Scaricalo e stampalo

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Scaricalo e stampalo
«In forma sintetica queste sono storie di medici
e pazienti. Storie che guardano alla malattia
come a qualcosa che modifica il modo di essere
delle persone coinvolte. Cerco di raccontare il
rapporto medico-paziente mettendo in luce il
valore della relazione, la capacità di cogliere
nell’altro l’umanità ferita, dove l’altro non è solo
il paziente ma anche chi lo accompagna e chi
se ne prende cura. In questi racconti non c’è
l’esigenza di un finale ad effetto, ma la speranza
che lasciarsi coinvolgere dalla vicenda umana
dei protagonisti restituisca ai personaggi la loro
dignità di persone».
una rubrica di Patrizia Rocchi (luglio 2010)
Fuori scena
V
eramente ho sempre avuto un’affinità per
la tragedia, per le situazioni complesse e
drammatiche, quelle nelle quali tendi ad
essere molto più che uno spettatore partecipe,
e diventi piuttosto un protagonista dei tormenti
umani degli amici, dei vicini di casa, dei parenti
degli amici.
Proprio per questo il dramma mi appartiene.
Anche da piccolo mi muovevo a mio agio tra le
lamentele della nonna che non era mai soddisfatta
della propria evacuazione quotidiana, si lagnava
dell’artrosi progressiva che la riempiva di dolori,
esitava affannando per le scale, e il diabete del
nonno, che lui viveva anche troppo allegramente,
fin quasi a dimenticarsene, poco cosciente della
pericolosità di questa disattenzione. Così ogni tanto, abbastanza spesso, mio padre, e mia madre con
lui, doveva correre a casa da loro, che per fortuna,
o per scelte avvenute in tempi remoti e a me sconosciuti, abitavano a un paio di chilometri di distanza, e preoccuparsi di una nuova piccola ulcera
sulla gamba, che trascurata andava assumendo la
forma e la profondità di un cratere, o di una crosta
in cima alla testa praticamente calva, che aveva
“inspiegabilmente” ripreso a sanguinare, e ora si
mostrava in tutta la sua vasta e irregolare misura,
con margini turgidi e sanguinanti, ripugnanti di
pus, oppure confortare mia nonna che pencolava
sbilanciata da una scaletta, incapace di ritrovare il
pavimento senza rompersi un osso.
Mio padre si precipitava, ma poi non sapeva
cosa fare, guardava con occhi di penitente sconfortato prima quel vecchietto sornione e divertito,
e poi mia madre che finalmente, autorizzata e anzi
investita di potere taumaturgico e consolatorio,
organizzava bende, garze e tinture con grande
sfoggio di abilità manuale, per poi rivolgersi saggiamente a un dottore. Quanto più lui sembrava
sperduto e vulnerabile agli imprevisti e alla sofferenza dei suoi, tanto più lei ci sguazzava, con la
competenza ostentata di chi ha sempre desiderato
trovarsi nell’emergenza più drammatica per poter
affermare, con falsa modestia, “sì, gli ho salvato la
vita, ma non ho fatto niente di eccezionale”. Non
so se mi affascinasse maggiormente il senso stesso
della malattia e del pericolo, o mia madre che sembrava non avvertirne la paura, ma solo il richiamo.
Col tempo, quando partivano alla salvezza dei
nonni avevo ottenuto il permesso di seguirli, e
anzi e avevo cominciato ad emulare mia madre
cercando di rendermi utile, man mano che i rischi
aumentavano e all’emergenza quotidiana andava
a sommarsi anche quella dell’altra nonna, la madre di mia madre, che da Firenze aveva deciso di
trasferirsi e stare più vicina, e precisamente a casa
nostra. Ad essere sincero non mi pare che il suo
arrivo sia stato un evento traumatico, solo una
piccola scossa tellurica con altre piccole scosse di
assestamento successive.
La mia camera, che era la più piccola, diventò
la camera dei genitori, e la loro fu divisa alla bell’e
meglio in due per dare un spazietto a me e uno
alla nonna. Anche con lei pensavo di potermi esercitare parecchio. In realtà nonna Vittoria godeva
di una buonissima salute. Aveva le gambe un po’
tozze e le caviglie grosse, leggermente gonfie e
bluastre, ma stava dritta e camminava come una
forsennata anche quando tirava il carrello della
Patrizia Rocchi
spesa pieno di frutta e pacchi di pasta. Si tingeva i
capelli di un rosso violaceo e curava molto la sua
persona. Cucinava benino, e comunque meglio
di mia madre, e non pretendeva che tutto fosse
in ordine. Insomma, la convivenza non era così
difficile, e io cominciai a spiarla per capire quando
intervenire per anticipare un attacco di cuore, una
vertigine, o almeno un mal di pancia. Ma lei non
aveva neppure un po’ di tosse, e per me costituiva
un mistero il fatto che non vivesse più nella sua
casa. In effetti stava benissimo, semplicemente
non voleva stare sola. Avrebbe fatto qualsiasi cosa
per un po’ di compagnia. Si sedeva accanto a me
mentre studiavo, entrava e usciva dalla stanza con
una fetta di torta o una tazza di cioccolata se ero
da solo, e si acquattava sulla soglia della porta
della cucina quando avevo degli amici e ci intrattenevamo in “sala”, perché da lì riusciva a sbirciare
pensando di non dare fastidio. Mi pagava, con
piccole gentilezze e con qualche mancetta, perché
l’accompagnassi a scegliere un paio di calze o a
comprare il pane. Non voleva che facessi le cose
al posto suo, voleva farle con me, o almeno che
restassi lì, fingendo di guardarla mentre lei le faceva, e magari tirandole una voce ogni tanto, come
per ricordarle che c’ero ancora. Mi faceva sentire
indispensabile, e io di riscontro la spiavo mentre si appisolava e respirava in modo rumoroso,
osservavo il modo in cui mangiava e i suoi denti
irregolari e ingialliti, ma tutto questo non mi dava
abbastanza soddisfazione. Non assumeva mai quel
tono lamentoso da moribonda abbandonata di
nonna Erminia. Non avevo mai la sensazione che
fosse in pericolo e che potessi salvarla e coprirmi
di gloria. Voleva solo sentire una presenza umana
in casa. Forse da quando era morto il nonno, che
era stato a lungo malato, anche lei non sapeva più
di chi occuparsi, e la televisione sempre accesa con
il volume al massimo, in modo che si sentisse tutto
il giorno, in ogni angolo della casa, non le bastava
più, come alla maggior parte delle nonne dei miei
amici, che per altro i nipoti vedevano raramente.
Con lei le giornate mancavano di improvvisazione, di novità, riuscivo al massimo a convincerla
di aver bisogno di un’aspirina o di un cerotto ogni
tanto e mi mancava proprio la sensazione di essere
parte di un’emergenza e di poter contare su un
riflettore che illuminasse il mio lavoro. Insomma,
non ero mai in scena.
Quando entra Manuela capisco che si aspetta
una serata speciale. Ha fatto un trattamento completo a giudicare dal vestito e dai tacchi che la
fanno sembrare notevolmente più alta. Non che
lei in genere scivoli su ballerine raso terra, i tacchi
sono la sua passione, ma ogni tanto, come questa
sera, si arrampica su qualcosa di elaborato e probabilmente costosissimo che viene spacciato come
scarpe e che lei riesce a tollerare anche per molte
ore. Perfettamente truccata e sicuramente molto
sexy, come nelle migliori occasioni, mi guarda con
un’aria di finto rimprovero; finto perché tanto lo
sa che mi preparo il lavoro per il giorno dopo senza considerare l’orario. Mi studio il caso, mi carico
di tutte le possibili complicanze, mi preparo al
peggio perché diventi il meglio, imparo a memoria
il percorso di ogni singolo vaso, e la morfologia di
ogni centimetro di questo cervello come se fosse
un campo minato, e in fondo è quello che è.
Fa una mezza piroetta prima di appoggiarsi
all’angolo della scrivania, quel tanto che serve a
farmi indovinare il colore del suo perizoma e a
darmi un’idea del programma della serata.
«Tesoro ma non sei ancora pronto! Come ti
sembra questo vestito? E non chiedermi quanto
costa, piuttosto senti che effetto fa sulla pelle…»
Mi prende la mano, mi guida, ed è tutto un soffio di seta, un passaggio a rischio tra tessuto e pelle, tra dita e orlo e la pelle stessa è un tessuto che
parla e lancia richiami di pieghe umide e odorose.
«Un effetto magnifico, direi. Ma che mi sono
perso? Dove dobbiamo andare?»
«Non sei sintonizzato, eh? Estate, terrazza,
Parioli, cena, amici, colleghi, insomma chiamali
come ti pare, musica e poi fuga noi da soli… ti ricorda niente?»
«Vuoi dire che questi organizzano una cena di
giovedì sera quando io domani sono di sala? Per
questo non me lo ricordavo! L’ho rimosso, certo, è
una follia!»
«Non è una follia, è il compleanno del primario, al grande capo non puoi dire di no e quindi
devi essere pronto in venti minuti ed è una fortuna
che tu sia un uomo, così non devi fare la ceretta
alle gambe e neppure truccarti, altrimenti non arriveremmo mai».
Sospiro, sospiro e mi odio perché sono nelle
sue mani, perché le sue mani sono ispirate da tenera lussuria, perché ha ragione e riuscirà a trascinarmi in quella terrazza a mangiare tartine e ad annuire convinto immaginando di essere altrove. Poi
troverà lei una buona scusa per portare con passo
elegante il suo splendido sedere fuori dall’appartamento (o è una villa?), lasciando molti occhi maschili sofferenti e ammiccanti e frecce di odio femminile appena scoccate. Sono un uomo fortunato.
Manuela mi guida e mi sottomette al suo vitalismo
gioioso, esaltando il mio, amplificando il mio orgoglio di maschio e forse riempiendomi di illusioni.
Non è sempre così? Quando si ricomincia con una
donna che potrebbe essere tua figlia non è meglio
ostentare la bellezza e l’appagamento e lasciarsi
Patrizia Rocchi
trasportare dal puro, esaltante piacere piuttosto
che cercare elaborate spiegazioni intellettuali?
Annuisco, vado a rendermi presentabile, per
restare in gioco bisogna anche saper barare.
La tragedia mi appartiene, diventare un neurochirurgo era l’evoluzione naturale di una passione,
la consacrazione, dopo anni di studio e di impegno, a una sfida primordiale.
Posso ascoltare, posso chiacchierare e bere
cocktail, sudare nell’aria umida della notte estiva,
e intanto guardarmi intorno, riconoscere facce,
attaccarci una storia, oppure rimuovere elementi e ricordi, cancellare due occhi, o una bocca,
l’espressione di un viso, gli avvenimenti, anche
quelli importanti. Ho una mente flessibile, capacità di analisi critica, sinapsi allenate ai collegamenti.
Manuela mi tiene d’occhio perché è intelligente e pronta e arriverà qualche momento prima di
me a capire che ora di andare e che il tempo di
tolleranza si è esaurito. Anche il primario mi tiene
d’occhio, e Sofia, che non l’ha presa proprio bene
quando è finita, due anni fa, ma ora si è consolata
con Andrea, che è un plastico e ovviamente può
garantire zigomi alti e tette sode alla sua compagna. Pensavo veramente che le fosse passata, ma
la iena che si aggira nel suo corpo è vendicativa e
appassionata.
La terrazza è splendida, potrebbe persino essere odorosa di gelsomini e camelie se il profumo
di trenta persone e delle numerose sigarette non
contaminasse l’aria; il pavimento della terrazza è
di un lucido verde marino che a stento si riconosce
nelle luci attutite. Mentre la vedo avanzare penso
ai tacchi di Manuela che forse graffiano e scheggiano le maioliche della padrona di casa, e mi sale un
rigurgito di riconoscenza e di soddisfazione.
Poi arriva lei. Un cigolio sottile che lascia una
traccia sul pavimento marino, lo percepisco a
fatica e lo completo con la mia immaginazione.
Dovevo aspettarmelo. Monica avanza e il suo
sguardo è all’altezza del mio. Inevitabile incontro,
ancora mi spaventa. È la mia memoria spezzata,
l’errore che non posso rimuovere, la colpa che non
cancelli, la tragedia nella quale si compie il sacrificio finale.
Monica saluta e scherza, so che si avvicina ma
mi lascia per ultimo, vedo Manuela che vorrebbe venire in mio aiuto ma qualcosa, qualcuno, la
trattiene. Arriva, elegante e padrona di sé sulla sua
carrozzina, una mano nascosta sotto la borsa, la
mano destra che non può più usare, come pure la
gamba. La saluto facendo attenzione a non alzarmi
dalla mia sedia, che sarebbe un’inutile gentilezza
formale. Aveva ventidue anni sei anni fa: la figlia
di un amico, un collega, una persona per bene, lui
l’aveva affidata a me perché rimuovessi l’angioma.
Era distesa su quel lettino nella mia sala operatoria
e io la guardavo convinto che tutto sarebbe andato per il meglio, orgoglioso di quelle lampade di
scena, di tutta quella luce che ci illuminava e di cui
ero padrone. Ho sottovalutato, ho sbagliato, ho
avuto contro di me il destino. Il deus ex machina
ha scelto per noi e ha cambiato il futuro, l’ha legata a una sedia e mi ha spedito dall’analista.
Ora sono un altro uomo. Riesco a guardarla e
anche a parlarle. Non smetterò mai di incontrarla
alle cene degli amici, non fuggirò, mi perseguiterà
con il suo rimprovero muto, le ruote cigolanti, il
sorriso asimmetrico e feroce.
Se fossi coraggioso potrei alzarmi di scatto e
fare un gesto definitivo, esaltante, forse un’espiazione. La balaustra è vicina e in pochi secondi
potrei ottenere la mia punizione e il mio riscatto.
Potrei, posso, ora qui, sotto gli occhi di tutti. Ho
il fiato corto, le mani sudate, il polso veloce, le
luci sono basse, c’è la musica in sottofondo, e il
chiacchiericcio si è spento in un sussurro di attesa,
voglio un faro su di me.
Manuela mi stringe un polso e le sue unghie mi
feriscono il dorso della mano.
«È stato un piacere rivederti cara. Sei veramente splendida!»
Mi trascina via. È bravissima, è lei la protagonista.
Titoli di coda. Finale da commedia.
Patrizia Rocchi