sollevato un’ondata di commozione e di
sdegno.
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E tutte le autorità dello Stato – a cominciare dal Presidente della
Repubblica, che oggi è qui con noi, insieme ai rappresentanti del
Parlamento, del Governo, della Regione, dei Partiti, delle Organizzazioni
sindacali e di massa, della Stampa — hanno reso omaggio a Pio La Torre e
Rosario Di Salvo, al loro coraggio, alla loro esemplare milizia politica
tutta dedicata alla lotta per la giustizia.
Pio La Torre e Rosario Di Salvo: un prestigioso dirigente e un
appassionato militante del nostro Partito, quasi uniti da un comune
destino! Erano tornati ambedue da poco tempo in una trincea di prima
linea, qual è quella contro il terrorismo politico mafioso che da anni
insanguina la terra di Sicilia.
Rosario Di Salvo da qualche anno aveva lasciato il lavoro di autista
nell’apparato tecnico del Partito e si era dedicato con successo ad una
attività (ragioniere in una cooperativa) che gli consentiva di fare fronte un
po’ meglio alle necessità della famiglia: la moglie e tre bambine.
Ma ecco che questo compagno, proprio quando Pio La Torre è rientrato a
Palermo con l’incarico di segretario regionale del PCI, abbandona la sua
occupazione e chiede di tornare a fare l’attività di Partito.
« Guadagnerò di meno, dice, ma questa è la mia vita. Mia moglie ora fa
dei ricami in casa. Ce la faremo lo stesso ». Ecco chi era Di Salvo: un
compagno mosso da una profonda irresistibile passione politica, da uno
spirito di assoluta fedeltà al Partito, di cui vedeva la ripresa di iniziativa e
di slancio, con una soddisfazione che lo ripagava delle pene e dei rischi
che egli valutava bene, come dimostra il fatto che egli ha estratto la sua
‘pistola ed ha sparato cinque colpi, che forse hanno ferito uno degli
assassini.
Anche Pio La Torre aveva compiuto la scelta di un ritorno, ben sapendo
che si trattava della scelta di un posto di lotta e di lavoro pieno di difficoltà
e di pericoli.
Era tornato a Palermo da otto mesi, come segretario regionale, su sua
richiesta.
Pio La Torre era nato nel 1927 in una famiglia di piccoli contadini
dell’agro palermitano, a Mezzomonreale, a poche centinaia di metri in
linea d’aria dal luogo dove poi ha trovato la morte.
Nel 1945 si iscrive alla FGCI, di cui diventa dirigente. Poco dopo, come
responsabile di organizzazione della Federazione di Palermo, partecipa
alle lotte dei contadini del Corleonese dove già impera, giovanissimo, il
mafioso Liggio.
Era quello il periodo nel quale il nostro Partito in Sicilia era diretto dal
compagno Girolamo Li Causi, il primo dirigente politico che alzò la
bandiera della lotta contro la mafia andando a sfidarne i capi a Villalba,
dove fu ferito.
Nel corso di una manifestazione per la terra dei contadini di Bisacquino
nel marzo 1950, La Torre viene arrestato e resta in carcere per un anno e
mezzo .
È di quel periodo una sua bella lettera al compagno Paolo Bufalini, allora
segretario della Federazione di Palermo, che l’«Unità» ha pubblicato ieri.
Scriveva il giovane La Torre: « In questi ultimi anni il popolo siciliano ha
dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di
libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli
migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle
organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia, a
Li Puma, a Rizzotto, a Cangelosi ».
Quella prima tragica lista, che La Torre ricordava nel febbraio 1951, si è
poi terribilmente allungata, e oggi la conclude l’ultima vittima, proprio lui,
La Torre, caduto per quegli stessi principi che allora annunciava, alla
vigilia del 35° anniversario della strage di Portella delle Ginestre.
Lo stesso compagno Bufalini, in una lettera dell’ottobre 1954 alla
Direzione del Partito, nella quale si proponeva di inviare La Torre alla
Scuola Centrale del Partito, ricorda lo sforzo del nostro compagno
scomparso per legare le sezioni cittadine del Partito alle masse popolari
dei quartieri, facendo delle sezioni stesse il centro di un movimento
popolare largo contro il tugurio, per la casa e per la libertà: «Il compagno
La Torre si giovò in questo lavoro della sua profonda conoscenza delle
condizioni materiali e di vita e dell’animo del popolo palermitano. Il
movimento ci fu, fu un movimento profondo, di base, portò al costituirsi
di larghe alleanze, anche al vertice ».
In queste parole lontane ormai quasi trent’anni, c’è l’indicazione di una
concezione del partito e di uno stile di lavoro che sono gli stessi che
ritroviamo nell’impegno di questi ultimi otto mesi.
Nel 1952 il compagno La Torre, convinto che fosse necessario liberare il
movimento sindacale — come egli affermava — da elementi di
burocratismo e di corporativismo, chiese di passare al lavoro nel sindacato
c divenne segretario della Camera del lavoro palermitana. Nello stesso
anno fu eletto deputato all’Assemblea Regionale Siciliana.
Successivamente La Torre fu segretario regionale della CGIL, e dal 1962
— in un momento anche allora difficile — segretario regionale del Partito,
incarico mantenuto fino al 1967, quando divenne segretario della
Federazione di Palermo.
Nel 1969 il compagno La Torre — che dal IX Congresso era membro del
Comitato Centrale e dall’XI membro della Direzione — fu chiamato a
Roma dove ricoprì gli incarichi di responsabile della Sezione agraria e poi
della Sezione meridionale.
Ma, come diceva di se stesso un altro amatissimo compagno recentemente
scomparso, Feliciano Rossitto, La Torre era « un siciliano all’estero », e
proprio nel senso migliore: nei suoi incarichi di carattere nazionale, infatti,
egli mai perse il contatto con quella realtà siciliana di cui conosceva le
ingiustizie profonde e del cui popolo si sentiva parte.
Nel 1972 La Torre è eletto deputato nazionale e inizia qui la sua intensa
attività che con particolare passione e acuta intelligenza egli svolgerà nel
lungo e complesso lavoro della Commissione parlamentare antimafia,
della quale poi sarà relatore di minoranza.
Al XV Congresso del Partito, nel 1979, Pio La Torre fu eletto membro
della Segreteria. E qui, ancora una volta, egli seppe dimostrare grandi doti
di iniziativa, di inventiva, di tempestività, di senso pratico.
Ricordo un episodio assai significativo.
Appena ebbe notizia del terremoto in Campania ed in Basilicata, Pio La
Torre corse al suo ufficio in Via delle Botteghe Oscure, chiuso per il
giorno festivo.
Di lì, senza esitazioni e indugi, cominciò a tempestare di telefonate le
Federazioni e i Comitati Regionali dell’Emilia, della Toscana, di mezza
Italia, dando indicazioni perché immediatamente, la notte stessa,
partissero i primi soccorsi alle popolazioni terremotate.
E fu così che il giorno dopo, all’alba, nei paesi del terremoto dove ancora
non si era sentita la minima presenza delle autorità pubbliche (e tutti
ricordiamo la vigorosa denuncia che di ciò fece il Presidente della
Repubblica), arrivarono i camions delle Sezioni e Federazioni del PCI e
della FGCI e delle Amministrazioni di Sinistra.
Al centro del Partito, egli ha lavorato bene, guadagnandosi la stima e
l’affetto dei compagni, affermandosi con crescente prestigio nel
Parlamento, tra le altre forze politiche, tra gli avversari.
Nella Segreteria e nell’Ufficio di segreteria del Partito, è stato un uomo
prezioso. Dotato di una giusta visione politica generale, sempre più
arricchitosi — nel corso di oltre trent’anni di ininterrotta faticosa milizia
politica — di sensibilità e interessi culturali vari ed ampi, Pio La Torre,
nella sua attività di dirigente nazionale del Partito, si avvantaggiava di una
sua lunga esperienza, di base e periferica, di lotta e di organizzazione. Si
avvantaggiava dell’esperienza e affinata capacità di uno che non si limita a
fare sfoggio delle parole « masse », « partecipazione », « lotta », «
costruzione », ma conosce bene le masse dei lavoratori, le masse popolari,
e prime fra tutte quelle della sua terra, della sua Sicilia, e del
Mezzogiorno; di uno che sa per diretta esperienza che cosa sia la vita dei
contadini, dei lavoratori, che cosa sia il movimento delle masse, da quali
semplici e profonde ragioni scaturisca, come lo si susciti, lo si organizzi e
lo si diriga: tutte cose imparate dalla gavetta, nella ascesa dagli incarichi
più modesti fino a quelli massimi, nel sindacato e nel partito: da
costruttore di leghe di braccianti e di minatori, di cooperative di contadini
senza terra, a costruttore di sezioni del partito, nel più remoto villaggio di
Sicilia, o nella città di Palermo, nei suoi mandamenti, nelle sue borgate; a
costruttore e dirigente di federazioni del partito.
Per tutto questo, e per altre doti, La Torre a Roma non si limita a
contribuire alla elaborazione di una linea politica, e ad esporla in modo
limpido, con semplicità e concretezza — come si può constatare
rileggendo i suoi articoli —, ma sa muovere le leve che servono a
mobilitare e dirigere il Partito, in campagne e battaglie specifiche,
determinate; con l’obiettivo di condurle ad una conclusione positiva,
6
nell’interesse delle masse lavoratrici e del Paese; ad un successo pur
limitato e parziale, ma che sia una nuova conquista, da cui muovere per
altre battaglie, per nuovi progressi. Vi erano in La Torre — così maturatosi
— ampiezza di vedute e attivismo.
Ecco perché dispiaceva, al centro nazionale del Partito, privarsi della
presenza — operosa, generosa, cordiale — di La Torre. E a Roma egli era
ben ambientato, con la sua famiglia, con gli amici.
Tuttavia egli chiese, con tenacia e forza di volontà, di tornare in Sicilia,
nella sua terra: dove aveva visto nel corso degli anni la situazione
aggravarsi sempre di più; dove vedeva i compagni chiamati a far fronte a
compiti e battaglie sempre più difficili ed aspre, ad esporsi a tutti i rischi.
Altro che «proconsole» inviato da Roma in Sicilia — come qualcuno, per
la verità isolato, nel grande coro di commossi ed alti riconoscimenti dati
dalla stampa a Pio La Torre, ha scritto! Un autentico siciliano, palermitano
profondo è stato Pio La Torre, che è voluto tornare nella sua terra per
combattervi di persona e in prima fila la lotta di redenzione del suo
popolo, sfidando, consapevole, ogni pericolo, e morendo!
Appena tornato La Torre in Sicilia, hanno subito preso nuovo spicco i
cardini della politica del PCI nell’Isola, e, dall’Isola, dalla sua specifica
condizione e posizione, in tutta l’Italia.
La lotta per la pace, la distensione, il disarmo; per la cooperazione
dell’Italia con l’Africa settentrionale e con il mondo arabo; per una giusta
soluzione della tragica questione medio-orientale, minacciosa ed
esplosiva; per fare del Mediterraneo un mare di pace; perché la Sicilia
faccia da ponte tra due sponde, tra due canali, nel segno della pace, della
cooperazione, del progresso, della cultura e della civiltà — nella linea
della sua migliore tradizione e storica funzione.
La lotta contro la violenza mafiosa, fattasi sempre più barbara,
caratterizzata dai modi nuovi, odierni, della speculazione, dallo
sfruttamento, dalla seminazione di distruzione e di morte: al primo posto,
la droga. Caratterizzata dal dilagare di assassini feroci. E caratterizzata da
un tratto nuovo, di estrema gravità: l’aggressione diretta, l’eliminazione
fisica, feroce, di uomini investiti di pubbliche funzioni e di uomini politici
che dimostrano coerente fermezza nell’adempimento dei loro doveri e nel
perseguire, seriamente e concretamente, un disegno di risanamento e
rinnovamento politico, sociale, civile.
Infine, come fondamento e coronamento di tutte le battaglie, il
promovimento e la costruzione di una nuova unità del popolo siciliano,
attraverso collaborazioni e intese di tutte le sue forze popolari, di sinistra e
democratiche più avanzate, di tutte le sue forze oneste, sane, che aspirano
alla pace ed al progresso, che vogliono il rinnovamento.
Di tutte le forze che veramente vogliono che si metta fine alle ingiustizie
sociali, ai crimini mafiosi, allo spargimento di sangue, agli agguati vili ed
ai barbari assassini, ai facili scandalosi arricchimenti, ai sistemi del
privilegio delle clientele e della corruttela, alla collusione della mafia con
il potere politico che produce omertà e fa da scudo all’attività criminale;
che si metta fine alla disoccupazione e inoccupazione e prima di tutto a
quella giovanile; di tutte le forze che veramente vogliono riformare la vita
ed il funzionamento della Regione autonoma, facendo finalmente
dell’Autonomia, che storicamente è grande conquista del popolo siciliano,
lo strumento di autogoverno e controllo popolare, centro di aggregazione
di tutti i siciliani che aspirano ad uno sviluppo libero, sano, pulito,
trasparente, a una Sicilia rinnovata, in una Italia rinnovata, e pacifica.
Questi, in Sicilia e per la Sicilia, i cardini, i pilastri portanti, della linea del
PCI, chiaramente concepiti, attraverso una elaborazione continuamente
aggiornata, da Pio La Torre, e da lui concretamente perseguiti con
passione, con tenacia e decisione. Tutti hanno visto in lui un grande
animatore, un protagonista nella battaglia per Comiso, per stornare dalla
Sicilia la terrificante minaccia della distruzione atomica, per preservarne
la pace. Per questo scopo, egli, da un lato ha saputo mobilitare a fondo,
ampiamente, il Partito comunista e gli strati popolari da esso influenzati;
per altro verso, ha ricercato il collegamento e l’unità con altre forze
politiche ed ideali, che, pur muovendo da impostazioni differenti,
convergono su questo obiettivo di pace: nel reciproco leale rispetto
dell’individualità e autonomia di ogni forza diversa.
Per quanto riguarda noi comunisti, ci siamo battuti e ci battiamo — come
il compagno La Torre aveva chiaramente precisato — perché si
sospendano i lavori di approntamento delle basi per i missili a Comiso, in
vista della ripresa e degli auspicati progressi del negoziato Est-Ovest, con
l’obiettivo della sicurezza di tutti e dell’equilibrio al livello più basso.
Davanti al feretro del compagno La Torre, tenace e intrepido combattente
per la causa decisiva della pace, caduto nel vivo di questa lotta proprio nel
momento in cui il movimento in Sicilia ha acquistato un’ampiezza e un
vigore grandi e quindi un peso effettivo; dinanzi al sacrificio del
compagno La Torre e del compagno Di Salvo — compagni, amici,
cittadini — noi prendiamo l’impegno di continuare a dare il più grande
contributo per sviluppare ulteriormente la battaglia per Comiso e per la
pace.
L’assassinio di La Torre e di Di Salvo non la fermerà. Nel loro nome,
lotteremo con impegno ancora maggiore.
Tutti hanno visto come La Torre abbia condotto la battaglia contro il
sistema di potere mafioso, contro i suoi crimini. Egli ne conosceva le
forme nuove di attività, i metodi, le connivenze, le interferenze e
convergenze con settori e punti determinanti della vita politica e
amministrativa. Tutto ciò egli ha denunciato, con serenità, con obiettività e
misura, con inflessibile coerenza e coraggio.
Dal Convegno sulla mafia, promosso da noi a Palermo, con proposte
nuove molto serie (come quelle riguardanti gli accertamenti dei rapidi
mutamenti patrimoniali e dei facili arricchimenti); alla delegazione di Pio
La Torre e di altri parlamentari comunisti dal Presidente del Consiglio,
prima della nomina del generale Dalla Chiesa alla carica di Prefetto di
Palermo; vi è stato, con la direzione di La Torre, un coerente sviluppo di
una lotta concreta e seria contro il sistema di potere mafioso e i suoi
delitti.
Stroncato La Torre nel feroce e vile agguato, noi, davanti al suo feretro,
prendiamo l’impegno di continuare con fermezza e intelligenza, con
obiettività e coraggio, questa lotta.
Perché hanno ucciso La Torre?
Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi,
denuncie di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio. Era
uomo che, alla testa di un grande partito di lavoratori e di popolo, di gente
schietta e pulita, era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire
ampie alleanze con forze ed uomini sani, democratici di altre tendenze; di
prendere iniziative che colpivano nel segno. Era capace di portare avanti
una politica di rinnovamento, di giustizia sociale, di sviluppo della Sicilia,
di corretta e piena realizzazione della sua autonomia, di unità contro il
riarmo e per la difesa della pace.
Proprio mandando avanti una tale politica, si recidono radici, si toglie
spazio al potere mafioso, alle sue rapine, alle sue prevaricazioni, ai suoi
dilaganti crimini efferati.
È del tutto evidente che tale attività criminale è diretta, alimentata,
sviluppata da forze reazionarie, e assecondata da gruppi economici e
politici incapaci di concepire la ricerca di soluzioni dei loro problemi in
una visione politica ed economica di libero sviluppo della Sicilia e della
sua autonomia, della democrazia italiana, o in una prospettiva di disarmo e
di pace.
Ciò spiega come ogni uomo che dimostri di volere perseguire un
rinnovamento, e di avere capacità e vigore, è considerato da queste forze
un nemico, che si deve fare fuori.
Questo è accaduto per uomini, fra loro molto diversi, come Piersanti
Mattarella e Pio La Torre, come Cesare Terranova e Lenin Mancuso, come
Gaetano Costa e Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri Emanuele
Basile e molti altri, alla cui memoria noi ci inchiniamo.
Noi chiediamo giustizia per loro, per tutti i caduti per mano assassina!
Ancora una volta incitiamo tutti i compagni, tutti i cittadini, a dare piena
collaborazione alla polizia, alle forze dell’ordine, alla magistratura, a tutte
le autorità competenti. Chiediamo alle autorità, ad ogni livello, di
adoperare – tutti gli strumenti che, la Costituzione e le leggi mettono a
loro disposizione, con rigoroso rispetto democratico, con penetrante
impegno, con inflessibile fermezza.
Ci hanno strappato uno dei nostri uomini migliori, un compagno fraterno,
un dirigente forte, come Pio La Torre.
Hanno spento, con vile ferocia, uno dei figli migliori della Sicilia, che ha
sempre lottato per la gente povera, per la giustizia, per la rinascita di
Palermo e dell’Isola.
Un uomo, come ha detto il Vescovo Don Riboldi, buono e pulito!
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Hanno barbaramente stroncato un giovane compagno, coraggioso e
disinteressato, come Rosario Di Salvo. Vogliamo giustizia; vogliamo
verità; per loro, per tutti i caduti.
Nessuno pensi di averci intimidito. Il Partito Comunista Italiano raccoglie
questa sfida.
Vigilerà, combatterà, recluterà nuovi militanti, farà avanzare nuovi
dirigenti. Lotterà, attraverso grandi movimenti di massa, ampi, decisi,
sollecitando le più larghe alleanze, per mettere fine ai delitti, allo
spargimento di sangue; per la giustizia sociale, per uno sviluppo
economico sano che assicuri a tutti lavoro; per una unità del popolo
siciliano, che isoli reazionari e mafiosi, che permetta di realizzare il
risanamento morale, il rinnovamento politico e sociale, la piena
attuazione, nella pace, della autonomia siciliana e dei suoi scopi.
A nome di tutto il nostro Partito ringrazio il Presidente della Repubblica,
Sandro Pertini, per essere venuto qui a Palermo a confermare la sua
solidarietà al nostro dolore, e la sua adesione all’impegno del popolo
siciliano nella lotta per la giustizia e per la libertà. Ringrazio il Presidente
della Camera, i rappresentanti del Senato, il Presidente del Consiglio, tutte
le altre autorità dello Stato e della Regione, le delegazioni dei Partiti, dei
Sindacati, delle Associazioni, degli Organi di informazione.
Esprimo tutto il nostro affetto alla moglie, ai figli ed ai familiari del
compagno Pio La Torre e del compagno Rosario Di Salvo. Nel loro
immenso dolore per la perdita irreparabile, sentano che Pio e Rosario sono
stimati e amati e saranno ricordati da una moltitudine di siciliani e di
italiani come due intrepidi combattenti che hanno lottato per la causa
giusta.
A voi, compagne e compagni della Sicilia, e ai compagni di tutta l’Italia,
diciamo: sull’esempio e nel nome dei compagni caduti intensifichiamo
l’impegno in una lotta più ampia e decisa dei lavoratori e delle forze
popolari per il riscatto della Sicilia, per il rinnovamento dell’Italia; per la
pace.
(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea - segnalato da: Gino Buratti)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2055
Nonviolenza
Geopolitica nonviolenta: legge, politica e sicurezza
nel ventunesimo secolo (di Richard Falk)
In questo breve saggio il mio tentativo consisterà nell’articolare una
concezione di un ordine mondiale basato su una geopolitica nonviolenta
nonché nel prendere in considerazione alcuni ostacoli alla sua
realizzazione. Concentrandomi sull’interconnessione tra “legge” e
“geopolitica” l’intenzione è di considerare il ruolo svolto sia dalle
tradizioni normative della legge e della morale, sia l’orientamento
“geopolitico” che continua a guidare gli attori politici dominanti sulla
scena globale.
Un simile approccio mette in discussione la principale premessa del
realismo, che la sicurezza, la leadership, la stabilità e l’influenza nel
ventunesimo secolo continuino a basarsi principalmente sul potere
militare, o su quelle che sono a volte descritte come le capacità del “potere
materiale” [1]. In una simile prospettiva la legge internazionale svolge un
ruolo marginale, utile per contrastare il comportamento degli avversari,
ma su cui non fare affidamento nel calcolare l’interesse nazionale di un
paese. In quanto tale, il principale contributo della legge internazionale, a
parte la sua utilità nell’agevolare la cooperazione in situazioni in cui
interessi nazionali convergano, consiste nel mettere a disposizione una
retorica che razionalizza iniziative controverse di politica estera assunte da
un paese e nel demonizzare comportamenti paragonabili di uno stato
nemico. Questo ruolo digressivo non va minimizzato, ma non dovrebbe
neppure essere confuso con l’esercizio di norme di freno in modo coerente
ed equo.
In questo capitolo la mia intenzione è di fare tre cose:
•
mostrare il grado in cui le vittorie nella seconda guerra
mondiale hanno plasmato, attraverso la Carta dell’ONU,
•
•
essenzialmente un ordine mondiale che, messo in atto nei
comportamenti, avrebbe emarginato la guerra e codificato in
modo indiretto un sistema di geopolitica nonviolento; in altri
termini le fondamenta costituzionali e istituzionali esistono
già, ma in forma inerte;
criticare il [proporre una critica del] paradigma realista che
non molla mai la sua presa sull’immaginario delle élite
politiche dominanti e un approccio che non ha riconosciuto
l’obsolescenza e i pericoli associati al sistema bellico;
e, infine, prendere in considerazione alcune tendenze della
vita internazionale che rendono razionale lavorare in
direzione dell’incorporazione della geopolitica nonviolenta
nella pratica, nelle idee e nei formalismi della legge
internazionale.
I. La Carta dell’ONU e un approccio legalistico alla geopolitica
nonviolenta
Nel seguito immediato della seconda guerra mondiale, particolarmente
alla luce degli orrendi bombardamenti atomici di città giapponesi, anche
quelli che avevano un orientamento realista erano profondamente
preoccupati di ciò che il futuro faceva presagire e senza riflettere molto si
accordarono su un quadro costituzionale di politica mondiale che
conteneva la maggior parte degli elementi della geopolitica nonviolenta.
Per un certo verso si trattò della prosecuzione di una tendenza che si era
avviata dopo la prima guerra mondiale con la creazione della Lega delle
Nazioni, riflettente un incerto avallo del sentimento di Woodrow Wilson
che una simile conflagrazione aveva rappresentato “una guerra per por
fine a tutte le guerre”. Tuttavia i governi coloniali europei fecero di
Wilson oggetto di umorismo e continuarono a credere che il sistema
bellico fosse attuabile e costituisse parte integrante del mantenimento
dell’egemonia occidentale e la Lega delle Nazioni si dimostrò irrilevante
nell’evitare l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma la seconda guerra
mondiale fu diversa, perché offrì ai leader politici un ammonimento
sinistro su ciò che avrebbe probabilmente comportato una guerra futura tra
grandi stati e sembrò affidare il futuro a una coalizione di potenze
vittoriose che avevano collaborato contro la minaccia posta dal fascismo
e, secondo il punto di vista del leader statunitense Franklin Roosevelt,
avrebbero potuto altrettanto bene collaborare per mantenere la pace. In
aggiunta a ciò, i ricordi della Grande Depressione e la presa di coscienza
che la pace punitiva imposta alla Germania nel Trattato di Versailles aveva
incoraggiato l’ascesa di Hitler diede alla dirigenza globale mondiale
dell’epoca un incentivo ad agevolare la cooperazione nel commercio e
negli investimenti e a capire l’importanza di ripristinare l’economia della
Germania, dell’Italia e del Giappone sconfitti, in modo da evitare il
ripetersi di un’altra depressione catastrofica.
Fu in questa atmosfera che fu concordata la Carta dell’ONU con i suoi
principi cardine basati su quanto segue: (1) il divieto incondizionato di
ricorso alla forza nelle relazioni internazionali salvo che per autodifesa da
un previo attacco armato, che significava la messa al bando della guerra
come strumento di politica nazionale; (2) il rafforzamento di questo
divieto con un impegno collettivo dei membri dell’ONU ad aiutare
qualsiasi stato sia bersaglio di una forza non difensiva, compresi interventi
con la forza sotto gli auspici dell’ONU per ripristinare l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica di un tale stato violato; in nessuna
circostanza doveva essere legalmente accettabile che uno stato acquisisse
territorio ricorrendo alla forza; (3) l’ulteriore rafforzamento di questo
atteggiamento mediante il precedente fissato a Norimberga e Tokyo che
ritenne personalmente responsabili penalmente i leader che dirigono una
guerra aggressiva e dalla ‘promessa di Norimberga’ che assumeva
l’impegno che in futuro tutti i leader politici sarebbero stati soggetti alla
responsabilità penale e non [solo] quelli che avevano perso guerre
(‘giustizia dei vincitori’); (4) l’impegno a rispettare la sovranità interna di
tutti gli stati, piccoli o grandi, attraverso l’accettazione di un obbligo
incondizionato di astenersi da qualsiasi interferenza in questioni
essenzialmente interne alla giurisdizione nazionale.
8
Tale quadro legale, se messo in pratica, avrebbe efficacemente eliminato le
guerre e gli interventi militari internazionali, preservato la struttura statale
dell’ordine mondiale e creato un solido insieme di meccanismi collettivi di
sicurezza per impedire l’aggressione e per sconfiggere e punire qualsiasi
governo e i suoi leader impegnati in guerre aggressive. E’ importante
rendersi conto che questa visione legalistica dell’ordine mondiale
assumeva che fosse politicamente possibile creare un simile mondo senza
guerre e che la razionalità avrebbe prevalso nell’era nucleare per ridefinire
l’approccio alla sicurezza assunto dai ‘realisti’. E’ anche rilevante
osservare che la geopolitica nonviolenta incorporata nella Carta dell’ONU
non implicò mai un abbraccio totale alla nonviolenza come precondizione
della vita politica. Era compreso che all’interno degli stati si sarebbero
verificate politiche insurrezionali violente e varie forme di conflitti civili,
senza violare le norme internazionali. Secondo il piano della Carta le
guerre interne erano oltre la portata del contratto sociale sottoscritto dagli
stati per rinunciare al ricorso alla violenza internazionale. A questo
riguardo anche una guerra interna, a meno che si estendesse oltre i confini
per diventare una specie di guerra internazionale, non doveva essere
affrontata dall’ONU.
Pur nell’ambito di questa concezione legalistica della geopolitica
nonviolenta ci sono difficoltà considerevoli. Innanzitutto il conferimento
di un diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza, che significava che nessuna decisione avversa agli interessi
vitali degli attori politici più pericolosi del mondo potesse essere
raggiunta, e che questa esenzione di fatto dall’impegno alla geopolitica
nonviolenta comprometteva gravemente il valore del quadro legale,
rendendo assolutamente cruciale, per conseguire le pretese di sicurezza
poste dall’ONU, partire dal presupposto ottimistico di una durevole
alleanza per la pace. In secondo luogo l’accettazione della sovranità
interna come legalmente assoluta significava che non ci sarebbero state
basi legali per contrastare efficacemente il verificarsi di genocidi o di
gravi crimini contro l’umanità e di altre situazioni catastrofiche in cui
finiva coinvolta una società preda di un conflitto civile del genere che
attualmente colpisce la Siria.
Naturalmente queste carenze legali sembrano quasi irrilevanti nell’ottica
della mancanza di volontà politica di attuare la visione della Carta della
geopolitica nonviolenta. A posteriori sembra chiaro che prima ancora che
la Carta fosse ratificata le élite al governo negli Stati Uniti e in Unione
Sovietica avevano riaffermato il loro assegnamento sulla loro forza
militare, sulle loro alleanze politiche e sulle loro dottrine di deterrenza per
fondare la propria sicurezza nella logica della potenza materiale
contrapposta. Inoltre l’alleanza antifascista, così efficace in tempo di
guerra, crollò rapidamente in assenza di un nemico comune e seguì la
lunga guerra fredda, che assicurò che le dimensioni della sicurezza
collettiva della visione della Carta sarebbero rimaste lettera morta, anche
se ciò non significava implicare che l’ONU fosse un fallimento totale. In
realtà i suoi contributi positivi erano associati alla facilitazione della
cooperazione internazionale ogni volta che era presente un consenso
politico, operando ai margini normativi della prevalente visione del
mondo basata sulla potenza materiale.
Questi vuoti legali avrebbero potuto essere superati se la visione del
mondo dei principali attori politici avesse veramente abbracciato la
geopolitica nonviolenta come qualcosa di più che una specie di vago
quadro di sicurezza cui aspirare al quale non doveva mai essere permesso
di interferire con la fede realista nella deterrenza e nella forza militare una
volta superato lo shock dell’alba dell’era nucleare. C’era un fattore storico
che operava contro qualsiasi serio tentativo di limitare questo approccio
realista alla sicurezza: la cosiddetta ‘lezione di Monaco’ e cioè che
l’aggressione tedesca era stata incoraggiata dalle politiche di conciliazione
delle democrazie liberali europee, che a loro volta riflettevano una
debolezza militare dovuta al considerevole disarmo successivo alla prima
guerra mondiale. Tale visione del passato recente si tradusse in un
argomento quasi irresistibile a sostegno di un approccio militarista
all’ordine mondiale, che era rafforzato dalla sfida ideologica e geopolitica
attribuita all’Unione Sovietica.
Ciò che questo significava in rapporto con la posizione sostenuta qui è che
la geopolitica violenta o incline alla guerra era pienamente ripristinata,
verosimilmente universalizzata, e limitata solo da una qualità di rafforzata
prudenza per quanto riguardava i confronti tra grandi potenze, come
durante le varie crisi di Berlino e quella dei missili cubani del 1962. La
prudenza era sempre stata una virtù politica cardine dell’approccio realista
classico, ma non era elevata a un ruolo centrale nell’equilibrare il
perseguimento di interessi vitali rispetto al rischio di una guerra
catastrofica. (Aron, 1966, articola al meglio questo approccio realista).
II. L’argomento etico/politico a favore della geopolitica nonviolenta
L’argomento contrastante presentato qui è che i risultati politici dopo la
fine della seconda guerra mondiale sono stati principalmente plasmati
dall’ingegno dei poteri morbidi che ha piuttosto costantemente superato
una condizione di inferiorità militare per ottenere i propri risultati politici
desiderati. Gli Stati Uniti controllavano completamente terra, aria e mare
nel corso dell’intera guerra del Vietnam, vincendo ogni battaglia e tuttavia
perdendo alla fine la guerra, uccidendo sino a 5 milioni di vietnamiti sulla
via del fallimento del loro intervento militare. Ironicamente il governo
USA proseguì nel coinvolgere il vittorioso governo vietnamita e
attualmente gode di rapporti diplomatici ed economici amichevoli e
produttivi. In questo senso la differenza strategica tra sconfitta e vittoria è
quasi impercepibile, rendendo le perdite e le devastazioni della guerra
ancor più tragiche, in quanto inutili da ogni punto di vista.
Ciò nonostante i militaristi statunitensi si sono rifiutati di imparare da quel
risultato, trattando l’impatto di tale sconfitta come una specie di malattia
geopolitica, la “sindrome del Vietnam”, piuttosto che come un riflesso di
una tendenza storica a favore delle rivendicazioni legittime di
autodeterminazione nonostante la vulnerabilità militare di quei movimenti
nazionalisti. I realisti tradizionali hanno ricavato la lezione sbagliata,
insistendo che il risultato era un’eccezione piuttosto che la regola, un caso
di demoralizzazione del sostegno nazionale alla guerra, non una questione
di sconfitta contro un avversario più forte [2]. In effetti, superare la
sindrome del Vietnam ha significato ripristinare la fiducia nella politica
della potenza materiale e perciò neutralizzare l’opposizione nazionale alla
guerra. Questo controllo militarista resuscitato sulla formazione della
politica estera statunitense è stato proclamato come conquista della guerra
del Golfo nel 1991, che indusse in modo rivelatore l’allora presidente
statunitense George H.W. Bush a pronunciare queste parole memorabili
sulla scia immediata di tale vittoria militare nel campo di battaglia del
deserto del Kuwait: “Ci siamo finalmente liberati della sindrome del
Vietnam”. Intendendo naturalmente che gli Stati Uniti avevano dimostrato
di poter scatenare e vincere guerre a costi accettabili, senza soffermarsi a
notare che tali vittorie erano ottenute soltanto dove il terreno era adatto a
uno scontro puramente militare e quando la capacità e la volontà del
nemico di resistere erano minime o inesistenti. Non è che la potenza
materiale sia obsoleta, ma piuttosto che non è in grado di plasmare gli esiti
dei conflitti più caratteristici del periodo successivo al 1945 e cioè la lotta
politica per cacciare forze oppressive che rappresentano una potenza
imperiale straniera o per opporsi a un intervento militare. La potenza
materiale è tuttora decisiva negli scontri con la potenza materiale o in
situazioni in cui la parte più debole è indifesa e la parte più forte è
preparata a portare il suo dominio militare a estremi genocidi.
Non è certo sorprendente che l’affidamento eccessivo e anacronistico alle
soluzioni della potenza materiale in situazioni di conflitto abbia portato a
una serie di fallimenti, sia riconosciuti (guerra dell’Iraq), sia non
riconosciuti (guerra dell’Afghanistan, guerra in Libia). Fintanto che gli
Stati Uniti investono in potenziale militare tanto più pesantemente di ogni
altro stato, saranno costretti a reagire alle minacce o a perseguire i propri
interessi lungo la via della potenza materiale, rifiutando in tal modo di
tener conto della chiara tendenza storica a favore del dominio dei poteri
morbidi in situazioni di conflitto.
9
Anche Israele ha adottato un approccio simile, affidandosi alla sua
superiorità militare per distruggere e uccidere, ma non essendo in grado di
controllare i risultati politici delle guerre in cui si imbarca (ad esempio la
guerra del Libano del 2006, gli attacchi a Gaza del 2008-09). Un altro
costo della potenza materiale o della geopolitica violenta consiste nel
minare il rispetto del primato della legge nella politica globale e
dell’autorità delle Nazioni Unite.
Una seconda dimostrazione dell’anacronismo dell’affidarsi a un sistema di
sicurezza basato sulla violenza è stata associata alla reazione agli attacchi
dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono, i duplici simboli
dell’imperio statunitense. Una caratteristica di tale evento è stata la
rivelazione dell’estrema vulnerabilità dello stato maggiormente dominante
in termini militari dell’intera storia umana a un attacco di un agente non
statale senza armamenti significativi e privo di grandi risorse. Dopo di ciò
è divenuto chiaro che gli enormi investimenti statunitensi nel conseguire
un “dominio a pieno spettro” non avevano prodotto una sicurezza
rafforzata, bensì il senso più acuto di insicurezza nella storia del paese.
Ancora una volta è stata ricavata la lezione sbagliata e cioè che il modo
per ripristinare la sicurezza consisteva nello scatenare una guerra
indipendentemente dalla natura diversa di questo nuovo genere di
minaccia, nel fare un uso irrazionale della macchina militare all’estero e
nel ridurre le libertà in patria nonostante l’assenza di un avversario
territoriale o di qualsiasi rapporto di mezzo-fine tra il ricorso alla guerra e
la riduzione della minaccia [3]. La lezione appropriata, avvalorata
dall’esperienza, è che tale minaccia alla sicurezza può essere affrontata
meglio da una combinazione di forze di polizia transnazionali e
affrontando le rivendicazioni legittime degli estremisti politici che
lanciarono gli attacchi. La reazione spagnola agli attacchi di Madrid
dell’11 marzo 2004 è sembrata sensibile a queste nuove realtà: ritiro dal
coinvolgimento nella guerra dell’Iraq e contemporaneo rafforzamento
degli sforzi della polizia per identificare e arrestare estremisti violenti e
partecipazione a tentativi di dialogo per ridurre la tensione tra l’Islam e
l’Occidente [4]. In un diverso contesto, l’ex primo ministro britannico
John Major ha osservato di aver cominciato a fare progressi nel por fine
alle violenze nell’Irlanda del Nord soltanto quando smise di pensare che
l’IRA fosse un’organizzazione terroristica e cominciò a trattarla da
protagonista politico con rivendicazioni reali e proprie motivazioni per
raggiungere un accomodamento e la pace.
La lezione giusta consiste nel riconoscere l’utilità molto limitata della
potenza militare in situazioni conflittuali all’interno del mondo postcoloniale, afferrando la misura in cui la lotta popolare ha esercitato un
protagonismo storico nel corso degli ultimi sessant’anni. Ha plasmato
numerosi esiti di conflitti che non potevano essere compresi se valutati
solo attraverso le lenti della potenza materiale che interpretano la storia
come di solito determinata da guerre vinte dalla parte che ha l’esercito più
forte e poi decide i termini della pace [5]. Ogni guerra anticoloniale
dell’ultima metà del ventesimo secolo è stata vinta dalla parte
militarmente più debole, che alla fine ha prevalso pur subendo perdite
sproporzionate nel cammino verso la vittoria. Ha vinto perché il popolo
era mobilitato nell’interesse dell’indipendenza da forze coloniali straniere
e la sua resistenza ha incluso la conquista del controllo completo della
superiorità morale. Ha vinto per la verità politica racchiusa nel detto
afghano: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Conquistare la
superiorità morale ha sia delegittimato il regime coloniale, sia legittimato
la lotta anticoloniale; alla fine anche l’ONU, stato-centrica e inizialmente
amica dell’impero, è stata indotta ad avallare le lotte anticoloniali con
riferimento al diritto all’autodeterminazione, che è stato proclamato diritto
inalienabile di tutti i popoli.
Questa influenza delle capacità del potere morbido nelle lotte politiche
non è sempre stata tale. In tutta l’era coloniale e fino a metà del ventesimo
secolo, la potenza materiale era in generale efficace ed efficiente, così
come espressa dalle conquiste coloniali dell’emisfero occidentale con
piccoli numeri di truppe ben armate, dal controllo britannico sull’India
con poche migliaia di soldati o dal successo della “diplomazia delle
cannoniere” nel sostenere l’imperialismo economico statunitense
nell’America Centrale e nei Caraibi. Ciò che fece volgere la marea della
storia contro il militarismo fu l’ascesa della coscienza di sé nazionale e
culturale nei paesi del Sud, più spettacolarmente in India sotto la guida
ispirata di Gandhi, dove forme coercitive nonviolente di potere morbido
rivelarono per la prima volta la loro potenza. Più recentemente, favorita
dalla rivoluzione nelle comunicazioni, la resistenza ai regimi oppressivi,
basata sui diritti umani, ha dimostrato i limiti del governo dei poteri forti
in un mondo globalizzato. La campagna contro l’apartheid estese la lotta
contro il regime razzista che governava il Sudafrica a un campo di
battaglia simbolico globale dove le armi erano l’affidamento coercitivo
nonviolento ai boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni. Il collasso
dell’apartheid in Sudafrica fu in larga misura realizzato da sviluppi esterni
alla sovranità territoriale, uno schema che oggi è replicato dalla “guerra di
legittimitazione” palestinese scatenata contro Israele. L’esito non è
garantito ed è possibile che la guerra per la legittimazione sia vinta e
tuttavia siano mantenute le condizioni oppressive, come sembra accadere
attualmente nel caso del Tibet.
Su questo sfondo è considerevole e persino sconcertante che la geopolitica
continui a essere mossa da un’unanimità realista che fuori dalla storia
ritiene che la storia continui a essere determinata dalla grandiosa strategia
dei protagonisti statali dominanti della potenza materiale [6]. In effetti i
realisti hanno perso il contatto con la realtà. Sembra corretto riconoscere
che rimane un ruolo razionale per la potenza materiale, come argine
difensivo dal residuo militarismo statale, ma anche a questo riguardo i
guadagni economici e politici della smilitarizzazione sembrerebbero
superare di molto i benefici di una dipendenza anacronistica da forme di
potenza materiale di autodifesa, specialmente quelle che rischiano guerre
combattute con armi di distruzione di massa. Riguardo alla violenza
politica non statale, le capacità della potenza materiale sono di scarsa o
nulla rilevanza e la sicurezza può essere ottenuta meglio con
accomodamenti, servizi d’informazione e forze di polizia transnazionali. Il
ricorso statunitense alla guerra nell’affrontare la minaccia di al-Qaeda,
come in Iraq e in Afghanistan, si è dimostrato costoso e maldiretto [7].
Proprio come la sconfitta USA in Vietnam ha replicato le sconfitte francesi
nelle guerre coloniali scatenate in Indocina e in Algeria, il ciclo dei
fallimenti è rinnovato nello scenario globale post 11 settembre. Perché
lezioni simili che hanno rilievo nel modificare l’equilibrio tra potenza
materiale e potere morbido restano ignorate nel centro imperiale delle
manovre geopolitiche?
E’ di grande importanza porre questa domanda anche se non è in arrivo
alcuna risposta definitiva al presente. Ci sono alcuni indizi suggestivi
relativi a spiegazioni sia materiali sia ideologiche. Sul lato materialista, ci
sono strutture governative e sociali profondamente radicate la cui identità
e i cui interessi di parte sono legati a una dipendenza massima dalla
potenza materiale e dalla sua proiezione. Queste strutture sono state
identificate in vari modi nello scenario statunitense: “stato della sicurezza
nazionale”, “complesso militare-industriale”, “keynesismo militare” e
“sistema bellico”. Fu Dwight Eisenhower che più di cinquant’anni fa
ammonì circa il complesso militare-industriale nel suo discorso di addio,
formulando rimarchevolmente la sua osservazione dopo che non era più in
grado di esercitare influenza sulla politica governativa [8]. Nel 2010
sembra esserci una struttura più profondamente radicata a sostegno del
militarismo e che si estende ai media dominanti, ai gruppi di esperti
conservatori, a un esercito di lobbisti considerevolmente pagati e a un
Congresso profondamente compromesso la maggioranza dei cui membri
ha sostituito il denaro alla coscienza. Questo paradigma politicamente
radicato che collega il realismo al militarismo rende virtualmente
impossibile contestare un bilancio militare anche in tempi di deficit fiscali
che sono riconosciuti da osservatori conservatori come una minaccia alla
vitalità dell’impero USA (Ferguson 2010). La dimensione del bilancio
militare, combinata con flotte in ogni oceano, più di 700 basi militari
all’estero e un enorme investimento nella militarizzazione dello spazio
mostrano l’autoassolutoria incapacità di riconoscere la disfunzionalità di
tale atteggiamento globale [9]. Gli USA spendono quasi quanto l’intero
mondo messo insieme per la propria macchina militare e più del doppio di
quanto spendono i dieci principali stati che li seguono nella classifica. E
10
con quale vantaggio per gli interessi nazionali o globali?
Il massimo che ci si può attendere da un aggiustamento dell’unanimità
realista in queste condizioni è un certo ammorbidimento dell’enfasi sulla
potenza materiale. Da questo punto di vista si nota che numerosi aderenti
influenti all’unanimità realista hanno recentemente richiamato l’attenzione
sulla crescente importanza di elementi non militari del potere nel
perseguimento razionale di una grande strategia che continua a inquadrare
la geopolitica con riferimento a presunte “realtà” della potenza materiale,
ma che sono allo stesso tempo critici dell’arcimilitarismo attribuito ai
neoconservatori (vedere Nye 1990; Gelb 2009; Walt 2005) [10]. Questo
stesso tono pervade il discorso di Barack Obama alla cerimonia del
Premio Nobel per la Pace nel 2009. Questo rifiuto realista di comprendere
uno scenario globale largamente post-militarista è eccessivamente
pericoloso, considerata la continua presa del realismo sulla definizione
della politica da parte di forze governative e del mercato/finanza [11]. Tale
realismo superato non solo si dà a imprese militari imprudenti; tende
anche a trascurare una gamma di problemi più profondi che influenzano la
sicurezza, la sopravvivenza e il benessere umano, tra cui il cambiamento
climatico, il picco del petrolio, la scarsità d’acqua, la fragilità fiscale e la
caduta libera del mercato. In quanto tale, questo orientamento politico è
incapace di formulare le priorità associate a forme sostenibili e benevoli di
governo globale.
In aggiunta alla rigidità strutturale che deriva dal radicato paradigma
militarista, sorge un’incapacità sistemica di apprendere che non è in grado
di analizzare le cause principali dei fallimenti del passato. In termini
pratici ciò porta a scelte politiche troppo stesso plasmate da un pensiero
privo d’immaginazione intrappolato in un sistema militarista (militarist
box). Nella recente esperienza politica internazionale, un pensiero
prevalentemente confinato nella scatola militare ha condotto
l’amministrazione Obama a intensificare il coinvolgimento USA in una
lotta interna per il futuro dell’Afghanistan e a lasciare sul tavolo la
cosiddetta opzione militare per trattare la prospettiva dell’acquisizione
iraniana di armi nucleari. Un attraente approccio politico alternativo in
Afghanistan sarebbe basato sul riconoscimento che quello dei talebani è
un movimento che persegue obiettivi nazionalisti in mezzo a un conflitto
etnico che divampa. In conseguenza si tenderebbe alla conclusione che gli
interessi della sicurezza statunitense si avvantaggerebbero da una fine
delle operazioni belliche, seguita da un graduale ritiro delle forze della
NATO, da un grande incremento dell’assistenza allo sviluppo che eviti di
canalizzare fondi attraverso un corrotto governo di Kabul e da una
genuina svolta della politica estera USA verso il rispetto della politica
dell’autodeterminazione. Similmente, in rapporto all’Iran, invece di
minacciare un attacco militare e di promuovere misure punitive, una
sollecitazione alla denuclearizzazione regionale, che insistesse
sull’inclusione di Israele, sarebbe un’espressione sia di un pensiero
estraneo al sistema militarista, sia dell’esistenza di reazioni non militari
che offrano maggiore speranza a preoccupazioni effettivamente genuine
per la sicurezza.
III. Osservazioni conclusive: opportunità, sfide, tendenze
In conclusione, è quasi destinata a realizzarsi una qualche forma di
geopolitica, considerate la grossolana disuguaglianza degli stati e la
debolezza delle Nazioni Unite come espressione istituzionale di un
governo unificato per il pianeta. Specialmente dopo il crollo dell’Unione
Sovietica il primato degli Stati Uniti si è inevitabilmente tradotto nella
loro ascesa geopolitica. Sfortunatamente questa posizione ha avuto come
premessa una fiducia acritica sul paradigma della potenza materiale, che
combina militarismo e realismo, producendo una geopolitica violenta in
rapporto a conflitti critici non risolti. L’esperienza degli ultimi
sessant’anni mostra chiaramente che questo paradigma è insostenibile sia
dal punto di vista pragmatico sia dei principi. Non consegue i propri
obiettivi a costi accettabili, se mai li consegue. Si basa su pratiche
immorali che implicano grandi uccisioni di innocenti e colossali sprechi di
risorse.
Forse la principale verifica della tesi di questo saggio è la continua lotta
per l’autodeterminazione del popolo palestinese, sotto forma di un singolo
stato laico includente l’intera Palestina storica o di stato indipendente e
vitale per conto proprio coesistente con lo stato israeliano. Come stanno le
cose oggi, dopo decenni di occupazione, la lotta palestinese si affida
principalmente a una guerra di legittimazione basata su una serie di
strumenti di potere morbido, tra cui la diplomazia e la guerra legale, una
campagna nonviolenta di boicottaggio coercitivo e di disinvestimenti e
una varietà d’iniziative della società civile che sfidano le politiche
israeliane. C’è incertezza sull’esito futuro. L’intero orientamento del
potere morbido ha fatto un gigantesco passo in avanti grazie alla
“Primavera Araba” in cui movimenti popolari disarmati hanno sfidato
regimi oppressivi e dittatoriali con alcuni successi notevoli, specialmente
in Egitto e in Tunisia, ma ottenendo altrove almeno promesse di estese
riforme. Io penso che sempre più le potenzialità della costruzione di un
ordine mondiale sulla base di principi di potere morbido stiano
guadagnando sostegno, trasferendo l’idea della geopolitica nonviolenta dal
campo dell’utopismo al divenire un genuino progetto politico.
Naturalmente c’è resistenza, soprattutto da parte degli oppositori guidati
da Stati Uniti e Israele.
Quelle forze politiche che si affidano all’alternativa di pratiche e principi
nonviolenti, per contro, hanno mostrato la capacità di conseguire obiettivi
politici e una volontà di perseguire i propri obiettivi con mezzi etici, a
volte con grande rischio personale. Il movimento gandhiano che produsse
l’indipendenza dell’India, la trasformazione, guidata da Mandela, del
Sudafrica dell’apartheid, il potere popolare nelle Filippine e le rivoluzioni
morbide nell’Europa Orientale dei tardi anni 1980 sono casi esemplari di
trasformazioni nazionali basate sulla lotta nonviolenta che comportavano
rischi per i militanti sino, in alcuni casi, al sacrificio della propria vita.
Nessuna di queste vittorie dei poteri morbidi ha prodotto società
interamente giuste o ha affrontato l’intero ordine del giorno delle
preoccupazioni sociali e politiche, spesso lasciando intatti rapporti di
classe sfruttatori e amare tensioni sociali, ma esse sono riuscite a superare
situazioni immediate di rapporti oppressivi statali/sociali senza un
significativo ricorso alla violenza.
Bibliografia
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Richard J. Barnet, The Roots of War (New York,: Atheneum, 1972)
Leonard C. Lewin (for Special Study Group), Report from Iron Mountain
on the Possibility and Desirability of Peace (London: Macdonald, 1968).
Passando allo scenario globale, esistono opportunità analoghe di
applicazione di geopolitica nonviolenta. C’è un diffuso riconoscimento del
fatto che la guerra tra grandi stati non è una scelta razionale in quanto
quasi certamente comporterebbe enormi costi in sangue e denaro e
otterrebbe risultati reciprocamente distruttivi diversamente dal chiaro
vincitore e perdente del passato. Le opportunità di una geopolitica
nonviolenta sono fondate anche sulla volontà del governo di accettare la
disciplina sempre più praticamente autolimitante della legge
internazionale così come diffusamente avallata da principi morali
incorporati nelle grandi religioni e civiltà del mondo. Un altro passo in
questa direzione sarebbe un ripudio da parte dei nove stati dotati di armi
nucleari delle armi di distruzione di massa, a partire dal proporre una
dichiarazione che impegni a non usare per primi gli armamenti nucleari
per passare poi a un immediato e urgente negoziato sul trattato del
disarmo nucleare che si ponga come obiettivo non utopistico “un mondo
senza armi nucleari” (Krieger, 2009). Il secondo passo essenziale consiste
nel liberare l’immaginazione morale e politica dai confini del militarismo
e dal conseguente pensare all’interno di quel perimetro disfunzionale che
continua a restare un componente base della mentalità realista tra i paesi
guida dell’occidente, specialmente gli Stati Uniti. La sfida psico-politica
dell’abbandonare l’affidamento ai potenziali bellici come pietra angolare
della sicurezza è resa più difficile dagli interessi radicati del settore
burocratico e privato in un quadro militarista di politica della sicurezza.
Niall Ferguson, “The Fragile Empire- Here today, gone tomorrow—could
the United States fall fast?” LA Times, Feb. 28, 2010.
—
Joe Camilleri and Jim Falk, Worlds in Transition: Evolving Governance
Across a Stressed Planet (Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2009)
Alcune delle idee delle sezioni II e III dell’articolo sono state sviluppate in
precedenza in “Renouncing Wars of Choice: Toward a Geopolitics of
Nonviolence” [Ripudio delle guerre per scelta: verso una geopolitica della
nonviolenza] in Griffin e altri, 2006, 69-85 e in “Nonviolent Geopolitics”
[Geopolitica nonviolenta], a cura di Joahnsen e Jones, 2010, 33-40.
11
Chalmers Johnson. The Sorrows of Empire: militarism, secrecy, and the
End of the Republic (New York: Metropolitan, 2004).
Joseph S. Nye, Jr., Bound to Lead: The Changing Nature of American
Power (New York: Basic Books, 1990
Joseph S. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics (New
York: Public Affairs, 2004)
Leslie H. Gelb, Power Rules: How common sense can rescue American
foreign policy (New York: Harper-Collins, 2009)
Stephen M. Walt, Taming American Power: The global response to
American power (New York: Norton, 2005).
Gabriel Kolko, The Age of War: The United States Confronts the World
(Boulder, CO: Lynne Rienner, 2006).
Ken Booth, Theory of World Security (Cambridge, UK: Cambridge
University Press, 2007)
James H. Mittelman, Hyperconflict: Globalization and Insecurity
(Stanford, CA:Stanford University Press, 2010).
David Krieger, ed., The Challenge of Abolishing Nuclear Weapons (New
Brunswick, NJ: Transaction, 2009).
Note
[1] Un’eccezione all’orientamento prevalente è Rosecrance, 2002.
[2] Significativamente, ogni leader statunitense dopo Nixon ha fatto del
suo meglio per eliminare la sindrome del Vietnam, percepita dal
Pentagono come un inibitore indesiderato dell’uso della forza aggressiva
nella politica mondiale. Dopo la fine della Guerra del Golfo nel 2001, le
prime parole del presidente George H. Bush furono: “Abbiamo finalmente
cancellato la sindrome del Vietnam”, intendendo, ovviamente, che gli Stati
Uniti erano nuovamente in grado di combattere “guerre per scelta”.
[L’espressione, qui come più sopra, “guerre per scelta” si contrappone a
“guerre per necessità” – n.d.t.]
[3] Bene espresso in Cole e Lobel, 2007; vedere anche il mio tentativo,
Falk 2003.
[4] Questo paragone è analizzato in modo simile da Galtung, 2008.
[5] Documentato significativamente in Schell, 2003.
[6] E’ degno di nota che i cambiamenti nel panorama geopolitico globale
associati all’ascesa di Cina, India, Brasile e Russia abbiano largamente a
che fare con la loro ascesa economica, e per nulla con i loro potenziali
militari, che restano banali in confronto con quelli degli Stati Uniti.
[7] Mentre le lotte interventiste proseguono di anno in anno con risultati
inconcludenti, ma con costi montanti in vite e risorse, le parti che
intervengono contraddicono la loro stessa logica bellica, ricercando
compromessi e persino invitando il nemico a partecipare al processo
governativo. Ciò è stato tentato sia in Iraq sia in Afghanistan, ma solo
dopo aver inflitto danni enormi e durature grandi perdite di vite tra le
stesse proprie truppe e sopportando grandi spese.
[8] Tra gli studi preziosi vi sono Barnet, 1972, e Lewin, 1968.
[9] Dimostrato in modo più convincente in una serie di libri di Chalmers
Johnson. Vedere specialmente il primo dei suoi tre libri sul tema (2004).
[10] Per una critica progressista del militarismo imperiale statunitense
vedere Kolko, 2006.
[11] Numerosi studiosi eminenti sono da molto tempo sensibili al distacco
che separa i realisti, anche prudenti, dalla realtà. Per un importante testo
tuttora rilevante vedere Galtung, 1980. Per altri perspicaci studi recenti su
queste linee vedere Booth, 2007, specialmente la sezione sul “realismo
emancipativo”, pagg. 87-91; Camilleri e Falk, 2009; Mittelman, 2010.
6 aprile 2014
http://znetitaly.altervista.org/art/14684
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/nonviolent-geopolitics-law-politicsand-21st-century-security/
Originale: Richardfalk.com traduzione di Giuseppe Volpe; revisione a cura
del Centro Sereno Regis
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2014/04/18/geopolitica-nonviolenta-legge-politica-esicurezza-nel-ventunesimo-secolo-richard-falk/
12
Pace
Sviluppo e pace, il senso di un
transfrontaliero (di Elisabetta Bozzarelli)
progetto
I territori posti tra Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Sud
Sudan hanno vissuto, per motivi diversi, gravi conflitti negli ultimi
decenni. Negli ultimi tempi però la zona è riuscita a trovare una via di
pacificazione, con la possibilità di programmare e costruire il proprio
futuro.
L’organizzazione non governativa ACAV era presente da più di 20 anni
nel Distretto di Arua quando nel 2005 si è costituito il nuovo distretto di
Koboko dove ha sperimentato un progetto integrato, finanziato dal
Ministero degli Affari Esteri, con l’obiettivo di realizzare una
cooperazione sostenibile, responsabilizzante e produttiva e che
coinvolgesse il maggior numero possibile di persone e di comunità.
Si è lavorato nel settore idrico e sanitario, costruendo pozzi e latrine, ma si
è investito soprattutto in agricoltura e per la sicurezza alimentare. Il centro
agricolo dimostrativo di Jabara ha dato formazione ed assistenza tecnica a
migliaia di contadini e sostegno alle piccole cooperative agricole anche
attraverso il credito cooperativo. Altri interventi hanno interessato la
formazione tecnica e professionale e il supporto alle amministrazioni
locali. Si è così adottato il neonato distretto, accompagnandone la crescita
con interventi condivisi e coerenti e dopo sei anni di intenso lavoro è
riuscita a essere una presenza visibile e apprezzata.
La popolazione che abita nel distretto di Koboko è in maggioranza Kakwa
e ha mantenuto lingua e tradizioni comuni con le popolazioni della stessa
etnia che abitano nei territori limitrofi, benché separate da confini di stato.
Cessati i conflitti armati, gli scambi si sono intensificati ed è cresciuta
nelle comunità l’aspirazione ad uscire dall’emergenza e tentare di
disegnare un futuro di pace e sviluppo. Koboko per certi aspetti si è posto
come modello: in pochi anni è uscito dall’emergenza, con una costante
diminuzione della mortalità infantile e delle malattie legate all’acqua non
sicura, un miglioramento della produzione agricola destinata al consumo
famigliare e ai mercati locali e la nascita di piccole cooperative di
contadini.
L’intervento è stato poi allargato anche ai territori oltre il confine
ugandese e si è date vita ad un progetto transfrontaliero, che ha reso
possibile diversi incontri istituzionali fra le autorità, i funzionari e gli
esponenti della società civile delle amministrazioni locali.
Tutte le persone coinvolte in questo percorso si sono impegnate a capire le
potenzialità che derivano da forme di cooperazione tra regioni di stati
diversi abitate da popolazioni di culture simili e si sono impegnate a
cercare il sostegno dei rispettivi governi centrali. Gli obiettivi che sono
stati condivisi vanno nella direzione di uno sviluppo pacifico delle
relazioni, attraverso il mantenimento delle identità culturali,
l’abbassamento progressivo delle barriere di confine tra gli stati,
l’ampliamento dell’area di scambio dei prodotti locali, il confronto e
l’armonizzazione delle regole dell’economia tra stati confinanti, l’
autonomia amministrativa da governi centrali troppo lontani.
Mentre è in corso questa importante riflessione che per la prima volta vede
un confronto tra queste comunità di confine, in attesa che arrivino a
compimento accordi e programmi, ACAV ha risposto alle richieste di aiuto
più immediato, avviando un programma di cooperazione integrata anche
nella Chefferie des Kakwa, RDC e nella contea di Morobo, Sud Sudan.
Portare acqua sicura e sostenere i contadini nella produzione del cibo sono
i primi obiettivi degli interventi. Una cooperazione allo sviluppo,
patrocinata anche dalla Provincia autonoma di Trento, che risponde alle
sfide ed ai bisogni dei territori, abita la complessità, fatta dalle storie dei
paesi e delle comunità che si intrecciano in un contesto internazionale
instabile.
La convinzione che crescite diseguali tra territori vicini, considerati
“fratelli”, fortemente interrelati, potrebbero alimentare quei conflitti
sociali ed economici che nel recente passato hanno provocato violenze, ha
fatto scaturire l’idea di proporre una progettualità innovativa. Essa mira
non solo ad alleviare le situazioni di povertà, ma cerca di incidere nelle
realtà locali con il coinvolgimento, la mediazione ed il supporto della
popolazione, delle autorità amministrative, con progetti simile e con
uguale forza operativa nei tre stati confinanti, così da dare loro
un’occasione di crescita, conoscenza e soprattutto collaborazione.
potere, ai padroni delle clientele pseudo culturali. Queste forme di potere
introdotte dall’era berlusconiana contro i diritti di chi non ce la fa, oggi si
sono perfezionate e moltiplicate fino a travolgere la stessa etica
paternalistica ed edonistica, pervadendo in senso orizzontale e verticale la
società e lo Stato. Con un connesso mutamento dell’estetica del consenso
fatta passare come neocomunicazione politica: il nuovo valore aggiunto
alla vacuità della diffusa decadenza dei valori. Non siamo al fascismo,
perché nessuno si sente ancora sotto un regime. Ma se non si sta attenti,
poco ci manca.
Nel contesto africano, dove i nervi scoperti del “tribalismo” e dell’
“etnicità” sono costantemente fonte di problemi e i confini fra gli stati
sono spesso artificiosi, c’è grande bisogno di sperimentare forme di
autonomia amministrativa in aree transfrontaliere omogenee, che siano
fattibili, funzionanti e replicabili.
GC
L’arretratezza di molte comunità, dove ancora si lotta per la
sopravvivenza, convive con la velocità dei cambiamenti economici,
l’aumento della scolarizzazione, l’entrata nel mondo della comunicazione
globale. Accompagnare il cambiamento nel senso della crescita e della
partecipazione dovrebbe essere sentito come una responsabilità forte del
mondo occidentale, che invece per svariati motivi fa fatica a intraprendere
una cooperazione responsabile e adeguata ai nuovi bisogni.
Elisabetta Bozzarelli
Direttrice ACAV
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/Sviluppo-e-pace-il-senso-di-un-progettotransfrontaliero-145502
Politica e democrazia
Il 25 aprile in quattro righe (di Giuseppe
Casarrubea)
Una data. Ma non solo. Tutti i giorni hanno un loro senso, e se per caso a
conclusione di una giornata dovessimo ritenere di non averne avuto
qualcuno, dovremmo ricrederci pensando semplicemente al fatto che
almeno uno ci è consegnato dal nostro destino. E’ l’obbligo che abbiamo
di dare ai nostri figli, o a chiunque altro, ed anche a noi stessi, un preciso
dovere, un mandato per il futuro.
Questo mandato, sia pure quando tutto si disgrega, muore o si sgretola, è
lo sforzo di immaginare un mondo diverso e di agire perché possa
veramente esserlo. Una regola generale senza la quale anche lo sforzo
supremo che compirono coloro che a questa missione credettero,
combattendo, affrontando pericoli, e sacrificandosi, non avrebbe avuto
ragione alcuna di esistere. Essi sapevano infatti che l’inerzia dava spazio
alla violenza e alla morte, privava ciascuno del valore della sua vita e la
consegnava al baratro della barbarie e della follia. Quella che si combatté
tra il 1943 e il 1945 in Italia fu perciò la scelta decisiva e finale dei singoli
e di tanti popoli di imprimere un cambiamento radicale alla loro e alla
nostra vita, anche se molti hanno dimenticato la lezione, ritenendola ormai
vecchia e inutilizzabile per le generazioni future. Ma non è così.
Il 25 aprile oggi è attuale per molti motivi, dei quali mi limito a elencare
quelli, a mio giudizio, più indispensabili per la nostra vita quotidiana. Il
rifiuto di ogni potere e dittatura come azione criminale contro gli indifesi e
contro il diritto di tutti a vivere con dignità e nel benessere. Quindi
l’obbligo ci ciascuno di battersi per tale scopo. L’esistenza di numerosi
focolai di guerra nel mondo e di vere e proprie guerre che rischiano di
allargarsi oltre i loro confini territoriali. Lo sgretolamento dei sistemi
democratici e il graduale, ma costante, ricorso al leaderismo, al dominio
dei pochi. Cioè il potere concepito come consorteria, che chiama attorno a
sé l’uso spregiudicato delle proprie funzioni o del proprio posto di
comando visti non più come servizio, ma costruzione di vere e proprie
lobby, emersione di gruppi amicali, di amici degli amici. Lobby del
consenso latente che utilizzano il successo dei pochi, dei più vicini al
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(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/04/26/il-25-aprile-in-quattro-righe/
Questione di genere
Dimissioni in bianco, così non va (di Titti Di Salvo)
L'onere della prova a carico della donna licenziata, e per sanzione una
semplice multa: la nuova normativa contro le dimissioni in bianco è
troppo debole. Così com'è scritto, non tutela le lavoratrici. Un appello al
parlamento perché lo cambi: una norma di civiltà non può essere oggetto
di mediazione tra interessi.
In più occasioni la ministra Elsa Fornero, e per la verità non solo lei, per
difendere la riforma del mercato del lavoro, ha citato l'articolo 55 del ddl,
che definisce le nuove regole contro le dimissioni in bianco. Certo non era
scontato che il governo affrontasse l'argomento, per la semplice ragione
che a votare quell'articolo è lo stesso parlamento che nel 2008 ha
cancellato la legge 188/2007, dedicata appunto a sanzionare e limitare
quell'abuso. Tuttavia grazie alle iniziative promosse da tante donne in
questi anni la deprecabilità delle dimissioni in bianco è diventata senso
comune ed è difficile ormai chiudere gli occhi di fronte alla
consapevolezza diffusa che si tratta di un fenomeno inaccettabile in un
paese civile. Ci troviamo infatti di fronte a una pratica tanto diffusa quanto
illegale: quella di far firmare in anticipo, al momento dell'assunzione, le
proprie dimissioni, da completare, riempiendole con la data desiderata a
fronte di una malattia, un infortunio, un comportamento sgradito, o più
tipicamente una semplice maternità. In pratica, una spada di Damocle
permanente, pronta per ogni evenienza della vita di ragazze e ragazzi
neoassunti e buona da usare a piacimento per spezzarne i rapporti di
lavoro; e purtroppo ampiamente usata, ci dicono i numeri Istat.
Quando la legge 188/2007 è stata abrogata in nome della semplificazione,
non ci sono state grosse reazioni, nonostante fosse stata approvata dal
parlamento precedente, nell'ottobre del 2007, all'unanimità alla camera e a
larga maggioranza al senato. Ma dal momento in cui la 188 è stata
cancellata, alcune donne, testardamente, hanno ricominciato a tessere
quella tela di consenso e alleanze che aveva prodotto la 188, per
riconquistarla con petizioni, raccolte di dati, iniziative pubbliche continue,
fino alla decisione di promuovere una legge di iniziativa popolare,
decisione maturata nell'autunno del 2011 da parte di un gruppo di donne
molto diverse tra di loro per cultura politica, esperienze professionali,
generazione.
Il cambio di governo e l'insediamento del nuovo esecutivo guidato da
Monti ha fatto sperare di poter riottenere rapidamente la legge e il
comitato per l'iniziativa di legge popolare si è trasformato nel “comitato
per la 188”, a cui si devono le tante iniziative degli ultimi tempi. Innanzi
tutto la campagna “188 firme per la 188”, poi la giornata di mobilitazione
nazionale per il ripristino della legge con presidi di fronte a tutte le
prefetture d'Italia, che si è svolta il 23 febbraio di quest’anno. E ancora gli
incontri con la ministra Fornero e il presidente della camera e le tante
lettere aperte che hanno inondato la stessa ministra, le istituzioni, i gruppi
parlamentari e le redazioni dei quotidiani di lettere aperte. Iniziative grazie
alle quali si è formato un senso comune e una consapevolezza che adesso
sono difficili da ignorare. Si è arrivati così all'articolo 155, che reintroduce
nell'ordinamento il tema dell'abuso delle dimissioni in bianco, lo nomina,
lo depreca e definisce le procedure per contrastarlo: un risultato molto
importante e non scontato di quella mobilitazione faticosa, paziente e
testarda.
Ma l'articolo 55 non riesce nel suo intento, per diverse ragioni
- È un articolo diviso in 8 commi di difficilissima lettura e interpretazione,
e perciò anche applicazione.
- Le nuove procedure sono volte a correggere l'eventuale abuso della firma
in bianco ma non a prevenirlo, come invece faceva la legge 188/2007
vincolando le dimissioni volontarie alla compilazione di un modulo dotato
di codice alfanumerico progressivo di identificazione, non retrodatabile.
- L'onere della prova è a carico della lavoratrice e del lavoratore: sono loro
a dover dimostrare che, pur essendo autografa, la firma della lettera di
dimissioni è stata richiesta al momento dell'assunzione (comma 6 dell'art.
55).
- In caso di abuso la sanzione è solamente amministrativa (comma 8
dell'art. 55), una semplice multa. Da notare che su questo punto lo stesso
documento ufficiale di policy del governo, precedete di pochi giorni la
stesura del disegno di legge, più correttamente paragonava l'abuso del
foglio firmato in bianco ad un licenziamento discriminatorio e perciò
aveva come conseguenza l'annullamento delle finte dimissioni: altro che
multa!
L'articolo 55 può essere cambiato
Il comitato per la 188 lo ha chiesto con una lettera aperta alla ministra
Fornero e alle commissioni lavoro di senato e camera, ma lo chiedono
anche molte parlamentari e varie memorie consegnate alle commissioni
parlamentari. E lo pretende il buon senso: una norma di civiltà non può
essere oggetto della mediazione tra interessi diversi. Ci auguriamo che il
parlamento, nella discussione parlamentare del ddl sulla riforma del
mercato del lavoro, accolga questo appello.
(fonte: InGenere: donne e uomini per la società che cambia)
link: http://www.ingenere.it/articoli/dimissioni-bianco-cos-non-va-2012
Associazioni
Documenti
Voci degli invisibili della Casa di Accolienza di
Massa: Costantin (di Enio Minervini)
Mentre comincia il viaggio che lo porterà nel Paese dove è nato e dove
non è più stato dal giorno in cui lo ha lasciato 7 anni fa, Costantin sente il
profumo della primavera che in questi giorni torna ad accarezzare Massa
dopo l'ennesimo inverno della sua vita in Italia.
Se potesse pensarci, se la mente fosse sgombra da altri pensieri, da altre
emozioni e dalla paura del salto verso questa terra madre che potrebbe non
riconoscerlo, non saperlo più abbracciare, madre matrigna… se potesse dicevamo - fermarsi a pensare, troverebbe beffarda questa partenza in una
giornata così mite, incoerente abbandonare questo velo tiepido e
profumato dopo otto inverni passati qui e tante notti gelide, dormendo su
una panchina, rimpiattato per difendersi dal freddo e dalle malattie.
Ma altri come detto sono i suoi pensieri, ammesso che noi li si sappia
riconoscere o per lo meno che regga la finzione di raccontare i pensieri
che sono solo i suoi… Perché ora Costantin è di nuovo solo.
Negli ultimi giorni della sua vita in Italia, ha tentato di raschiare quanti più
soldi possibile. E' stata una preoccupazione ossessiva come non mai.
Non ha altri mezzi che chiederli alle persone che conosce, non ha altri
strumenti che una gentilezza senza tempo, antica nell'eleganza del
mendicante con la schiena dritta, moderna nel recitare il ruolo di crocevia
della crisi e della modernità.
Ma Costantin interpreta senza fingere mai, recita una vita tragica che è
autenticamente sua.
I soldi che raccoglie negli ultimi giorni non sono più l'alimento della sua
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sopravvivenza quotidiana che – paradosso – negli ultimi giorni gli è
assicurata. Sa che la sua vita sta cambiando e che da ora in poi non sarà
più questo Paese a sfamarlo, proprio mentre la generosità altrui si
moltiplica. Costantin incassa solo l'assenso per la sua scelta di andar via,
viene ripagato per tutto quello che non chiederà più da domani.
Eppure questi soldi che raccoglie più copiosi che in passato, non gli sono
mai sembrati così pochi, insufficienti.
E' questo che pensa mentre abbandona una primavera che non sente più
sua. Misura una sconfitta.
Perché tornare indietro dopo sette anni vuol dire confrontarsi con il sogno
dei giorni dell'arrivo in Italia: trovare un lavoro, una vita degna, un po' di
ricchezza da mandare in Romania, alla mamma, alle sorelle, a tutta la sua
famiglia.
Riempire le mani vuote che lo attendono per stringerlo a sé.
Alla realizzazione di questo sogno, Costantin non si è mai neppure
avvicinato.
Arrivato nello stesso anno di quella che chiamano crisi globale, l'ha
attraversata tutta. Non ha mai trovato un lavoro, non ha mai avuto una
vera casa. Di quello che serve nella nostra società lui non sa fare nulla.
Non è uomo oeconomicus, della modernità gli manca la sveltezza, il saper
stare al passo.
La sua qualità più evidente è che quando gli parli, quando ti guarda negli
occhi, non lo dimentichi.
Difficile spiegare perché, ma per quanto tu possa non essere fisionomista,
il suo volto, la sua voce, il colore incomprensibile e intenso dei suoi occhi,
tutta la sua persona, perfino il suo nome, ti restano sempre nella memoria.
Sempre e per sempre.
Non è una dote secondaria per chi vive di elemosina, per chi campa sulla
possibilità di raccontare una sua storia toccando tutti i sensi di colpa
altrui... non è una dota secondaria... ma è l'unica.
Nel corso di sette anni ha vissuto la strada, alcune apparizioni nella casa di
accoglienza e una lunga degenza in ospedale per la tubercolosi.
Non ha messo da parte nessuna ricchezza, nemmeno per sopravvivere.
Non era così che doveva andare.
Mentre ci salutiamo mi dice di vergognarsi di tornare in Romania senza
avere due soldi per progettare una qualche attività che lo sottragga dalla
miseria. Teme l’incontro con la sua terra. Teme di mostrarsi nudo e
disarmato alla sua gente, teme la fortuna che non ha fatto venendo in
Italia, teme il confronto con le attese e le promesse non mantenute.
Teme di non avere un ruolo per sé nei titoli di coda di questo viaggio in
Italia.
E mentre quei titoli scorrono, Costantin ti guarda ancora negli occhi e
sorride con il suo sorriso storto.
(fonte: AVAA)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2058