XXX Domenica del tempo Ordinario

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XXX Domenica del tempo Ordinario
Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro - Squillace
via Arcivescovado, 13
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tel. 0961.721333 - fax 0961.701044
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per l’Omelia domenicale a cura dell’Arcivescovo Mons. Vincenzo Bertolone
XXX Domenica del tempo Ordinario
23 ottobre 2016
Oro ergo sum
Introduzione
La lezione di Gesù sulla preghiera, iniziata domenica scorsa, continua in questa XXX
Domenica del Tempo Ordinario. Certo, due domeniche non possono essere esaustive
per un tema così fondamentale per la vita del cristiano. La preghiera, infatti,
costituisce il respiro stesso dell’anima del discepolo, aprendo a Dio la propria verità
di essere. Tuttavia pochi insegnamenti del Maestro bastano per schiudere orizzonti
sconfinati di riflessione e meditazione attraverso i quali esaminare il proprio modo di
vivere ed esprimere la fede e, se occorre, raddrizzare la rotta. E se domenica scorsa
Gesù ci ha invitato a riflettere sulla necessità della preghiera “insistente”, oggi
prosegue il suo insegnamento su “come” il cristiano debba pregare e per porsi in
dialogo con Dio. Il metodo di insegnamento è lo stesso di domenica scorsa: una
parabola. Cambia il contenuto, cambiano anche gli attori – Gesù mette a confronto il
modo di pregare di un fariseo e quello proprio di un pubblicano -, ma l’impressione è
la stessa: non un quadro ideale, ma un bozzetto di vita vissuta, che per la sua forte
adesione alla realtà interpella le nostre coscienze e fa presa sulle nostre anime.
Accanto alla preghiera, oggi affrontiamo indirettamente un secondo tema: quello
della missione. L’occasione la fornisce il bilancio finale che Paolo fa della propria
vita e missione. Preghiera e missione non sono separate fra loro, ma complementari:
un’ attività missionaria coerente, umile, coraggiosa, spinta sino al sacrificio totale è
riflesso di una spiritualità feconda, che trova nell’amore di Dio la sola ragione di
operare e di osare; e dal dialogo ininterrotto con il Padre deriva la forza necessaria
per restare fedele anche nella prova.
Questione di dettagli
Se facessimo un gioco di ruoli sarebbe curioso sapere quanti di noi indosserebbero i
panni del pubblicano e quanti quelli del fariseo. Sicuramente a parole tutti diremmo
di sentirci dei pubblicani, ma poi il nostro modo di essere e pregare rischierebbe di
smascherare l’ipocrisia del nostro modo di vivere e testimoniare la fede. Certo,
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potrebbe attribuirsi ad un atto involontario della mente credere che il nostro modo di
essere e pensare sia giusto; invece volontario è scegliere il parametro di confronto: se
sia giusto davanti agli uomini o giusto davanti a Dio. Forte infatti è la tentazione di
mettersi davanti a Dio come davanti “ad un notaio”, che registri l’elenco dei nostri
meriti e per quelli ci giustifichi. Seducente anche presentarci migliori rispetto a tanti
altri, che invece, secondo noi non lo sono. Ma non si può pregare e disprezzare:
cantare Dio e avere un “super- Io”; sentirsi buoni e inebriarsi dei difetti altrui. Ma al
di sopra di tutto non si può ricercare il colloquio intimo con Dio, dichiararsi suoi
familiari e poi dimenticare la parola più importante del cosmo: “Tu”. Non è una
dimenticanza da poco, giacché venendo meno quel “Tu” si innesca una reazione a
catena in seguito alla quale viene meno il bisogno di Dio; il dialogo con Lui non apre
più l’animo alla sete di mistero, ma lo ripiega in una sterile autoreferenzialità; si
conosce la distinzione tra bene e male, ma solo agli altri si attribuisce il male; si
conosce il giudizio di Dio, ma si ha la presunzione di esserne giustamente esentati. La
preghiera, allora, diventa un monologo dove al centro dell’universo sono due vocali
magiche e seducenti: “io”. E l’ “io” è così pieno e orgoglioso di sé da non lasciare
spazio a Dio. Perciò, alla fine, bisogna accettare che non è Dio a prendere le distanze
dal fariseo che fa capolino in noi, ma siamo noi a prendere le distanze da Dio. Infatti,
quando nella preghiera prende il sopravvento l’ “io”, Dio è di troppo, è solo una muta
superficie su cui far scivolare la nostra vanagloria. Questi possono essere “dettagli”,
ma sono decisivi, giacché stabiliscono la nostra posizione davanti a Dio. Se viceversa
consideriamo il “dettaglio” antitetico del pubblicano, la situazione cambia
decisamente, giacché proprio quel piccolo particolare fa la differenza, determinando
cioè la salvezza del “meno meritevole” agli occhi degli uomini ma “più meritevole”
agli occhi di Dio. Il “dettaglio” del pubblicano è il timore di fronte alla Santità e alla
infinita misericordia di Dio, ovvero l’umiltà nel riconoscersi profondamente
peccatore e, dunque, indegno della familiarità di Dio. Qui è il pubblicano a prendere
le distanze da Dio, ad abbassare capo e sguardo, a mettersi in fondo al tempio, nella
penombra, per accusare i propri peccati e invocare il perdono divino. Il pubblicano ha
bisogno di Dio. mette al centro della sua preghiera non se stesso ma la pietà divina,
non si ferma all’ “io”, ma ricerca il “Tu” della salvezza. Anche questi possono essere
“dettagli”, ma sono “dettagli” che salvano, liberano, aprono la porta del cuore a un
Dio più grande del proprio peccato, a un Dio più grande del proprio cuore, all’amore
di un Dio che non si merita per diritto di nascita, per giustizia o virtù, ma si accoglie
con fiducia e totale abbandono. “Gli umili saranno esaltati”, la loro preghiera si
eleverà leggera oltre le nubi e arriverà all’orecchio di Dio. Pregare è, quindi, ben altra
cosa che autocelebrarsi, vantarsi, mostrarsi meritevoli e perfetti nella prassi religiosa.
Pregare è consapevolezza umile della propria indegnità, di fronte alla quale non si
può fare altro che invocare la misericordia di Dio, l’unica nostra salvezza. Grande
lezione abbiamo ricevuto in questa domenica: se vogliamo essere uomini di preghiera
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autentici, dobbiamo partire dalla nostra mediocrità, dobbiamo riscoprire il senso
dell’essere peccatori. Infatti, è solo quando si è caduti in basso che si crede nella
spinta in alto; ma se si è già in alto difficilmente ci si scomoda per salire ancora più
su. Si impara a dipendere totalmente da Dio, a puntare tutto su di Lui, solo quando si
rinuncia a contare su se stessi e tale rinuncia arriva quando si prende coscienza della
propria pochezza. Diversamente, chi ha la presunzione di essere perfetto, di avere
tutto, di bastare a se stesso, non avrà di certo bisogno di Dio.
Un uomo nuovo
Nel momento in cui ci si scopre bisognosi di Dio tutto cambia. Infatti, frutto maturo e
dolce di una preghiera autentica è la trasformazione, perché il desiderio di avvicinarsi
a Dio scuote corpo e anima, e l’incontro intimo con Lui purifica come fuoco e
immerge nel Suo Mistero. È quanto accaduto all’apostolo Paolo sulla via di
Damasco: da rigido osservante e “guardiano” della Legge e infaticabile ricercatore di
verità, alla fine la Verità gli si è fatta incontro e tutto in lui è cambiato. La giustizia
dell’uomo cede il passo alla giustizia di Dio, riconosciuta nella verità assoluta di
Cristo, Figlio unigenito e Messia. Paolo ammette di aver confuso la verità delle cose
e dinnanzi all’impatto con la Verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare. Nel
momento stesso in cui gli fa capire di aver sbagliato tutto, Gesù chiama Paolo e lo
manda come apostolo. Dunque, la lezione di Paolo è chiara: “Il Dio del Vangelo e
della misericordia è Colui che nell’istante in cui mi fa capire che ho sbagliato tutto su
di Lui, perché ho messo me stesso al suo posto”, non solo “mi dimostra la sua
misericordia nel perdonarmi” ma “mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio,
affidandomi la sua stessa Parola” (C.M. Martini). Proprio in virtù di questo perdono e
di questa consegna Paolo potrà dire alla fine della vita: “Ho combattuto la buona
battaglia” della fede, “ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7). Può
dire ciò non con la superbia di chi ha fatto tutto da solo, contando esclusivamente
sulle proprie forze; ma con l’umiltà di chi un giorno ha sperimentato la caduta
nell’abisso del peccato ed è stato rialzato da una mano paterna alla dignità del
perdono. Paolo, ancorato saldamente a questa esperienza di fede, si spenderà sino alla
fine affinché quanto conosciuto e vissuto sia diffuso. Dunque l’intimità di Paolo con
Cristo, attraverso la ricchezza di un dialogo intenso e ininterrotto, lo porta a spingersi
coraggiosamente in territori “ostili”; a farsi provocare dai lontani; ad affrontare la
solitudine nella prova e ad offrirsi in l’olocausto. Paolo supera tutti questi momenti
grazie alla preghiera. Nella sua preghiera, troviamo l’angoscia, la paura, il timore che
si provano quando ci si offre e si è pronti ad affrontare la realtà. In definitiva, ciò che
in noi è tumultuosamente conflittuale, e perciò ci impedisce di agire, ci paralizza
nella paura e ci porta a rimandare le decisioni, se messo a fuoco nella preghiera, ci
unifica e ci permette di riprendere in mano la nostra capacità di decidere e ci fa,
alfine, dire: “Sia fatta la tua volontà”, “si compia in me ciò a cui sono chiamato”.
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Conclusione
Due lezioni, un solo messaggio: l’uomo orante è uomo di missione. La preghiera,
infatti, non è rinuncia, inerzia, mancanza di responsabilità, assenza di scelta, ma è
tensione verso un “Tu” che dilata, incoraggia ad andare oltre e spinge a percorrere
una strada d’amore, dando la forza necessaria di osare nell’impegno. Serena
Serena domenica
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Vincenzo Bertolone
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