Che cos`è il sindacalismo di base

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Che cos`è il sindacalismo di base
Che cos'è il sindacalismo di
base
Prefazione
Nel corso del 1992 i lavoratori italiani hanno vissuto una serie di cambiamenti radicali per quel che
riguarda le relazioni sociali e le loro condizioni di vita e di lavoro.
Grazie ad un accordo fra CGIL-CISL-UIL, padronato e governo il salario medio ha subito un taglio
che al dicembre 1993 sarà dell’ordine del 20% mentre si aggrava l’attacco all’occupazione e
vengono ridotte le libertà sindacali per non parlare dei diritti dei lavoratori in generale. Per di più il
governo, il padronato, gli economisti di regime ci tengono a chiarire che è solo l’inizio e che ci
attende una fase di economia di guerra.
A fronte di questa situazione si è sviluppato un movimento di opposizione sociale di notevoli
dimensioni, i lavoratori hanno partecipato a scioperi, agitazioni di vario tipo.
I gruppi dirigenti di CGIL-CISL-UIL, in particolare, hanno subito contestazioni di una durezza
inusitata, sono stati fatti oggetto, oltre che di insulti, del lancio di oggetti contundenti di vario
genere e hanno sperimentato i primi frutti del loro essere parte dell’apparato dello Stato. Se, infatti,
sino ad alcuni anni addietro il sindacalismo di Stato bloccava le lotte più radicali dei lavoratori ma,
nel bene o nel male, contrattava dei limitati miglioramenti salariali e normativi, sono ormai diversi
anni che queste organizzazioni “trattano” solo il peggioramento della condizione proletaria. Ci
sarebbe da domandarsi perchè CGIL-CISL-UIL accettano di firmare accordi scellerati esponendosi
così alla rivolta di base ma, in buona sostanza, la risposta è nota e abbastanza semplice: gli interessi
“materiali” dell’apparato sindacale, la sua necessità di garantirsi i privilegi concessi dallo Stato e
dal padronato costringono i dirigenti sindacali a fare esplicitamente scelte rischiose. Essi, d’altro
canto, contano presumibilmente di poter sopravvivere come gruppo privilegiato grazie al ruolo di
potere che occupano e di poter continuare a trattare in nome di lavoratori resi passivi dall’offensiva
padronale.
Va anche detto che in loro soccorso corrono molti contestatori professionali della loro politica
raccolti nella corrente di “Essere sindacato” della CGIL o in strutture analoghe che cercano di
convincere i lavoratori più combattivi che si può cambiare la pratica delle direzioni sindacali e, in
alcuni casi, ottengono qualche successo.
I lavoratori infatti sono abituati da decenni ad un sindacalismo burocratico, istituzionale, statalizzato
e stentano a pensare e a praticare altre forme di associazione stabile. D’altro canto, il compito dei
critici interni a CGIL-CISL-UIL non è facile; alla massa dei lavoratori interessano poco gli equilibri
di potere nella CGIL e quali siano i dirigenti dell’organizzazione, essi guardano ai risultati di una
politica sindacale che porta solo ad un peggioramento delle loro condizioni. Molti salariati si
limitano a restituire la tessera o ad assumere un atteggiamento passivo o, al massimo, a utilizzare
CGIL-CISL-UIL e i sindacati autonomi similari come uffici per compilare la dichiarazione dei
redditi o per ricostruire la situazione pensionistica. Insomma il sindacalismo istituzionale tende a
trasformarsi in una sorta di servizio pubblico che aiuta ad alleviare gli effetti delle scelte che ha
contribuito a determinare.
Ma al di là della passività, della contestazione di piazza che si esaurisce in una giornata, della pur
necessaria e fondamentale lotta sui posti di lavoro sui problemi immediati, si va sviluppando una
tendenza interessante: qualle di creare associazioni sindacali di base, alternative ed indipendenti.
Si tratta di un fenomeno recente e di difficile valutazione. Molti lavoratori ritengono che i sindacati
alternativi tenderanno, se prenderanno piede, a divenire simili a CGIL-CISL-UIL, altri pensano che
siano troppo deboli e sperano ancora in una rigenerazione delle vecchie strutture, altri ancora non
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hanno informazioni sufficienti.
Questo opuscolo non è una mappa né una storia del sindacalismo alternativo nè, infine, vuole
propagandare l’adesione ad un sindacato alternativo o all’altro. Vuole, più semplicemente, fornire
delle informazioni e delle ipotesi sulle possibilità di sviluppo del sindacalismo indipendente e di
base, sulle questioni che affronta, sulle caratteristiche che potrà prendere.
Abbiamo scelto di dargli la forma di un piccolo dizionario per renderne più facile la consultazione e
l’utilizzo da parte dei lavoratori interessati. Sarebbe positivo un processo di arricchimento di questo
testo ad opera degli stessi lettori, la correzione di singole voci, l’aggiunta di altre, ecc.
Su un punto, comunque, riteniamo necessario prendere posizione: l’aggravarsi del conflitto sociale,
la crisi economica e quella ad essa legata del sistema dei partiti, l’irrigidimento autoritario dello
Stato e le tensioni verso il militarismo che lo caratterizzano, pongono i lavoratori dinanzi alla
necessità di attrezzarsi per affrontare lotte dure e aspre. E’, pertanto, essenziale lo sviluppo di forme
di associazione capaci di raccogliere il maggior numero possibile di lavoratori per garantire la
difesa dei nostri interessi immediati, la solidarietà a livello categoriale e intercategoriale, la
conduzione di lotte efficaci e vincenti.
Il percorso del sindacalismo di base è in gran parte tutto da definire, in faccende di questo genere è
la pratica della lotta sociale che offre più insegnamenti di quanti se ne possono trovare nei trattati di
tecnica sindacale. A questa definizione riteniamo di poter partecipare sulla base della nostra
esperienza di lotta sociale e di un forte legame con una tradizione storica di organizzazione di classe
antistatale, federalista, libertaria, fondata sulla pratica dell’azione diretta, dell’internazionalismo,
della solidarietà fra lavoratori.
Il collettivo editoriale
SINDACALISMO ALTERNATIVO
In Italia si è cominciato a parlare di sindacalismo alternativo fra la fine degli anni ’80 e l’inizio
degli anni ’90. Il termine è, per molti versi, generico. Si parla, di regola, di sindacalismo alternativo,
indipendente e di base riferendosi al tentativo di dar vita ad associazioni sindacali che si oppongono
alle posizioni e alle forme organizzative di CGIL-CISL-UIL e dei sindacati autonomi di categoria e
che valorizzano il conflitto di classe, il protagonismo di base, il rifiuto dell’integrazione
nell’apparato statale, il tentativo di eliminare o, quantomeno, ridimensionare il peso dell’apparato
burocratico che caratterizza il sindacalismo tradizionale.
Il termine “alternativo”, insomma, indica una presa di distanza dal sindacalismo di Stato mentre non
si può parlare, vista anche la nascita recente di queste esperienze, di una posizione teorica
complessiva caratteristica di questi sindacati.
I sindacati alternativi traggono origine sia dalla crisi del sindacalismo istituzionale, che si dimostra
incapace di difendere gli interessi dei lavoratori sulla base della collaborazione con lo Stato e con il
padronato, che dall’esperienza dei “comitati di base” sorti negli ultimi anni in diverse categorie del
settore pubblico e di quello privato. La differenza rispetto ai “comitati di base” consiste,
essenzialmente, nella scelta di dar vita a strutture stabili intercategoriali, capaci di garantire una
serie di diritti sindacali.
Esistono attualmente diversi sindacati alternativi (vedi appendice)
AUTOGESTIONE
Defiamo “autogestione” (o autogoverno) una forma di organizzazione della vita sociale in cui gli
individui associati decidano collettivamente e senza la sottomissione ad un potere esterno le loro
attività comuni.
L’autogestione, dunque, è l’esatto opposto dell’organizzazione mercantile, statale, gerarchica,
autoritaria della società che oggi ci troviamo di fronte. Nel contesto di un sistema capitalistico e
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statale si sviluppano forme di autogestione della lotta poichè non è possibile un’autogestione reale
di una singola azienda o attività sociale se non in forme assai parziali, limitate, ambigue.
Un’azienda “autogestita” che debba lavorare per il mercato capitalistico è, in realtà, determinata
nelle sue scelte da questo stesso mercato così come un servizio autogestito che operi per lo Stato
non può che essere controllato dalla Stato stesso. Queste esperienze, pertanto, possono solo avere il
carattere di esperimenti e di tentativi di ridurre il controllo gerarchico sulla vita delle persone che
partecipano a esperienze autogestinarie limitate.
Dal punto di vista dei lavoratori è più opportuno parlare di “autogestione generalizzata di un mondo
radicalmente trasformato”.
Ci si riferisce, in questo caso, al fatto che la produzione non è più guidata dal profitto ma dalle
scelte consapevoli dei lavoratori associati, che le decisioni locali vengono coordinate attraverso
strutture federali, che i vari collettivi locali possono sperimentare le più diverse attività, che le
immense risorse che il lavoro umano ha prodotto nel corso dei secoli potranno essere usate per
garantire agli uomini la possibilità di un libero sviluppo delle loro potenzialità.
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C. Scarinzi, L’Idra di Lerna. Considerazioni sull’autogestione, Edizioni Zero in Condotta, Imola,
1991.
AUTONOMIA DI CLASSE
Tutto il pensiero dominante nella nostra società tende a sostenere che lo stesso concetto di “classe
sociale” non ha alcun fondamento scientifico. Le differenti condizioni sociali vengono viste come
l’espressione di una pluralità di gruppi particolari ognuno con specifici interessi e ognuno legato da
un complesso rapporto agli altri, un rapporto conflittuale che viene mediato sul piano economico
dal mercato e su quello politico dallo Stato. Nelle società industriali il controllo sullo svolgersi del
conflitto fra interessi viene garantito da diverse forme di “Stato sociale” che gestiscono quote
importatnti sia dei servizi (scuola, sanità, trasporti, ecc.) che del salario (previdenza, assistenza,
ecc.) e ,sovente, della stessa produzione e delle attività ad essa connesse (ricerca, programmazione,
ecc.)
E, nonostante gli argomenti sollevati a sostegno di questa tesi, basta esaminare la società dal punto
di vista della divisione della proprietà e del potere e delle gerarchie ad essi connessi per rendersi
conto che le classi sono gli aggregati portanti della vita collettiva.
L’autonomia della classe consiste nella capacità di difendere i propri interessi “unilaterali”, quegli
interessi che vengono negati in nome di un più generale patto sociale che legherebbe salariati e
padroni, governanti e governati.
L’autonomia di classe è, insomma, essenzialmente la rottura di questo patto sociale imposto
dall’alto e la comprensione della parzialità dei propri interessi. E’ nello svolgersi della lotta sociale
che l’assieme dei salariati e, più in generale, dei “senza potere” affronta il problema delle relazioni
fra i vari gruppi che lo compongono. Le maniere di affrontare questo problema, quello del rapporto
fra donne e uomini, fra lavoratori locali e immigrati, fra occupati, disoccupati e precari, fra diverse
categorie, fra lavoratori dei servizi ed utenti, ecc., definiscono la maturità stessa dell’autonomo
svilupparsi di un punto di vista classista sull’assieme delle relazioni sociali. E’ in questo percorso
che si verificano l’unità e la solidarietà fra lavoratori, la capacità di andare oltre i limiti categoriali,
locali e settoriali ma è comunque e sempre nello scontro che i termini di queste faccende si
definiscono e non certamente nella volenterosa definizione di un astratto interesse dei cittadini
unificati solo dal dominio statale e capitalistico.
SINDACALISMO DI AZIONE DIRETTA
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Il sindacalismo d’azione diretta, spesso definito sindacalismo rivoluzionario, si sviluppa fra la fine
dell’800 e i primi decenni del ’900 in Europa ed in America. Caratteri generali di questa corrente
sono la valorizzazione dello sciopero e, in genere, della lotta operaia senza mediazioni istituzionali,
il mito dello sciopero generale espropriatore come momento rivoluzionario preparato dalle lotte
particolari dei lavoratori, il progetto di una società socialista fondata sul potere dei lavoratori
associati nei sindacati.
Nel sindacalismo rivoluzionario confluiscono militanti di orientamento anarchico, marxista ed
indipendente da queste due dottrine che ritengono spesso che il sindacalismo possa bastare a se
stesso e costituire sia un mezzo d’azione che una visione indipendente del mondo.
A seconda dei contesti in cui si sviluppa il sindacalismo d’azione diretta prende forme diverse, in
Francia pratica l’organizzazione di mestiere, negli Stati Uniti quella d’industria, altrove valorizza
l’organizzazione unitaria dei lavoratori su base territoriale o sperimenta forme miste. La sua base è,
comunque, una forte combattività dei salariati e la separazione dalla macchina statale.
Il termine “anarcosindacalismo” indica una corrente sindacale affine e a volta indistinguibile dal
sindacalismo d’azione diretta che si richiama esplicitamente ad una visione libertaria dell’azione
sindacale. Gli esempi più noti sono stati la C.N.T. (Confederacion National del Trabayo) spagnola e
la F.O.R.A. (Federacion Obrera Regional Argentina) che svolsero un ruolo importante sino agli
anni trenta. In Italia gli anarcosindacalisti parteciparono insieme ai sindacalisti rivoluzionari alla
costituzione dell’Unione Sindacale Italiana che ruppe con la C.G.L. nel 1909. Nel primo
dopoguerra l’U.S.I. si caratterizzò come organizzazione anarcosindacalista. Negli anni ’70 si sono
ricostituite sia la C.N.T. spagnola che l’U.S.I. (vedi appendice).
Nel caso degli I.W.W. (Industrial Workers of the World, Lavoratori Industriali del Mondo),
sindacato fondato nel 1905 negli Stati Uniti, sarebbe più esatto parlare di “unionismo industriale”
per l’accento posto sull’organizzazione unitaria dei lavoratori su base di industria in opposizione al
sindacalismo di mestiere praticato dall’American Federation of Labor che organizza solo i
lavoratori qualificati escludendo donne, neri, immigrati e in genere i lavoratori non qualificati.
La vicenda storica del sindacalismo d’azione diretta si conclude nello scontro radicale con gli Stati
e le classi dominanti nel corso della prima guerra mindiale, con il formarsi di Stati autoritari di
destra e di sinistra nel primo dopoguerra e con l’inquadramento dei sindacati nella macchina statale
che ne consegue. Si tratta, comunque, di un’esperienza straordinaria di organizzazione autonoma di
classe il cui rilievo è stato riconosciuto dalla più recente ricerca storica.
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M. Antonioli, Armando Borghi e l’Unione Sindacale Italiana, Lacaita Editore, Manduria, 1990.
M. Antonioli, Azione diretta e organizzazione operaia, Lacaita Editore, Manduria,1990.
P. Ferraris, Domande di oggi al sindacalismo europeo dell’altro ieri, Ediesse edizioni, Roma, 1992.
P. Monatte, La lotta sindacale, Jaca Book, Milano, 1978.
F. Pelloutier, Storia delle borse del lavoro, Jaca Book, Milano, 1976.
G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Laterza Editore, Bari, 1970.
R. Musto, Gli IWW e il movimento operaio americano, Edizioni Theleme, Napoli, 1975.
D. Abad de Santillan, La FORA. Storia del movimento operaio rivoluzionario in Argentina,
Edizioni L’Impulso, Livorno, 1977.
C. Berneri, Guerra di classe in Spagna 1936-37, Edizioni RL, Genova,1979.
J. Peirats, La CNT nella rivoluzione spagnola, Edizioni L’Antistato, Milano, 1977.
M. Antonioli, Dibattito sul sindacalismo. Atti del Congresso Internazionale anarchico di
Amsterdam (1907), CP editrice, Firenze, 1978.
D. Guerin, Il movimento operaio negli Stati Uniti, Editori Riuniti, Roma, 1975.
COMITATO DI BASE
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Organismo di lotta extrasindacale che si sviluppa sulla base di precise esigenze dei lavoratori e che
coordina l’azione volta a soddisfare gli obiettivi posti da una lotta. A seconda della situazione
storica e del contesto può prendere vari nomi: comitato di lotta, coordinamento, ecc. Nel corso degli
ultimi decenni c’è stato uno sviluppo importante di comitati di base di vario tipo (locale, aziendale,
categoriale, ecc.)
Per sua stessa natura un comitato di base raccoglie i lavoratori iscritti e non iscritti ai sindacati,
risponde della sua attività alle assemblee generali dei lavoratori, vive una fase di forte
partecipazione e, esaurita la sua funzione, tende a dissolversi o a lasciare dietro di se dei gruppi
militanti più ristretti che tentano di proseguirne, con maggiore o minore successo, l’attività.
Il rapporto dei comitati di base con i sindacati istituzionali e con quelli alternativi o con correnti
politiche organizzate varia da una situazione all’altra. I sindacati e i partiti istituzionali tentano, di
norma, di assumere il controllo dei comitati di base e vi riescono più o meno a seconda del livello di
mobilitazione dei lavoratori e della gravità dello scontro sociale.
Nello scorso decennio l’esperienza dei comitati di base in Italia è stata in grado di sfuggire in gran
parte al controllo burocratico sia per la vivacità delle lotte che per l’integrazione evidente di CGILCISL-UIL nella macchina statale.
Un rischio evidente per i movimenti di base nel loro assieme è la chiusura locale e categoriale che
permette ai loro avversari di accusarli di corporativismo e, cioè, di scarsa sensibilità agli interessi
generali dei lavoratori. E’, in realtà, comprensibile che i lavoratori, per sfuggire al controllo statale,
partano nella lotta dai loro interessi immediati.
Attualmente esistono raggruppamenti militanti che si definiscono comitati di base come i COBAS
della scuola, quello dell’Alfa Romeo, ecc., ma si tratta, per lo più, di gruppi di militanti politici che
si rifanno all’esperienza degli anni ’80. Quest’area è oggi aggregata nel “Sindacato Lavoratori
Autorganizzati” (vedi appendice)
BOICOTTAGGIO
Pratica di lotta consistente nell’applicazione rigida delle norme che regolano il lavoro e tale da
bloccare sovente il suo ordinato svolgimento. Il boicottaggio è più tipico nei servizi pubblici che
nell’industria ma si può praticare anche nel settore privato.
Nella pratica del boicottaggio emerge la contraddizione tipica delle strutture gerarchiche ed
autoritarie che da un lato vogliono privare il salariato di ogni decisione sul lavoro definendone
esattamente i compiti e dall’altro gli chiedono di essere flessibile e disponibile ad affrontare i casi
imprevisti e a correggere le rigidità dell’organizzazione burocratica del lavoro.
BUROCRAZIA
Questo termine che, preso alla lettera, indica un apparato amministrativo di qualche tipo, nella
storia del movimento operaio definisce lo strato di militanti di professione dei partiti parlamentari e
dei sindacati istituzionali.
La burocrazia sindacale che, nel caso italiano, ammonta ad una cifra oscillante attorno alle 40.000
persone, è strettamente intrecciata per formazione, cultura, interessi con il sistema dei partiti. La
forza della burocrazia sta nel rapporto con le istituzioni, nel sistema di leggi che ne garantisce il
monopolio della rappresentanza, nel possedere delle competenze che nel quadro degli attuali
rapporti sociali sono necessarie al lavoratore isolato per affrontare i problemi della sua vita
quotidiana dalla contrattazione al rapporto con l’apparato dello Stato (un’altra burocrazia). Ma, a
livello più profondo, la burocrazia fonda il suo potere sulla pratica della delega dei propri interessi,
pratica che è l’essenza stessa della società statale, gerarchica, autoritaria. Agli occhi del singolo
lavoratore, insomma, la burocrazia appare come una sorta di male necessario come la polizia, le
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pompe funebri, la mutua.
Il potere dell’apparato burocratico regge abbastanza bene alle contestazioni della base sino a
quando queste contestazioni si limitano a colpire singoli dirigenti corrotti o incapaci o singole scelte
dell’apparato. Solo lo sviluppo di una pratica diffusa di autorganizzazione sociale alla base può
ridurre e, al limite, eliminere l’apparato burocratico dei lavoratori.
D’altro canto, un superamento della necessità immediata della burocrazia sarà possibile solo con lo
sviluppo di relazioni sociali diverse da quelle capitalistiche, autoritarie, statali e di un
rimodellamento dell’intero ordine sociale sulla base dell’associazione dei produttori. Spesso, infatti,
chi critica la burocrazia senza legare questa critica alla proposta e alla pratica di relazioni non
gerarchiche fra lavoratori non è che un concorrente che vuole, più o meno consapevolmente,
occupare il posto degli attuali funzionari come dimostra l’esperienza di molti anni.
Nella lotta immediata, infine, è necessario sviluppare una diffusione orizzontale delle conoscenze
oggi monopolizzate dalle direzioni sindacali per sperimentare modi diversi e più efficaci di tutela
dei lavoratori anche sul piano legale che, piaccia o meno, è imposto ai salariati dallo Stato.
CINGHIA DI TRASMISSIONE
Si tratta di un’immagine che rende quasi visibile una precisa concezione del rapporto fra partito
politico e sindacato. Nell’elaborazione della socialdemocrazia tedesca dell’800 la lotta sindacale
appariva come un livello “inferiore” dell’azione di classe, come il livello della difesa degli interessi
particolari, immediati, limitati. L’emancipazione dei lavoratori veniva affidata alla direzione
cosciente del partito politico che doveva dirigere i sindacati dei lavoratori per garantirne
l’orientamento generale.
Questa concezione aveva la sua base filosofica nel convincimento che il socialismo non è il
prodotto dell’azione e dell’elaborazione dei lavoratori ma il risultato dell’influenza degli
intellettuali delle classi medie capaci di misurarsi con l’insieme dello sviluppo della società e
destinati a dirigere il movimento operaio attraverso la loro influenza sui militanti operai più
“coscienti”.
Questo modello organizzativo si scontrò fin dal suo nascere con il sindacalismo d’azione diretta che
valorizzava l’autonomo sviluppo del movimento operaio e, più in generale, con il diffondersi di
lotte radicali al di fuori del controllo dell’apparato dei partiti “operai”.
Una forma particolarmante rigida della cinghia di trasmissione viene elaborata dai bolscevichi, la
corrente di maggioranza della socialdemocrazia russa, che affidarono la direzione del movimento
operaio a un partito di quadri, di rivoluzionari di professione che dovevano prendere lo stretto
controllo delle organizzazioni della classe operaia (consigli operai, sindacati, ecc.).
Il modello bolscevico, che dopo la rivoluzione russa si definì comunista, ha fortemente influenzato
il movimento operaio internazionale nella fase di riflusso dell’azione di classe seguita al fallimento
dei movimenti rivoluzionari del primo dopoguerra e solo negli ultimi decenni è giunto a sostanziale
fallimento.
Le lotte di base, infatti, scontrandosi sia con il padronato che con l’apparato statale e con quello dei
sindacati tradizionali hanno reso sempre più evidente che i lavoratori non possono ottenere nulla da
dirigenti, funzionari, capi e che, anzi, da costoro, possono solo attendesri un rafforzamento dello
sfruttamento che quotidianamente subiscono come dimostra sia la sorte dell’Unione sovietica che il
ruolo svolto dai partiti parlamentari e dai sindacati di Stato che siano di destra o di sinistra.
CONSIGLI OPERAI
Con la prima guerra mondiale gran parte del movimento operaio scelse di appoggiare lo sforzo
militare dei diversi Stati in guerra sia per salvaguerdare la propria quota di potere che per
partecipare ai profitti della guerra imperialista.
Nella guerra giunge, insomma, a maturazione la statalizzazione del movimento dei lavoratori. I
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sindacati rivoluzionari, gli anarchici, i socialisti che mantenevano le posizioni classiste ed
internazionaliste vennero sottoposti a carcerazione, inviati nelle famigerate “compagnie di
disciplina”, messi dunque nell’impossibilità di svolgere apertamente un’attività di opposizione alla
guerra. Nonostante tutto ciò, nelle fabbriche, nelle campagne, nei quartieri proletari l’opposizione di
classe continuò a manifestarsi: scioperi selvaggi, sabotaggi, rivolte urbane, casi numerosi di
diserzione, forme di solidarietà per i soldati.
La rivolta si manifestò, nonostante la repressione, anche al fronte con casi di “fraternizzazione” fra
soldati “nemici”, eliminazione di ufficiali particolarmante odiosi, rifiuti di andare all’attacco, ecc.
Spesso nelle fabbriche, reparto per reparto, gli operai scelsero gli elementi più decisi per
organizzare la resistenza, per difendere i loro interessi nonostante le leggi di guerra, per sostituire le
strutture sindacali passate all’avversario o costrette all’illegalità.
Su questa base, sul finire della guerra, iniziò a svilupparsi il movimento dei consigli. In Russia
sorsero i “soviet” (consigli) degli operai, dei contadini, dei soldati che svolsero un ruolo trainante
nella rivoluzione di febbraio e in quella di ottobre (1917). Nel giro di pochi mesi milioni di proletari
entrarono nella lotta politica e sociale e si dotarono di strumenti di organizzazione e di
coordinamento. Il regime zarista, grazie anche al suo carattere arcaico e alla mancanza di strumenti
di inquadramento “democratico” delle masse, crollò sotto l’avanzata del movimento rivoluzionario.
Altrettanto avvenne sul finire della guerra in Germania, Ungheria, ecc.
I consigli operai furono, insomma, una struttura unitaria di organizzazione dei lavoratori e, in
genere, dei proletari e si basarono sull’elezione alla base di delegati di reparto, di fabbrica, di zona.
Un rilevante movimento consiliare si sviluppò anche in Italia e in altre nazioni toccate dalle lotte dei
lavoratori.
Nonostante l’ampiezza e la rilevanza del movimento le classi dominanti occidentali riuscirono a
superare la crisi anche grazie all’appoggio dei partiti parlamentari di sinistra e dei loro sindacati che
mantenevano il controllo su una parte importante dei lavoratori. La controrivoluzione vinse in
Germania e Ungheria, il movimento italiano fu isolato dalla CGL, controllata dal Partito socialista
di tendenza riformista, e definitivamente distrutto dalla controrivoluzione preventiva fascista, in
Russia il Partito bolscevico riuscì a prendere il controllo dei soviet, a svuotarli della loro vita
interna, a sostituire il proprio potere a quello dei lavoratori.
I consigli restarono comunque un momento centrale nello sviluppo dell’azione di classe, una forma
organizzativa politica e sindacale che i lavoratori hanno ripreso in diverse occasioni anche nel
secondo dopoguerra come nel caso della rivoluzione ungherese del 1956 contro il potere dello
Stato/partito bolscevico.
Gli stessi movimenti di lotta sviluppatisi a partire dal 1968 hanno posto al centro l’esigenza del
potere delle assemblee dei lavoratori, della democrazia diretta, dei delegati eletti e revocabili in ogni
momento dai lavoratori.
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C. Meijer, Il movimento dei consigli in Germania (1919-36),Quaderno n. 3 di Collegamenti, marzo
1981.
A. Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli Editore, Milano, 1980.
P.C. Masini, Anarchici e comunisti nel movimento dei consigli a Torino (1919-20), Collana Seme
Libertario, Torino, 1951.
A. Anderson. Ungheria ’56. La Comune di Budapest. I Consigli operai, Edizioni Zero in Condotta,
Imola, 1989.
K. Krosh, Consigli di fabbrica e socializzazione, Laterza Editore, Bari, 1970.
Autori vari, Il compromesso sovietico, Feltrinelli Editore, Milano, 1977.
A. Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-20, Einaudi Editore, Torino, 1970.
CORPORATIVISMO
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A rigore il corporativismo è un modello di relazioni sociali basato sulla collaborazione fra le classi
nell’interesse generale della nazione. Si è storicamente affermato come dottrina sociale del fascismo
e le sue caratteristiche sono l’inquadramento dei lavoratori e degli imprenditori in sindacati unici le
cui funzioni sono definite per legge e che sono tenuti alla pratica della conciliazione degli interessi
che rappresentano. Nei fatti, il corporativismo fascista prevedeva la totale impossibilità d’azione per
i lavoratori salariati e l’organizzazione diretta da parte dello Stato e del partito unico dei sindacati
dei lavoratori ridotti a strutture di organizzazione delle attività ricreative, dell’assistenza e di una
blanda tutela legale noi confronti dei padroni.
Si può parlare di “corporativismo democratico” nei casi in cui i sindacati dei lavoratori e degli
imprenditori partecipano a strutture di governo generale della condizione dei lavoratori pur
mantenendo una parziale autonomia di decisione e delle regole “democratiche” di funzionamento
interno.
La forma più tipica di corporativismo democratico è la “cogestione” (o codeterminazione) fra
padroni, Stato e sindacato.
Per un tipico rovesciamento del significato delle parole i dirigenti sindacali hanno preso a definire
come corporativi i comportamenti dei lavoratori che sfuggono al controllo padronale, statale,
burocratico. In questo senso il corporativismo consisterebbe nella difesa di interessi particolari di
gruppi di lavoratori. Nonostante una massiccia campagna di stampa contro le lotte categoriali,
sempre più spesso gruppi di lavoratori hanno sviluppato pratiche di rottura dell’“interesse generale”
che i sindacati di Stato pretendono di rappresentare. E’, comunque, l’evolvere stesso del rapporto
fra le classi a parre ai lavoratori l’esigenza di coordinare le lotte particolari e di affrontare lo scontro
generale contro il padronato e lo Stato.
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A. Sohn-Rethel, Economia e struttura di classe del fascismo tedesco, Edizioni De Donato,
Bari,1978.
CONSIGLI DEI DELEGATI
Le lotte dei lavoratori che si svilupparono in Italia alla fine degli anni ’60 e che giunsero al loro
culmine nel 1969 misero in grave difficoltà non solo il padronato e l’apparato statale ma anche
CGIL-CISL-UIL. I lavoratori cominciarono ad imporre il potere decisionale delle assemblee di lotta
e a coordinarle direttamente. Si sviluppò pertanto una rete di delegati di reparto scelti fra gli operai
più combattivi, anche fra quelli che non aderivano al sindacato.
I delegati di reparto furono, in quella fase, l’espressione del movimento di base che si sviluppò nelle
fabbriche, nel settore pubblico, nell’assieme della società.
I sindacati istituzionali furono costretti a riconoscere l’importanza ed il rilievo di questa realtà e a
venire a patti con il movimento stesso. I delegati furono riconosciuti da CGIL-CISL-UIL che
sembrarono persino tentare un’unificazione sindacale e un’autoriforma interna.
In realtà il potere dei consigli dei delegati fu velocemente limitato e regolamentato, i delegati
dovettero iscriversi ai sindacati se volevano il “riconoscimento” della controparte pubblica o
privata, e ai consigli rimase un potere ridotto a questioni interne ai posti di lavoro.
Nel corso degli anni ’80 i delegati sono stati sempre meno rappresentativi dell’assieme dei
lavoratori, le elezioni si sono diradate e sono state fatte con regole volte a ridurre la possibilità di
espressione delle esigenze dei lavoratori stessi. Leggi ed accordi hanno garantito alle direzioni
sindacali un potere slegato dal controllo della base grazie ai finanziamenti pubblici, al
riconoscimento del monopolio della rappresentanza, alla centralizzazione delle trattative.
Uno degli obiettivi principali del sindacalismo alternativo e di base e l’elezione su scheda bianca
dei delegati come mezzo per riconquistare alle assemblee dei lavoratori il potere loro sequestrato
dai sindacati istituzionali.
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FORDISMO
Col termine fordismo viene indicata non solo l’innovazione tecnologica realizzata da Ford per quel
che riguarda la produzione di auto nei primi decenni del ’900 negli USA ma un modo di lavorare
che ha trasformato radicalmente l’industria manifatturiera e che è tuttora operante nonostante i
continui aggiustamenti.
In estrema sintesi si è trattato dell’introduzione della catena di montaggio che ha permesso di
passare dal lavoro organizzato per gruppi di operai interno ad un singolo manufatto al lavoro
parcellizzato svolto da operai isolati e fermi su di una postazione dinanzi al fluire di una serie di
manufatti che scorrono, appunto, sulla catena di montaggio.
Questa vera e propria rivoluzione produttiva ha richiesto sia la possibilità di produrre singole parti
caraterizzate da una straordinaria omogeneità che ne permette un veloce assemblaggio, che di avere
una classe operaia capace di lavorare secondo tempi e ritmi estremamente diversi rispetto agli
operai di mestiere ancora predominanti nel XIX secolo. Si è parlato, a questo proposito, di operaiomassa appunto per distinguerlo dalla classe operaia tradizionale.
Il fordismo ha permesso un’enorme aumento della produttività del lavoro, il lancio sul mercato di
una serie di merci prima inesistenti o disponibili solo come beni di lusso, una trasformazione
radicale della vita sociale.
La fabbrica fordista, proprio per lo sforzo fisico e psichico che richiede alla forza lavoro, si è
caratterizzata sin dall’inizio come una fabbrica militarizzata, fortemente gerarchica, diretta da una
rete di capi, capetti, quadri, ecc., addetti al regolare fluire del prodotto.
L’operaio-massa, espropriato delle conoscenze che caratterizzavano l’operaio di mestiere, ha
fondato il suo potere sulla possibilità di bloccare in punti strategici il ciclo produttivo e di
trasformare in un suo elemento di forza il gigantismo della fabbrica fordista.
Intorno alle grandi fabbriche di auto, di elettrodomestici, ecc., si è sviluppata la tipica citta operaia
del ’900, la rete dei servizi che garantiscono l’esistenza stessa della grande industria, una specifica
cultura operaia.
Si parla oggi di postfordismo riferendosi a nuove forme di organizzazione del lavoro e della vita
sociale ma gli elementi costitutivi del modello fordista sono in realtà sviluppati ed estesi a nuove
attività (come, ad esempio, l’ufficio e i servizi alle persone), e non scomparsa dalla scena.
E’, comunque, evidente che l’informatica diffusa, il decentramento produttivo ad essa connesso, il
continuo fluire di innovazioni produttive ha profondamente cambiato il modo di essere della
fabbrica e i caratteri stessi delle lotte operaie. La stessa pressione dei lavoratori contro il sistema
fordista ha indotto i padroni a ridisegnare il sistema di fabbrica per renderlo meno sensibile
all’opposizione dei lavoratori e più “flessibile”.
SCIOPERO A GATTO SELVAGGIO
L’integrazione dei sindacati in meccanismi di regolazione legale del conflitto ha determinato lo
sviluppo di scioperi selvaggi, decisi direttamente da gruppi di lavoratori sulla base di problemi
precisi. Questi sono stati definiti, appunto, a “gatto selvaggio” per indicarne il carattere illegale,
imprevedibile, autonomo.
MOVIMENTO
Col termine movimento si tende ad indicare l’azione di una massa di individui non organizzati in
strutture formali e, a volte, un’area politica, culturale, sindacale non rigidamente strutturata
(movimento anarchico, ecologista, femminista, pacifista, ecc.).
Dal punto di vista sociale i movimenti più rilevanti, negli ultimi decenni, sono stati, nell’Europa
occidentale, quello del ’68, quello italiano del ’77, i vari movimenti degli studenti, quelli
dell’occupazione delle case, quelli di emancipazione di settori della società che rivendicano o la
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parità dei diritti rispetto alla maggioranza o un proprio percorso di autonomo sviluppo (o ambedue
le cose).
Caratteri importanti del movimento sono la pratica antigerarchica, la tensione a liberare la vita
quotidiana dall’oppressione delle strutture di potere, la sperimentazione di nuove forme di lotta e di
nuovi stili di vita. In altre parole un movimento è il prodotto della capacità di espressione dei gruppi
sociali subalterni e, pur partendo da questioni spesso particolari e limitate, il movimento tende a
trasformare l’assieme delle relazioni sociali.
Ogni movimento, sulla base delle questioni che affronta e delle culture che lo caratterizzano, si da
delle forme organizzative, definisce dei rapporti con le istituzioni, elabora una sua cultura.
Il sindacalismo di base ha in se dei caratteri di movimento nella misura in cui rifiuta di essere
condizionato nei suoi percorsi da organizzazioni esterne al suo sviluppo ed è capace di una ricca
elaborazione sul terreno della lotta sociale e del superamento della pratica centralistica e gerarchica
del sindacalismo di Stato.
Il “movimentismo” è la tendenza a rifiutare ogni forma di formalizzazione organizzativa con
l’intento dichiarato di salvaguardare la spontaneità del movimento stesso ma il suo limite è, sovente,
quello di portare al potere di gruppi dirigenti informali ed autodelegatisi che si riproducono tanto
più facilmente quanto più non assumono delle precise responsabilità.
MUTUO SOCCORSO
Una delle prime e fondamentali esigenze da cui è nato il movimento dei lavoratori è stato quello di
garantire ad una forza lavoro priva dei più elementari diritti forme di assicurazione contro la
malattia e la disoccupazione, strumenti di formazione professionale, meccanismi di controllo sulle
assunzioni, ecc. Quest’assieme di attività viene, appunto, definita come mutuo soccorso.
Lo sviluppo stesso delle società di mutuo soccorso ne fece un luogo centrale per l’associazione fra
lavoratori e permise il superamento dei tentativi del padronato, dello Stato, della chiesa di farne
puramente uno strumento per migliorare le condizioni dei lavoratori senza uno scontro diretto sul
salario, l’orario, le condizioni di lavoro. Il realtà il fatto stesso di associarsi al di fuori del controllo
padronale e statale, di poter discutere dei problemi comuni, di poter diffondere idee, informazioni,
culture fece del mutuo soccorso un prezioso retroterra delle lotte di resistenza che si andavano
sviluppando.
L’esperienza dell’associazionismo operaio permise una più concreta elaborazione dell’idea di
autogoverno ed autonomia dei lavoratori che è alla radice del sindacalismo d’azione diretta. Nella
fase che segue la prima guerra mondiale le società di mutuo soccorso vennero o distrutte con la
forza o integrate nell’apparato statale con mezzi più blandi e sopravissero come strutture marginali.
Con la crisi attuale dello Stato sociale va sviluppandosi un’interessante discussione sia sui caratteri
di quell’esperienza sia sulle possibilità di costruire strutture associative che svolgano, nel mutato
contesto produttivo e sociale, compiti simili.
Se legato ad un chiaro progetto di destatalizzazione del movimento dei lavoratori, ad una iniziativa
efficacie contro la pressione fiscale, il crescere e il coordinarsi di strutture di mutuo soccorso potrà
essere uno degli assi portanti del sindacalismo di base.
SABOTAGGIO
Questa pratica sociale prende il nome dal termine francese “sabot” (zoccolo). L’immagine a cui si
riferisce è il lancio di uno zoccolo, tipica calzatura proletaria dell’800, in un macchinario, al fine di
bloccarlo. Indica, insomma, il danneggiamento dei macchinari e, in genere, una pratica individuale
o di gruppo per bloccare il ciclo produttivo.
Sin dal secolo scorso la condanna o l’appoggio nei confronti del sabotaggio divisero i sindacati
rivoluzionari da quelli istituzionali. Per i primi il sabotaggio era una pratica limitata ma importante
di autodecisione degli operai mentre per i secondi si trattava di una forma di “sindacalismo
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criminale” da combattere e denunciare.
In senso più vasto, il sabotaggio indica il rifiuto di piegare gli interessi di classe all’interesse
aziendale, padronale, nazionale.
—————————————————E. Pouget, Sabotaggio, La Rivolta, Ragusa,1973.
SOLIDARIETA’
Se vi è un termine oggi odioso a molti lavoratori è proprio “solidarietà”, si tratta, infatti, di una
parola massicciamente usata per attaccare la difesa degli interessi materiali dei salariati. Politici,
burocrati, padroni ci urlano che dobbiamo essere solidali con l’economia nazionale, con quella
locale, con l’azienda, con gli altri lavoratori che si aspettono, ci viene detto, che si sia
“responsabili”. Il buon vecchio concetto di solidarietà fra i lavoratori per migliorare assieme le
nostre condizioni viene combattuto in tutti i modi.
Eppure compito dell’associazione dei salariati è proprio quello di garantire ai lavoratori il mutuo
sostegno nella lotta contro gli avversari che di volta in volta si trovano di fronte.
“Solidarietà” non come negazione dei problemi particolari ma come capacità di andare oltre, di
affrontarli anche, se non solo, da un punto di vista più generale quando è opportuno e necessario. La
solidarietà, insomma, non è in contraddizione con l’interesse particolare ma, al contrario, gli
permette di affermarsi pienamente eliminando quella guerra interna ai salariati che è la prima causa
della nostra debolezza anche nella conduzione delle lotte particolari.La solidarietà di classe si fonda
in definitiva sull’individuazione di un comune interesse alla solidarietà contro un comune
avversario.
Oggi, più che in passato, il capitalismo è un sistema mondiale capace di spostare le produzioni da
un luogo all’altro del pianeta ad una velocità straordinaria e di mettere in concorrenza tra di loro i
diversi settori del proletariato. Questa concorrenza economica può facilmente divenire scontro
politico e militare, odio etnico, chiusura localistica. E’ dunque necessario dichiarare il carattere
generale ed internazionale delle lotte fra le classi, la sua funzione di unificazione di immense masse
umane che il modo di produzione capitalistico frantuma e gli Stati e le forze politiche e sindacali ad
essi legate spingono all’ostilità reciproca.
SOVIET
Termine russo che indica un consiglio. La russia rivoluzionaria che si defini Repubblica del
Consigli apparve nel primo dopoguerra come il primo esempio di società senza classi, senza
sfruttamento, senza oppressione dell’uomo sull’uomo.
L’inquadramento dei soviet ad opera dello Stato-partito, la fine della loro libera vita interna e della
possibilità di federarsi dal basso li svuotarono del loro carattere democratico e rivoluzionario.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche divenne, agli occhi dei lavoratori più combattivi,
l’“Unione delle Repubbliche Senza Soviet” ben prima che la burocrazia dominante decretasse essa
stessa la fine della finzione di uno “Stato socialista”.
STATO SOCIALE
Nel linguaggio corrente si chiama Stato sociale (o welfare state) un particolare rapporto fra Stato e
società per cui ai cittadini sono garantiti dallo Stato un assieme di servizi sociali e di meccanismi di
tutela di alcuni diritti individuati come fondamentali.
Dal punto di vista dei partiti riformisti il welfare state appariva al suo nascere una sorta di via
pacifica all’emancipazione dei lavoratori. Ad un esame più attento lo Stato sociale appare come
l’espressione di un “corporativismo democratico” e cioè come il frutto dell’accordo fra padronato,
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sindacati e Stato per garantire il controllo sulla riproduzione della forza lavoro, sullo sviluppo
economico, sul conflitto sociale.
Le risorse per garantire il welfare vengono rastrellate mediante un’accrescimento della pressione
fiscale sui salari e l’utilizzo della spesa pubblica per finanziare le imprese ed i servizi pubblici.
Nella fase che ha seguito la seconda guerra mondiale questo modello economico (economia mista) e
sociale ha permesso un effettivo sviluppo della produzione e la tutela degli interessi di strati delle
classi medie e degli stessi lavoratori salariati in cambio dell’indebolimento della lotta di classe e del
suo inquadramento in meccanismi corporativi. L’integrazione internazionale dell’economia e la
stagnazione economica hanno determinato la scelta da parte delle classi dominanti delle grandi
democrazie industriali di smantellare o, almeno, ridimensionare il welfare per concentrare le risorse
nel rilancio dei profitti e della rendita. In realtà l’intervento statale nell’economia e nel controllo
della società non è affatto diminuito ma si è, più semplicemente, modificato.
La crisi dello Stato sociale è strettamente legato alle mutazioni dell’organizzazione produttive in
almeno due sensi: lo sviluppo di un’integrazione crescente fra le imprese che va al di la del
controllo dei singoli Stati; le tendenze del capitale privato a colonizzare settori della vita sociale in
precedenza affidati allo Stato (formazione, previdenza, ecc.). Per fare un solo esempio, la
privatizzazione del sistema pensionistico è l’affare di fine millennio per il capitale finanziario. In
altri termini: il salario operaio ha “pagato” lo sviluppo dello Stato sociale attraverso la pressione
fiscale e ora l’immenso patrimonio accumulato viene trasferito ai settori dominanti della società.
I settori istituzionali del movimento operaio oscillano fra la difesa dello Stato sociale e la pura e
semplice accettazione della nuova filosofia sociale dominante (neoliberalismo) mentre i lavoratori
hanno iniziato a sviluppare lotte in difesa dei servizi sociali, del salario minimo garantito, contro
l’aumento della pressione fiscale.
La crisi del “corporativismo democratico” è una delle ragioni, anche se non la sola, dello sviluppo
di movimenti autonomi di lotta e di organizzazioni sindacali indipendenti. E’, infatti, evidente che
non è possibile affidare allo Stato e ai sindacati ad esso legati la tutela della massa dei lavoratori
dato che il nuovo modello sociale può, al massimo, proteggere degli strati forti e privilegiati della
forza lavoro e anche in questo caso si tratta di una protezione tutt’altro che affidabile: basta pensare
al taglio dell’occupazione nel settore pubblico, alla concorrenza con i lavoratori dei paesi del sud
del mondo, al decentramento produttivo, all’esportazione di produzioni in aree senza tradizioni di
lotta operaia, ecc.
La lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori e del carattere pubblico e gratuito dei diritti essenziali
è oggi possibile solo se cresce la consapevolezza del carattere antistatale dell’azione di classe.
—————————————————P. Mattick, Marx e Keynes, De Donato, Bari, 1972.
J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi Editore, Torino, 1977.
TAYLORISMO
Il taylorismo è la corrente più nota di quel movimento per l’organizzazione scientifica del lavoro
(OSL) che si è posta come obiettivo nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico di
“razionalizzare” il processo produttivo costruendo dei modelli di funzionamento del lavoro operaio
capaci di permettere un controllo non solo sulla quantità di prodotto per tempo di lavoro ma sul
modo stesso di lavorare.
In altri termini Taylor e i suoi concorrenti e discepoli hanno esaminato i movimenti compiuti dai
lavoratori per realizzare gli obiettivi loro imposti e la funzionalità degli strumenti di lavoro e hanno
scomposto le operazioni che gli operai compivano sulla base dell’esperienza in movimenti semplici,
misurabili, quantificabili. Su questa base si è reso possibile la definizione di tempi e metodi di
lavoro volti, tanto per cambiare, ad aumentare la produttività del lavoro operaio, a stanare i tempi
morti, le pause che gli operai riescono a prendersi fra un’operazione e l’altra.
Intrecciandosi con il fordismo, il taylorismo ha definito i caratteri dell’operaio-massa: un lavoratore
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generico, polivalente, intercambiabile.
La storia del processo di lavoro del nostro secolo è anche la storia della resistenza operaia
all’organizzazione scientifica del lavoro sia come opposizione alla sua introduzione che come
guerriglia quotidiana con i capi, i tempisti, l’ufficio tempi e metodi.
Il sogno taylorista di avere a disposizione un operaio ridotto ad una “scimmia addestrata” non si è,
in realtà, mai realizzato e, col passare del tempo, le stesse direzioni aziendali si sono rese conto
della necessità di lavorare sulle motivazioni che possono rendere i salariati più collaborativi con
l’impresa. La fabbrica moderna si è, di conseguenza, arricchita di psicologi, sociologi e tutto il bel
mondo di questa fatta.
—————————————————D. Mothè, Gli operai. Gli O.S., Jaca book, Milano 1972.
D. Mothè, Diario di un operaio 1956-59, Einaudi Editore, Torino,1960.
L. Parodi, Cronache operaie. Corrispondenze di fabbrica negli anni ’50, Lotta comunista, Milano,
1974.
R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi Editore, Torino 1974.
Autori vari, La formazione dell’operaio massa negli U.S.A., Feltrinelli Editore, Milano, 1976.
TERZIARIZZZAZIONE
Col termine terziarizzazione si indica il processo storico attraverso il quale la maggior parte del
lavoro in genere e di quello salariato in particolare si trova ad operare nel settore dei servizi mentre
diminuisce radicalmente quello nel settore agricolo ed estrattivo e gradualmente quello nel settore
industriale. Se si trattasse di un puro problema di classificazione dei settori in cui si dividono le
attività lavorative la faccenda avrebbe un interesse assi relativo. In realtà il mito della
terziarizzazione corrisponde ad una immagine della società sempre meno determinata dal lavoro
“produttivo” e sempre più caratterizzata dallo scambio di servizi, informazioni, competenze.
Nella società terziarizzata, che alcuni definiscono postindustriale, non vi sarebbero classi sociali
definite dal lavoro che svolgono e dalla posizione che occupano nella gerarchia sociale ma solo
gruppi di interesse. Se, però, esaminiamo la questione dal punto di vista dei lavoratori salariati,
assistiamo ad un processo inverso: una massa crescente di lavori nei servizi hanno assunto o vanno
assumendo caratteristiche industriali sia per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro che per
quel che riguarda le condizioni materiali dei salariati. Il lavoro industriale, che non corrisponde
affatto al solo lavoro in fabbrica, si estende al commercio, alla sanità, alla formazione, ai trasporti,
ecc., e ovunque vengono introdotti tempi e metodi, controlli, macchinari tipici dell’industria. Lo
stesso lavoro impiegatizio, almeno nei suoi segmenti inferiori, viene parcellizzato, reso
intercambiabile, privato di quei caratteri di “mestiere” che sino a qualche anno addietro lo
rendevano preferibile a gran parte dei lavori operai. Altrettanto avviene per il salario , la mobilità, la
sicurezza del posto di lavoro, la concorrenza.
Non a caso gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo crescente delle lotte dei lavoratori dei servizi
contro il degrado delle loro condizioni di vita e di lavoro. La crescita stessa del lavoro nei servizi
corrisponde ad un ordine sociale in cui una serie crescente di attività, dall’educazione e la cura dei
bambini all’assistenza agli anziani, non viene svolta dalle famiglie ma è necessariamente affidata a
strutture apposite che sostituiscono in misura crescente il lavoro domestico o rispondono alle nuove
esigenze connesse alla stessa società industriale.
La pressione padronale e statale per rendere più “produttivi” i lavoratori dei servizi sia nel settore
pubblico che in quello privato corrisponde alla necessità di rilanciare l’accumulazione capitalistica
in un periodo di crisi così come avviene nelle fabbriche con la parcellizzazione della forza lavoro, il
decentramento produttivo, il lavoro nero, ecc.
La capacità di opporsi alle campagne che oggi oppongono i salariati dell’industria a quelli dei
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servizi, campagne in cui si sono specializzate CGIL-CISL-UIL, è uno dei banchi di prova della
capacità d’iniziativa e di lotta del sindacalismo di base.
TOYOTISMO
Il toyotismo (o ohnismo) prende nome della fabbrica giapponese Toyota ove è stato sperimentato a
partire dal secondo dopoguerra e dal suo ideatore Tahichi Ohno.
Si tratta di un metodo volto a razionalizzare il sistema produttivo e a superare le rigidità della
fabbrica fordista-taylorista. Come spesso avviene per una rivoluzione produttiva, nasce dalla
necessità di affrontare dei precisi problemi e si dimostra, col tempo, capace di estendersi all’assieme
della produzione. Gli obiettivi di partenza del toyotismo sono quelli di eliminare la necessità di
tenere scorte inutilizzate, quella di produrre una gran varietà di beni in piccola serie senza perdere i
vantaggi della produzione in grande serie, quella di ridurre e, al limite di abolire, la necessità di
riparazione del prodotto finito.
Proprio le difficoltà del capitalismo giapponese nel secondo dopoguerra favoriscono una serie di
sperimentazioni volta ad innovare un sistema produttivo che sembrava giunto al massimo della sua
potenzialità. La catena di montaggio lineare viene sostituita con una catena ad “U”, tutti i lavoratori
vengono coinvolti nel controllo del flusso dei pezzi e della loro qualità, vengono elaborati sistemi di
riparazione sul posto delle imperfezioni e metodi di soluzione delle cause che le producono. I
principi portanti del toyotismo sono la flessibilità della produzione rispetto alla domanda e la qualità
totale.
Questo modello produttivo si dimostra straordinariamente adatto ad una economia in continua
trasformazione, alle oscillazioni del mercato, all’innovazione continua. Nonostante le mitologie
sulle caratteristiche “particolari” degli operai giapponesi, la realtà è che l’ohnismo viene introdotto
dopo aver battuto con la forza la resistenza operaia in Giappone ed è perfettamente esportabile in
contesti socioculturali diversi da quello giapponese solo che i capitalisti locali ne abbiano la
determinazione e la capacità.
Dal punto di vista dei lavoratori si tratta di un sistema volto sia a stanare le porosità che il fordismotaylorismo aveva lasciato nel tempo di lavoro, che a garantire una collaborazione “totale” dei
lavoratori nei confronti dell’azienda. Non a caso al toyotismo si accompagna lo sviluppo
dell’ideologia del patriottismo aziendale, di un sindacalismo d’impresa collaborativo, di sistemi di
incentivazione volti a “premiare” i comportamenti collaborativi e a punire quelli “asociali”.
Come sempre, la resistenza dei lavoratori al toyotismo si basa sia sulla conoscenza del sistema che
sull’esperienza che si accumula nel lavoro quotidiano. Nonostante la censura padronale, è noto che
le fabbriche giapponesi vivono forme di lotta importanti e tipiche della struttura che le caratterizza.
—————————————————
Etcetera, Fordismo diffuso e nuova organizzazione del lavoro: verso un nuovo tipo di lotte?, in
“Collegamenti-Wobbly”, n. 28, autunno ’91.
V. Bertello, Il Giappone e l’Occidente: nuove forme di controllo del lavoro, in “CollegamentiWobbly”, n. 31, autunno ’92.
B. Coriot, Ripensare l’organizzaione del lavoro, Edizioni Dedalo, Bari, 1991.
APPENDICE
Le organizzazioni sindacali alternative a CGIL-CISL-UIL sono molte sia a livello di categorie che a
livello locale. Negli ultimi anni si è sviluppata una significativa tendenza al coordinamento del
sindacalismo alternativo, tendenza che ha portato alla nascita di strutture confederali. Riportiamo
alcune informazioni sulle strutture più note.
CONFEDERAZIONE UNITARIA DI BASE (CUB) - Sorta nel gennaio 1992, raccoglie alcuni
dei sindacati alternativi più numerosi nell’industria e nei servizi. Ricordiamo la Federazione
lavoratori metalmeccanici uniti (Flmu), le Rappresentanze di base (Rdb), presenti soprattutto
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all’INPS, all’INAIL, all’ACI, nelle aziende di trasporto urbano e in quelle municipalizzate in
genere, negli enti locali e negli ospedali, la Federazione lavoratori della scuola uniti (Flsu),
l’Unione inquilini e l’Associazione inquilini assegnatari (Asia), la Confederazione sindicale sarda,
che mantiene una sua autonomia su base regionale, l’Associazione lavoratori chimici ed affini
(Alca), il Coordinamento manovratori ausiliari e deviatori delle Ferrovie (Comad), ecc.
COORDINAMENTO MACCHINISTI UNITI (COMU) - E’ un’associazione di mestiere che
raccoglie gran parte dei macchinisti; ha organizzato molti scioperi a cui ha aderito la maggioranza
della categoria. Pubblica il giornale “Ancora in marcia”.
COORDINAMENTO NAZIONALE PERSONALE VIAGGIANTE (CNPV) - Come il Comu e
l’Unione capi stazione (Ucs) organizza una specifica categoria dei lavoratori delle ferrovie. E’ in
corso un tentativo di unificazione dei vari sindacati dei ferrovieri (Comad, Comu, Cnpv, Ucs, ecc.)
in un unico coordinamento. Espressione di questa tendenza è il giornale “Ferrovieri”, pubblicato
dall’Associazione “Cesare Pozzo”.
SINDACATO LAVORATORI AUTORGANIZZATI (SLA) - Raccoglie vari gruppi di base
dell’industria (Cobas dell’Alfa di Arese, autorganizzati dell’Alfa Sud, ecc.) ed è coordinato con i
Cobas della scuola. Più che di un sindacato alternativo vero e proprio si tratta di una struttura che
intende premere per una riorganizzazione in senso democratico dell’assieme del movimento
sindacale sulla base dei consigli dei delegati.
UNICOBAS - CONFEDERAZIONE SINDACALE DI BASE - Raccoglie vari sindacati di
categoria: Organizzazione Cobas scuola, il Coordinamento sindacale di base degli Assistenti di
volo, i Comitati di base degli Uffici di collocamento, il Coordinamento nazionale dipendenti
dell’Amministrazione finanziaria, l’Associazione nazionale giudiziari - Cobas Giustizia, il Libero
sindacato guardie giurate - Sicursind, il Coordinamento nazionale Cobas industria, il Sindacato
dipendenti Regione Campania, ecc. Edita il giornale “Unicobas”.
UNIONE SINDACALE ITALIANA (USI) - Non è, a rigore, un sindacato alternativo, ma,
casomai, un sindacato libertario ed autogestionario. Si è ricostituito, sulla base del sindacalismo
d’azione diretta, a metà degli anni ’70. E’ presente in diverse situazioni e categorie: Ministero della
Ricerca scientifica, Ministero beni culturali, Università, ospedali, scuola, industria. Pubblica il
giornale “Lotta di classe”.
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