Gli Zombi Non Piangono
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Gli Zombi Non Piangono
Rusty Fischer Gli zombi non piangono Traduzione di Sara Reggiani Titolo originale: Zombies Don’t Cry Copyright © 2011 by Rusty Fischer All rights reserved Italian language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale, Milano, Italy Nomi, luoghi ed eventi citati sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. http://y.giunti.it © 2012 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 - 20122 Milano - Italia Prima edizione digitale: ottobre 2012 ISBN 9788809775947 A Martha, la mia adorabile moglie, che ha sopportato fin troppo i miei deliri sugli zombi. PROLOGO PICNIC CON GLI ZOMBI Il cimitero è silenzioso a quest’ora, una luna piena perfettamente adeguata allo scenario illumina ettari di prato appena tagliato e chilometri di lapidi equidistanti fra loro. L’immagine di quelle file interminabili infonde una strana sensazione di serenità: sembra di guardare migliaia di denti di una gigantesca bocca che sorride solo per me. In questo periodo dell’anno l’aria è pungente ma pulita e rende tutto più terso, limpido, definito. È come ritrovarsi davanti la morte in alta risoluzione. Ho sempre pensato che per essere un cimitero questo non fosse poi così spaventoso. Gran parte di quelli che si vedono in tv brulicano di insetti viscidi e di ombre sinistre, hanno le lapidi storte e i cancelli rotti, le tombe sono ricoperte di erbacce secche e tutto questo contribuisce a dare al luogo l’atmosfera che generalmente ci si aspetta in un cimitero. Ma qui, in Florida, i cimiteri sono una cosa seria. Altroché. I cancelli non cigolano quando li apri, non si vedono inquietanti gatti neri scorazzare qua e là, l’erba è curata come quella di un campo da baseball, le lapidi sono tutte dritte, un vialetto laterale in ottime condizioni costeggia il cimitero in tutta la sua lunghezza, le tombe sono pulite e i fiori sempre freschi. Alla luce della luna ispeziono il contenuto del cestino da picnic che giace ai miei piedi. Quattro lattine di gazzosa? Ci sono. Forchette e coltelli di plastica? Ci sono. Piatti di plastica? Ci sono. Tovaglioli di carta? Ci sono. Manette (se le cose dovessero mettersi male)? Ci sono. Catene da caviglia (se le cose dovessero mettersi molto male)? Ci sono. Accetta (se le cose dovessero mettersi molto, ma molto male)? C’è. Cervelli freschi? Ovvio. Sorrido, richiudo il cestino stringendo bene le cinghie, e gli do un colpetto finale sopra. Le nuvole coprono la luna, ma grazie alla mia nuova supervista da zombi, ebbene sì, riesco ancora a vedere bene. (Be’, a dire il vero, ogni cosa vira un tantino sul... giallo. Poco male, dopo un po’ ci si abitua.) La tomba che ho davanti sembra nuova. Metà delle sedie bianche pieghevoli è ancora allineata in fondo al cimitero, mentre il resto è stato accuratamente sistemato su un carrellino che qualcuno deve aver dimenticato di riportare alle pompe funebri. Non c’è da stupirsi. Dopo tutto quello che è successo negli ultimi giorni, chi può negare che i becchini siano sottopagati e sovraccarichi di lavoro? Non ho bisogno di guardare l’orologio per sapere che sono trascorse 72 ore da quando l’ho trasformato: a questo punto starà iniziando a stiracchiarsi laggiù, tre metri sotto terra. Sospiro, afferro la pala che ho recuperato dal retro del furgone e inizio a scavare. È faticoso ma, vi dirò, non mi dispiace fare del movimento. Gli zombi tendono a irrigidirsi, perciò quando si presenta l’occasione di muoversi, e di evitare così che le giunture si blocchino del tutto, be’, perché sprecarla, dico io. Tolgo velocemente il primo strato di terra, poi salto nella fossa e continuo a scavare. Me la prendo comoda, non ha senso sprecare energie prima del nostro incontro. Ogni mio movimento scandisce una sorta di ritmo in questo cimitero desolato immerso nel bagliore lunare: conficco la pala nel terreno, scavo, mi butto la terra alle spalle e ricomincio; conficco la pala nel terreno, scavo, mi butto la terra alle spalle e ricomincio. Vado avanti così finché la pala colpisce la bara sollevando una pioggia di schegge di legno verniciato di fresco. Mi sposto su un lato e uso l’estremità della pala a mo’ di cazzuola per spazzare via attentamente il sottile strato di terra che ricopre la cassa. Quando anche l’ultimo granello è sparito e il legno è in bella vista, mi appoggio alla pala, raddrizzo la schiena, mi passo una mano sulla fronte, così, per abitudine (visto che gli zombi non sudano), e resto in ascolto per un paio di minuti. Sorrido sentendo un fruscio provenire dall’interno, si percepisce a malapena, è il tipico rumore che fa un completo da funerale a contatto con l’imbottitura di seta della bara. (E credetemi, se lo sentite una volta, non ve lo scordate più.) Tanto per essere sicura di aver a che fare con uno zombi buono e non con uno cattivo (sì, avete capito bene, di fatto esiste una distinzione), do un paio di colpetti al coperchio con i miei anfibi nuovi. Toc, toc. Attendo, gustandomi la pace di quella notte d’autunno, poi finalmente la risposta arriva da sotto i miei piedi: toc, toc. Bravo, bello. Faccio leva con il manico della pala e sento il sibilo dell’aria che fuoriesce mentre il coperchio a tenuta stagna si solleva come lo sportello del bagagliaio della cara vecchia station wagon di papà. All’interno giace il corpo statuario di un giovane pallido, in abito blu, e con un adorabile tirabaci sulla fronte bianca come il marmo. Non sono uno zombi da tanto tempo, eppure quel poco è bastato a sconvolgere completamente i miei gusti in fatto di uomini. Una volta, quando ancora ero una Normale, avevo un debole per gli sportivi. Avete presente quei corpi scolpiti, i muscoli che minacciano di esplodere sotto la classica canottiera bianca sudata, la pelle abbronzata... i segni dell’abbronzatura. Ora invece mi basta un leggero pallore, l’assenza totale di grasso corporeo e di battito cardiaco, e un paio di occhiaie scure per non capirci più niente. Il tizio che ho davanti in questo momento, be’, ha proprio tutte le carte in regola. Accenna un sorriso, ma non si capisce a chi, forse alla luna piuttosto che alla ragazza che di fatto l’ha ficcato in quella bara con le sue mani. Ad ogni modo, essersi risvegliato tre metri sotto terra in una cassa di legno imbottita di seta, non sembra sconvolgerlo affatto. «Chi sei?» mi chiede piano. «Perché hai una pala? Dove sono? Di chi è questo vestito? E perché è... blu?» Ah, i giovani e la loro sete di conoscenza... Lo zittisco portandomi un dito pallido alle labbra grigiastre e assaporo la terra fresca e le schegge di legno, poi mi pulisco la mano sui pantaloni neri da lavoro. Lo trascino fuori dalla bara, lo aiuto a uscire dalla fossa, lo faccio accomodare per terra, infine apro il cestino da picnic per mostrargli i cervelli freschi e subito vedo i suoi occhi che si illuminano. Mentre divora il primo cervello, sospirando inizio a riempire la fossa, un po’ più velocemente di prima, poi con la pala appiattisco per benino l’ultimo strato di terriccio, di modo che non si veda che qualcuno l’ha smosso. Lui si avventa subito sul secondo e non faccio nemmeno in tempo a dirgli, «Ehi, lasciamene un po’», che lo vedo abbandonarsi all’indietro nel suo abito ammuffito, darsi colpetti sullo stomaco e ruttare. Apro una lattina e gliela porgo. «Grazie, Maddy» mi dice alla fine con lo sguardo spento, pieno di una nuova consapevolezza e dei brandelli di materia grigia e carne sanguinolenta fra i denti. Scuoto la testa e sospiro di nuovo mettendomi a sedere su un mucchio di terra fresca accanto alla sua altrettanto fresca tomba. Non sembriamo proprio Leonardo e Kate sulla prua del Titanic, me ne rendo conto, ma date retta a me, se improvvisamente scopriste di essere morti (pardon, non-morti), anche voi vi accontentereste di quello che passa il convento. PRIMA PARTE DUE SETTIMANE PRIMA... 1 LA MALEDIZIONE DELLA TERZA ORA L’ora di economia domestica porta sfiga. Almeno secondo Hazel, la mia migliore amica (che è sempre stata un po’ incline al dramma, quindi valutate voi... sto solo dicendo che io al posto vostro non mi fiderei troppo). Dicevamo, terza ora, economia domestica, il Mese del Muffin è iniziato da due settimane, ma credete che a Hazel importi qualcosa? No, assolutamente no. Come faccio a saperlo? Lo so perché, mentre io mescolo gli ingredienti per i muffin di mais messicano, Hazel non fa che fissare il banco vuoto di Missy Cunningham. Proprio come ieri, e da qualche giorno a questa parte. E prima di fissare il banco vuoto di Missy Cunningham, aveva fissato quello di Sally Kellogg. E prima ancora quello di Amy Jaspers. (Be’, a pensarci bene, forse non ha tutti i torti a credere che l’ora di economia domestica sia maledetta.) «Dai, Hazel» le dico mentre mi sale il nervoso. «Le uova non si rompono da sole.» «Uffaaa.» Sbotta e le fa scivolare lungo il banco ricoperto di farina perché me ne occupi io. «Lo sai che sono vegetariana. Vegetariana stretta. Rompere un uovo per me è come commettere un omicidio.» La guardo perplessa, allora lei aggiunge: «Ok, forse è più come costringere una gallina ad abortire». Per essere una vegetariana stretta, è stata piuttosto indulgente stamattina quando sono passata a prenderla con un sacchetto di sandwich alle uova fritte appoggiato sul sedile del passeggero. Suppongo non si possa più parlare di «aborto» una volta che le uova vengono versate in una padella incandescente, fritte nel grasso scoppiettante, ricoperte di bacon sopraffino e infilate in mezzo a due fette di pane tostato con sopra un bello strato di formaggio fuso. Per nulla divertita, scuoto la testa, poi do un’occhiata al cartoncino della ricetta macchiato di burro e rompo le quattro uova. «Grazie per l’aiuto» dico, agitandole una mano infarinata davanti agli occhi, ormai diventati vitrei, tanto ha fissato il banco di Missy. «Hazel, sono seria, adesso basta con questa storia della maledizione, ok? È più di una settimana che preparo i muffin da sola mentre tu te ne stai lì come un’ebete a fissare quello sgabello vuoto. Mi stai facendo paura.» «Io ti sto facendo paura?» esclama degnandosi finalmente di guardarmi. «Sei tu quella che sforna dolcetti a raffica come se niente fosse, come se non ti rendessi conto che quest’ora è... maledetta.» «Maledetta» le faccio il verso. «Hazel, non esagerare. So che per te è fisicamente impossibile non trasformare ogni minima cosa in una tragedia, ma ti chiedo almeno di provarci. Fallo per me, solo per questa volta. Statisticamente parlando non è poi così strano se quest’anno abbiamo perso... qualche compagna di classe.» Hazel mi guarda come se fossi una specie di creatura aliena che si è appena impossessata del corpo della sua migliore amica e non ha ancora dimestichezza con quelli che noi umani chiamiamo sentimenti. «Perso? Cos’è, un eufemismo per dire “non una, non due ma ben tre nostre compagne di economia domestica sono morte dall’inizio dell’anno scolastico”? Non sono disperse, non sono scappate, non hanno chiesto un permesso per partecipare a una puntata di 16 and Pregnant. Sono morte! Morte nel senso di decedute, sepolte per sempre tre metri sotto terra, cibo per i vermi! Nel caso te ne fossi scordata, siamo solo a metà ottobre. Ne è morta una al mese! Se questa non è una maledizione, allora non ho idea di cosa lo sia.» Mi guardo intorno per vedere se qualcuno ci sta ascoltando, ma da quando le nostre compagne hanno iniziato a scomparire nel nulla, la classe si è davvero trasformata in un luogo infestato dai fantasmi. Molti hanno smesso di frequentare il corso dopo l’incidente di Missy della scorsa settimana ma tutti gli altri, come me e Hazel, hanno troppo bisogno di un buon voto in questa materia per assicurarsi l’ammissione al college. Altrimenti, nonostante l’insegnante di economia domestica sia fantastica, Hazel e io ce la saremmo data a gambe dopo il secondo incidente. «Non era un eufemismo,» rispondo alla fine «però a volte capitano cose del genere.» Mi chiedo chi stia cercando di convincere, se lei o me stessa. «Sì, Maddy, certe cose possono capitare ma ai vecchi, ai malati, ai distratti, a chi guida veloce, ai drogati e agli ubriachi. Non a Missy Cunningham, che non ha mai attraversato la strada senza l’autorizzazione di un vigile. Non a Sally Kellogg, che era talmente grassa che se fosse caduta da una rampa di scale sarebbe rimbalzata arrivando a terra senza neanche un graffio. E soprattutto non alla povera Amy Jaspers, che – pace all’anima sua – aveva paura della sua stessa ombra e non usciva di casa se non per andare a scuola ogni giorno e ritornarci di corsa. Andiamo, Maddy. Svegliati. Non capisco perché ti ostini a negare l’evidenza. Che cavolo, credevo che fossi tu quella razionale fra le due. E invece, guarda un po’, sono io l’unica a dire cose sensate ora. Mi spieghi perché?» Le lancio un’occhiata severa e apro la bocca per ribattere, ma lei sembra sapere già cosa sto per dirle. «E, Maddy,» continua «non rifilarmi di nuovo la storia che sei la figlia del medico legale e che se questa classe fosse vittima di una qualche maledizione tu lo sapresti, ok? L’ho già sentita tre volte questa settimana e mi è bastata.» «Be’,» dico usando la frustrazione che ha scatenato in me Hazel per eliminare i grumi dall’impasto dei muffin «si dà il caso che io sia la figlia del medico legale e mi piace pensare che sarei la prima a sapere se l’ora di economia domestica fosse... maledetta. Ecco, te l’ho ridetto, ma solo perché è la verità, Hazel.» E lo era. Lo scorso agosto, una mattina mentre andava a scuola, Amy Jaspers era caduta in un fosso e si era rotta l’osso del collo. Verdetto del medico legale? Incidente. Poi, a settembre, Sally Kellogg si è strozzata con un ossicino di pollo. Verdetto del medico legale? Incidente. Infine, la settimana passata, la povera Missy Cunningham si è addormentata mentre tornava a casa in macchina dal lavoro e si è schiantata contro un palo della luce. Verdetto del medico legale? Incidente. È andata così, tutte e tre erano in classe con noi a economia domestica. (E sottolineo, erano.) Di qui la nuova fissazione di Hazel per la famosa Maledizione della Terza Ora. «Ragazze?» la Haskins fa un cenno verso il timer del nostro forno, pare che ci manchino ancora quindici minuti. «Avete impiegato un po’ più del solito oggi, eh?» Immaginatevi un’insegnante talmente tosta da poter diventare anche la vostra miglior amica. Una che se fossi un uomo, me ne innamorerei subito. Una che ha così tanto buongusto nel vestire da poter tranquillamente far parte della giuria come ospite settimanale di America’s Next Top Model. Ecco, noi alla Barracuda Bay ce l’abbiamo, è l’insegnate di economia domestica della terza ora, la signorina Haskins. La Haskins ha ancora la voce da bambina, un po’ strozzata, leggermente rauca, la classica voce che hanno – tanto per intenderci – le vj di Mtv o le presentatrici di una marca di bikini all’ultima moda. Borbotto qualcosa sui «grumi ostinati del nostro impasto», ma la prof mi fa l’occhiolino con lo sguardo di chi ha già capito tutto e passa al banco successivo. La scia di profumo che lascia dietro di sé, allontanandosi con passo sensuale, farebbe sfigurare l’odorino di qualsiasi cosa stessimo cucinando. Osservo la Haskins mentre si allontana. Anche Hazel la segue con lo sguardo. «Se non altro lei porta ancora il lutto» dice. «Potresti prendere esempio e dimostrare un po’ di sensibilità nei confronti delle tue compagne scomparse.» Devo riconoscerlo, da quando si è sparsa la voce che l’ora di economia domestica forse è maledetta, la prof effettivamente ha smesso di indossare i capi divertenti, informali e dai vivaci toni di rosso che sfoggiava la prima settimana di scuola e ha optato per uno stile austero composto di capi bianchi e neri, neri e grigi o completamente neri. Oggi indossa un paio di décolleté nere, sobrie ma di gran classe, una gonna grigia piuttosto attillata, una canottierina nera ricamata e sopra una giacchetta primaverile grigia con i bottoni neri. Quando facciamo lezione di cucina, si presenta sempre con i capelli raccolti e oggi ha un’acconciatura morbida fermata da due bacchette nere di legno. E ovviamente i suoi occhiali sono neri con un’elegante montatura rettangolare, un po’ allungata. Finalmente il timer suona e io apro il forno, ritrovandomi davanti una teglia bollente piena di muffin al mais messicano fumanti, biglietto d’accesso a un altro bel voto per il caro vecchio banco n. 2. Il profumo che emanano riesce persino a distogliere Hazel dall’inutile duello mentale con lo sgabello di Missy. Ci dividiamo un muffin compiacendoci del risultato ottenuto. Dopo di che taglio i restanti in quattro, li dispongo su un piatto e lo passo a Hazel. Tradizione vuole, infatti, che durante gli ultimi dieci minuti di lezione, facciamo il giro della classe per far assaggiare ai nostri compagni quello che abbiamo cucinato, ed è sempre Hazel a occuparsi della nostra presentazione. Cosa importa se ho preparato tutto da sola, se ho sbattuto le uova, setacciato la farina, versato l’impasto nella teglia e Hazel non ha fatto altro che fissare per l’intera mattinata il banco di Missy? Questo è il suo momento e io non sono altro che il suo aiuto cuoco. Non si tratta di stabilire se Hazel riuscirà a ottenere un buon voto o a compiacere la Haskins, né quanto effettivamente mi abbia aiutato. Questo è il momento di Hazel, punto e basta. A me non dispiace. Da ben undici anni, da quando cioè un giorno d’estate si è presentata nel mio cortile dicendo: «Sono la tua nuova vicina e diventerò la tua migliore amica. Domande?», è sempre stato così con Hazel. Hazel la guida scout. Hazel che pretende di fare la stilista. Hazel la capo cheerleader. Hazel la capoclasse. A me sta bene. A Hazel piace farsi vedere, a me restare sullo sfondo. A Hazel piace parlare, io preferisco ascoltare. A Hazel piace il rosa shocking, a me il cachi sbiadito. A Hazel piace conoscere gente nuova, mentre io spero che si dimentichino di me il prima possibile. Non che ami fare da tappezzeria, intendiamoci. Assolutamente no. Ho il mio stile, per quanto dimesso, i miei amici (ok, la mia amica), le mie passioni, i miei sogni. Solo che non sono interessanti – o meglio, scontati – come quelli di Hazel. Facciamo il giro della classe, per lo più deserta, se non fosse per quella dozzina scarsa di noi che è talmente coraggiosa, stupida o disperata da venire ancora a lezione di economia domestica, e ci scambiamo sorrisi circospetti e pezzi di muffin gentilmente offerti dalla nostra Hazel. «Sentito come è croccante la crosticina?» domanda al banco n. 4 con ostentazione. «Ho aggiunto del burro negli ultimi cinque minuti.» Che bugiarda! Prendendo in mano un barattolo di mais con fare teatrale e tenendolo fra indice e pollice, dalle unghie perfettamente smaltate di rosa, suggerisce al banco n. 6: «Il segreto per ottenere un cuore morbido è versare nell’impasto giusto una goccia di liquido di governo dal barattolo.» Bugiarda spudorata. Stiamo quasi per raggiungere l’angolo più buio, freddo e desolato della classe e di colpo lo show di Hazel s’interrompe. «Auguri» sussurra indietreggiando davanti al tanto temuto banco nove. «Eh dài, Hazel» le dico. «Non puoi farmi questo. Per una volta sarebbe carino se venissi con me, tanto per darmi un po’ di supporto.» «Non esiste» esclama ritirandosi centimetro dopo centimetro verso la sicurezza del banco due, il nostro umile avamposto nella classe di economia domestica. «Ci ho provato la prima settimana e lui praticamente ha sputato i wurstel in camicia nel piatto.» «Ti prego... Hazel... ti supplico» le dico dando le spalle al banco nove. Non c’è nulla da fare. Ha già rimesso il suo poderoso didietro sul piccolo sgabello e se ne sta lì con le braccia conserte a messaggiare con chissà chi pur di evitare il mio sguardo d’accusa (tentativo mal riuscito). A questo punto tocca di nuovo a me affrontare il banco nove sola soletta. Di certo non posso biasimare Hazel. Dopotutto, quello è il tavolo di Scheletro. Scheletro è un tipo di un metro e novanta abbondante per circa settanta chili di peso, che va sempre in giro con un berretto da sci bianco, persino con trentadue gradi all’ombra (temperatura tipica, qui in Florida), tuta in microfibra bianca e immacolate scarpe da ginnastica bianche. Non si è conquistato quel nomignolo per via dell’altezza o del peso, però. (Adesso che ci penso non so nemmeno quale sia il suo vero nome.) Ma per via della sua faccia scheletrica. È bianco come il piatto su cui ora giacciono gli ultimi pezzetti dei nostri muffin, ha le guance scavate, gli occhi infossati, le labbra sottili come lame di rasoio che a malapena riescono a nascondere enormi denti da cavallo. I suoi occhi... bleah... sembrano ricoperti da una sottile pellicola gialla, come se non si fosse mai del tutto ripreso da una qualche malattia rara o roba simile. So che è meschino prendersi gioco di chi sta male e di norma non lo faccio, ma c’è una specie di sgradevolezza intrinseca nell’aspetto di Scheletro che mi impedisce di provare la benché minima compassione nei suoi confronti. Salterei volentieri il suo banco per tornare a spiegare a Hazel perché sull’ora di economia domestica non c’è il malocchio, ma purtroppo la nostra prova non sarà valutata solo in base al sapore dei muffin. (Ecco perché ogni settimana Hazel ripete alla classe il famoso motto, «Venite ad assaggiare i miei famosi dolcetti, sono i più buoni del mondo».) Con la coda dell’occhio vedo che la Haskins mi sta osservando, così vado dritta verso Scheletro che dall’alto del suo sgabello mi guarda con aria di sufficienza. «Un morso, Scheletro?» Non chiedetemi perché l’ho detto, ma è venuto fuori così. La paura a volte gioca brutti scherzi. Lui ridacchia. «Volentieri, Maddy. Sembri proprio un bel bocconcino.» La sua voce è profonda come un buco nero, e secca come una foglia morta. «Intendevo di muffin» rispondo disinvolta e impassibile mettendogli il piatto sotto il naso. Lui scuote la testa. «Non sai cosa ti perdi» dico a corto di fiato e faccio per andarmene. Tra me e me penso, Fiuh, anche questa settimana è andata. Ma all’improvviso lui allunga una mano e mi afferra, ed è come se mi avessero immerso il braccio fino al gomito nell’acqua gelata. Ha la mano freddissima, non del tipo che ti fa ritrarre per un momento, ma di quello che ti provoca un vero e proprio shock. Scheletro mi stringe in una morsa d’acciaio. «Lasciami... andare» sussurro cercando di liberarmi. Al quarto o quinto strattone, finalmente molla la presa e mi allontano. Purtroppo per me la sua dolce metà, Dahlia Caruthers, mi si mette fra i piedi e le sbatto contro. «Ehi, sta’ un po’ attenta!» esclama e mi spinge verso Scheletro. Mi vengono di nuovo i brividi. È come rimbalzare da una ghiacciaia a un’altra. Che cavolo, bisogna che riparino il condizionatore una volta per tutte qui dietro; i nostri due compagni qui stanno morendo di freddo. (Forse è per questo che sono sempre così cattivi.) «Scusa. Stavo solo offrendo a Scheletro un pezzo dei nostri muffin al mais.» Dahlia sorride, poi muove un passo verso di me tenendo il suo piatto sollevato davanti. Il mio è quasi vuoto, il suo invece è praticamente pieno. Non c’è da stupirsi. Mentre, grazie a Hazel – o almeno così le piace far credere alla classe – i nostri muffin sono soffici e umidi, teneri e gustosi, i loro sono secchi e appiattiti, come biscotti messicani vecchi di un mese. «Assaggia questi» mi dice Dahlia. Lo stile di Scheletro è fuori moda, anzi, fuori dal tempo, quello di Dahlia, invece, è ancora al limite del guardabile: frangetta viola superprecisa che lascia scoperta la fronte incipriata di bianco, ciglia folte e nere, rossetto mattone che crea un effetto cremoso e brillante. La cosa strana, che forse è legata al fatto che stanno insieme, è che... anche lei ha gli occhi gialli. Be’, di certo sono meno vistosi su Dahlia che su Scheletro, ma possibile che gli unici due ragazzi con gli occhi gialli della Barracuda Bay siano finiti insieme? Il suo stile è a metà strada fra il dark e il glam, con l’aggiunta di una massiccia dose di glitter e lucidalabbra. Oggi indossa una paio di zeppe altissime nere, collant color vinaccia, minigonna inguinale di pelle, e un bustino argentato con sopra una giacca di pelle bianca. Con il suo metro e sessanta scarso, sta a Scheletro come Pinotto sta a Gianni o... Gianni a Pinotto? Ad ogni modo, nonostante sia più bassa di me di almeno un centimetro, sembra sempre più alta con quell’atteggiamento da dura. All’improvviso mi rendo conto che piano piano Dahlia mi sta rispingendo verso Scheletro. Così, con un forno da un lato e una fila di finti mobiletti da cucina dall’altro, sono ufficialmente prigioniera nell’angolino buio che i due occupano nell’universo di economia domestica. Dietro Dahlia vedo la Haskins china sul registro, mi dà le spalle, allora mi volto, afferro un muffin rinsecchito e gli do un morso in segno di pace, poi scappo dall’angolo oscuro sana e salva. Fa schifo. Fa veramente schifo. È proprio... disgustoso. «Allora?» mi domanda. Sento lo sgabello di Scheletro stridere contro il pavimento. Avverto i suoi occhi puntati addosso mentre si alza in piedi in tutta la sua imponenza. Se fossimo all’aperto, oscurerebbe il sole. Tossisco e mando giù, ma ho la gola secca. «Niente male. Magari la prossima volta metteteci un po’ meno farina e più burro... sai, per renderli un tantino più soffici.» (Ho davvero detto «un tantino»? Sì, vero?) Me ne sto lì a balbettare qualcosa di vagamente carino, quando la campanella suona. Sorrido pensando, Salva, ma Scheletro e Dahlia non si spostano. Al contrario, si avvicinano. «Ehi ragazzi, non avete sentito? È suonata la campanella. Farò tardi ad arte.» Loro se la ridono mentre radunano i libri e si fanno da parte. Gli occhi gialli di Dahlia di colpo si chiudono a fessura e mi guardano minacciosi. La temperatura nella stanza precipita di almeno dieci gradi, ma tanto – in piedi fra quei due – era già come essere in una cella frigorifera, perciò fa poca differenza. «E noi» dice Dahlia «non lo vogliamo, vero?» «Eh no» annuisce Scheletro. «Il mondo ha bisogno di più artisti.» Dahlia dà uno sguardo alla stanza poi torna a fissarmi. «Ben detto, Scheletro. Proprio come questa classe ha bisogno di più corpi caldi.» La loro risata viene fuori come il vapore dai muffin caldi (solo più fredda e tetra, e un po’ meno vaporosa). Apro la bocca per difendere le compagne scomparse – Missy, Sally e Amy – per tenere alto il loro onore di fronte a questi... questi due mostri... dato che, in pratica, mi stanno sfidando a farlo. Sembra quasi che vogliano parlare della Maledizione della Terza Ora, che non vedano l’ora di dirmi qualcosa che non so. Quei loro occhi giallo paglierino stanno letteralmente sbavando (sempre che gli occhi possano sbavare) davanti all’occasione di poter tirare in ballo la Maledizione. Ma io non ci casco, non voglio, non gli darò questa soddisfazione. Alzo gli occhi al cielo e faccio per andarmene, ma non mi accorgo che nel frattempo Scheletro ha fatto scivolare un piede proprio dove devo passare io. Inciampo e il piatto mi vola via dalle mani. Il rumore prodotto dall’impatto della plastica col pavimento fa scappare all’istante Scheletro e Dahlia dalla classe, prima ancora che la Haskins riesca a raggiungermi. L’ultima cosa che vedo è lui che si abbassa per dare il cinque alla piccola mano pallida e curata della sua ragazza. «Madison!» esclama la Haskins mentre cerco di spazzare via dalla mia gonna cachi le briciole e di rimettere quanti più pezzetti possibile di muffin sul piatto, per poi aggiustarmi la sciarpa arancione che uso come cintura. «Stai bene?» «Sì, sì» dico confusa e impaziente di andare ad arte o, se non altro, di alzarmi in piedi e allontanarmi da quell’aula inquietante che, a pensarci bene, ha davvero un che di maledetto. Perlomeno in questo momento. «Sono un’imbranata.» Lei mi dà una mano a pulire e poi ci rialziamo entrambe. Mi cade l’occhio sull’orologio e inizio a correre lasciandola lì. «Faccio tardi» biascico, mollandola col mio piatto sporco fra le mani. «Posso scriverti una giustificazione, se vuoi» risponde lei, ma io ho già afferrato il giubbotto di jeans e mi sto precipitando fuori dalla classe a testa bassa. Ed ecco la seconda figuraccia in meno di un’ora. 2 OH, CAVOLO «Oh, cavolo.» Esatto, questa è l’unica cosa che riesco a dire quando vado a sbattere contro quel figo del nuovo arrivato, appena fuori dall’aula di economia domestica. «Oh, cavolo.» Non «Scusami». Non «Questo è il mio numero». E nemmeno «Dobbiamo smetterla di far finta di incontrarci per caso». Niente di affascinante, intelligente o malizioso. Solo... «Oh, cavolo.» Ma va bene così, visto che mentre osserviamo i nostri libri, quaderni, cartelline e blocchi per gli appunti spiccare il volo e precipitare in una spirale di fogli protocollo e matite n. 2, lui se ne sta lì con l’aria persa e mormora qualcosa tipo «Cacchio». Mi guardo intorno in cerca di Hazel, ma è già scappata all’allenamento delle cheerleader. Una dozzina di ragazzi ci urtano mentre guardo le sue grandi mani pallide separare con cura le sue cose dalle mie. Lui non ha praticamente niente, dato che si è appena trasferito qui dal Wyoming o da Washington o da qualche altro posto dimenticato da Dio. «Non sono sempre così imbranata» provo a dirgli mentre mi porge il libro di economia domestica. «Colpa mia» dice mentre gli restituisco il foglio con gli orari delle lezioni. «Oggi combino solo casini.» «Davvero?» chiedo senza riuscire a frenare quella linguaccia che mi ritrovo. «E io che pensavo di essere l’unica.» Lui ridacchia nervoso, poi abbassa lo sguardo sulle sue gigantesche scarpe da ginnastica tutte logore. Si capisce che è alto anche se siamo in ginocchio a raccogliere e a separare gli ultimi fogli; non è alto come Scheletro, ma del resto chi lo è? È longilineo e i suoi muscoli sono tesi come se stesse per balzare addosso a qualcosa – o a qualcuno – nelle vicinanze. (Mi piacerebbe...) Ha la pelle liscia e chiara, tirata come il marmo, con una parvenza di peluria sul dorso delle mani. Profuma di colonia: è un profumo buono, ma non esageratamente buono. Si è vestito bene per il primo giorno: jeans slavati e maglietta da rugby a righe blu e marroni. Gli sta stretta sul petto ma non sull’addome, e mi rendo conto di fissarlo solo quando cala il silenzio e il corridoio diventa deserto. «Merda!» esclamo tornando alla realtà. Mi alzo e lui fa lo stesso superandomi di tutta la testa o giù di lì, fino a incombere su di me. «Farò tardi.» Ha l’aria confusa, disperata, le pareti della Barracuda Bay all’improvviso si sono trasformate in quelle di un labirinto, i suoi libri sono mescolati e il programma è spiegazzato. Mi fa pena, così, vagamente irritata (anche se tento di nasconderlo), gli chiedo: «Cos’hai adesso?». Lui sbuffa, tirando fuori l’orario incastrato fra due libri che tiene in equilibrio precario su un braccio. «Arte» dice senza entusiasmo. «Davvero?» esclamo tirandolo per una manica verso l’ala C dell’edificio e finendo per inciampare nelle sue lunghissime gambe. «Anch’io.» «Non avevo scelta» si affretta ad aggiungere. «Non preoccuparti.» Sospiro. «La tua mascolinità non ne ha risentito.» «No, è che, volevo dire... dài, lo sai cosa volevo dire.» «L’arte non va per la maggiore in Wyoming?» gli domando svoltando l’angolo. «Niente va per la maggiore in Wisconsin» dice, correggendomi senza di fatto correggermi «tranne la caccia, la pesca e... la pesca.» Sorrido e lo trascino in classe oltrepassando la soglia un istante prima che suoni l’ultima campanella. La Witherspoon solleva un sopracciglio grigio su un paio di occhiali rotondi dalla montatura di tartaruga rosso fuoco, poi nota il ragazzone alle mie spalle. Mi fa l’occhiolino, si schiarisce la voce e rivolta alla classe esclama (come sempre) in modo teatrale: «Battiamo la fiacca ultimamente, eh, Maddy? Dato che tu e il tuo amico ve la siete presa comoda, temo che dovrete accontentarvi degli ultimi due posti rimasti. Spero che non vi... dispiaccia.» Mentre vado al mio banco le occhiate d’invidia delle altre mi trafiggono come pugnali, ma il solo pensiero di essere entrata in una classe piena di femministe frustrate in compagnia di un tipo alto, bello e muscoloso, mi fa venir voglia di saltare sul tavolo più vicino e urlare «Schiattate, vipere! Dovete schiattare!». Ma mi trattengo e mi metto a sedere. Il ragazzo nuovo sta seduto tutto rigido alla mia sinistra come chi vorrebbe essere in qualsiasi altro posto tranne che lì. Il suo viso dai tratti scolpiti e la porzione di pelle che spunta dal colletto consumato della maglietta hanno il tipico pallore del Midwest e, mentre sbatte le palpebre rapidamente, mi accorgo anche che ha gli occhi color nocciola. Un po’ per questo e un po’ per via dei capelli scuri assomiglia a un gigantesco biscotto con gocce di cioccolato. Sfoglia il libro, fingendosi interessato, mentre la Witherspoon fa l’appello. Quando arriva alla lettera C e chiama «Crosby, Stamp», vedo una macchia rossa strisciargli su per il collo fino a raggiungere le sue belle guance del Wisconsin. «Sì, signora» risponde lui educatamente scatenando un coro di starnazzi da parte delle ragazze. Lei sorride e lo corregge. «Non occorre che tu dica “Sì, signora”, basta “Presente”. Allora, Stamp, sono sicura che sai già come funziona. Forza, alzati e presentati alla classe.» Lui geme ma solo io lo sento e mi verrebbe voglia di dargli un pizzicotto alle guance e di alzarmi per chiedere alla prof di lasciarlo in pace, per questa volta. Eppure non faccio nessuna delle due cose e resto lì a guardarlo con gli occhi a cuore proprio come tutte le mie care compagne di classe (e il trans della scuola, Dimitri Collins, anche se con tutto l’ombretto che si mette non si capisce se ha gli occhi a cuore, se ce li ha chiusi o se è semplicemente annoiato). Stamp ci guarda dall’alto del suo metro e ottanta (abbondante) e dice: «Mi chiamo Stamp Crosby. Mi sono appena trasferito qui da Waukesha, una città del Wisconsin. Sono il nuovo kicker dei Barracuda Bay Marauders». Dato che nessuna di noi balza in piedi e in preda all’euforia si strappa la maglietta e gli mostra le tette, lui sospira e continua: «Avete presente la squadra di football della scuola?». Con questo dettaglio si becca qualche risatina e vedo già alcune iniziare a sbavargli dietro. (Streghe.) Grazie al cielo, prima che possa continuare la sua affascinante presentazione, la Witherspoon lo interrompe schiarendosi la voce. «Grazie, Stamp. Molto... interessante. Ora se vuoi sederti, vi spiegherò cosa faremo oggi...» La prof gli dà un blocco di creta marrone e un’immagine ritagliata da qualche rivista di animali che ritrae un gattino morbidoso raggomitolato su un letto dall’aria più che comoda. «Interpreta» gli dice in tono criptico e se ne va senza guardarsi indietro. Stamp alza gli occhi al cielo, mi guarda per un istante, poi si mette a fare una copia identica di quello che appare nell’immagine. Osservo le sue dita lottare contro la creta, che però non fa che infilarglisi sotto le unghie mangiate fino all’osso e sporcargli i polsi consumati della maglietta. È uno di quelli che quando si concentra tira fuori la lingua e, devo ammettere, la cosa non mi dispiace affatto. A metà ora finisce di modellare il suo gattino e sta per alzare la mano e chiamare la Witherspoon ma io gliela blocco a mezz’aria. «Ha detto “interpreta”, Stamp, non copia.» «E che differenza c’è?» Per tutta risposta gli indico la mia creazione. L’immagine attaccata sul mio tavolo da disegno ritrae una scarpa da tennis, ma impastando e modellando ho dato al blocco di creta la forma di un unico laccio di scarpa congelato nella tipica posizione d’attacco dell’anaconda. «E quello che cavolo sarebbe?» Sbuffo cercando di vederlo dal suo punto di vista. «Be’, rappresenterebbe lo sfruttamento degli immigrati da parte delle grandi industrie di calzature americane in nome degli ideali capitalisti di benessere e ricchezza...» Mi muoiono le parole sulla lingua non appena lui spalanca la bocca e mi guarda con occhi vitrei. Allora taglio corto: «Sì, insomma, quando la Witherspoon dice di interpretare, non ti sta chiedendo di rifare esattamente quello che vedi. In questo caso, per esempio, si tratta più che altro di rappresentare cosa provi quando osservi quel gattino». Lui annuisce, sbuffa, annuisce di nuovo, dice «Ok» fortissimo come se nella stanza ci fosse solo lui, poi si china sulla creta emanando fiamme dorate di calore corporeo. Dopo un po’ lo sento mormorare fra sé: «E che forma ha... l’allegria?». Per lui è un vero e proprio grattacapo ma alla fine trasforma il suo gattino di creta in (tenetevi forte) una faccina sorridente, tipo lo smile che negli anni Ottanta si usava per pubblicizzare qualsiasi cosa finché la gente non si è resa conto di quanto quel logo fosse banale. La Witherspoon inizia a girare per i banchi e, quando vede quello che ha fatto Stamp, non sembra per nulla divertita. Quasi percepisco l’indignazione feroce che si agita dietro ai suoi occhiali rosso fuoco e sotto la sciarpa altrettanto rossa a frange. Ma proprio mentre sta per sollevare un dito tremante preparandosi a mangiare vivo Stamp, incrocia il mio sguardo e sbattendo le ciglia con aria supplichevole riesco a farla desistere – almeno per oggi. (Domani non sarò qui a difenderti, Stamp.) La Witherspoon sospira, si morde un labbro e dice: «Ben fatto, Stamp. Molto... appropriato». Appena si allontana, lui mi guarda poco convinto, poi si sporge da un lato e mi sussurra con l’alito che sa di Tic Tac alla menta: «Mi odia». Io scrollo le spalle e mi avvicino ancora di più. «Domani andrà meglio.» Se la ride mentre pulisce il tavolo, ma dato che è un ragazzo e che è nuovo, ma soprattutto che è un ragazzo, ci impiega molto meno di me e quando suona la campanella io sono ancora al lavandino con le braccia immerse fino ai gomiti nella melma. Cerco di non dare a vedere quanto sono disperata mentre guardo verso il nostro tavolo e con gli occhi gli lancio degli SOS che urlano Aspettami, Stamp! Aspettami!, ma tanto quella vecchia volpe di Sylvia Chalmers gli ha già preso il programma dalle mani e lo sta accompagnando fuori dalla classe. Così abbasso la testa, mi asciugo le mani e vado a recuperare i libri dal nostro tavolo – il nostro tavolo! Mentre esco dall’aula, la Witherspoon – senza nemmeno disturbarsi ad alzare lo sguardo dall’ultimo numero di American Photographer – mi bisbiglia: «Occhio, Madison, quello ce l’ha scritto in fronte che è un rubacuori». Io scrollo le spalle andando verso la porta e le dico: «Ma non era lei quella che una volta ci ha detto che ogni artista che si rispetti ha il cuore spezzato?». 3 SFREGA-LAPIDI Quando torno a casa da scuola, papà non è ancora rientrato dal turno serale all’Ufficio del Medico legale di Cobia County, perciò prendo due mele e ne mangio una in piedi davanti alla pattumiera della cucina. Ci siamo salutate neanche da cinque minuti, ma non faccio in tempo a buttare il torsolo e tirare fuori il cellulare, che mi arriva un messaggio di Hazel. Che fai? Rispondo: Pensavo di andare a sfregare un paio di lapidi al cimitero. Tempo due secondi: CHE PALLE! Ci sentiamo dopo! Scrollo le spalle con aria indifferente. (Nel caso non ve ne siate già resi conto, Hazel è una che va presa a piccole dosi.) Afferro il blocco da disegno e una vecchia borsa di pelle appesa all’ingresso, poi esco e chiudo la porta alle mie spalle. È metà ottobre, a quest’ora il sole inizia a tramontare, l’aria si fa pungente e tutto si tinge d’azzurro. Mi metto il gigantesco album di carta velina sotto braccio, la borsa a tracolla stile postino e mi avvio lungo Pompano Lane in direzione del cimitero di Sable Palms, che si trova simpaticamente ai piedi della collina su cui si erge casa nostra. Ok, ammetto che in qualsiasi altra circostanza avere una casa che dà su un cimitero potrebbe sembrare un po’ di cattivo gusto, ma non se tuo padre è un medico legale. Anzi, a dire la verità, è piuttosto comodo se pensate che la maggior parte dei suoi clienti, come li chiama lui, riposano proprio lì. Mio papà è uno di quelli che, cito le sue stesse parole, volente o nolente, deve sempre portarsi il lavoro a casa. Passo davanti casa di Hazel e fingo di non vederla mentre si sbraccia a più non posso sullo step, al di là dell’enorme porta a vetri del garage che i suoi hanno adibito a palestra. Ma alla fine cedo e la saluto con la mano per evitare che schizzi fuori di casa e mi segua fino al cimitero. (Se c’è una cosa che Hazel detesta è essere ignorata.) Riesco quasi a sentirla squittire di gioia dall’altra parte del vetro. Ai piedi della collina c’è un ampio vicolo cieco, oltre un segnale di divieto d’accesso nel punto in cui Pompano Lane incontra Mullet Avenue. Non mi prendo la briga di guardare né da una parte né dall’altra prima di attraversare la strada deserta. A quest’ora entrambe le vie sono vuote e, anche se non lo fossero, nei pressi del cimitero c’è un silenzio tale che si sentirebbe persino una bici ben oliata che passa a un’ottantina di metri di distanza. Soltanto uno dei grandi cancelli di ferro è ancora aperto. Mentre sgattaiolo dentro, vedo il Guasto che – appoggiato a una pala – mi indica l’orologio (ma con un sorrisetto complice sulle labbra). «Appena in tempo, Maddy, eh?» Tiro fuori dalla borsa di pelle l’altra mela e gliela offro. «Non so che dirti, Guasto, ogni volta ho l’impressione che la collina diventi sempre più alta.» Lui ignora quella scusa pietosa, prende la mazzetta e sorridendo divora la mela in soli quattro bocconi. Lancia il torsolo al di là della recinzione e insieme lo guardiamo atterrare sul retro della sua Chevrolet arrugginita, un furgone color verde tristezza, vecchio come il cucco. Il torsolo sbatacchia qua e là fra la dozzina di pale, zappe e martelli che tiene ammucchiati in caso di bisogno. Il Guasto è il custode del cimitero, e dato che mio padre trascorre un sacco di tempo in sua compagnia – medico legale, becchino, cadaveri, funerali, cimiteri: bel quadretto, eh? – lui mi lascia vagare lì la sera, così una volta a settimana posso dedicarmi alla mia attività preferita: la riproduzione su carta di lapidi tramite sfregamento. Il Guasto avrà circa ventott’anni. E a dispetto del suo nomignolo, non è guasto per niente. È grande e grosso, e si vede che ha un fisico scolpito sotto l’uniforme marroncino chiaro: ha le braccia muscolose e la pelle un po’ irritata a furia di scavare fosse, potare siepi e tutte le altre cose che deve fare durante il giorno. Il suo vero nome, almeno così dice papà, è Paul Delgado, ma a Barracuda Bay lo chiamano il Guasto per via dei suoi denti che, come il soprannome suggerisce, sono gialli, storti e grossi come le pietre tombali di cui si prende cura. Giocherellando con la lunga catena che gli penzola dalla cintura dei pantaloni, il Guasto lancia un’occhiata bramosa al mio album da disegno e, timidamente, mi chiede: «Ne hai fatti di belli negli ultimi tempi?». Io sorrido e apro l’album a metà, nel punto in cui ho infilato uno dei miei nuovi capolavori. Glielo passo, felice del suo interessamento. Anche se l’ho ricoperta con una speciale soluzione polimerica, la carta è comunque molto fragile e il gesso nero viene via con facilità. «Questa... dev’essere piuttosto... recente» dico senza di fatto dire niente. Non ce n’è bisogno. Lui legge il nome che appare sopra le date – 1994-2011 – e chiede: «Era una tua amica, vero?». «Chi, Amy Jaspers? No, non proprio, però... frequentavamo insieme economia domestica.» Lui se ne sta lì a fissare il foglio con la fronte corrugata, poi si lecca i dentoni con la lingua impastata. Alla fine si decide a parlare: «Maddy, faccio questo lavoro da quando mi sono diplomato alla Barracuda Bay e, lasciamelo dire, c’è una bella differenza fra scavare la fossa a un povero vecchio che ha avuto una vita piena, lunga e felice e scavarla a una ragazzina nel fiore degli anni». Quindi mi osserva dalla testa ai piedi, poi fa scivolare lo sguardo alle mie spalle, verso il cimitero buio e silenzioso. «Sta’ attenta, Maddy. So che oggi voi adolescenti non credete più alle maledizioni e roba del genere...» «Mmm, non ci giurerei» borbotto. «Ma detto fra me e te e queste lapidi, c’è qualcosa che non va in città, da quando è iniziata la scuola sono successi episodi troppo strani.» Arrotola il foglio, me lo porge ed esce con aria esausta dal cimitero. «Mi raccomando» urla senza voltarsi, lasciando aperto il cancello quel tanto che basta per permettermi di uscire. «Assicurati di aver chiuso quando te ne vai.» Conto fino a sei e puntuale come ogni sera inizia a ridere e spara la solita battuta: «Non dimenticarti di spegnere la luce!». Resto in ascolto, finché non mette in moto e parte sferragliando, poi mi volto e mi preparo ad attraversare la parte nuova del cimitero. Ho la borsa piena di scotch di carta, forbici, carboncini e altri strumenti del mestiere. Non è pesante, ma sono contenta che Missy Cunningham sia stata seppellita vicino ai cancelli. La sua tomba è poco distante da quella di Amy e qualche fila più in là rispetto a quella di Sally. Tre compagne di scuola scomparse in tre mesi, tre riproduzioni di lapidi che riportano le stesse identiche date: 1994-2011. (Non è molto rassicurante pensare che dopotutto sarebbero anche le mie... se morissi domani.) Rabbrividisco cercando di non pensare alle parole di Hazel e del Guasto, e osservo la lapide sobria e dignitosa di Missy. È di granito, come la maggior parte oggigiorno. In un angolo della targa di ottone c’è incisa una tuba (Missy suonava nella banda). La cosa che colpisce di più, però, sono le date: è vissuta diciassette miseri anni. Non importa se sei una rock star, un ultramiliardario, una top model o solo una che suona la tuba nella banda della scuola – non si può morire così giovani. Rovisto nella borsa finché non trovo una spazzola metallica, e mi metto a pulire la lapide di Missy. Non impiego tanto, per fortuna non è ricoperta di sporcizia: qui in Florida le cacche di gabbiano fresche (ma anche quelle secche) possono trasformare un disegno in un’opera di Jackson Pollock in un batter d’occhio. Dopo di che strappo un foglio dall’album e lo fisso alla lapide col nastro adesivo. Mi ci siedo davanti a gambe incrociate e inizio a passare un carboncino nuovo di zecca sopra il foglio immacolato. Quando il nome di Missy Cunningham resta finalmente impresso sulla carta, il sole è tramontato e i lampioni ai lati del viottolo che circonda il cimitero, uno dopo l’altro, si sono accesi. La luce non è sufficiente, ma se riesco a iniziare prima che faccia buio, mi basta continuare a strofinare. Quindi procede tutto bene. Non appena finisco, sento i grilli frinire e il mio stomaco che brontola. Allora rimuovo con cura il nastro adesivo, arrotolo il foglio e lo tengo chiuso con un elastico perché non si pieghi e soprattutto non si sporchi. Ma anche se ho finito, ho fame e so che a quest’ora dovrei essere a casa per accogliere papà con una bella cenetta appena sfornata (sì, come no), non riesco proprio a smettere di fissare le date incise sotto il nome di Missy Cunningham: 1994-2011. «Una tragedia, eh?» Mi volto, facendo attenzione – nonostante il panico – a non sbavare il carboncino con la punta delle scarpe, e mi ritrovo davanti quell’idiota di Scheletro seduto accanto a una tomba poco distante. Mi fissa con quei suoi disgustosi occhi giallastri. Appoggiata con aria disinvolta a una lapide lì vicino, Dahlia mi osserva con aria di sfida. «Ma c-c-che?» esclamo balzando in piedi e tirandomi via la polvere dai jeans. L’immagine di me che rovino a terra poche ore prima, nell’aula di economia domestica, mi balena davanti agli occhi. Scheletro non si muove, se ne sta lì con la sua ridicola tuta bianca. «Dico solo che è una tragedia morire così giovani.» «Non saprei» fa Dahlia mentre un lampo le attraversa gli occhi giallo brillante. Indossa una tutina aderente nera che sottolinea le sue graziose curve e un paio di scarpe da ginnastica argentate che le fanno guadagnare almeno un centimetro in più. «Sai, alcune ragazze... meritano... di morire giovani.» «N-n-nessuno merita di morire così giovane, Dahlia» ribatto col sangue che mi pulsa nelle orecchie. «Non saprei» ribatte Scheletro. «Forse nessuno sentirà la sua mancanza. Forse è stato un bene che Missy sia morta così giovane. Chi mai vorrebbe vivere una vita di tristezza e solitudine?» «Certo che sentiranno la sua mancanza» insisto, per nulla disposta a cedere. «I suoi genitori, per esempio; mi pare che avesse un fratello più piccolo e so per certo che era una delle preferite della Haskins.» «Guarda la sua tomba, Maddy» dice Dahlia puntandole un dito contro come a volerla accusare di qualcosa. Sollevo il foglio che ho in mano e dico: «Grazie, ma sono due ore che la guardo». «No, no,» interviene Scheletro «osservala bene.» I suoi occhi brillanti a metà fra il giallo e il nero diventano via via più scuri e minacciosi e non lasciano spazio a repliche. «P-perché dovrei?» domando iniziando lentamente a radunare le mie cose senza dare troppo nell’occhio. «Tu... fallo.» E io lo faccio. Ma prima ancora di essermi voltata del tutto, so già a cosa si riferiscono. A un occhio attento, appare chiaro che la lapide non è di granito. È finto, come sono finti i fiori del vaso in finto ottone attaccato alla pietra tombale. «E allora? I suoi non erano ricchi, ma non significa che non le volessero bene.» «Guarda l’erba» dice Scheletro. «Non è venuto nessun altro a farle visita a parte te, questa settimana. Pensi a uno che muore giovane e t’immagini processioni di compagni di classe in lacrime che sfilano davanti alla tomba, lasciandoci sopra orsetti di peluche e poesie cariche di rabbia adolescenziale, e accendono candele in sua memoria. Ma per lei non è venuto nessuno; non manca a... nessuno.» «Manca a me» esclamo indignata. Scheletro ridacchia e guarda Dahlia. Dahlia ridacchia e guarda Scheletro. «Se ti manca tanto,» insiste Dahlia con voce tagliente «allora forse dovremmo fare un favore a entrambe e aiutarti a raggiungerla.» L’aria di colpo si fa gelida. «Ma come ti viene in mente di dire cose simili, Dahlia?» le chiedo. Scheletro, che nel frattempo si è seduto su una lapide, scivola giù come gelato sciolto che cola da un cono. «Forse ha ragione, Maddy. Dopotutto, chi altri a parte Hazel sentirebbe la tua mancanza?» Dahlia si porta al suo fianco e aggiunge: «Già. Non hai il ragazzo, non hai un gruppo, perciò, se anche un’altra delle studentesse della Haskins dovesse sparire, a chi diavolo vuoi che importerebbe? Direbbero “per fortuna era solo Maddy, almeno non ci starà male nessuno”». Scheletro scoppia a ridere e la sua risata è così secca che mi vengono i brividi. «Una volta che Hazel l’avrà superato, nessuno si ricorderà più di te.» Il sangue mi pulsa forte nelle vene e non riesco a smettere di deglutire. Ho rovinato il bassorilievo di Missy, lo so perché lo sto stringendo forte al centro. Li odio e li temo, non perché sono brutti e cattivi o semplicemente stupidi e arroganti, ma perché... hanno ragione. Chi sentirebbe la mia mancanza? Dunque, vediamo. Hazel, sicuro. Papà. E poi? Il Guasto? Ma per favore... Forse per una o due settimane, fino a quando un’altra ragazzina amante del rischio non gli offrirà un mela in cambio di qualche riproduzione di lapidi (le mie lapidi), e io finirò nel dimenticatoio. La Haskins? La Witherspoon? E... chi altri? Nessuno. Cinque persone, si contano sulle dita di una mano, e ad alcune farei più che altro pietà. Solo papà e Hazel mi vogliono davvero bene. La cosa peggiore, però, è che lo sanno anche questi due. Scheletro e Dahlia si stanno avvicinando, uno da destra e l’altro da sinistra, e la minaccia è concreta. Non si tratta solo di quello che hanno detto, perché magari... stavano scherzando, può essere, no? Mi prendevano in giro. Devono aver sentito me e Hazel parlare a bassa voce della Maledizione della Terza Ora stamattina. E quando casualmente mi hanno vista vagare per il cimitero dopo il tramonto, avranno pensato che – se si fossero lasciati scappare questa occasione – li avrebbero sbattuti fuori dal Club dei Cattivoni Prepotenti, può essere, no? Un ramoscello si spezza alle mie spalle. Mi volto per vedere cosa succede e sento un voce: «Lasciatela in pace». È poco più che un sussurro e un istante dopo Dane Fields appare alla mia destra. I suoi occhi sono neri, o forse grigi; non riesco a distinguere per via dell’ombra del cappuccio. Gli zigomi alti e marcati gli danno un’aria più dura che gentile. Porterà il quarantacinque e ai piedi ha un paio di scarpe da ginnastica nere tutte consumate e con i lacci annodati. Indossa un paio di pantaloni di velluto grigio sporchissimi e le cose sono due: o sono talmente vecchi da essere tornati di moda, o sono un nuovo modello super fashion. Ad ogni modo fanno parte della sua divisa da quando si è trasferito qui, quest’anno. Alla sinistra di Dane c’è la sua ragazza, Chloe Kildare, appena più bassa di lui e grossa il doppio. Scheletro continua ad avanzare ma più lentamente. «Non hai sentito cosa ti ha detto?» dice Chloe. «Sparisci!» Lancio un’occhiata a Chloe perché, anche se sembra volermi proteggere, non mi ha degnata ancora di uno sguardo. È vestita tutta di nero, il che non è una novità: pantaloni larghi neri, stivali alti neri, giacca nera, maglietta heavy metal rigorosamente nera con un tocco di rosso sangue, rossetto nero, caschetto nero che le incornicia il viso bianco cadaverico. «A me non m’interessa cos’ha detto» esclama Dahlia e noto che nel frattempo si è fermata. «Si dice “a me non interessa”, semmai» sibila Dane aprendo di una fessura le labbra pallide, quasi grigie, e a me scappa un sorrisetto perché è strano sentire un duro come lui correggere qualcuno in grammatica. Subito, però, lo faccio sparire, prima che Scheletro e Dahlia mi vedano e mi odino ancora di più. «E invece dovrebbe proprio interessarti.» I Cattivoni si scambiano un’occhiata e scoppiano a ridere. No, non è esatto. Sghignazzano. La loro risata ha un che di sinistro, di malefico, che ben si addice a un cimitero. O a una strega, a un fantasma, a qualcosa di maledetto. La risatina di Scheletro e Dahlia presto si tramuta in un ringhio profondo: digrignano i denti come animali feroci. Dane e Chloe avanzano lentamente con fare minaccioso appena uno dei due dice: «Toglietevi di mezzo, sfigati». Loro continuano a sghignazzare e a ringhiare, finché Scheletro non solleva un lungo dito bianco come la cera e fa cenno a Dahlia di andarsene. Scompaiono fra le ombre dei cespugli oltre il viottolo. Mentre si ritirano controvoglia, vedo i loro terribili occhi gialli brillare fra la vegetazione che circonda il perimetro esterno del cimitero. Aspetto che siano scomparsi, poi mi volto verso Dane. «Grazie, ragazzi. Non so nemmeno dirvi cosa sia successo. Io stavo solo...» «Ti conviene correre a casa da papà,» fa Chloe, raccogliendo il mio album e porgendomelo «prima di fare incazzare qualcun altro.» «Ma-ma, io non ho fatto niente.» Le prendo l’album di mano. «Io non volevo far incazzare nessuno. Me ne stavo seduta qui tranquilla, ci vengo sempre per ricalcare le lapidi, e all’improvviso sono apparsi quei due.» Chloe lancia un’occhiata a Dane, che nel frattempo si è messo a gironzolare intorno alla tomba di Missy Cunningham. «Be’, allora faresti meglio a cercarti un altro passatempo, Maddy. Non credo che il cimitero sia più un posto... sicuro... per te.» 4 UNA PROPOSTA (FIN TROPPO!) DECENTE «Oh, cavolo» esclamo per la seconda volta in un giorno, precipitandomi fuori dal cimitero con la borsa stretta al petto e voltandomi di tanto in tanto per assicurarmi che quei fantasmi venuti dall’oltretomba non mi stiano seguendo. Non lo fanno. All’improvviso sento una voce calda e profonda dire: «Dobbiamo smetterla di scontrarci così». Sollevo lo sguardo, esasperata: «Stamp?». È a metà fra una domanda, un’affermazione, un’esclamazione di sorpresa mista a vergogna e frustrazione. (Insomma sono felice di vederlo.) Lui non fa una piega ed è uno schianto con quel sorrisetto stupido sulle labbra e il ricciolo alla Superman che gli ricade sulla fronte. Mi aiuta a tirarmi su dal marciapiede su cui sono atterrata, sommersa da fogli da disegno spiegazzati e strumenti vari. Guarda alcuni dei miei precedenti lavori. «Ma che hobby allegro che hai, Maddy.» Io lo guardo male, sbuffo e gli strappo di mano l’album come se fosse lui quello con cui ce l’ho e non Scheletro e Dahlia. (O Dane e Chloe? Troppi mostri in così poco tempo.) «Te ne vai sempre in giro così di fretta, tanto per far cadere le ragazze?» «Non sempre» risponde con aria divertita mentre ce ne stiamo lì come due idioti davanti al cancello del cimitero. Mi aspetto ancora che da un momento all’altro quei quattro spuntino fuori dai cespugli e mi inseguano fino in cima alla collina, ma non sembrano intenzionati. Almeno credo. «Però mi piace fare una corsetta dopo gli allenamenti» dice. «E, per la precisione, eri tu quella che andava di fretta e mi è venuta addosso, un’altra volta.» Respiro a fondo e lo studio da capo a piedi. Porta un paio di pantaloni della tuta bagnati di sudore e una maglietta bianca con lo scollo a V altrettanto sudata: è proprio uno spettacolo. «Come scusa?» Sospiro. «Vai a correre dopo gli allenamenti di football? Di tua spontanea volontà?» «Sai, è una cosa abbastanza diffusa fra noi sportivi. Si chiama “tenersi in forma”. Dovresti provare anche tu, potrebbe piacerti.» «Guarda che corro anch’io.» Vorrei mostrargli i miei polpacci (scolpiti, o almeno così mi hanno detto) come riprova. «Ma non in questo modo, non voglio rischiare di andare a sbattere contro qualche vecchino innocente fermo sul marciapiede.» «Tu non eri ferma» mi corregge (in maniera adorabile) con quel mezzo sorriso timido appiccicato in faccia e le guanciotte rotonde come mele. «Sei uscita da quel cimitero veloce come una scheggia. Per una che come hobby disegna lapidi, non sembra che i cimiteri ti piacciano troppo.» Mi allontano furtiva dai cancelli e mi avvio a passo deciso su per la collina, se non altro per mettere quanta più distanza possibile fra me e i mostri. Lui mi segue mentre percorriamo fianco a fianco Pompano Lane. «Scusa» gli dico in tono più calmo, meno schizzato. «Di solito non sono così spastica.» «Nemmeno io. Sarai tu a farmi quest’effetto.» Poi si ferma di colpo e io lo imito, entrambi consapevoli che ha appena detto una cosa strana, troppo sdolcinata e fuori luogo visto che ci conosciamo da poco. Ricominciamo a camminare facendo finta di niente. Lungo tutto il tragitto, però, non posso fare a meno di pensare, Ha davvero detto quello che penso che abbia detto? Che ho... uno strano effetto... su di lui? Su di lui? Il ragazzo nuovo più figo della scuola dopo Dane Fields, che a sua volta era il più figo quando è arrivato? Sta davvero camminando ancora al mio fianco? Gli starò facendo quell’effetto anche adesso? E poi, che tipo di effetto è, esattamente? La collina non è molto ripida, né lunga, se è per questo, ma mi sembra una vita che camminiamo... Sia chiaro, la cosa non mi dispiace affatto. «Stai bene?» mi chiede alla fine, mentre ci avviciniamo alla casa di Hazel. «Non per vantarmi, ma laggiù praticamente ti ho fatto fare un volo dall’altra parte della strada.» «Sto bene e, ti dirò di più, ho anche esagerato un po’ per non sminuire la tua virilità.» «Che carina.» Cerco di evitare di guardare Hazel, che è ancora sullo step e si sta di nuovo sbracciando al di là della porta a vetri. «Buono a sapersi, almeno non ci rimango male la prossima volta che vado a sbattere contro una e la spedisco quattro metri più in là invece che due.» «Fammi capire» gli dico, un po’ per cambiare argomento e un po’ per distrarlo dallo spettacolo pietoso che Hazel sta offrendo alle mie spalle. «Vai a scuola, dopo la scuola hai gli allenamenti di football e poi... corri... ancora?» Allora lui abbassa lo sguardo triste e bisbiglia, come se mi stesse confidando un segreto: «Sono nuovo in questa scuola. E sono anche il nuovo kicker della squadra. Voglio solo fare bella figura». Io sbuffo e dico col fare deciso di chi in teoria sa di cosa sta parlando: «Guarda, Stamp, l’anno scorso abbiamo chiuso la stagione dieci a due. Te la caverai senza problemi». Lui scoppia a ridere: «Dieci a due sta per dieci vittorie e due sconfitte, Maddy. Eravate praticamente imbattuti». Me ne sto appoggiata alla station wagon di papà con un’espressione più stupida di quanto penso. «Ah, credevo che si indicassero prima le sconfitte e poi le vittorie. Ok... mmm... è un buon risultato, no?» Lui annuisce comprensivo e una goccia di sudore cade ai nostri piedi. «Più che buono, direi.» Segue uno strano silenzio e ne approfitto per sbirciare dentro casa quanto basta per vedere mio padre vagare in cucina. Ha messo una padella sul fuoco e lì accanto ha sistemato un bel filone di pane. Mi brontola lo stomaco e con l’acquolina in bocca penso, Evvai, sandwich al formaggio grigliato stasera. Mentre Stamp guarda la goccia di sudore accanto al suo piede, osservo Hazel fare una sorpresina a papà. Entra dalla porta sul retro e per poco non gli scatena un infarto quando appare in cucina. È curiosa come una scimmia. Di sicuro moriva dalla voglia di sapere come mai Stamp mi avesse riaccompagnata a casa, così è saltata giù dallo step, ha attraversato sei dei cortili dei nostri vicini (tre dei quali sono territorio di cani piuttosto grossi e uno mi sembra che abbia addirittura la recinzione elettrica), e si è infilata in casa mia per avere subito il suo scoop. «Maddy?» dice Stamp. Io sono intenta a guardare Hazel che zittisce mio padre ed entrambi si mettono a sbirciare sfacciatamente fuori dalla finestra che dà sul giardino. Stamp sembra un po’ spazientito, come se stesse parlando da ore e io non lo avessi ascoltato. «Mmm?» biascico in tono assente piazzandomi davanti a lui, di modo che non veda i due pagliacci che giocano a fare le spie nella mia cucina. «Hai sentito cosa ho detto?» Io sbuffo e mi mordo il labbro inferiore. «No, scusa... hai detto... qualcosa?» Esasperato, allora risponde: «Ne ho dette un sacco, di cose. Come per esempio... che Aaron Franks dà una mega festa a casa sua stasera e che magari potresti venire. Così potremmo trovarci casualmente nello stesso posto». Adesso tocca a lui sbuffare e mordersi il labbro. «Wow, hai detto tutto questo? Un attimo fa? Non posso credere di non aver sentito nulla. Neanche una sillaba. E pensare che di solito sono brava ad ascoltare.» Lui annuisce poi mormora qualcosa a metà strada fra mmm e ok e il risultato suona tipo «Mmmok». Finalmente il mio cervello pesca una parola: «Stasera?». In realtà sto già cercando di ricordarmi se per caso papà fa il turno di notte e, se sì, chi potrebbe accompagnarmici e che colore di mutande mettere (non si sa mai). Mentre mi trastullo con tutti questi dettagli, vedo il bicipite di Stamp, gonfio e lucido per via del sudore, spuntare dalla manica della maglietta e penso che mi piacerebbe un sacco ritrovarmelo sulle spalle di lì a sei ore. Così apro la bocca e dico: «Certo, perché no?». Lui sembra sollevato e per un attimo sono certa che stia per dire qualcosa di supermieloso, ma all’improvviso si ricorda che è un ragazzo ed esclama: «Figo». Poi si volta, mi fa un cenno di saluto e si avvia di corsa giù per la collina, come se fossimo migliori amici e io avessi appena fatto una puzzetta. Ha preso e se n’è andato, arrivederci e grazie. Lo guardo allontanarsi – o meglio, guardo una precisa parte del corpo – finché il suo adorabile fondoschiena sparisce dalla mia vista, solo allora mi giro e vedo papà e Hazel sulla soglia di casa che mi osservano come se mi fossero spuntate le corna da renna e il naso rosso, e questa fosse la notte di Natale. «Che c’è? Adesso va’ a finire che una non può scambiare due parole col ragazzo più figo della scuola in santa pace.» Il terzo grado inizia appena chiudo la porta. Io e Hazel ci sediamo una di fronte all’altra al tavolo della colazione mentre papà finisce di preparare i sandwich al formaggio grigliato che aveva iniziato a fare prima che Hazel irrompesse in casa. «Adesso spiegami cosa ci facevi in compagnia del tipo nuovo – il figo nuovo – per la seconda volta in un giorno» dice Hazel con gli occhi sgranati, quasi stesse parlando di una situazione unica, come vedere la cometa di Halley o l’eclissi solare. «Per la seconda volta, Maddy?» domanda papà sollevando la spatola di plastica unta davanti a sé come un reporter che brandisce un microfono. Io alzo gli occhi al cielo. «Sì...» «La prima li ho visti insieme fuori dall’aula di economia domestica» fa la spia Hazel. Mentre cerco di inventarmi qualcosa da dire, lei prosegue: «Quella poteva anche essere una coincidenza. Ma questa? Mi devi delle spiegazioni, non credi?». «Non c’è niente da spiegare, Hazel. È successo e basta. Stavo uscendo dal cimitero dopo aver ricalcato qualche lapide, lui stava tornando a casa dagli allenamenti di football e – bum – ci siamo scontrati.» «Non sembra un tipo molto coordinato, cara» nota papà girando il formaggio nella padella. «Sei sicura di volerlo prendere in considerazione come possibile futuro ragazzo? E se ti chiedesse di andare al ballo con lui e poi inciampasse rovinando il tuo ingresso trionfale? Di balli ce n’è uno solo.» Mentre il grasso sfrigola, a papà iniziano a scivolare dal naso le spesse lenti bifocali scure. Sorride, come se trovasse il tutto divertente. Quando apro la bocca per difendere Stamp, lui mi schiaccia l’occhiolino e torna ai suoi sandwich. Un istante dopo la cena è pronta e papà mangia di gusto; lui fa tutto di gusto. Lo osservo, strabiliata dalla velocità con cui divora il panino e poi si mette a fissare i nostri con occhi bramosi. Hazel, che evita il formaggio (e le uova, a quanto pare) come la peste, sbocconcella una fetta di pane, solo per educazione. (Con me dice – e fa – quello che le pare, ma quando c’è papà si trasforma in Miss Buone Maniere.) Nel momento in cui si accorge che lui sta osservando il suo piatto, mente spudoratamente: «Stasera la mamma prepara il pasticcio di carne e se mi riempio poi mi sento in colpa. Lo vuole lei, signor Swift?» «Oh,» dice lui, pregustando il bocconcino «se proprio insisti.» Hazel glielo fa scivolare sotto il naso e mi lancia un’occhiata circospetta mentre finisco il mio. Dopo che ho lavato i piatti e la padella straunta di papà, andiamo di sopra in camera mia e lei continua con l’interrogatorio. «Sicura che non ti abbia chiesto di uscire?» Si mette a gambe incrociate e giocherella coi fiocchi del mio cuscino verde acqua. «No, perché sembrava. So leggere il labiale e sono sicura che abbia detto “uscire” e “con me” nella stessa frase.» Mi metto a ridere. «No, non mi ha chiesto di uscire e, no, non c’è altro da dire.» Suppongo che mi dovrei sentire in colpa per non aver vuotato il sacco con Hazel, visto che è la mia migliore amica, giusto? Ma noi non siamo quel genere di amiche. Non ci piace fare le civette. È sempre stata lei quella carina, piena di amici, fidanzata, invitata al ballo ogni anno. Io sono sempre stata quella che le faceva le foto davanti casa, che mangiava la pizza in tuta, e attendeva vicino al telefono che lei tornasse a casa per ascoltare quanto si era divertita. Non mi piace come si comporta quando i riflettori sono puntati su di me, è anche vero che non capita spesso ma... Come quella volta, al secondo anno, che Humphries – il nostro insegnante di storia – e il tipo che si occupa delle elezioni dei rappresentanti di classe si sono confusi e hanno scritto il mio nome al posto di quello di Hazel sulla lista dei candidati. Una vera amica ci avrebbe riso sopra, mica erano elezioni statali o roba simile! E invece no. Hazel è andata dritta dritta da Humphries e ha preteso che venissero rifatte le votazioni, altrimenti avrebbe scritto una lettera al giornale locale intitolandola «Truffa manda a monte le elezioni alla Barracuda Bay». Lui l’ha accontentata, io mi sono fatta da parte e amen. Perciò da quella volta, quando mi capita qualcosa di bello – che so, prendo ottimo a un compito (soprattutto se Hazel prende buono), vinco un noleggio gratis da Blockbuster, ricevo venti dollari come regalo di compleanno dalla zia Maggie che vive in Texas, un figo mi invita a una festa di cui Hazel non sa nulla – me la tengo per me. Hazel ha già abbastanza fortuna nella vita, non ha bisogno anche della mia. Se lei sapesse della festa di stasera poi... non voglio neanche pensarci. Si metterebbe a dire a tutti che io e Stamp usciamo insieme e finirebbe per farlo vergognare come un cane, così il mio piccolo momento di gloria si trasformerebbe per l’ennesima volta nell’Hazel Show – e noi saremmo solo il suo pubblico. No, grazie; non questa volta, non stasera. Assolutamente non stasera. Voi non potete capire, fortune del genere di solito non capitano a me. Io sono quella che il primo giorno di scuola i ragazzi nuovi calpestano pur di fingere di scontrarsi con altre ragazze. Io sono quella a cui i ragazzi chiedono di uscire con la speranza che mi porti dietro anche Hazel. Io sono quella che il primo anno – per una frazione di secondo – ha perso l’occasione di sbattere contro il figo di turno, per poi scoprire che la tipa che poco dopo ci ha sbattuto contro davvero è diventata la sua nuova ragazza, e lo è rimasta per tutto l’anno. Ma, per quanto incredibile, oggi il destino ha voluto che fossi io a scontrarmici, non una ma ben due volte, che fossi io a salire sulla collina insieme a lui, a flirtarci un po’, e a essere invitata a una festa. Presto si renderà conto che non sono il genere di ragazza con cui normalmente esce uno come lui, che non sono abbastanza intraprendente, né tantomeno popolare, che non sono una facile e nemmeno sexy. Ma questo, stasera, ora, Stamp ancora non lo sa. Per qualche strana ragione – forse per via della sciarpa arancione che uso come cintura, per la conversazione brillante che abbiamo avuto, o semplicemente perché questo è il mio giorno fortunato – crede che la cara vecchia Maddy Swift sia degna di essere invitata a una festa. E se questo è il massimo a cui posso aspirare prima che cambi idea, be’, che mi venga un colpo se rischierò di trasformare il mio momento di gloria in quello di Hazel. Dopo diverse migliaia di domande, incredula, lei scuote la testa mentre la seguo giù per le scale. Quando raggiungiamo l’ingresso, mio padre è ancora in cucina che attinge da una confezione di gelato con un cucchiaio pulito. Ci sorride. Beccato. «Cosa le ho detto a proposito degli spuntini serali, signor Swift?» dice Hazel dandogli dei colpetti sul pancione. «Ma è povero di grassi, cara» risponde lui in sua difesa. Lei alza gli occhi al cielo per niente convinta, poi si appropria del cucchiaio e ne mangia un po’. (D’altronde, il gelato non può mancare nella dieta di una vegetariana stretta.) Mio padre le dà una pacca sulla spalla, si riprende il cucchiaio e torna ad affondarlo nella vaschetta, al diavolo Hazel e i grassi. Lo lasciamo al suo dessert e accompagno Hazel alla porta. Lei mi fa un cenno con la mano e si avvia giù per la collina con i codini rossi che le rimbalzano sulle spalle. È una scena che si ripete più o meno tutte le sere e non mi lamento. Torno dentro e vedo che papà ha preparato due ciotole di gelato. Ne mangio un po’ e nel frattempo mi chiedo come farò a entrare nella minigonna in similpelle che ho deciso di indossare alla festa di Aaron, così lascio il resto a lui. Papà divora la mia parte in tre cucchiaiate e chiede: «Allora, Maddy, dovrei preoccuparmi come Hazel del tuo nuovo spasimante?». Arrossisco. «Te lo giuro, non è il mio ragazzo. Stavamo solo... parlando.» «Sarà,» dice scrutandomi con i suoi penetranti occhi verdi da dietro le lenti bifocali «ma non ti ho mai visto così emozionata prima d’ora. Io adoro Hazel, è una di famiglia ormai. Ma se fossi davvero suo padre, non sarei così indulgente.» «Che vuoi dire?» «Tu sei una brava ragazza, Maddy. Lo sei sempre stata. Hazel appartiene a tutta un’altra specie e so che i suoi genitori le lasciano fare quasi tutto quello che vuole. Io non amo ripetertelo, tesoro, ma quando hai compiuto sedici anni, ti ho chiesto di rispettare solo tre regole, ricordi?» Oddio. Le tre regole di papà. Come potrei mai dimenticarle? Me le ripete un giorno sì e uno no. «Regola n. 1: niente appuntamenti a meno che non ti abbia già presentato il ragazzo in questione.» Poi aggiungo: «O la ragazza», tanto per mantenere viva la sua attenzione. Papà sorride, suo malgrado. «Regola n. 2: rincasare entro e non oltre le undici, ora e per sempre. Infine, regola n. 3» sospiro «non uscire di nascosto. Mai.» Lui sorride e – con fare apprensivo – aggiunge: «Ti voglio bene, Maddy. Per questo cerco di proteggerti. Se fossi tu il medico legale e avessi visto come il mondo tratta le persone – calpestandole senza pietà, giorno dopo giorno – vorresti che tua figlia rispettasse queste stesse semplici regole. Credo di non aver bisogno di ricordarti che la punizione per aver disobbedito è il divieto di parlare con Hazel per 72 ore e di guidare per una settimana». Annuisco sconsolata. Mi ha beccata solo una volta, ma è stato terribile. Non tanto perché non ho potuto guidare, anche se quando dice una settimana intende proprio sette giorni pieni, 168 ore. Non sei giorni perché ormai ho imparato la lezione, né 167,5 ore perché quel giorno è di buonumore. No, una settimana intera. La cosa peggiore è stata non parlare con Hazel: sono state le 72 ore più lunghe della mia vita. Deglutisco a fatica al pensiero di essere sul punto di infrangere tutte e tre le regole in una sola notte. «C’è una ragione particolare per cui hai deciso di ricordarmele questa sera, papà?» Lui ridacchia. «No, tesoro, tranne per il fatto che non hai ascoltato nemmeno una parola di quello che ho detto.» 5 GOCCE DI PIOGGIA SU DI ME Le parole di avvertimento di papà continuano a risuonarmi nelle orecchie dopo che si è addormentato e mentre mi infilo la gonna superattillata che tengo appesa nell’armadio da... sempre. Ho sentito tutto quello che mi ha detto eppure sono pronta a disobbedire. Scusate, ma voi che fareste? (Esatto, immaginavo.) Anche se al pensiero di vedere Stamp mi vengono le palpitazioni, faccio con calma perché non voglio che mi sequestri la macchina o mi vieti di sentire Hazel per non so quanto tempo. Sgattaiolo giù in punta di piedi e accosto l’orecchio alla porta della camera da letto di papà per assicurarmi che stia russando. Sono talmente paranoica che nonostante mi renda conto che è impossibile far finta di russare così forte, mi allontano piano piano e poi di scatto torno indietro per essere sicura che non stia fingendo. Non sta fingendo. Torno di sopra, piego a metà una banconota da cinque dollari (metti che per entrare bisogna pagare qualcosa) e la infilo in una pochette nera che ho comprato per la festa di Capodanno ma che non ho mai usato (per ragioni che non sto qui a spiegarvi). Ci infilo anche le chiavi di casa, uno specchietto e un rossetto, e la metto a tracolla come un fattorino. Apro la finestra ben oliata (grazie a una lattina di lubrificante che tengo nascosta sotto il lavello del mio bagno, dietro a una busta di batuffoli di cotone e una sfilza di creme per il viso) e cautamente mi calo giù dalla vecchia quercia. Non è una cosa che faccio spesso, sempre per colpa delle famose tre regole, ma quando ti ritrovi con un padre che lavora spesso di notte e con un’amica festaiola come Hazel, be’, è meglio essere pronti a tutto – non si sa mai. La strada è buia, deserta, silenziosa. Visto che soffia una brezza fresca sono felice di aver raccolto i miei capelli neri in una semplice coda. Mi dispiace di aver mentito a papà, e spudoratamente per giunta. Mi dispiace ancor più di fargliela sotto il naso, ma quando la sorte ti fa scontrare per ben due volte in un solo giorno con un ragazzone di un metro e ottanta, non puoi che assecondarla. (E agire di conseguenza.) C’è la possibilità che Stamp mi abbia preso in giro, che sia solo un brutto scherzo, ma non credo. Mi è sembrato gentile e sincero, e anche se questa notte non dovessi ricavarci nulla – nemmeno un bacio, una coccola o un buffetto sulla guancia –, per una volta avrò io qualcosa da raccontare a Hazel domani. Mi avvio lungo il marciapiede e da Marlin Way svolto a sinistra su Palm Street. In lontananza, per la precisione sei isolati più in là, riesco a vedere la casa di Aaron illuminata a festa come un albero di Natale, in cima alla collina che si affaccia su Bluefish Bay. La tengo come punto di riferimento mentre prendo delle scorciatoie per guadagnare un po’ di tempo e non dover patire troppo il freddo. Il primo tuono rimbomba minaccioso mentre attraverso Mullet Manor, ma ormai ho lo sguardo così fisso sulle luci intermittenti della casa di Aaron che niente può fermarmi. Il cemento è freddo e liscio a contatto con le suole delle mie scarpe basse (per fortuna non ho messo i tacchi che avevo comprato in pendant con la gonna). Ogni volta che penso di essermi persa, alzo lo sguardo e le luci sulla collina mi spingono ad andare avanti. La luna risplende nel cielo e solo di tanto in tanto le nuvole oscurano l’enorme disco argentato. Ormai sono troppo vicina alla casa di Aaron per tornare indietro: ancora qualche isolato e arriverò ai piedi della collina. Inizia a piovere mentre imbocco con passo furtivo il vicolo dietro al fruttivendolo. All’inizio è solo una pioggia leggera, piccole gocce che cadono sulla mia camicetta bianca nuova e che spero si asciugheranno presto. In Florida è così: il cielo a volte si spalanca rovesciando sulla terra un centimetro di acqua nell’arco di cinque minuti, poi in un battibaleno si richiude e torna perfettamente azzurro e deliziosamente asciutto. È evidente che non è questo il caso, perché al massimo si va da una spruzzatina a una pioggerella fine e insistente. Non è di quelle piogge che ti entrano negli occhi o ti costringono a piegare la schiena, ma il ritmo monotono con cui cade, se possibile, è ancora più fastidioso. La coda prima mi si arriccia, poi si divide in ciocche bagnate e infine è completamente fradicia. Le scarpe imbarcano acqua sprofondando in pozze altezza caviglia che diventano più grandi e profonde a ogni passo. Spero ancora di poter raggiungere la casa di Aaron sana e salva, prima che il temporale arrivi qui. Ma mi sbaglio. I lampi si trasformano in rombi assordanti, le pozzanghere in stagni e i nuvoloni si avvicinano a velocità impressionante. Le cose sono due, o vado avanti o torno indietro, e poiché sono molto più vicina alla casa di Aaron che alla mia... vado avanti. Sono quasi arrivata, devo solo attraversare l’ultimo tratto di Crescent Cove e ci sono, quando all’improvviso va via la luce. In tutto il circondario. Sento il tuono, vedo il lampo e... zap! Non vedo e non sento più... nulla. Parliamoci chiaro. Vivo in Florida da sempre, è una vita che nuoto mentre piove, che guardo i temporali dalla finestra e non mi sono mai spaventata; ho sentito fulmini cadere così vicino da farmi venire la pelle d’oca, eppure mai uno così... vicino... prima d’ora. Mi risveglio qualche minuto dopo, a faccia in giù in una pozzanghera (ma che schifo), mi tolgo il fango dal mento e mi metto a sedere. La pioggia si è trasformata in una nebbiolina leggera, l’aria è ancora carica di umidità e il cielo terso. La luna è tornata e osservo le mie mani illuminate dai suoi raggi: sono tutte sporche di fango. Le maniche della camicia? Ancora peggio. Mi guardo e scopro che la camicia non è soltanto macchiata, è anche diventata trasparente e s’intravede il push-up. Non oso pensare di presentarmi alla festa di Aaron in maglietta bagnata. (Ok, ok, è una camicetta da sfigata... e allora?) Mi si ferma il cuore. Recupero lo specchietto dalla borsetta, lo apro e mi ritrovo davanti la mia faccia pallida e inespressiva che si sforza di non piangere. Sembro un cadavere riesumato. Nel vero senso della parola. Il fango sarebbe il meno. Ho i capelli spiaccicati sulla testa, il trucco sciolto, il rossetto sbiadito, dei cerchi scuri intorno agli occhi e... non può essere... e invece sì... dalla cima della testa parte una nuvoletta di fumo. Gemendo mi alzo in piedi. Non posso proprio presentarmi alla festa di Aaron come la Piccola Fulminata con la Maglietta Bagnata. Per un attimo immagino la festa, i bicchieri rossi, la birra, le luci, la musica house e i magnifici bicipiti scolpiti dell’altrettanto magnifico e scolpito Stamp, poi mi volto e lentamente m’incammino verso casa. Scusate, ma voi che fareste? Salireste di corsa fino in cima alla collina, tutti sporchi e bagnati, urlando il nome di Stamp a più non posso? Vi giuro che vorrei tanto farlo, ma per quanto disperata anch’io ho una (specie di) reputazione da difendere. Ormai è tardi, sono fradicia, ho freddo, non so più nemmeno da quant’è che sono fuori e voglio solo andare a casa prima che un altro fulmine mi colpisca. Il fatto è, però, che nel cielo non si vedono più lampi e non tuona nemmeno. Quando il temporale è iniziato, la luna era alta in cielo, mentre ora ha quasi raggiunto l’orizzonte. Forse sto immaginando tutto o forse sono le nuvole a confondermi. Allora guardo verso la casa di Aaron, sulla collina, e mi accorgo che è buio. Non c’è nemmeno una lucina soffusa, e l’atmosfera è inquietante, come se gli invitati se ne fossero andati a casa. Grandioso. La festa è stata annullata, io cammino per mezz’ora sotto la pioggia, e nessuno si degna di avvertirmi? Mentre torno a casa piove ancora e mi chiedo cosa sia questa specie di sfrigolio che proviene dalla mia testa. Non sento dolore, ma il rumore è simile a quello che fa l’hamburger a contatto con una griglia bollente. Mi sento un po’ irrigidita. Suppongo sia normale essendo stata investita da uno tsunami in piena notte. Se ti cade un fulmine vicino e perdi i sensi, dovrai pur sentirti un po’ strano, no? Solo quando arrivo a casa e mi controllo il battito cardiaco, capisco di sentirmi rigida perché sono morta. 6 SEI UNO ZOMBI SE... Di ritorno dalla mia scappatella notturna, non sento alcun rumore provenire dalla casa. E, ahimé, nemmeno dalla mia cavità toracica. Sì, proprio così, non c’è né battito cardiaco, né respiro. In camera mia, mentre mi guardo allo specchio per controllare se mi sono graffiata o ferita un’orbita oculare o roba del genere, di colpo capisco come mai tornando verso casa la pioggia mi era sembrata particolarmente pungente: ho un gigantesco buco nero in cima alla testa. E capisco anche un’altra cosa: il fulmine non è caduto vicino a me, è caduto su di me. Mi chino per osservare meglio il mio cranio allo specchio. L’acqua che mi impregna i vestiti sta gocciolando a ritmo regolare sulla moquette della mia camera, ma sapete una cosa? Chi se ne frega. Là dove in teoria la cute dovrebbe essere bianca come il latte sotto i capelli è color carbone, e proprio in cima alla mia testa c’è un foro circolare quasi perfetto. Sollevo una mano pallida come la neve e, dopo qualche tentativo fallito, mi decido a toccarlo. La superficie è irregolare ma dura come quella di un pezzo di marmo. I capelli intorno al cerchio sono un po’ bruciacchiati. A dire il vero, ora che sono nella mia stanza con le finestre chiuse, avverto lo stesso odore di quando durante l’ora di chimica per sbaglio avvicini troppo il braccio al becco di Bunsen, ma non fa poi così male. (Di sicuro non quanto svegliarsi in una pozza di fango e scoprire che non ti batte più il cuore.) Poi osservo la mia faccia. Il fango mi cola giù per le guance e mi tappa il naso (bleah), ma la cosa peggiore sono i cerchi scuri che ho intorno agli occhi. Eppure, non sono stata via tanto, no? Almeno non da ridurmi così... male... di punto in bianco. Non riesco più a sopportare di guardarmi allo specchio, così mi volto verso la sveglia sul comodino. Grosso errore. È l’1:48 del mattino. Ma... ma come? Non può essere. Sono uscita che erano appena le 22:30. Facciamo due conti: 5 minuti per arrivare in fondo alla via, altri 15 o 20 per attraversare vicoletti e scorciatoie, 25 o giù di lì per rendermi conto che la festa era stata annullata e tornare indietro, quindi al massimo dovrebbe essere trascorsa un’ora. Dovrebbe essere mezzanotte, a dir tanto. E allora come fanno a essere quasi le 2? Mi appoggio al comò, faccio mente locale e realizzo che non sono stata a faccia in giù nella pozzanghera per qualche minuto, ma per ore. Così cambia tutto. Come si fa a stare con la faccia immersa nell’acqua e nel fango per un paio d’ore? Questo può voler dire solo una cosa... sono morta, sbaglio? Eppure sono qui, a casa mia, nella mia stanza, sto guardando l’orologio, c’è la luce accesa e i miei piedi sono ben piantati sul pavimento... si può essere morti e allo stesso tempo stare in piedi? Come può una morta tornare a casa dopo una festa a cui non ha mai partecipato, arrampicarsi su un albero, aprire la finestra, entrare in camera, accendere la luce e toccarsi il cratere fumante che ha in cima alla testa? Lì per lì penso di essere – non ridete – un fantasma. Altrimenti come si spiega il fatto che mi sono alzata e me ne sono andata dopo essere stata colpita da un fulmine nel bel mezzo della notte? Purtroppo però non riesco a passare attraverso i muri e se mi guardo allo specchio vedo la mia immagine che mi fissa. Sono vestita male, ok, ma non faccio mica paura. Allora, cosa sono? Sono morta – niente battito, niente pulsazioni – ma non sono un fantasma, strano no? Dunque, cosa potrei essere? C’è dell’altro: non respiro. Non che lo faccia spesso, ma di solito – quando mi arrampico sulla vecchia quercia e salto dal ramo più alto dentro camera mia – mi viene il fiatone. Non come se avessi appena partecipato alla corsa campestre di fine anno, ma sono comunque esausta. Invece ora? Niente. Non mi ero resa conto di non respirare mentre tornavo a casa, ero già abbastanza preoccupata per la mancanza di battito cardiaco, e adesso? Comincia a essere un problema. I miei polmoni funzionano ancora, ma solo quando ci penso, allora a comando si riempiono d’aria. Proviamo. Inspiro, espiro, come se fossi dal dottore. Perfetto. Funziona. Vediamo se riesco a sussurrare: «Prova, prova... uno, due, tre». Molto bene. Sembrerò anche stupida in piedi nella mia stanza alle due del mattino, con la luce accesa, completamente fradicia, a contare fino a tre, ma almeno adesso so che posso ancora parlare. Faccio un piccolo esperimento: mi metto davanti all’orologio, attendo finché magicamente non segna l’1:52, poi trattengo il respiro. Mi tappo il naso pieno di fango, serro le labbra, e gonfio le guance a mo’ di pesce palla e... aspetto. 1:53. Niente. 1:54. Zero. 1:56. Nada. 2:00. Ancora niente. Dopo otto minuti (continuerei fino a dieci ma sto iniziando ad annoiarmi) apro la bocca e... niente. Neanche un respirone; non mi sento la testa leggera e non sono affannata, non sento... niente. Dovrei chiamare la polizia? No, perché, sono 15, se non 20, minuti che sono tornata a casa. (Senza contare il paio di ore che ho trascorso con la testa nella pozzanghera.) E se fossi in stato di shock? Se avessi le allucinazioni? E se decidessi di non denunciare l’accaduto, mi distendessi e mi addormentassi... per non svegliarmi più? Ma cosa gli direi? «Sì, salve agente, mmm, mi rendo conto che potrebbe suonarle un po’ strano, sembra uno scherzo in effetti, ma sono morta da qualche ora e vorrei tanto parlarne con qualcuno. Per caso c’è un esperto di casi difficili nei paraggi? Uno specialista di fulmini? Magari potrebbe indicarmi il nome di una sacerdotessa vudù o di uno sciamano alle vostre dipendenze, o semplicemente qualcuno che sappia usare le tavole Ouija? Come dice? No, non mi serve il numero dei Servizi Psichiatrici, la ringrazio; ho solo bisogno di parlare con qualcuno che... pronto?» Mentre cammino avanti e indietro nella mia stanza, agitando le dita come se questo servisse a rimettermi in moto il cuore, un brivido mi attraversa la schiena. Be’, non è proprio un brivido. Non esattamente. È come se qualcuno avesse abbassato di colpo il termostato – dentro il mio corpo, però; sono passata da 37 gradi a 20 in una frazione di secondo. Ma. Che. Diavolo. Succede? Decido di andare su internet. Digito la parola «fulmine» su Google, con la speranza che un qualche sito mi spieghi... qualcosa. Magari esiste un blog che si chiama www.nonseimortamaddy.com e contiene la lista dei sintomi registrati da chi è stato colpito da un fulmine. E anche una diagnosi, ovvio, del tipo «Beviti una tazza di latte caldo, Maddy, fatti una bella dormita e domani mattina il cuore e i polmoni riprenderanno a funzionare come sempre e, quando arriverai davanti casa di Hazel, ti sarai scordata tutta questa storia». (Magari non dirà esattamente così ma... fa lo stesso.) Che ci crediate o no, non trovo un bel niente. Tranne un paio di curiosità sui fulmini. Nella fattispecie: sapevate che in media un fulmine contiene 1 milione di volt di elettricità? E che alcuni possono raggiungere anche 30 milioni di volt? E sapevate, invece, che a un medico basta caricare i defibrillatori cosparsi di vasellina di circa 5000 volt per rianimare una persona? Dunque, se bastano poche migliaia di volt per salvare una vita, perché un milione – per non dire 30 milioni – non potrebbe spedirti... nell’oltretomba? È forse questa la ragione per cui non mi batte più il cuore ma sono ancora tecnicamente viva? Come può una creatura dell’aldilà non avere pulsazioni? O restare a faccia in giù nell’acqua per due ore? Come fa a non aver bisogno di respirare? So per certo che i vampiri hanno pulsazioni perché, correggetemi se sbaglio, fino a prova contraria il sangue è il loro dio. I lupi mannari sono sempre tutti affannati dopo aver inseguito un povero mortale, oppure sputano saliva e sbavano quando si preparano ad attaccare, perciò ne deduco che i loro polmoni da non-morti funzionino alla grande. I fantasmi? Chi se ne importa, tanto non sono una di loro. Le mummie? Non siamo in Egitto e non mi sembra proprio di avere le gambe avvolte nella carta igienica. Frankenstein? Non vedo nessuno scienziato pazzo nelle vicinanze. Resta solo una possibilità, perciò con mani tremanti digito su Google «caratteristiche fisiche di uno zombi» e, una volta saltati tutti i link sulla Notte dei Morti Viventi, mi imbatto in un sito che potrebbe essermi utile, www.seiunozombise.blogspot.com. Con mia grande sorpresa, al suo interno trovo un test che s’intitola «Sei uno zombi se...» e, incredibile ma vero, inizio a farlo... seria e con la lingua di fuori, come se da questo dipendesse la mia vita – ultraterrena o meno che sia. Ecco cosa dice il test: DI RECENTE HAI AVUTO UN’ESPERIENZA DI ANOMALIE ELETTRICHE, PER ESEMPIO SEI ANDATA A SBATTERE CONTRO UN PALO DELLA LUCE, I POLIZIOTTI HANNO USATO IL TASER CONTRO DI TE (ED ERI IN PIEDI SU UNA POZZANGHERA), HAI TRASCORSO LA NOTTE IN UNA CENTRALE ELETTRICA, TI HA COLPITO UN FULMINE O COSE DEL GENERE? SÌ. E grazie per aver usato la parola «anomalia» nel contesto giusto. DI RECENTE HAI PERSO CONOSCENZA PER UN PERIODO PROLUNGATO DI TEMPO E QUANDO TI SEI SVEGLIATO TI SENTIVI... STRANO? So che non si risponde a una domanda con un’altra domanda ma... restare privi di sensi con la faccia immersa in una pozzanghera per due ore intere e svegliarsi senza battito cardiaco conta? SÌ. AL MOMENTO TI BATTE IL CUORE? NO. Neanche un po’. DI RECENTE TI SEI SENTITO AFFATICATO, A CORTO DI FIATO? Non respirare è un po’ come essere a corto di fiato? Allora... SÌ. E mi sento così tutt’ora. SEI RIUSCITO A DORMIRE DOPO L’ANOMALIA ELETTRICA? NO. È notte fonda e non sono stanca nemmeno un po’. IMPROVVISAMENTE HAI UN’INSPIEGABILE, IRRESISTIBILE VOGLIA DI MANGIARE... CERVELLI? Mmm, non saprei ma... ora che mi ci fate pensare... effettivamente... SÌ. Assolutamente. Sì. Dopo aver risposto a tutte le domande premo invia e per un attimo sullo schermo non appare un bel niente. Lì per lì penso, Fantastico, niente battito, niente respiro... e adesso è andata via anche la luce. Cos’altro devo aspettarmi? Che un mega buco del lavandino risucchi tutta la casa? Eppure nella stanza la luce è ancora accesa, l’aria condizionata funziona e il computer emette il suo solito ronzio, quindi non si tratta di questo. Improvvisamente lo schermo inizia a lampeggiare di rosso e appare il seguente messaggio: ATTENZIONE: Le risposte che hai fornito suggeriscono che POTRESTI essere uno zombi. I neozombi DEVONO ingerire un cervello entro 48 ore dalla rianimazione per non correre il rischio di morire... del tutto. Se non desideri rimanere uno zombi, ignora questa parte. Se invece hai ancora voglia di vivere, spiacente, ma DEVI MANGIARE UN CERVELLO. 7 CERVELLI AL BANCO Strano a dirsi, ma al supermercato aperto 24 ore su 24 giù all’angolo non hanno una gran scelta di cervelli. Che ci crediate o meno, non sembrano nemmeno gradire che qualcuno glieli chieda. Di certo non ha gradito il ragazzino mezzo addormentato che era di turno all’unica cassa aperta, la notte in cui sono diventata uno zombi. «Ciao, salve, senti, mmm... Tad? Sì, Tad, avrei bisogno di... be’, insomma... mmm... il nonno... viene a trovarci questo fine settimana e... so che sembra assurdo ma lui va matto per il cervello. Dài, non mi guardare così. Sarà perché gli ricorda la sua infanzia, quando lo mangiava alla fattoria, chi lo sa... be’, hai idea di dove possa trovarne uno?» «Tad», o almeno così si legge sulla sua targhetta, mi attraversa con lo sguardo, si dà un’occhiata intorno, poi si gira verso il parcheggio, insomma guarda ovunque tranne che nella mia direzione. Alla fine dice: «Molto divertente», e mi punta gli occhi addosso come per sfidarmi. «Sono troppo sveglio per cascarci, anche se sono le due del mattino e oltre te non c’è anima viva nel raggio di chilometri.» «Non è uno scherzo, Tad. Dico sul serio. Al banco carni ho cercato dappertutto, c’erano confezioni di fegatini di pollo, frattaglie di maiale – o qualcosa di simile, non ho voluto indagare –, perfino un’enorme lingua grigiastra di mucca... ma niente cervelli. Allora, dove posso trovarne? Sono pur sempre una cliente» e tiro fuori il rotolo di banconote da venti dollari che papà tiene nascosto nella scatola dei biscotti per le emergenze (ditemi voi se questa non è un’emergenza). «Giuro che non ti sto prendendo in giro.» Lui sospira, si china su un microfono a stelo accanto alla cassa, preme un bottone alla base e dice: «Harvey, ti mando una tizia che vuole a tutti costi del, tieniti forte... cervello... Pensaci tu, ok? Non è il caso che se ne vada in giro a spaventare i clienti». Se la ride sotto i baffi ma a me non importa. L’immagine di brandelli di carne che iniziano a cadermi di dosso nel bel mezzo del supermercato è sufficiente a convincermi ad andare al banco del macellaio e a chiedergli il cervello che mi spetta. Harvey mi sta aspettando con uno sguardo interrogativo stampato sulla faccia da tonto che si ritrova, il polso peloso che gli spunta dalla manica e un enorme orologio d’argento che stona un po’ col camice macchiato di sangue. «Ma signorina, lo sa che ore sono?» «Sono le 2:27 del mattino» rispondo dando una rapida occhiata all’orologio vecchio stile appeso alla parete alle sue spalle. Harvey guarda in su e si gratta la testa attraverso la retina per capelli. «Eh già. Pensa che non dovrei nemmeno essere qui, il mio turno inizia più tardi, ma abbiamo una grossa consegna di fese di tacchino fra poche ore e chi mai rifiuterebbe di fare un po’ di straordinari di questi tempi, giusto?» «Giusto» dico leggermente a disagio. Non ho mai lavorato in vita mia, figuriamoci se posso parlare di straordinari. «Perché no?» Lui mi studia da cima a fondo, poi sbuffa e domanda: «Vuoi davvero del cervello? Sei proprio sicura? Guarda che è grassissimo». Sto per rispondergli grazie mille ma porto la 40, quando lui solleva le mani davanti a sé e continua: «Non che tu abbia bisogno di tenere sotto controllo le calorie. Lungi da me. È solo che so come sono le ragazzine di oggi. Ad ogni modo, mi spiace ma non posso darti del cervello». A quel punto Harvey, notando che mi è caduta la faccia sul pavimento di linoleum, si affretta ad aggiungere: «Non cervello di mucca, perlomeno. Sai, per via di tutta quella storia della mucca pazza. E nemmeno quello di maiale, a causa dell’influenza suina. Ma... sembra che quello d’agnello non crei problemi, perciò posso dartene uno di due giorni fa. Quanti etti ne vuoi?». «Etti?» chiedo incerta. Sul sito non c’era scritto quanto bisognava mangiarne – o quanti –, diceva solo che è necessario consumarlo entro 48 ore, altrimenti sei SPACCIATO. Perché nessuno oggigiorno è più attento ai dettagli? Cosa gli costava aggiungere una riga tipo, Per la precisione, Maddy, sappi che un chilo e mezzo basta e avanza? Possibile che sia l’unico neozombi ad avere questo dubbio? «Sì, cara» risponde Harvey mentre sottovoce maledico l’amministratore del blog. «Questo è un negozio di alimentari, le pesiamo le cose prima di venderle.» «Be’, quanti chili di cervello d’agnello puoi darmi?» (Mentalmente aggiungo questa domanda alla lista delle cose che non avrei mai immaginato di chiedere a un adulto alle 2:27 del mattino.) Lui alza gli occhi al cielo. «Quanti ne vuoi, tesoro, ma ho bisogno di sentirmi dire un numero preciso prima di poterli pesare.» «Allora facciamo quattro chili abbondanti» sbotto, aspettandomi da un momento all’altro di vedere spuntare – da dietro il banco del pesce – un poliziotto pronto ad arrestarmi per abuso di materia grigia. E invece no, il caro vecchio Harvey si dà un’altra grattatina alla testa come se fosse normale sentirsi chiedere quattro chili di cerebro spugnoso, e inizia a fischiettare con uno stecchino umido fra i denti. «Quattro chili.» Lo dice senza sarcasmo, poi scompare nel retro attraversando cinque strisce sudicie di plastica che penzolano dalla struttura in metallo della porta fino al pavimento di piastrelle rosse. Mentre Harvey mi serve, passeggio impaziente davanti alle bistecche, ai tagli freschi, alle cosce di pollo e alle lombate di maiale. In filodiffusione si sente una canzone dei Beatles: è un pezzo strumentale, supersdolcinato, ma non riesco a ricordare il titolo. Per essere una canzone scritta (su tavolette di pietra) più o meno l’anno in cui mio padre è nato, è stranamente orecchiabile. Melensa ma orecchiabile. Sono ancora lì che mi scervello, quando qualcuno alle mie spalle dice: «The Fool on The Hill.» «Eh?» mi giro e mi trovo faccia a faccia con... niente popò di meno che Chloe Kildare che mi fissa, con i capelli neri, l’ombretto nero, la matita nera, il rossetto nero, il neo nero, gli occhi neri, insomma tutto nero. Mi sorride con la lingua piena di piercing che fa cucù da dietro i denti giallognoli. «The Fool on the Hill» ripete. «È il titolo della canzone dei Beatles a cui stavi pensando.» «Ecco!» esclamo con un po’ troppo entusiasmo, vista l’atmosfera macabra che aleggia attorno al banco del macellaio. Chloe sbuffa, guarda verso la corsia deserta alla nostra sinistra, poi guarda a destra e mi dice: «Cosa ci fai qui?». «Cosa ci fa tu, qui?» ribatto. Nel caso non l’aveste ancora capito, Chloe è la regina dei dark della Barracuda Bay, perciò non è poi così strano vederla aggirarsi per un supermercato a quest’ora. Mi torna in mente l’ultima volta che l’ho vista: nel cimitero, in piedi al mio fianco, era intenta ad allontanare da me Scheletro e Dahlia con fare incredibilmente minaccioso. Mi aveva seguita? Mi ha seguito anche ora? E dov’è Dane, il suo ragazzo, nonché anima gemella? (Sono sempre insieme, così ti viene spontaneo chiedertelo, anche se stai acquistando quattro chili di cervello alle due e mezza del mattino.) Senza dare troppo nell’occhio spio il contenuto del cestino verde del supermercato che stringe in mano e vedo esattamente quello che mi sarei aspettata di vedere nel cestino di un dark sfegatata come lei: cipria bianca da quattro soldi, rossetto nero da quattro soldi e smalto nero sempre da quattro soldi. All’improvviso Chloe si volta verso la corsia accanto, alza gli occhi al cielo e sospira. «Li hai trovati, Dane?» Dane Fields, re dei dark, lancia una confezione di candele nere da quattro soldi e una di fiammiferi nel cestino. «Sì, erano dove avevi detto tu. Ciao, Maddy, che ci fai qui?» «Che strano» esclama Chloe mentre un po’ a disagio sposto il peso da un piede all’altro e le sorrido. «Le ho appena chiesto la stessa cosa. E sto ancora aspettando la sua risposta, a dire il vero.» Do un’occhiata alle mie spalle, sperando che Harvey se la prenda comoda con i miei quattro chili di cervello. Poi lentamente... molto lentamente... mi allontano dal banco frigo e afferro la prima cosa che capita da uno scaffale. «Niente, ragazzi. Ho aperto la dispensa e mi sono resa conto che era finito» – solo allora guardo quello che ho in mano: un deodorante da piedi per sportivi (ma stiamo scherzando?) – «questo, così sono uscita di corsa per... comprarlo.» «Ma che brava... donnina di casa che sei» dice Chloe che non se la beve neanche per un secondo. Una cosa gliela devo concedere: ha un sorriso che fa venire i brividi. Tanto per cominciare è alta, ma con indosso quegli anfibi neri e le calze a rete, lo è ancora di più: è un gigante in confronto a me. La studio in volto per capire se è ancora arrabbiata per avermi dovuto salvare le chiappe al cimitero. Chloe sembra sempre arrabbiata, ma in questo momento non più del solito. E a giudicare da come mi guarda Dane, quando Chloe non vede (o mi sto immaginando tutto?), nemmeno lui è dispiaciuto di vedermi. Dane le dà un colpetto col gomito ossuto e afferra una bomboletta di spray antifunghi, la lancia nel cestino e mi guarda. «Lo compro sempre anch’io, Maddy. Hai buongusto: questa roba funziona che è una meraviglia.» Se dovessi pensare all’esatto contrario di uno come Stamp Crosby – robusto, aitante, un po’ scimmione, superpalestrato, perfetto animale da festa, coi capelli neri e gli occhi castani –, penserei subito a Dane Fields, con la sua pelle chiara, i fianchi spigolosi, le dita affusolate, i capelli biondi tagliati corti, i jeans neri, la maglietta bianca e l’immancabile felpa nera col cappuccio. Suppongo che questo sia il motivo per cui sono segretamente innamorata di lui (ssshhhhh) da mesi, da quando cioè l’ho visto arrivare il primo giorno del primo anno (ahimé, in compagnia di Chloe), alto, imbronciato, con l’aria scostante e misteriosa. Ma lui non mi ha mai degnato di uno sguardo. (Fino a oggi, quando mi ha difeso da due mostri che minacciavano di farmi molto male in un cimitero, dopo il tramonto.) Mentre la conversazione, ammesso che ce ne sia una, langue, mi allontano sempre più dal banco del macellaio, nascondo lo spray per i piedi dietro la schiena e dico: «Sentite, ragazzi, riguardo a quello che è successo prima...». «Devi stare più attenta» m’interrompe, Chloe come se non aspettasse altro che l’occasione di rimproverarmi. «E poi, da quando in qua uno se ne va al cimitero a disegnare lapidi dopo il tramonto, eh?» «A me piace» rispondo, un po’ sulla difensiva. «Mi rilassa e poi non ho mai avuto problemi prima d’ora.» Chloe batte lo stivale destro contro il sinistro. Allora Dane si decide a darmi una spiegazione: «Quello che Chloe sta cercando di dirti è che Scheletro e Dahlia sono tipi pericolosi, tutto qui. Stai alla larga da loro». A me scappa da ridere, ma nessuno dei due dark sembra in vena di scherzi. «Mi sembra un po’ esagerato, ragazzi. Voglio dire, ci sono più di 600 persone alla Barracuda Bay. Che dovrei fare? Chiudermi in casa a studiare fino al diploma?» Loro non rispondono. Non subito, almeno. Ci guardiamo la punta dei piedi finché Dane non si schiarisce la voce: «Non hai paura della Maledizione della Terza Ora?». Sbuffo e, senza farlo apposta, li ricopro di saliva. «Anche voi due ci credete?!» «Dico sul serio, Maddy. Tu frequenti economia domestica, sai bene cosa sta succedendo. In classe muoiono tre ragazze nell’arco di tre mesi e tu trovi ancora il coraggio di andare al cimitero quando fa buio?» «Tanto per cominciare, Dane, questa storia della maledizione è una stronzata. Secondo, tutte e tre sono morte accidentalmente, in momenti diversi e lontano dal cimitero. Allora io potrei chiedervi, non avete paura di andare al supermercato dopo mezzanotte? Ma dài!» «Maddy, stava solo cercando di spiegarti che c’è un tempo per le cavolate e uno per la prudenza» risponde Chloe. «Dopo tutte queste morti, forse è il caso di essere prudenti.» Sbuffo di nuovo. «Bene, vorrà dire che inizierò quando lo farete anche voi.» Chloe sta per ribattere ma Dane la ferma. Restano immobili a guardarmi mentre il ronzio dei neon sopra di noi sottolinea ancora di più quello strano silenzio. Dopo un po’ scrollo le spalle. Sono le due e mezza del mattino, il cuore non mi batte più, non respiro e la conversazione sta prendendo una piega un po’ troppo surreale per i miei gusti. Rinuncerò al cervello – che idea idiota a pensarci bene –, andrò a casa, mi addormenterò e al mio risveglio capirò che è stato solo un brutto sogno. E se così non fosse? Be’, secondo quel sito sugli zombi (che, diciamoci la verità, potrebbe essere il frutto della mente malata di un moccioso di dieci anni che vive a Timbuctù), avrei ancora 24 ore per tornare al negozio e riformulare la mia richiesta. Allontanandomi lentamente, sollevo il deodorante e lo agito in aria così che entrambi possano vederlo, ma d’un tratto una voce tuona alle mie spalle: «Ecco qui i tuoi quattro chili di cervello, piccola». Subito dopo Harvey il macellaio esclama: «Chloe! Dane! Siete tornati?». Mi giro verso Harvey e gli dico: «Tu la conosci?», proprio mentre Chloe fa esattamente la stessa cosa. Lui non ci fa caso e mi porge tre fagotti avvolti in una carta spessa che pesano proprio come dovrebbero pesare quattro chili di cervello. «Certo che la conosco» mi risponde. «È l’unica che mi ordina una quantità simile di cervello prima che sorga il sole.» Io e Chloe ci scambiamo un’occhiata e, con mia grande sorpresa, lei non ha più la solita aria sarcastica, prepotente, maligna, crudele, antipatica, snob, impertinente e nemmeno incazzata. «Mmm.» Dà una gomitata a Dane, guardando con sospetto i tre pacchetti di cervello che ho in mano. «Non avevi detto che ti serviva solo del deodorante da piedi?» 8 «MADDY, MA TU LO SAI CHE...?» Ho già attraversato metà parcheggio, quando sento dei passi dietro di me. Raggiunta la cabina telefonica, do un’occhiata alle mie spalle e vedo Dane e Chloe venire verso di me. Mi giro sollevando la busta della spesa in segno di resa, e loro scoppiano a ridere sollevando a loro volta le mani. «Maddy, ma tu lo sai?» chiede Dane. «Cosa?» «Sai cosa sei?» mi domanda Chloe. «Sono una... studentessa? Sono... capricorno? Sono... una che guida piano? Sono un po’ tutte queste cose.» Dane se la ride mentre Chloe sembra innervosirsi. Lui fa un passo avanti e io abbasso la busta. Mentre si tira giù l’onnipresente cappuccio, mi accorgo che ha occhi gentili. E subito dopo noto che sono cerchiati di scuro; poi noto la pelle chiara. Si toglie la felpa e la dà a Chloe, che la prende senza fare commenti. Guardo la maglietta bianca tutta consumata che indossa sotto la felpa. «E questo cosa sarebbe?» chiedo in tono disinvolto, quasi allegro, che invece di sicuro è troppo acuto e fastidioso. «Uno spogliarello post shopping? No, perché se è così, te lo dico subito, avrò addosso circa 16 strati di roba, perciò preparati...» Lui allunga una mano verso di me e io smetto di scherzare. Mi tocca il braccio con delicatezza. Non saprei dire chi sia più freddo, se io o lui. (Non immaginavo neanche che qualcuno potesse essere più freddo di me.) Mi apre le dita e mi ritrovo con la mano a palmo in giù; poi lentamente se la porta al centro del petto. Cerco di ritirarla ma, per essere un dark filiforme, Dane è piuttosto forte. Allora lo lascio fare, le scarpe da ginnastica squittiscono sul cemento mentre mi attira verso di sé come una specie di calamita alla quale non posso resistere. Alla fine la mia mano tocca il suo petto duro come la roccia, proprio sul punto in cui c’è il cuore. O almeno dovrebbe esserci. «Senti?» «Cosa?» Lui sorride e mi tiene la mano lì, mentre io cerco disperatamente di scostarla, di non ascoltarlo, di non sentirmi dire... la verità. «Proprio così.» Sospira. «Niente battito.» Poi mi lascia andare e, prima che io possa dargli uno schiaffetto, allunga la mano e la posa sul mio petto, nel punto preciso in cui sotto la maglietta e il reggiseno sportivo si dovrebbe sentire battere il cuore. Cerco di indietreggiare ma lui mi segue, passo passo, con la mano appiccicata al mio petto silenzioso. Dopo qualche istante mi chiede: «Allora, sai... cosa... sei?». Riesco a liberarmi e mi allontano. È il momento di Chloe. «Secondo me lo sai, Maddy, altrimenti perché una ragazzina per bene come te dovrebbe venire al supermercato a comprare del cervello a quest’ora?» «L’ho-l’ho detto anche al cassiere.» «Sì, sì, viene in visita tuo nonno e blablabla. Cazzate, Maddy, e tu lo sai. E lo sappiamo anche io e Dane. Maddy, tu sei uno zombi, proprio come... noi.» Apro la bocca per protestare, per urlare, per difendermi, per... piangere, ma non riesco a fare nessuna di queste cose. Mi limito a dire: «Come fate a saperlo?». Dane si porta di nuovo una mano sul cuore. «Non puoi ordinare al cuore di battere, Maddy.» E si rimette la felpa. «Vieni, ti diamo un passaggio a casa.» «No, tranquilli,» biascico indietreggiando «non è lontano e poi...» Chloe mi si avvicina. «Non era una domanda.» Deglutisco e mi stringo al petto la busta piena di cervelli mentre mi avvio alla macchina seguendo Dane. Chloe cammina dietro di me. Lui ci conduce a un pick-up malandato ricoperto di adesivi e con un sorriso imbarazzato esclama: «La sua carozza, madam». Chloe gli dà uno schiaffo sul braccio e mi butta dentro, per poi venire a sedersi accanto a me. Dane fa il giro e monta alla guida, così mi ritrovo intrappolata fra loro. «Primo,» dice allacciandomi la cintura «dobbiamo mettere quei cervelli nel ghiaccio. Secondo, devo rimediarti una copia della Guida. Terzo, devi incontrare gli Anziani.» «Cos’è la...?» Chloe m’interrompe tirandomi una gomitata in un fianco. «Te lo spieghiamo dopo.» 9 ZOMBI N. 1 E ZOMBI N. 2 Restiamo in silenzio per tutto il tragitto verso casa loro. Non parliamo né di zombi né della Guida, né di cervelli o di Anziani e nemmeno della Maledizione della Terza Ora. Ma l’atmosfera all’interno della macchina di Dane si fa più cupa man mano che ci avviciniamo alla parte sbagliata della città. Dopo un po’ entriamo nel parcheggio per camper che dà su Manor Grove. Il pick-up avanza sferragliando sulla strada dissestata, finché non ci fermiamo davanti al Camper 17, il cui numero è scritto verde su verde su una tettoia che pende pericolosamente da un lato. «Casa dolce casa» dice Chloe scendendo dall’auto ed esortandomi a fare lo stesso. Io rimango dove sono, cioè attaccata alla mia busta di cervelli. «Ragazzi, devo andare a casa. Mio padre si starà preoccupando...» Dane spegne il motore. «Senti, Maddy, qui nessuno vuol farti del male. Siamo tuoi amici. Anzi, direi proprio che... nella situazione in cui ti trovi attualmente... noi siamo gli unici amici che hai. Ci sono tante cose che devi sapere e hai poco tempo. Onestamente, se anche volessimo lasciarti andare, a questo punto non potremmo. Dobbiamo occuparci di alcune cose. E subito. Sai quel sito sugli zombi che hai visitato? Quello che ti ha suggerito di mangiare prima possibile dei cervelli? Be’, è solo l’inizio. Il tempo stringe e tu hai un mucchio di faccende da sbrigare.» Io me ne sto lì seduta, al sicuro dietro la cintura di sicurezza e chiedo: «Se questo è davvero l’Oltretomba, non dovrei avere tutto il tempo che voglio?». Chloe si mette a ridere appoggiandosi al camper con aria spazientita. «Be’, certo, hai un’eternità per capire cos’è successo. E ce ne vorrà un po’, credimi. Ma in questo momento, in questo preciso momento, è nostro dovere tenerti d’occhio, fare rapporto agli Anziani e rimediarti una copia della Guida, altrimenti presto saremo tutti in un mare di guai.» «Guai?» dico decidendomi finalmente a scendere dal pick-up. «Di che tipo?» «Del tipo irrimediabile» risponde Chloe in un tono che non lascia spazio a equivoci, né a ulteriori domande. Sale a passo pesante le scale arrugginite che conducono alla porta d’ingresso del camper e la apre senza bussare. Io la seguo titubante, immaginando che dentro si nasconda la casa degli orrori, con i candelabri a forma di teschio incrostati di cera nera, le pareti bordeaux, le tende scure alla finestra sopra il lavello e una capra incatenata in un angolo, pronta per il prossimo sacrificio. Sì, insomma, avete capito. E invece mi ritrovo in un soggiorno immacolato con (udite udite) il pavimento in legno di ciliegio, le pareti color crema decorate da sofisticati stencil bianchi e neri. In un angolo c’è una stravagante lampada vintage con lo stelo formato da una mezza dozzina di piccole braccia; una pianta finta (ma fatta bene) si trova sul lato opposto; e in mezzo c’è un piccolo divano di vimini con tanto di tavolino abbinato e due sedie. È una specie di topaia-nascondiglio ma di gran classe. Seguo Chloe dentro il camper e Dane è subito dietro di me. Con fare educato mi prende di mano i quattro chili di cervello e si dirige verso una cucina minuscola ma pulita. Tira fuori da sotto il lavello una borsa termica, ci versa dentro il ghiaccio appena tolto dal freezer e ci posa sopra i cervelli. Poi richiude la borsa e la lascia sul tavolo. Il tavolo è da quattro ma ci sono solo tre sedie, e lui me ne indica una. «Siediti, Maddy.» La sua voce è calda e profonda e, oserei dire, anche piuttosto sexy. «Ci sono alcune cose da dire prima di iniziare.» Cerco di immaginare il significato di «iniziare», ma non ne ho la più pallida idea. So solo che sono morta ma in realtà non sono morta, che sono uno zombi ma non sono l’unica. Ce ne sono altri in città e stranamente non mi sorprende che siano Dane e Chloe. «Come prima cosa, le presentazioni» dice Chloe puntandosi un dito contro. «Io sono lo zombi n. 1. Dane è lo zombi n. 2...» S’interrompe ed entrambi mi guardano come se si aspettassero di sentirmi continuare. «E io, a questo punto,» deglutisco due volte prima di continuare «immagino di essere lo zombi n. 3.» Chloe mi sorride compiaciuta come se avessi appena imparato a scrivere il mio nome con una matita rossa. Dane interviene sussurrando in tono cospiratorio: «Lei è lo zombi n. 1 solo perché è la più vecchia». Poi si alza dalla sedia e mi domanda: «Com’è successo? Cioè, immagino sia stato il fulmine caduto questa notte, ma che ci facevi là fuori?». «Facevo jogging.» Sono tentata di dirgli di più, di raccontargli di Stamp e di come il più figo della scuola mi abbia invitato alla festa più figa della settimana e io, cretina, ci ho creduto e ci sono andata – fra tuoni e fulmini e una pioggia battente. Eppure qualcosa mi trattiene. Chloe mi guarda con aria sospettosa. «Facevi jogging? Durante un temporale? Ottima pensata, Maddy.» «Che ti devo dire,» esclamo ridendo per tenere in piedi la scusa «lì per lì mi era sembrata una buona idea.» Dane, però, non sorride, non proprio. Non che sia un tipo sorridente in generale, ma in questo momento le sue labbra sono tese e serrate, e mi osserva con attenzione. A un certo punto apre la bocca per dire, o chiedere, qualcosa e poi ci ripensa. Il suo sguardo è penetrante, misterioso: mi fissa come se avesse intuito che gli sto nascondendo qualcosa – ok, ne sto nascondendo diverse, di cose. All’improvviso sembra riprendersi, sbatte le palpebre due volte, e mi domanda: «Come ti sei sentita?». «Non saprei, sono svenuta per un paio d’ore e poi...» «Il Risveglio» sussurra lui in tono quasi reverenziale, come farebbe un nerd seduto in prima fila quando sul megaschermo appare il trailer del nuovo episodio di Star Wars. «Scusa...?» «Il Risveglio» mi ripete più forte. «Ci siamo passati tutti. Ma i tempi sono diversi a seconda della persona. Ad alcuni bastano pochi minuti; per te ci sono volute alcune ore; altri, tipo Chloe, impiegano dei giorni: ecco perché si risvegliano in una bara e credono di essere morti. Non sanno che si risveglieranno, tutto qua.» «Non capisco. Credevo che per diventare zombi dovessi essere morso da uno di loro, che ne so, dovessi contrarre qualche virus e...» «Stronzate» fa Chloe. «Stronzate hollywoodiane. O meglio, in teoria puoi mordere qualcuno e renderlo uno zombi, ma non succede per via di qualcosa che hai nel sangue. Ormai ti sarai accorta che il tuo non pompa più nelle vene. È l’elettricità a trasformarli.» «Ecco perché gli zombi possono accoppiarsi solo fra loro» dice Dane in tono deciso guardandomi dritto negli occhi. «È assurdo» ribatto io, praticamente urlando. Ripenso a Stamp, a come era imbarazzato mentre mi invitava alla festa, al sollievo che gli avevo letto in faccia quando avevo accettato, ai suoi occhi nocciola, ai suoi bicipiti gonfi che sarebbero stati così bene sulle mie calde e morbide spalle di non-morta. Niente di tutto questo ha più senso ora e sono costretta ad affidarmi a loro due. Pare a me oppure Dane è proprio felice di raccontarmi tutte queste cose? «Ti sembra davvero così assurdo?» mi domanda Chloe. «Pensaci un attimo.» Dane si raddrizza sulla sedia. «Diciamo che ti prendi una bella sbandata per un ragazzo Normale e nell’euforia del momento ti dimentichi cosa sei, vai lì per dargli un simpatico morso sul collo ma affondi i denti un po’ troppo. Tac! Eccoti lo zombi n. 4. Vuoi davvero che accada una cosa simile alla persona che ti piace?» Lì per lì non rispondo, allora lui continua. «Supponiamo che il tizio in questione sia uno di quei rari Normali che impiega un paio di minuti, al massimo un’ora, per trasformarsi. Se ne torna a casa, non ha idea di cosa gli sia successo nel frattempo, e si mette seduto a tavola per cena; poi – preso da un raptus – decide che quella sera non gli vanno bistecca e patate e si avventa su mamma e papà. Ed eccoti pronti lo zombi n. 5 e n. 6. Poniamo che i vicini si presentino alla porta di casa con un regalino. Zombi 7 e 8 tornano a casa e mordono due amici, che a loro volta vanno a casa e mordono altri due amici. È così che si contagia un’intera città, Maddy.» «M-m-ma non è giusto. Io farei attenzione. Non vorrei mai che una cosa simile capitasse a... chiunque.» Dane mi fa cenno di tacere. «Non importa se è giusto o no.» E dà qualche colpetto su un libro verde incastrato fra la saliera e la pepiera sul tavolo. «Il Consiglio non lo permetterebbe. Sei uno zombi, Maddy. Fai parte di un gruppo molto, molto esclusivo. Abbiamo delle regole, delle procedure, dei protocolli, delle leggi da rispettare. La legge n. 1, Maddy, stabilisce che gli zombi non possono mettersi con i Normali. Punto e basta. Fine della storia. Mi... dispiace.» «Non sembri troppo dispiaciuto» sbotto. «Ma lo sono. So che è dura, che hai un sacco di dubbi. E noi siamo qui per questo. Noi siamo le tue guide, Maddy, le tue guide nell’Oltretomba.» Non rispondo, allora lui sospira e ricomincia a tamburellare le dita sul quel grosso libro verde. «Non gliel’hai detto ancora?» domanda a Chloe con voce cupa e gli occhi incollati ai miei. «Non mi ha detto cosa?» Lei scuote la testa. Lui sbuffa, poi sorride. «Fa niente, glielo diremo stanotte. Tu intanto dalle qualcosa da leggere durante il viaggio.» «Stanotte? Che viaggio? Devo tornare a casa, ragazzi. Forse voi no, ma io ho un padre che non sa che sono uno zombi e domani c’è scuola e...» «Non preoccuparti» dice Dane posando la lastra di ghiaccio che ha al posto della mano sul freezer che ho al posto del polso. «Dobbiamo comunque andarci di notte; gli Anziani preferiscono così.» «Gli Anziani?» Lui e Chloe sorridono. «Trovi tutto qui dentro» mi spiega Dane facendo scivolare sul tavolo il libro verde. Do una rapida occhiata al titolo: Guida alla cura e al nutrimento degli zombi, 24esima edizione. Grandioso. I compiti per casa non mancano mai, nemmeno se sei uno zombi. 10 CURA E NUTRIMENTO DEGLI ZOMBI «Ho il compito di grammatica alla seconda ora» mi lamento quando Dane oltrepassa i confini della città precisamente alle 3:07 del mattino. Chloe ha la testa abbandonata contro lo schienale. «Rilassati, Maddy, tornerai in tempo per la seconda ora. Ma poniamo anche che saltassi il compito e che ti rimandassero. Che cavolo, mettiamo il caso che ti bocciassero proprio. Tesoro, avresti un’eternità per ripetere il primo anno una, due, mille volte.» Lo dice col sorriso, come se fosse proprio quello che lei ha fatto negli ultimi, mmm, che ne so, 300 anni. «Ma ho bisogno di dormire se voglio farlo bene.» Dane scoppia a ridere e si scambiano un’altra di quelle occhiate complici. «Glielo dici tu o glielo dico io?» «Tu hai più tatto» fa Chloe, ed è la prima volta che mi trovo d’accordo con lei. Lui sospira. «Maddy, non so come la potrai prendere, ma devi sapere che... gli zombi non dormono.» «Molto?» chiedo speranzosa. «Non hanno bisogno di dormire... molto? Come Benjamin Franklin? O Einstein? Ho sentito dire che dormivano quattro ore a notte.» Ma Dane sta già scuotendo la testa. «Gli zombi non dormono e basta, Maddy. Non dormono mai.» Guardo fuori dal finestrino, verso la strada che si snoda per chilometri davanti a noi. «E cosa dovrei fare per tutta la notte?» Dane scrolla le spalle. «Potresti leggere, tanto per dirne una» dice Chloe, dando qualche colpetto alla Guida che ho sulle gambe. «Io inizierei da lì.» Nell’abitacolo cala il silenzio e abbasso lo sguardo sul libro. È buio ma riesco a vedere il titolo sulla copertina come se fosse pieno giorno: Guida alla cura e al nutrimento degli zombi, 24esima edizione. Lo apro in una pagina a caso e inizio a leggere: Gli zombi al primo stadio di Assimilazione (la prima e la seconda settimana dopo il Risveglio) presentano i seguenti sintomi: un graduale irrigidimento degli arti per effetto dell’atrofizzazione dei muscoli, un ingiallimento dei denti come conseguenza della necrosi gengivale e l’apparizione di cerchi scuri intorno agli occhi per la completa mancanza di flusso di sangue nella suddetta area... Che bello. Non vedo l’ora che mi si irrigidiscano gli arti, i denti mi diventino gialli e mi spuntino dei cerchi neri intorno agli occhi. Allora sì, che farò colpo sui ragazzi. Sfoglio un po’ il libro e su un’altra pagina leggo: Le leggi degli zombi vietano di parlare a qualunque Normale (ovvero umano mortale) del suddetto stato di zombismo. Gli zombi dovrebbero «mescolarsi» alla popolazione locale senza attirare l’attenzione, e coloro che si rifiutano di farlo saranno severamente puniti dalle Sentinelle... Sempre meglio. Sei morto e ti chiedono ancora di rispettare le regole. Altrimenti cosa? Ci sbattono in un carcere per zombi? Poi a pagina 74 m’imbatto in questa piccola chicca: I neozombi sono tenuti a fare rapporto al Consiglio degli Anziani entro 24 ore dal trapasso. Coloro che non rispetteranno la suddetta regola andranno incontro a serie ripercussioni per mano delle Sentinelle e verrano esiliati nell’Oltrezombi... L’Oltrezombi? E cosa sarebbe? Un mondo popolato di creature rigide, pallide e con i denti gialli? Un campo di lavoro per zombi che si sono comportati male? Sollevo lo sguardo per chiederlo a Dane, ma lui è concentrato sulla strada. Faccio per rivolgermi a Chloe, ma l’onnipresente broncio da dark mi costringe a desistere. Non mi resta che leggere la Guida da principio finché non mi stanco. «Quanto manca?» domando più o meno un’ora dopo, stringendo la Guida al petto mentre mi stropiccio gli occhi. «Non molto,» risponde Dane «però la cerimonia durerà un po’.» Gli cade l’occhio sulla Guida che ho fra le mani. «Hai letto cosa dice a riguardo?» «Ti riferisci alla Cerimonia di Assimilazione dei Neorisvegliati? Sì, ho letto, sembra una faccenda importante.» «Serve ad assicurarsi che tu comprenda i tuoi diritti e le responsabilità che derivano dal fare parte della razza degli zombi» dice lui. Ed è serio. Come se tutto questo stesse davvero accadendo. A me. Proprio adesso. Sospiro. «Pensavo che essere morti fosse... più semplice.» Loro ridacchiano. «Essere morti è semplice» scherza Dane. «Essere non-morti un po’ meno.» Finalmente Dane esce dall’autostrada, imbocca bruscamente le vie che incontriamo ai successivi tre incroci e s’infila in una strada sterrata che procede verso il nulla più assoluto. Non ho idea di dove ci troviamo, ma lui non sembra scomporsi per il terreno dissestato e la mancanza di visibilità. Non ci sono segnali stradali in questo posto dimenticato da Dio, non ci sono strisce pedonali, né lampioni. «Come fai a sapere dove vai?» chiedo mordendomi il labbro nervosa. «Ogni zombi deve far visita al Consiglio degli Anziani prima di considerarsi tale» mi spiega Chloe. «Ho già percorso questa strada e anche Dane. Non è difficile da ricordare.» «Volevo dire, come fai a vedere dove vai?» Mi guardano entrambi. «Maddy,» dice Dane in tono calmo «accendiamo i fari solo per gli altri. Riusciremmo a vedere dove andiamo anche senza e vale lo stesso anche per te.» A riprova di quanto detto, Dane spegne i fari. Sto per mettermi a urlare ma capisco subito che ha ragione. Rimango di stucco. Anche senza le luci, tutto – la strada sterrata davanti a noi, l’alta fila di alberi che la costeggiano – appare limpido e cristallino. «Perché vedo tutto giallo?» chiedo strizzando gli occhi come se il «giallo-zombi» potesse di colpo svanire. «Nessuno lo sa» interviene Chloe. «Forse ha a che vedere con lo spettro cromatico. Ma il punto è che gli zombi hanno sensi straordinari. Senza battito né respiro, gli altri sensi si acuiscono. Possiamo fiutare un odore a chilometri di distanza, vedere al buio e sentire una mosca ronzare in un’altra città.» «Magnifico» esclamo mentre Dane riaccende i fari. Qualche istante più tardi, un edificio rettangolare emerge all’improvviso dall’oscurità. «Arrivati» dice lui, per quanto sia piuttosto scontato. Mi vede stringere forte la Guida, così me la toglie gentilmente di mano. «Fra poco ti daranno la tua» bisbiglia guardandosi intorno con aria furtiva. «Non avrei dovuto nemmeno fartela vedere.» E la infila nel cruscotto. Sto per chiedergli perché parla a bassa voce quando all’improvviso capisco. Dal nulla appaiono quattro guardie armate che avanzano verso il camper. Non sono vecchie, avranno più o meno la nostra età, magari qualche anno di più, e indossano delle uniformi blu scuro, dei berretti altrettanto blu e degli stivali neri. Hanno un’aria molto professionale, molto tetra, molto... minacciosa: sembra di essere in un campo di addestramento per tipi alla Scheletro. «Le Sentinelle» mormora Chloe mentre tira giù il finestrino. «Il loro compito è proteggere gli Anziani e far rispettare la legge fra gli zombi.» «Identificatevi» ordina la Sentinella accanto al posto del guidatore. Dane tira fuori una tessera plastificata con sopra la sua foto e un numero. Chloe gli mostra la sua. La Sentinella li studia per bene e poi fissa me. «È nuova» gli spiega Dane. «La stiamo accompagnando alla Cerimonia di Assimilazione. Abbiamo chiamato per avvertire qualche ora fa.» «Quando?» mi chiede la Sentinella. Il suo volto sembra scolpito nel granito e sotto il maglione blu si intravedono dei bei muscoli e delle spalle larghe. «Quando?» ringhia fra i denti gialli e le labbra sottili. Dane mi dà un colpetto col gomito. «Vuole sapere quand’è che sei diventata uno zombi.» «La notte scorsa» balbetto. La Sentinella sembra arrabbiata e sul punto di urlarmi in faccia qualcos’altro ma Chloe interviene in mia difesa. «L’abbiamo notata stamattina quando si è presentata al supermercato e ha chiesto del cervello. Siamo venuti più in fretta possibile.» È strano sentire Chloe – la terribile, la rabbiosa, la prepotente per eccellenza – rivolgersi alla Sentinella in tono così mite. Sembra che abbia paura di guardarlo negli occhi. Sembra. La Sentinella scruta prima Dane, poi me, infine Chloe e attraverso il finestrino lancia un’occhiata alle altre due Sentinelle in piedi accanto alla macchina. «Procedete verso la centrale» gracchia con la sua vocina da ragazzetto e allo stesso tempo da vecchio. «Avvertiremo gli Anziani del vostro arrivo.» Si rimette il fucile in spalla e ci rivolge un cenno di saluto. Ripartiamo. Dopo pochi istanti dico: «Mi pareva di aver letto da qualche parte nella Guida che i proiettili non possono ucciderci». «I fucili non sono per noi» spiega Dane. «Sono per i Normali. Sai, nel caso si avventurassero nel nostro territorio per costringerci ad andarcene.» Dane parcheggia davanti alla centrale, un edificio basso e lungo, molto simile a un tubo, al centro del complesso del Consiglio degli Anziani. Assomiglia un po’ a un campus. Lo dico a Chloe e lei annuisce. «Infatti era un college prima che il Consiglio degli Anziani lo comprasse.» Vorrei tanto chiederle come hanno fatto gli zombi a procurarsi il denaro o come hanno convinto lo stato della Florida a vendere loro un college intero, ma suppongo sia meglio conservare le domande per dopo. Come sostiene Chloe, se c’è una cosa che non mi manca è il tempo. Alla centrale ci sono altre Sentinelle di guardia, ma queste hanno la pistola al sicuro nella fondina e in mano un dispositivo che ricorda i phaser di Star Trek. «Sono taser,» mi sussurra Dane seguendo il mio sguardo «come quelli della polizia.» «Non potevano usare dei fucili?» chiedo a bassa voce. «Non avrebbero funzionato con noi. Si basano sul principio che se l’elettricità può darci la vita, allora può anche togliercela.» « È così che si ammazza uno zombi?» chiedo a Chloe che sta aprendo la sua portiera. «Sì» risponde sporgendosi verso di me. «O rimuovendo fisicamente il cervello dal cranio. I taser sono di gran lunga meno impegnativi.» Mentre scendo, Dane si porta un dito alla tempia. «Il cervello è il generatore di corrente per il corpo. Niente cervello, niente corrente. Niente zombi. Morte.» «Buono a sapersi» dico passandogli davanti con un sorriso. Quattro Sentinelle mi si affiancano nel momento in cui entro nella centrale, due per lato. Dane e Chloe vengono fermati alla porta principale e viene chiesto loro di attendere fuori. Mi volto a guardarli, disperata, con la stessa espressione che ha un bambino quando la madre lo lascia per la prima volta all’asilo. La centrale non è altro che una palestra, con tanto di gradinate a soffietto ripiegate e appoggiate alla parete, e canestri fissati al soffitto. È abbastanza illuminato, ma mai come nelle altre palestre che ho visto, dove file e file di riflettori producono una luce tale da permetterti di vedere persino la verruca o il punto nero sulla faccia del tipo seduto in fondo. Sollevo lo sguardo e noto che solo alcuni faretti funzionano tra la dozzina che abbiamo sopra le teste. Le Sentinelle mi conducono a una sedia posizionata davanti a due tavolini pieghevoli accostati. Dall’altra parte sono accomodati sei classici zombi da film. Mi sforzo di non lasciarmi scappare un gemito e ci riesco – per un soffio. Che fatica! Una delle Sentinelle sembra comprendere il mio disagio e mi fa l’occhiolino. «Concentrati sulle cravatte» mi sussurra allungandomi la mia Guida alla cura e al nutrimento degli zombi, 24esima edizione. «È più... facile così.» Deglutisco e faccio come mi ha detto. O almeno ci provo. Indossano tutti un vestito – grigio, per lo più, ma alcuni ce l’hanno nero – e una camicia bianca inamidata. Non è semplice ignorare quelle facce raggrinzite da cadavere. Così questi sono zombi veri, creature immortali. Alcuni saranno vecchi di secoli. Uno è pelato. Be’, se è per questo, a malapena ha il cuoio capelluto. Ha gli occhi scuri, penetranti e le labbra talmente consumate che lasciano intravedere le gengive grigie ed enormi denti giallognoli, là dove ce ne sono, almeno. Solo uno ha qualche batuffolo bianco sparso qua e là sul cranio. Gli altri indossano delle parrucche. Guardo l’Anziano al centro e sorrido. Lui si schiarisce la voce e dice: «Rivela il tuo nome, zombi». 11 LA PROMESSA DELLO ZOMBI Sentirmi chiamare zombi da un vero zombi, con quella voce affilata come una lama, mi strappa una smorfia. «Madison Emily Swift, signore.» Ogni Anziano ha in piedi alle proprie spalle una piccola Sentinella dall’aria compunta, come se fossimo in un ristorante chic e ciascuno di loro disponesse di un maggiordomo personale. La Sentinella dietro l’Anziano che mi ha chiesto il nome digita qualcosa su un computer non più grande di un cellulare. Saranno anche vecchi come il mondo, ma quanto a tecnologia di sicuro sono all’avanguardia. «Quando?» mi chiede l’Anziano al centro, che a questo punto suppongo sia il capo. «Mi sono trasformata la scorsa notte, signore. Be’, a dire il vero, non sapevo neanche cosa mi fosse... successo... finché i miei amici zombi non mi hanno spiegato tutto. Siamo venuti qui prima possibile.» «La legge non ammette ignoranza» dice ansimando un Anziano seduto a un capo del tavolo. «Lo so, signore.» Lui annuisce, compiaciuto, e così fa l’Anziano al centro, leccandosi le labbra con la lingua secca come la morte. Ogni singolo muscolo della testa e del collo mi grida di distogliere lo sguardo, ma io mi sforzo di guardare dritto davanti a me e di sorridere. Con una voce simile a un foglio che viene accartocciato, l’Anziano capo mi chiede: «Cosa ti hanno detto i tuoi amici zombi, Madison Emily Swift?». «Be’, che ci sono delle regole, delle leggi da rispettare. Sono scritte qui, in questo libro.» Sollevo la mia copia personale della Guida alla cura e al nutrimento degli zombi, 24esima edizione. Lui gracchia: «Le leggi sono tutto ciò che abbiamo, Madison Emily Swift». I suoi compagni iniziano a mormorare, alcuni annuiscono con tale foga che ho paura che gli si stacchi la testa dal collo, e non in senso figurato. «Le leggi, signorina Swift, sono ciò che ci distingue dagli Zerker.» Sollevo una mano e il capo mi sorride, o almeno credo, perché altrimenti significa che gli si è slogata la mandibola. (Speriamo che stia bene.) «Cosa sono... gli Zerker?» domando. L’atmosfera della stanza cambia: le Sentinelle alle spalle degli Anziani si irrigidiscono e gli Anziani stessi si raddrizzano sulle sedie, poi finalmente il capo si decide a parlare: «Gli Zerker sono la feccia degli zombi, signorina Swift. Motivo per cui non sono nemmeno degni di essere chiamati tali. Gli zombi parlano, ragionano, guidano, pensano, comunicano fra loro e leggono il libro che lei ha in mano, e... desiderano. Gli Zerker, invece, desiderano soltanto una cosa: nutrirsi di cervelli e placare la sete di elettricità che li consuma. Leggi la Guida, Emily Swift; leggila e saprai tutto quello che c’è da sapere sugli Zerker e sul perché è preciso dovere di ogni zombi che si rispetti eliminarli, uno a uno.» Annuisco e mi stringo la Guida al petto, non si sa mai. Anche tutti gli altri membri del Consiglio annuiscono e quello con la parrucca grigio topo dice: «Alzati in piedi, ora, e ripeti dopo di noi». Io obbedisco e mi verrebbe spontaneo mettermi una mano sul cuore, ma mi guardo intorno e non vedo bandiere. Allora abbraccio la Guida alla cura e al nutrimento degli zombi, 24esima edizione come fosse la Bibbia, mentre il capo inizia: «Io, Madison Emily Swift...». Pian piano si solleva un coro di voci, antiche, gracchianti e ansimanti, e io ripeto a ogni pausa. «Io, Madison Emily Swift...» «Dichiaro solennemente...» «Di rispettare le leggi e le consuetudini degli zombi così come riportate sulla Guida...» «Con tutta me stessa...» «Pena... la morte?» Il Consiglio degli Anziani si alza in piedi, appoggiandosi (a dire il vero aggrappandosi) alle Sentinelle, e con mani ricoperte di vene ben visibili – simili a quelle finte che vendono per Halloween – danno il via a un applauso silenzioso che però assomiglia più al rumore di tanti ossicini che sbattono l’uno contro l’altro. Faccio l’inchino. Le quattro Sentinelle che mi hanno portato dentro mi accompagnano cortesemente all’uscita. Mi volto un istante prima che le porte della palestra si richiudano. Gli Anziani mi stanno ancora fissando, sorridono con le mandibole sgangherate, alcuni stanno ancora applaudendo, poi insieme alle Sentinelle si allontanano mooooolto lentamente dal tavolo. 12 IMBOSCATA «Cos’è uno Zerker?» chiedo quando siamo quasi giunti a casa. Al di là del parabrezza impolverato del camper di Dane il sole sta sorgendo. Dane e Chloe si guardano di nuovo come per dire «Ma cos’è, scema?». Poi Dane mi dice: «Il Consiglio non ti ha spiegato cosa sono gli Zerker?». «Certo,» rispondo «però non ci ho capito granché. Credevo che non avrei dovuto far altro che ingoiare un po’ di cervello, andarmene in giro con voi e rassegnarmi a restare nubile per il resto della mia vita. E invece vengo a sapere dell’esistenza di questi Zerker, che a quanto pare non sono veri zombi, e dell’obbligo che abbiamo di dar loro la caccia e di eliminarli. Allora, che cosa sapete dirmi in proposito?» «Maddy, non è che non sono “veri zombi”» mi spiega Dane mentre mette la freccia per uscire dall’autostrada e imboccare la Marlin Way, l’arteria principale che arriva fino a Barracuda Bay. «Non sono zombi, punto e basta.» «Be’, allora cos’è che fa di uno zombi un vero zombi?» Dane lancia un’occhiata a Chloe. Lei si stropiccia gli occhi. «La stessa cosa che spinge un bambino ad arrivare a scuola in orario, a comportarsi bene invece di affogare i gattini: la coscienza. I veri zombi sono esattamente come le persone, persone morte e rianimate. Gli Zerker invece non hanno una coscienza; non leggono la Guida; non vanno dagli Anziani per essere registrati sul Libro dei Morti e non rispettano le regole.» «Perché no?» «Gli Zerker non si rianimano da soli, vengono risvegliati» dice Dane. «Eh?» «Prendiamo te, per esempio» prosegue. «Ieri mattina ti sei svegliata e tutto era come al solito. Sei andata a scuola, hai pranzato, hai fatto due chiacchiere con Hazel: eri l’incarnazione della tipica ragazza americana. Ma per qualche assurda ragione hai deciso di andare a fare jogging durante un temporale e, tac, sei stata colpita da un fulmine. Quindi ti sei beccata milioni di volt di elettricità e da viva sei passata a essere non-morta. Questo fa di te, di me e di Chloe – perché anche a noi è successo così – zombi rianimati di primo grado.» «Gli Zerker» interviene Chloe «non rinascono: vengono creati. In altre parole, sono i rianimati di primo grado a risvegliarli. Perciò, visto che non sono fatti di energia allo stato puro, sono detti di secondo grado.» «Ah ho capito, è un po’ come quando i vampiri mordono noi umani e poi si rendono conto che non saremo mai forti e potenti come loro...?» «Non esattamente» mi ferma Dane scocciato. «Tanto per cominciare, i vampiri non esistono. Svegliati, quella è roba da film o romanzi. Secondo, di norma gli Zerker sono più potenti di noi perché invece di ordinare cervelli al supermercato al caro vecchio Harvey, se li vanno a prendere dritti alla fonte.» «Dove, agli impianti di macellazione?» «No, dal cranio di qualche povero malcapitato» dice Chloe. «Gli Zerker saccheggiano le tombe più recenti e riesumano i cadaveri ma, a volte, quando sono in vena di scorribande, arrivano anche ad attaccare i vivi.» «State dicendo che gli Zerker uccidono... gli umani?» «Non solo, Maddy.» Chloe si strofina la zona fra gli occhi, proprio sopra il naso. «Agli Zerker piace perseguitare le persone, provano un vero e proprio piacere nell’ucciderle. Ne scelgono una fra quelle con cui sono più a stretto contatto, che so, un vicino, un cassiere del supermercato...» «Una compagna di classe» dice Dane non a caso, ma io sono troppo sconvolta, troppo confusa per cogliere la sottigliezza di quella puntualizzazione. «Una compagna di classe» ripete Chloe. «E ci giocano per un po’, come fa il gatto col topo. La perseguitano per qualche giorno, le stanno alle calcagna a scuola, compaiono dal nulla al cimitero mentre lei si fa i fatti suoi... ti suona vagamente familiare? In pratica, la spaventano a morte finché la persona in questione – studente o no che sia – arriva all’esasperazione. E quando il suo cervello è esaurito al punto giusto, gli Zerker attaccano, mangiano e... addio materia grigia.» A questo punto interviene Dane. «Dicono che la caccia, l’inseguimento – la paura – siano come una scarica elettrica per il cervello, così quando finalmente gli Zerker riescono a spezzare in due il cranio della vittima e lo tirano fuori, questo è doppiamente carico, come se le fossero piombati addosso di sorpresa fracassandole la testa.» All’improvviso penso a Hazel, a tutti quei banchi vuoti durante l’ora di economia domestica, alla Maledizione – e mi chiedo chi si nasconda davvero dietro questa storia. «Chi mai potrebbe fare una cosa simile?» domando senza di fatto aspettarmi una risposta. Dane inchioda e finiamo in testa coda, il retro del camper sbanda verso sinistra e le ruote girano a vuoto su una buca al centro della strada. Mi sporgo in avanti per vedere cosa l’abbia costretto a frenare così all’improvviso e vedo Scheletro e Dahlia in piedi davanti a noi. «Chi mai potrebbe fare una cosa simile?!» esclama Chloe spalancando la portiera e saltando giù prima ancora che il camper si sia fermato. «Ce li hai davanti agli occhi.» «Che buffa coincidenza, incontrarvi tutti e tre insieme.» Scheletro ridacchia fregandosi le mani pallide come se davanti avesse un buffet all-you-can-eat. Al suo fianco Dahlia è piccola ma inquietante, tutta vestita di nero e su tacchi più alti del solito. Sotto i raggi della luna calante sono talmente candidi che sembrano fatti di porcellana, le loro occhiaie scure sono pozzi senza fondo colmi di tristezza, terrore e morte. «Cosa vuoi, Scheletro?» dice Dane scendendo dal camper con aria noncurante e portandosi al fianco di Chloe. Si muovono con disinvoltura, come se non fosse la prima volta che si trovano in una situazione simile. Scendo anch’io ma resto un po’ indietro, non si sa mai. Scheletro muove un passo verso di me. «Quello che ho sempre voluto, Dane. Voglio lei, è ovvio.» Chloe si mette fra me e lui mentre Dane si avvicina a me. «Spiacente, Scheletro» dice Chloe. «Ma è stata appena assimilata. Sei arrivato tardi, come al solito.» «Assimilata» sibila Dahlia come se stesse dicendo una parolaccia. «Come se questo potesse fare la differenza.» «Non farà alcuna differenza per voi Zerker,» urla Dane «per noi zombi, sì.» «Ma fammi il piacere.» Scheletro non ha intenzione di indietreggiare e se ne sta lì, avvolto nella sua tuta immacolata con i piedi ben piantati per terra e gli occhi neri come la pece che fanno capolino sotto il soffice cappuccio bianco. «Voi tenetevi le regole degli Anziani, noi abbiamo le nostre. Ora sei a Barracuda Bay, Dane. Gli Anziani qui non possono aiutarti.» «Gli Anziani forse no, ma le Sentinelle di certo lo faranno.» Scheletro e Dahlia scoppiano a ridere. «Le Sentinelle» gli fa il verso Scheletro. «Ma se sembrano usciti da Scuola di Polizia... non riuscirebbero ad acchiappare uno Zerker neanche se avesse le mani legate dietro la schiena.» «O una Zerker» ribatte Dahlia con aria indignata. «Giusto» dice Scheletro senza darle troppo peso. «Giusto. Ad ogni modo, non siamo venuti per litigare, dateci la ragazza o romperemo la Tregua.» «Ma quale Tregua?» sbotta Dane sputacchiando qua e là e avanzando con fare minaccioso. «Credete che siamo ciechi? Che non abbiamo ancora capito a quale gioco state giocando?» Scheletro socchiude le labbra e sul suo volto rigido e terreo appare un ghigno spaventoso. «Di cosa stai parlando?» «Delle studentesse, Scheletro» risponde Chloe e inizia a snocciolarne i nomi come se all’improvviso si fosse infilata nella mia testa, nella mia stanza, e li stesse leggendo sulle lapidi che ho riprodotto su carta. «Amy Jaspers. Sally Kellogg. E Missy Cunningham. Cosa siete, stupidi? Non vi bastava andare in giro a fracassare crani per tutta la scuola, dovevate proprio accanirvi sulla stessa classe? Credevate davvero che nessuno si sarebbe insospettito?» Dahlia sorride e il suo sorriso dice tutto e niente. «Allora, che t’importa se spacchiamo qualche cranio qua e là, Chloe? Come abbiamo già detto alla vostra amica qui, quelle ragazze non mancheranno a nessuno. Non erano popolari e, se anche lo fossero state, voi cosa potete farci ormai?» Chloe avanza verso Scheletro. «Forse noi non possiamo farci niente, ma gli Anziani...» Allora Scheletro grida: «E basta con questi Anziani! Volete rompere la Tregua? A chi importa se a una manciata di insulse studentesse è capitato qualche... incidente? Nessuno farà due più due, nessuno farà domande e agli Anziani non gliene può fregare di meno. Vogliamo Maddy, e la vogliamo adesso. Se non ce la consegnerete immediatamente, ne subirete le conseguenze.» «Niente da fare, Scheletro» grida Chloe con altrettanta violenza. «E se ti azzardi a rompere la Tregua, te le do io le conseguenze.» Scheletro e Dahlia si scambiano un’occhiata e scrollano le spalle. «Poi non dite che non vi abbiamo avvertiti, zombi» esclama Scheletro in tono sibillino mentre scompare nel buio della vegetazione che ricopre il ciglio della strada. «Ma ricorda, Maddy,» sussurra Dahlia con decisione seguendo il suo ragazzo «loro non saranno sempre lì a proteggerti. Prima o poi dovrai affrontarci da sola. E allora indovina un po’ quale sarà il prossimo banco che Hazel fisserà a economia domestica?» 13 PIOVE MATERIA GRIGIA Dane imbocca Pompano Lane, e nessuno di noi ha ancora aperto bocca da quando siamo ripartiti. Qualche casa prima della mia gli dico, «Va bene qui», e lui si ferma; sta zitto, non protesta, frena e basta. Mi sposto sul sedile di sinistra per scendere ma Chloe non dà cenno di volersi muovere di lì. So di avere tutta l’eternità davanti, eppure sono lo stesso impaziente di uscire da quel camper una volta per tutte. Allora scende Dane e allunga una mano per aiutarmi a uscire, io la afferro e ancora una volta mi rendo conto di quanto sia gelida. «Anche la mia è così fredda?» gli domando. Lui annuisce, come se ammetterlo lo imbarazzasse. «Ti svelo un trucchetto» mi bisbiglia. «Se so che devo incontrare qualcuno, prima mi sfrego le mani per qualche minuto; oppure, se non ne ho il tempo, mi ci siedo sopra: almeno si scaldano quel tanto che basta da non destare sospetti.» «Grazie per la dritta» mormoro, e sono sincera. Segue un momento di silenzio in cui restiamo lì impacciati, l’uno davanti all’altra, senza alcuna apparente ragione e niente da dire. Il cielo assume una sfumatura ambrata mentre il velo della notte si solleva cedendo il posto all’azzurro intenso del mattino. Non c’è che dire, Dane è bellissimo e quel particolare tipo di luce non fa che sottolineare i suoi zigomi marcati. Vorrei tanto sfiorarli e per poco non sollevo una mano ma... mi trattengo. Così l’attimo passa, lui risale in macchina e scivola via silenzioso. Li guardo allontanarsi poi sento una brusca frenata e poco dopo il camper ricompare. Dane fa retromarcia, rallenta a uno stop e agita fuori dal finestrino la piccola borsa termica. «Non dimenticarti i cervelli.» Sorride e riparte. Giro l’angolo con le dita incrociate sperando che papà sia già uscito per andare a lavorare e che la sua macchina non ci sia e... invece c’è. Se non altro, quando entro, è in doccia che canta a squarciagola un successo degli anni ‘80, così ho il tempo di tirare fuori i cervelli, nascondere la borsa termica in garage e prepararmi mentalmente al pasto più disgustoso che abbia mai consumato. I cervelli sono freddi (grazie al ghiaccio in cui li ha immersi Dane) ma soprattutto grossi, molto più grossi di quanto pensassi. Harvey li ha affettati per benino. A occhio e croce ne prendo circa mezzo chilo e lo poso su un piatto di carta. Poi lo guardo e penso, Non ce la posso fare. So che prima o poi dovrò mangiarli – perché devo, giusto? – ma almeno potrei metterci qualche spezia. Non devo cuocerli, l’ho letto sulla Guida, però non c’era scritto nulla sul condimento. Ci verso sopra un po’ di salsa di soia e tutto ciò che trovo nella dispensa sopra i fornelli: origano, timo, sale, pepe macinato – sì insomma, le basi della cucina del Gambero Rosso. Nel frigo c’è dell’aglio tritato, aggiungo anche quello per dare un po’ di sapore, poi delle olive e una confezione di semi di sesamo. Alla fine mi ritrovo davanti mezzo chilo di cervello con un elmetto di spezie. Gratto via alcuni pezzettini d’aglio, do una bella mescolata e... gnam. Scopro subito che i cervelli sono gommosi. E no, non assomigliano per niente a una dolce, gustosa caramella. È un po’ come masticare della cartilagine o una cannuccia di plastica o un pezzo di guscio di granchio finito per sbaglio nel piatto o un laccio delle scarpe (non che possa dirlo per esperienza, ma insomma avete capito). E che dire del sapore? Sa di bestia, come i patè di fegatini o le frattaglie che ti servono come secondo il giorno del Ringraziamento perché quell’idiota di zio Harvey mangia come una fogna e la padrona di casa, zia Harriet, è troppo tirchia per comprare un tacchino abbastanza grosso da sfamare tutti e otto gli invitati. Vediamo un po’, il cervello è un organo, giusto? Quindi perché mai non dovrebbe essere gommoso? Be’, gommoso o no, una volta che inizio a masticare non riesco più a smettere; all’improvviso mi rendo conto di non avere mangiato più niente dopo il sandwich al formaggio, la notte scorsa, e STO MORENDO DI FAME. Nonostante la consistenza, capisco che i miei sospetti di essere ormai uno zombi sono fondati, perché ne divoro un pezzo dopo l’altro senza neanche una smorfia di disgusto. (E se lo dico io che di solito ho i conati di vomito solo passando davanti al bancone del macellaio...) Se gli zombi hanno bisogno di cervello per sopravvivere, be’, allora è ufficiale: SONO UNO ZOMBI. Con o senza il battito cardiaco, non mi sono mai sentita più... viva... di così. E, che ci crediate o no, sono talmente famelica che afferro il pacchetto, mi scodello l’altro mezzo chilo di viscida materia cerebrale e la butto giù senza esitazioni. Senza neanche un briciolo di condimento. Niente aglio, né sale e nemmeno un po’ di pepe o di salsa di soia per smorzare il sapore. Non uso nemmeno le posate; me ne sto lì, china sul lavello a gustarmi i miei bocconcini grigi masticando rumorosamente manco fossi un uomo delle caverne. Terminata la bella scorpacciata sento un brontolio, come il gemito di un animale in lontananza. Non è proprio un gemito, però, sembra più un cane, sì, un pastore tedesco che ringhia come quando qualcuno tenta di portargli via la scodella. Poi capisco che non si tratta di un animale. Sono io che ringhio. Provo a immaginarmi lì appoggiata al lavello: una ragazza di diciassette anni in ciabatte e pantaloni da ginnastica, con la coda alta per nascondere il buco grosso quanto una monetina da un centesimo che ha in cima alla testa, pezzetti di cervello che le colano dalle braccia fino alle maniche tirate su della felpa, che mastica con avidità, sbava e si avventa su mezzo chilo di cervello direttamente dal sacchetto del macellaio, ringhiando come un cane con un osso in bocca. Sexy, eh? Mando giù in fretta l’ultimo boccone e mi lavo le mani insaponandomi fino ai gomiti e oltre, stile chirurgo di Grey’s Anatomy. Mi asciugo con uno strofinaccio, poi faccio per buttare via il secondo piatto di carta ma di colpo mi fermo. E se papà, uscito dalla doccia, venisse in cucina, vedesse il cestino della spazzatura pieno e gli venisse voglia di fare la raccolta differenziata? E se, iniziando a dividere i tipi di rifiuti, trovasse il piatto tutto sporco di cervello? Allora mio malgrado svuoto il cestino e porto fuori la spazzatura guardandomi intorno con fare circospetto, nel caso i vicini potessero vedere magicamente attraverso il sacchetto i residui di cervello che si seccano mentre ci salutiamo. Ma non c’è nessuno. Fin qui tutto bene. Torno dentro e sento papà fischiettare nella sua stanza. Via libera, per ora. Trovo il coraggio di buttarmi sotto la doccia, ma non mi lavo i capelli. Tiro fuori la mia personale uniforme per andare a scuola: pantaloni cachi, camicia bianca col colletto tirato su, ballerine nere e una fusciacca color granato per cintura. Tutto questo in dieci minuti o forse meno. In cucina, trovo papà pulito e sbarbato con quei pochi capelli che gli rimangono pettinati all’indietro, i boxer azzurri e la canottiera bianca che spunta sotto l’accappatoio verde e logoro che a malapena riesce a chiudersi in vita. Mastica e intanto inzuppa un pezzetto di qualcosa nella salsa di soia. Con la bocca piena mi fa: «Non sono mai stato un grande fan del sushi ma questo pesce crudo che hai comprato al supermercato è davvero squisito. Cos’è, tonno? Branzino?». Allora guardo cosa sta indicando e, manco a dirlo, mi rendo conto di aver lasciato sul ripiano della cucina il sacchetto mezzo pieno di succulente fettine di cervello con accanto la salsa di soia e i semi di sesamo. Papà ha confuso mezzo chilo di cervello di agnello per una colazione a base di sushi. (Mmm, dite che un’esperienza del genere fa parte della sua formazione da medico legale?) Ha già addentato il secondo boccone intriso di salsa di soia ed è un po’ tardi ormai per dirgli cos’è veramente. Allora vado verso di lui, raduno quello che resta dei miei cervelli e lo infilo nel freezer. «Sono contenta che ti piaccia, papà, ma quel sushi l’avevo comprato... per un’occasione speciale.» Lui manda giù il sushi di cervello. «Be’ a questo punto, tesoro, non mi resta che sperare che non fosse troppo speciale.» Poi recupera uno stuzzicadenti e lo usa a dovere. «Non pensavo che il sushi fosse così gommoso.» Quando torna in camera sua per vestirsi, mi guardo allo specchio dell’ingresso e sussulto davanti alla faccia cadaverica che mi fissa dall’altra parte. Poi mi ricordo che ho un buco in testa, allora mi sciolgo la coda e mi metto a frugare nell’armadio dell’atrio in cerca di qualcosa per coprirlo. Trovo un vecchio basco che papà mi aveva regalato dopo avermi sorpresa una sera a guardare il film della Pantera Rosa via cavo. Me lo metto e torno a fissarmi allo specchio. Niente male. Non sto bene, questo no... ma non faccio nemmeno ribrezzo. Un po’ sopra le righe, un filo appariscente, ma di sicuro Hazel approverà. Così afferro le chiavi ed esco di casa, pronta ad affrontare la mia prima giornata da zombi n. 3. SECONDA PARTE MORTI E QUASI MORTI 14 TRUCCAMI «Mi dai una mano?» domando a Hazel presentandomi alla porta di casa sua quindici minuti prima dell’ora in cui di solito partiamo per andare a scuola. Lei mi lancia un’occhiata e dice: «Oddio, ma che ti è successo? E dove diavolo hai preso l’orrendo baschetto che hai in testa?». Me lo abbasso ancora di più sulle orecchie e rispondo: «Era in fondo all’armadio. Ho pensato che potesse servire a distogliere un po’ l’attenzione dalla mia faccia». In realtà, ovviamente, doveva servire a coprire il buco in mezzo al cranio (ma non avevo intenzione di rivelare quell’informazione, a meno che non fosse stato strettamente necessario). «Be’, ti sbagliavi» fa Hazel trascinandomi in camera sua. Passando salutiamo i suoi genitori che si stanno litigando l’ultima fetta di toast in cucina. «Ciao, Maddy» esclamano entusiasti e, con altrettanto entusiasmo, tornano ad accapigliarsi. La madre di Hazel interrompe la discussione per gridarmi dietro mentre saliamo le scale: «Bel baschetto, Maddy». «Bon appétit» fa il padre. Una volta arrivate di sopra, mi siedo davanti alla specchiera di Hazel (ebbene sì, a Hazel non basta essere l’unica ragazza del pianeta ad avere una specchiera in camera, la usa anche! E con una certa regolarità). Fissando il riflesso del mio volto pallido, biascico in preda al panico: «Ho provato da sola ma poi ci ho rinunciato, mi sono struccata e sono venuta da te». «Allora» dice Hazel dandomi una pacca sulla spalla e aprendo i cassetti della specchiera pieni di trucchi «sei venuta nel posto giusto.» «Ho solo bisogno di un po’...» Lei se ne sta lì impalata, con le mani sui fianchi, a osservare il mio riflesso con una smorfia di disgusto sulle labbra. «Ma.. che... cosa... hai fatto? Stai male? Non avevi un aspetto così terribile ieri sera, quando ci siamo viste. Cos’è successo?» (A stento trattengo un gemito. Ci siamo viste solo ieri sera? Con tutte le cose che mi sono capitate, sembra una vita fa che la salutavo dal vialetto di casa mia.) Mi dà un pizzicotto sulla guancia ma subito ritrae la mano come se avesse toccato un ferro rovente. «Cavolo, sei fredda, Maddy. Di più, sei un ghiacciolo. Sicura di voler venire a scuola oggi?» «Sto bene. Che ne so, sarò allergica alla nuova crema per il viso. Riusciresti a farmi sembrare meno... meno...» «Morta?» dice lei con un sorrisetto. Evito il suo sguardo e mi limito ad annuire mentre lei si mette all’opera. Ammirata, la osservo restituire colore alle mie guance, eliminare le ombre scure intorno agli occhi, ridare consistenza – ma senza esagerare – alle labbra che si stanno assottigliando sempre più. Sono talmente sconvolta dal contrasto tra il prima e il dopo che non protesto nemmeno quando fa per togliermi il basco. Almeno non fino a quando la sento sussultare, allora distolgo lo sguardo da me e lo sposto sul suo riflesso. Sta fissando il buco che ho in testa. Il mio buco! «E questo cos’è?» Balzo in piedi afferrando una molletta per coprire in fretta e furia quell’orrore. «Niente, cioè... non lo so. Stamattina mi sono svegliata ed... era lì; sarò caduta dal letto e avrò sbattuto la testa contro il comodino, qualcosa del genere. Ma non me lo ricordo.» Lei inclina la testa da un lato con il tipico sguardo di quando non mi crede. «Te lo ricorderesti se avessi sbattuto la testa così forte, Maddy. No, dico, hai un enorme livido nero proprio al centro. L’ho toccato. Non è nemmeno un livido; è proprio un... buco.» «Non fa male, però.» Almeno questa non è una bugia. Lei mi fissa come se avesse appena visto un ragno e dice: «Strano, perché dovrebbe proprio farti male. Fa male solo a guardarlo». «È per questo che l’ho coperto» ribatto senza dare troppo peso alla sua mancanza di tatto. Siamo in ritardo, così mi avvio giù per le scale e lei mi segue. I suoi sono usciti per andare al lavoro e hanno lasciato un gran casino in cucina, ma Hazel a malapena ci fa caso mentre ci precipitiamo fuori dalla porta. Sale in macchina dal lato del passeggero e, prima che possa protestare, giro bruscamente il volante e mi dirigo di nuovo verso casa mia. «Ehi,» esclama «stai andando dalla parte sbagliata!» «Ho dimenticato una cosa.» Voglio vedere se Stamp è nel mio vialetto. Stavo pensando che, visto che ieri non mi sono presentata alla festa, magari stamattina è venuto a cercarmi. Qualunque gentiluomo lo farebbe, no? Si assicurerebbe che la ragazza che ha invitato a una festa e che non si è presentata, se non altro sia ancora viva. (O, in ogni caso, non-morta.) Sempre che non abbia chiesto a ogni ragazza in cui si è imbattuto ieri di andare alla stessa festa e non se le ricordi più tutte, il mattino seguente. È questo che sei, Stamp? Una specie di pervertito che invita alle feste chiunque gli capiti a tiro? (Oh no, ti prego, fa che non sia un demente del genere. Non dopo l’incubo che ho vissuto la notte scorsa e che sto ancora vivendo.) Passo lentamente davanti casa ma niente, non c’è nemmeno la station wagon di papà, così premo sull’acceleratore e mi allontano. «Credevo che avessi dimenticato qualcosa» dice Hazel mentre ci dirigiamo verso scuola in fretta e furia. Scrollo le spalle, infastidita dal fatto che non le sfugga mai niente. «Mi sono ricordata che non l’avevo dimenticata.» «Ok» e si sistema a sedere rivolta verso di me «adesso mi spieghi che ti succede? Ieri sera ci siamo salutate ed eri Maddy, la piccola Maddy dalla pelle calda e abbronzata. Poi oggi ti presenti a casa mia ed è tutto – e quando dico tutto, intendo proprio tutto – cambiato. Di colpo hai la pelle chiara, sei gelida, sembri un cadavere riesumato, hai le occhiaie e un gigantesco... livido nero, anzi, un bel buco rotondo in mezzo alla testa. In più indossi un basco, Dio santo, e te ne stai lì a dirmi che ti sei ricordata di non aver dimenticato una cosa che credevi di aver dimenticato... cosa sei, ammattita?» «Hazel, non lo so. Non ho spiegazioni per il buco, per la pelle fredda e nemmeno per il basco, ok?» «Mi stai mentendo.» E si abbandona contro il sedile sbuffando con le braccia conserte, mentre io mi metto in coda per entrare nel parcheggio della scuola. «Non è vero.» «Invece sì, Maddy. Mi hai mentito anche ieri, su Stamp. Prima vai a sbatterci nel corridoio e poche ore dopo ti vedo tornare dal cimitero con lui, e mi vieni a dire che la scorsa notte non è successo niente? E stamattina ti presenti in questo stato? C’è qualcosa che non torna, Maddy.» «Hazel, te lo giuro, non...» «Ti ricordi, sì, cosa ti ho detto undici anni fa, quando ti ho scelta come mia migliore amica?» «Come potrei dimenticarlo?» sospiro frustrata, con gli occhi fissi sul volante dato che procediamo a passo di lumaca. «Cosa ti ho detto, Maddy?» «Mi hai detto che se mai ti avessi mentito o ti avessi nascosto qualcosa, non saremmo più state migliori amiche.» «Esatto, Maddy. Io non prendo l’amicizia sotto gamba e tu lo sai. Non so se ti sei beccata un virus e non vuoi farlo sapere a nessuno, se sei incinta, se sei ubriaca da ieri sera, se sei fatta o stai per morire, so solo che forse non sei degna di essere la mia migliore amica.» Parcheggio con l’impressione che – se anche fossimo a tre isolati da scuola – Hazel scenderebbe ugualmente dalla macchina sbattendo la portiera, solo per avere l’ultima parola, proprio come sta facendo adesso. Rimango da sola, col motore che borbotta. Sento in lontananza la seconda campanella che suona, vedo i ragazzi che si affrettano verso l’entrata e scoppio a piangere. Ma non ho... lacrime. Non mi esce niente dagli occhi, né dal naso... niente di niente. «Grandioso» dico a non so chi. «Adesso va’ a finire che non posso più nemmeno piangere.» 15 CHI LA FA L’ASPETTI Come c’era da aspettarsi, quella mattina a economia domestica Hazel mi ignora. In teoria dovremmo scrivere una lista di cinque ricette da presentare per il progetto di fine anno, ovvero un pasto di cinque portate, ma lei se ne sta lì a mandare messaggi ad altre amiche mentre io sfoglio un paio di vecchi libri di cucina della collezione della Haskins. (Be’, onestamente, se avessi altre amiche oltre lei, farei lo stesso.) È una fase che attraversiamo spesso. Circa due o tre volte l’anno. Ma, ragazzi, correggetemi se sbaglio, è una cosa del tutto normale, no? Trascorri il 99 per cento del tuo tempo con la stessa persona, ogni giorno, e ci sta che una volta ogni tanto una delle due faccia i capricci. Di solito mi basta farla ridere, ma oggi non sono in vena di scherzare, perciò mi accontenterò di infastidirla a morte. (Sì, lo so, c’è poco da scherzare con la morte, ma oggi è una pessima giornata.) «Ehi, Hazel» le dico in tono allegro mentre è intenta a digitare qualcosa sul suo cellulare rosa tempestato di brillantini. «E se per il progetto di fine anno preparassimo un tacchino arrosto ripieno di salvia e salsiccia tritata?» Niente, non alza nemmeno lo sguardo dal telefono. Sorrido fra me e le chiedo: «Hazel, preferisci il maiale arrosto con i crauti?». A ogni domanda la mia voce si fa meno spensierata e più passivo-aggressiva, finché – mentre giro le pagine freneticamente – mi ritrovo quasi a urlare. «E se preparassimo del fagiano arrosto con verdurine?» Vado avanti così per un pezzo, fino a quando anch’io non ne posso più. Alla fine le grido un ultimo suggerimento. «Ehi, Hazel, che ne diresti di preparare un grosso piatto fumante di merda arrosto con un bel contorno di “Fanculo, non ti ho fatto niente di male”? Eh? Che ne dici?» Hazel a malapena guarda verso di me, si alza, prende il telefono e la borsa, si dirige in fondo alla classe e chiede alla Haskins di poter uscire quindici minuti prima. E non torna più. Dopo un po’ che se n’è andata, la prof viene da me con aria seriamente preoccupata, e mi domanda: «Maddy... tutto bene?». Non lo chiede da insegnante anzi, sembra che stia parlando con un’amica in un bar o in un ristorante. Con quella sua voce rauca, profonda, sembra almeno cinque anni più giovane e dieci volte più sexy. Mi preparo a mentire, a sparare una cazzata stratosferica che la spedisca via all’istante, ma la sua preoccupazione sembra sincera, così sospiro incurvando le spalle e le dico la verità: «Non lo so, signorina Haskins». Non avrei voluto, però quell’improvviso interesse nei miei confronti da parte di un adulto manda ogni buon proposito a farsi friggere. Lei si siede sullo sgabello accanto al mio. «Hazel ti ha attaccato qualcosa?» Non so come rispondere. Le cose sono due: o è il mio cervello che non funziona bene, oppure è quella domanda ad avere così poco senso da mandarlo in tilt. La Haskins si schiarisce la voce. «Mi ha appena chiesto di uscire perché non si sentiva bene e non ho potuto fare a meno di notare che anche tu oggi non sei proprio un fiore...» Scuoto la testa. «Non è per colpa di Hazel. Mi sono solo svegliata così.» Nessuno sa cosa si intenda per «così», fatto sta che tutti mi fissavano in corridoio e adesso la Haskins mi guarda come se le facessi pena. Credevo di poter diventare uno zombi da un giorno all’altro e di cavarmela con un po’ di trucco, di tornare a scuola senza che nessuno notasse niente di strano... Evidentemente mi sbagliavo. «Poco fa ho usato un eufemismo, Maddy. Non hai... come dire... sì, non hai un bell’aspetto. Non hai proprio un bell’aspetto. C’è qualcuno che potrebbe darti un passaggio a casa?» «A casa? Ora? Mancano quattro ore alla fine delle lezioni. Se vado via, perderò arte.» La Haskins non risponde, ma immagino che se un insegnante ti dice di andare a casa, deve pur esserci una ragione. «Sono così orribile?» le chiedo fissandole le scarpe da duecento dollari. Lei continua a stare in silenzio, mi guarda finché non oso ricambiare il suo sguardo. Dopo di che annuisce mordendosi un labbro, e mi scrive una giustificazione per uscire prima. In preda all’imbarazzo la ringrazio con tutto il cuore e mi alzo per andarmene. La osservo mentre torna alla scrivania sperando che si giri per poterla ringraziare ancora una volta, per farle capire che ho apprezzato la sua sincerità, quando all’improvviso scorgo Scheletro e Dahlia annidati nel loro piccolo angolo. Stamattina avevo gli occhi di tutti puntati addosso ma questa proprio non me l’aspettavo: mi stanno sorridendo. Scheletro e Dahlia mi sorridono quando incrocio il loro sguardo. Rabbrividisco. Con quella pelle bianca e gli zigomi pronunciati, persino un sorriso sul loro volto ti fa venire la pelle d’oca. Di colpo mi torna in mente la minaccia della sera precedente: «Prima o poi dovrai affrontarci da sola». Ecco quindi il piano della giornata: stare vicino alle persone che conosco. 16 ODIO GLI UOMINI Sfortunatamente, l’impresa è più difficile del previsto. Prima Hazel crede che le stia raccontando bugie e mi ignora per tutta l’ora di economia domestica. Poi, l’istante in cui metto piede nell’aula di arte, arriva un’altra bella sorpresa: anche Stamp ce l’ha con me. Come faccio a saperlo? Be’, tanto per cominciare il supplente della Witherspoon mi apostrofa con un simpatico: «Oh, buongiorno. La prof Witherspoon parteciperà come giudice a un concorso a Tallahassee questo weekend, perciò oggi avete l’ora “libera”. Siediti pure dove vuoi, non fare complimenti». Noto che Stamp si è già sistemato: è circondato da cinque ragazze con la bava alla bocca che pendono letteralmente dalle sue labbra. Sta raccontando della festa di ieri sera (figuriamoci) mentre vado a sedermi – da sola – qualche banco più in là. «... allora io gli dico, bevo da quel birra bong solo se l’avete riempito con due lattine di birra. Una lattina sola è da perdenti.» E loro scoppiano a ridere – e ridono, ridono, ridono. Io sorrido con aria di sufficienza, poi apro l’album e – chissà poi perché – mi metto a disegnare due lattine di birra giganti che prendono vita e minacciano un certo kicker, alto e moro, di mia conoscenza. «Chi c’era?» gli chiede una delle gallinelle a voce così alta da farsi sentire fino alla mensa (di un’altra scuola, però). «Ah, c’erano tutti» risponde lui a voce altrettanto alta. «Proprio... tutti.» E guarda verso di me, ma io faccio finta di niente. «Tutti quelli che contano, perlomeno.» Le oche sospirano con aria di chi sa bene di cosa si sta parlando, anche se non c’erano, e non sembra fregargliene di meno che questa sia solo una sceneggiata per farmi ingelosire (suppongo, anzi spero). Lui parla, parla e loro ridono, ridono e io me ne sto lì col fumo che mi esce dalle orecchie pensando a quanto velocemente le cose possano cambiare quando hai diciassette anni e sei una povera non-morta a cui nessuno vuole bene. Fino a ieri avevo il mondo ai miei piedi. Avevo ancora la mia amica del cuore, un ragazzo mi aveva chiesto di uscire, ero sgattaiolata fuori dalla finestra senza che papà se ne accorgesse, ero a tanto così dal limonare col nuovo kicker della squadra di football e poi – bim, bum, bam – festa finita. Non bacio il figo, non ho più un’amica comprensiva da cui andare, non mi batte più il cuore, e mi ritrovo con un biglietto di sola andata per Zombilandia. E oggi? La mia migliore amica non mi rivolge la parola, Stamp evidentemente pensa che gli ho dato buca e non mi dà nemmeno il tempo di spiegargli cos’è successo (gli proporrei comunque una versione censurata), Scheletro e Dahlia vogliono aggiungermi alla lista delle vittime della Maledizione della Terza Ora, e la Haskins mi spedisce a casa – quattro ore prima – perché non riesce a guardarmi. Mentre Stamp continua a blaterare cose evidentemente divertenti, a raccontare aneddoti favolosi sulla festa, a dire che le ragazze erano tutte belle, che la musica spaccava e scorrevano fiumi di birra, piego il mio disegno in quattro, poi in otto, poi in sedici e continuo a piegarlo finché riesco. Poi me lo infilo in tasca e resto seduta fino a quando suona la campanella. Sembra un’eternità che sono seduta qui, e a ogni risatina finta da parte di una delle gallinelle, le mie speranze di piacere a Stamp vanno in frantumi. Ventiquattro brevissime ore fa avevo davanti un futuro luminoso, un futuro in cui mi sembrava possibile che lui posasse quel suo bicipite possente sulle mie spalle sancendo il tanto auspicato lieto fine. Ma oggi a malapena lo riconosco. Mi era sembrato talmente... dolce, ieri. Mi aveva raccolto i libri quando eravamo andati a sbattere l’uno contro l’altro, era così carino mentre modellava la creta su questo stesso tavolo, mi aveva persino riaccompagnato a casa dal cimitero, proprio quando avevo bisogno di qualcuno accanto. E adesso? Poteva anche essere uno sconosciuto. Lo guardo con la coda dell’occhio, mentre racconta i suoi aneddoti beandosi delle attenzioni di tutte quelle fan, e mi chiedo come avrebbe potuto essere se le cose fossero andate diversamente. Una delle galline gli sposta il ricciolo alla Superman dal viso, flirtando in modo spudorato, così distolgo lo sguardo sforzandomi di trattenere le non-lacrime e fisso l’orologio, come se questo aiutasse le lancette a muoversi più in fretta. Forse è meglio così, che si sia dimostrato un idiota, dopo tutto. Che futuro avremmo mai potuto avere? La Morta Vivente e il Figo da Morire? Come ho potuto credere che mi avrebbe chiesto di nuovo di uscire dopo aver sentito quant’è gelida la mia pelle, dopo aver baciato le mie labbra cadaveriche ed essersi accorto che ho zero battito cardiaco? Come ho fatto a pensare che non vedesse l’ora di avere uno zombi per ragazza? Finalmente suona la campanella, ma questo non mi solleva il morale come avrei creduto. Stamp si alza ed esce in un batter d’occhio, senza voltarsi indietro nemmeno quando il suo piccolo harem gli urla in tono supplichevole: «Stamp! Aspetta, Stamp!». Mi alzo in piedi controvoglia e mi avvio lungo il corridoio sotto le occhiatacce e le dita puntate dei miei compagni. Sono lo zombi più sconsolato del pianeta. Cammino a testa bassa, non guardo dove vado e nemmeno m’importa, quando all’improvviso sbatto addosso a qualcuno. Non faccio in tempo a vedere chi sia che se n’è già andato e, a giudicare dalla felpa col cappuccio e dalle scarpe consumate, dovrebbe essere Dane che si trascina per il corridoio. La gente va e viene, e nessuno si degna di parlarmi visto che oggi sembro davvero un cadavere riesumato. Che ci crediate o no, il momento migliore della giornata è quando svuoto il cestino pieno di trucioli di matita del professor Harvey, durante la sesta ora. Non perché sia una specie di patita di quell’odore (sono sicura che sapete a cosa mi riferisco), ma perché dopo sei ore di lezione di fila, ho una scusa per uscire a prendere una boccata d’aria fresca. Non mi resta che andare a dare una mano in biblioteca a questo punto, ma i libri sono già stati riposti nei loro scaffali da altri quattro aiutanti e Harvey si è chiuso nel laboratorio di informatica per leggere in santa pace i risultati che appaiono sullo schermo quando digita il suo nome su un motore di ricerca. Posso solo svuotare i dodici cestini (uno per ogni corsia di libri) in un sacco più grande e godermi i seguenti venti minuti di libertà concessi gentilmente dal mio pass di aiuto bibliotecaria. «Scrivitelo da sola» articola il prof da dietro il vetro del laboratorio. Mi accingo a farlo ma non riesco a trovare una penna al banco prestiti. Rovisto nelle tasche e trovo un bigliettino spiegazzato che sono certa di non averci messo io. Lo apro. È un foglio a righe e ha due angoli leggermente sbeccati, come se chiunque l’avesse strappato dal quaderno fosse arrabbiato o di fretta – o entrambe le cose. Sesta ora, laboratorio sul retro, incontriamoci al cassonetto. Dane Allora è per questo che mi è venuto addosso fuori dall’aula di arte? Per infilarmi un bigliettino nella tasca? Scuoto la testa, butto via il foglio e svuoto tutti i trucioli di matita nello stesso cestino. Uscendo passo davanti a Harvey mostrandogli il sacchetto dell’immondizia, ma lui è immerso in qualche sito di astronomia e non ci fa caso. Sono tentata di andare a gettare la spazzatura in un altro cassonetto, che Dane e il suo biglietto vadano al diavolo. Chi si crede di essere per dirmi dove andare a buttare l’immondizia alla sesta ora? Però, devo ammettere che sono un po’ curiosa. Se lo zombi n. 2 si arrischia a farmi scivolare un biglietto in tasca, forse vale la pena di andare a sentire cosa vuole. I cassonetti sono nell’ala D, tra la mensa, l’aula di arte e il laboratorio di meccanica. Faccio il giro largo: passo davanti alle macchinette automatiche dell’ala B, supero lo spogliatoio dei maschi dell’ala A (in caso scattasse l’allarme anti- incendio e trenta bestioni nudi e bagnati uscissero in tutta fretta dalle doppie porte arrugginite finendo ricoperti di trucioli di matita), attraverso l’ala C ed esco all’aria aperta. Non che l’aria accanto ai cassonetti sia proprio piacevole, ma è sempre meglio che stare seduti in biblioteca ad ascoltare per quindici minuti di fila quei subumani dei miei compagni che se la ridono leggendo le parti spinte di un romanzetto scadente. A quest’ora del giorno la scuola va avanti col pilota automatico. Gli sportivi risparmiano le energie per gli allenamenti pomeridiani; i teppisti sono già stati spediti a casa, sospesi o espulsi per il resto dell’anno; le fighette vagano in attesa di uscire per dedicarsi alla pedicure e ai trattamenti spa. Esco in silenzio, giro l’angolo in direzione dei cassonetti e mi ritrovo davanti Dane Fields che si aggira fuori dal laboratorio aspirando avidamente una Marlboro Light. Il cortile è pieno di lamiere di metallo, portiere d’auto arrugginite, vecchie taniche d’olio per motori e un sacco di altra roba che rende il luogo perfetto come nascondiglio per il classico fumatore della sesta ora. E, con tutte le cose che mi passano per la testa in questo momento – non ho amici, non ho un ragazzo e... sono morta –, la prima che mi viene in mente è: non sapevo che Dane Fields fumasse. Ma chi se ne frega! Lui mi viene subito incontro. «Perché ci hai messo tanto?» «Lascia stare, Dane. Hai idea di quanto ci voglia a svuotare tutti i cestini della biblioteca?» «Vuoi dire tutti e dodici? Al massimo tre minuti e mezzo.» Scuotendo la testa butto la spazzatura nel cassonetto, praticamente un truciolo alla volta, tanto per farlo aspettare un altro paio di minuti. Non so perché Dane mi dia tanto sui nervi oggi, eppure... è così. Suppongo che non c’entri nulla lui, e nemmeno Chloe. Sarà piuttosto perché mi hanno incluso con la forza nella loro sottospecie di famigliola di zombi felici. Voglio dire, con tutti gli zombi che potevano esserci in città, io dovevo beccarmi proprio... loro? Lui attende impaziente. «Senti, Maddy, ci sono questioni serie di cui dobbiamo discutere e faresti meglio a prendermi sul serio d’ora in avanti.» «Ho capito, Dane. Ho capito.» Poi mi guardo intorno per assicurarmi che non ci siano testimoni e aggiungo: «Però potreste pur concedermi del tempo per abituarmi all’idea, no? Sono uno zombi da... quanto... 48 ore? Non statemi col fiato sul collo. Sono rimasta sveglia tutta la notte a fare avanti e indietro nella mia stanza come un animale in gabbia. Mio padre si è anche mangiato i miei cervelli per sbaglio, credendo che fossero del sushi. Hazel non mi parla più perché crede che le stia mentendo. Che cavolo, avrò diritto a un po’ di pace. Tutti a scuola mi guardano come se avessi scritto “zombi” in fronte. Faccio del mio meglio, ok? Abbiate... pietà». Allora lui mi guarda e dice, in tono più gentile questa volta: «Ok, ok, so come ti senti, Maddy. Davvero. So che non è facile per te e so anche che preferiresti stare con i tuoi amici Normali, come Hazel, piuttosto che con Chloe e me, ma devi impegnarti di più se non vuoi destare sospetti. Questo... look... non va bene per niente». Mi cadono le braccia. Faccio schifo anche agli zombi. Senti un po’ da che pulpito viene la predica. «Ci sto provando, Dane. Hazel mi ha persino truccata prima di venire a scuola e lei è un’esperta di trucco.» Dane mi scruta con un ghigno sarcastico. «Andrà bene per i Normali, ma ci vuole molto altro per camuffare uno zombi, serve qualcosa di più efficace.» «Ah, sì» esclamo ridendo. «Allora non so proprio come accontentarti.» Suona la campanella e ci scambiamo un’occhiata a metà fra il rassegnato e il frustrato, come se io fossi ancora un po’ offesa e lui ancora un po’ incazzato con me e tutti e due consapevoli di non avere nessun altro al mondo, perciò troveremo un modo per farcela passare. Ci separiamo e prima di andarsene lui si volta: «Non preoccuparti, Maddy. Ho chiesto aiuto a una che sa davvero come fare per camuffarci. Ti aspetta dopo scuola». «Sì» annuisco mentre passo davanti ai cassonetti. «Sempre che riesca ad arrivarci.» 17 SESSANTA IRRESISTIBILI CENTIMETRI E, non so come, ma ci arrivo. Quando suona l’ultima campanella, mi sono già dimenticata di Dane e dei consigli sul trucco che nessuno gli ha chiesto. Ho circa 1001 cose più importanti a cui pensare, tipo come fare a tenere papà alla larga dalle mie provviste di cervello e Hazel all’oscuro del fatto che sono uno zombi dato che stiamo insieme 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per tutti e 365 giorni dell’anno. Sono quasi arrivata al parcheggio, con la testa che mi fuma, quando noto Stamp farmi un cenno con la mano. A momenti mi prende un colpo vedendolo fuori dagli spogliatoi, pronto per la grande partita del venerdì sera. Indossa i pantaloni da football, che altro non sono se non una cosina striminzita e attillata che dall’ombelico arriva appena sotto le ginocchia. E indossa anche quella specie di mezza-maglietta che suppongo vada sotto l’armatura. Perciò gli resta una buona sessantina di centimetri di pancia scoperta. Rimango lì come un’ebete a fissarli tutti e sessanta e lui mi domanda con aria innocente: «Che c’è?». Come se non mi avesse dato buca ieri sera, come se stamattina fosse venuto a cercarmi e oggi a scuola non mi avesse sparlato dietro senza pietà. Che c’è? Te lo dico io che c’è... Apro la bocca per rispondergli a tono, così una volta per tutte capisce con chi ha a che fare: «Niente. Volevo... volevo scusarmi per non essere venuta alla festa ieri sera». (D’accordo, non gli ho affatto risposto a tono, ma vi sareste comportati nello stesso maledettissimo modo anche voi se – come me – vi foste ritrovate davanti quei sessanta centimetri di pelle nuda.) «Figurati» sbuffa lui. «Ho pensato che avessi cambiato idea, che non fossi venuta per farti desiderare. Nessun problema.» «Davvero?» Quindi è questo il motivo per cui non mi è venuto a cercare stamattina. «Se qualcuno l’avesse fatto a me, Stamp, a quest’ora sarei piuttosto incazzata.» Lui mi lancia una delle sue tipiche occhiate. «È acqua passata, Maddy, davvero. Senti, mi restano ancora cinque minuti prima che il coach inizi a urlarmi dietro come un ossesso. Stasera c’è la partita, ci vieni, vero? Be’, comunque volevo chiederti...» Negli oscuri recessi della mia mente, una vocina finisce la frase: ... di venire al ballo di fine anno con me. Ma non voglio gufarmela perciò esclamo, «Cosa?», col fare più naturale possibile, anche se è tutt’altro che semplice perché sono già lì che penso a quando prendere appuntamento dall’estetista e mi chiedo di che colore sarà il suo vestito per azzeccare quello del mio ombretto. Lui arrossisce, distoglie lo sguardo, vede qualcuno alle mie spalle e sbuffa infastidito. Immagino che si tratti del rompiballe di turno e invece mi volto e vedo arrivare Hazel. Perfetto. Un attimo fa c’era solo Stamp con i suoi superaddominali, i pantaloni attillati e una domanda sulla punta della lingua e all’improvviso si materializza Hazel, con la sua chioma rossa fluente, il culetto che ogni ragazza vorrebbe... e le labbra ostinatamente sigillate. Dopo un po’ la guardo e le domando, «Che c’è?», messaggio in codice femminile che sta per, Gira alla larga dal mio uomo, stronzetta. «Ah, niente. Volevo solo dirti che la Peppercorn mi ha chiesto di far parte del comitato decorazioni del ballo di fine anno. Vorrebbero anche un tocco maschile e, siccome non mi fido degli altri ragazzi della scuola, ho pensato di coinvolgere un po’ di gente nuova.» «Parli di me?» fa Stamp. «Parli di Stamp?» faccio io. Hazel alza gli occhi al cielo e dice: «Ma va». E subito mi zittisce: «Questo è un invito formale e devo spiegargli tutto come si deve, perciò... smamma». Così, all’improvviso mi ritrovo a fare da terzo incomodo nella mia conversazione. Incredula, rimango ferma lì ma Hazel fa sul serio e a un certo punto addirittura si gira di spalle e costringe Stamp a guardarla. «Ok, allora io vado. Ciao!» esclamo. Stamp mi sorride a disagio con la faccia di chi non sa se ridere o piangere, finché Hazel di colpo sbotta: «Concentrati, Stamp. Dunque, stavo dicendo...». Mi allontano piano, a testa bassa, voltandomi di tanto in tanto. Lui mi guarda con gli occhi tristi mentre Hazel gli tira degli schiaffetti sulla guancia. La sua mano tocca la guancia del mio uomo. La domanda che stava per farmi è rimasta sospesa nel vuoto. Sono confusa, ferita, speranzosa e imbarazzata. E se non stesse per chiedermi di andare al ballo con lui? Se avesse solo voluto dire, «Ehi, come butta?». Non sono mai uscita con uno sportivo. Che si comportino sempre così? Del tipo che la mattina appendono i lacci delle scarpe fuori dallo spogliatoio e poi tornano a vedere chi ha abboccato? E se avesse voluto farmi una domanda innocente e quello che credo ci sia fra noi in realtà non esistesse? Eppure esiste, io ne sono certa. Non ci volevano mica i superpoteri da zombi per capire che stava per chiedermi di andare al ballo con lui prima che Hazel... si mettesse in mezzo. Sono arrivata quasi in fondo al parcheggio calciando ogni singola pietruzza o sassolino che incontro sul mio cammino, quando all’improvviso mi accorgo che c’è qualcuno appoggiato alla mia macchina. Chloe Kildare. «Sali» mi dice quando sono abbastanza vicina al posto del guidatore da sentirla. «Eh, sì» ribatto da brava neozombi. Sono già incazzata con Hazel e non mi va di avere tra i piedi altre arpie per tutto il pomeriggio. «Penso proprio che lo farò dato che questa è la mia macchina, ricordi?» Ignorandola mi chino, salgo e sbatto forte la portiera per non vederla più. Sfortunatamente il telecomando apre tutte e quattro le portiere e in men che non si dica mi ritrovo Chloe accanto. Sospiro. «Chloe, dico sul serio, oggi... non ho tempo per... queste cose.» «Tesoro,» mi dice lei, e non c’è traccia di sarcasmo nella sua voce mentre osserva prima la mia pelle bianca e poi i cerchi intorno agli occhi «credimi, hai tutto il tempo del mondo.» «Sarò anche immortale ma questo non significa che improvvisamente non abbia più nessun impegno. Mio padre ha lavorato come un matto per tutta la settimana e stasera vorrebbe che cenassimo insieme, devo scrivere un tesina di sociologia per martedì prossimo e chi mi doveva invitare al ballo ancora non l’ha fatto, grazie alla mia migliore amica, per questo ho zero tempo da dedicarti e adesso scendi dalla mia macchina e smettila di darmi ordini...» «Come vuoi.» Allunga una mano verso la maniglia e apre la portiera. Da seduta chiama Stamp che nel frattempo è stato messo spalle al muro da Hazel, la quale lo guarda come fosse il lupo e lui Cappuccetto Rosso. «Ehi, Stamp» grida Chloe. Da qui non riesco a capire se l’ha sentita o no. «Lo vuoi sapere un segreto sulla tua ragazza?» «Torna subito dentro» urlo afferrandola per un braccio e tirandola verso di me. Accendo il motore della mia cara vecchia Honda e parto sgommando dal parcheggio mentre lei esclama: «Oddio, quanto sei ingenua. Credevi davvero che avrei disobbedito a circa una trentina di regole spifferando tutto a Stamp? Così, in pieno giorno?». «E che ne so.» «Te lo dico io, non l’avrei mai fatto.» Sospiro. Non mi fa male la testa ma mi sento come se avessi il cervello stretto in una morsa. «Allora cosa voleva essere, una specie di raid alla zombi? Prima Dane mi mette al muro alla sesta ora e mi dice che non mi sto impegnando abbastanza per esprimere il mio potenziale di zombi o una roba simile, poi tu mi bracchi alla fine delle lezioni aspettandomi davanti alla macchina. Che succede?» «Succede» dice Chloe squadrandomi da cima a fondo nell’impietosa luce che filtra dal parabrezza «che sembri un chilo di sterco servito in una vaschetta da mezzo chilo – e questo non possiamo accettarlo. Io e Dane abbiamo una reputazione da difendere e ora che sei dei nostri non possiamo permetterti di infangarla.» La guardo: ha la faccia super truccata e il nasino col piercing arricciato in una smorfia. «E tu saresti l’esperta di make up di cui mi parlava Dane?» le chiedo, scettica. «Perché? Chi ti aspettavi, Heidi Klum?» Sbuffo, ma non è facile quando ti viene da ridere. E chi l’avrebbe mai detto? Chloe Kildare sa anche fare le battute? In più se ne sta lì a darmi consigli di bellezza con i piedi appoggiati sul cruscotto come se la macchina fosse sua. Il mondo va proprio all’incontrario. Se non altro, il mio. «Pensavo che sarebbe stato tutto più semplice» dico mentre cerco di evitare l’orda di ragazzini che esce da scuola in questo splendido venerdì, qui, nell’assolata Barracuda Bay. «E infatti via via diventerà più semplice, però non è il massimo farsi smascherare il primo giorno di zombismo. Ti abbiamo tenuto d’occhio, io e Dane, per vedere come te la cavavi. E, da zombi a zombi, devo dirtelo, fai pena. Fai proprio pena. Oggi, a scuola, persino quelli che di solito non alzano gli occhi dai libri parlavano di te. Pensano tutti che tu abbia la malaria o qualcosa del genere.» Mi fermo a uno stop e mi guardo nello specchietto retrovisore. Qualcuno che non conosco mi fissa – una tizia dall’aria disperata, pallida come un morto, senza speranza, né vita, né un futuro davanti. «Sono così orribile?» chiedo per la milionesima volta in un giorno. Lei sta zitta. «Senti, tu portami al centro commerciale e io ti assicuro che nessuno farà più caso a te. Affare fatto?» Invece di svoltare a sinistra per andare a casa, giro a destra in direzione della Barracuda Bay Galleria. «Ho forse scelta?» La risposta di Chloe è una grassa risata da zombi. 18 CONDANNATA AL FAST FOOD Ci sediamo ai tavolini di un fast food: due zombi che succhiano Coca Cola dalla cannuccia come due ragazzine anni ’50 col golfino bianco. A parte il sandwich al formaggio di ieri, questa è la prima cosa da umani che ingerisco da quando sono morta (i cervelli contano?) e – soprattutto – è la prima volta che bevo una Coca non light da quando avevo quanto... otto anni? Qualche tavolo più in là c’è una mamma con i nervi a fior di pelle che urla prima a un figlio poi all’altro, cercando contemporaneamente di ficcarsi un panino in quella sua povera bocca stressata. «Jeffrey, basta. Brian non fare così. Jeffrey mettilo giù.» Chloe li ignora e fissa i negozi, quasi tutti vuoti, al di là della zona ristorazione. «Ti spiacerebbe ricordarmi perché non posso bere la Coca light.» Bevo un sorso di quel liquido denso, sciroppato, e con mia grande sorpresa lo trovo buono. Ne bevo un altro po’. La morsa che mi stringe il cervello si spalanca di colpo, come mi succede sempre quando sono in astinenza da caffeina e il primo sorso di Red Bull mi va dritto alla corteccia cerebrale. Chloe scuote la testa. «Non avrai più bisogno di stare attenta alle calorie. Ma guardati, hai appena iniziato la fase di Assimilazione e scommetto che hai già perso il quindici per cento del grasso corporeo. In men che non si dica ti ritroverai con il tre per cento, al massimo il quattro, di grasso per il resto dell’esistenza. Siamo energia pura ora, Maddy, il tuo metabolismo è superaccelerato. Perciò questo liquido» dice sollevando il suo bicchiere gigante, stile contenitore di popcorn «serve a idratare le tue cellule: lo zucchero mantiene attivo il cervello. Non devi berlo per forza, potresti anche evitarlo, ma serve a farti sentire... un po’ più... umana.» Il tono della sua voce diventa mesto, i suoi occhi tornano a fissare la mamma esaurita e sembra così triste. Le concedo un momento sebbene la testa mi scoppi di domande fra cui la più importante è, Perché improvvisamente sei così carina con me? La signora solleva lo sguardo, vede Chloe che la osserva con la faccia pallida, il trucco pesante e la maglietta ricoperta di spille da balia, si alza di scatto e se ne va con i figli senza nemmeno disturbarsi a gettare via i rifiuti. Chloe si gira verso di me senza commentare. «Da quanto tempo sei... così?» le chiedo. «Trentasette anni» risponde come se nulla fosse, come se le avessi appena chiesto che tempo fa. «Davvero?» Lei si volta di nuovo verso di me succhiando in maniera quasi disperata dalla cannuccia. Poi inizia a raccontare, in tono fin troppo pacato: «Mi ero intrufolata col mio ragazzo in un vecchio magazzino abbandonato. Non eravamo gli unici a farlo, un sacco di gente lo faceva all’epoca. Si dice “squattare”, cercalo su Google se ti capita. Ad ogni modo, la polizia ha avuto una soffiata e alcuni agenti sono venuti a perlustrare la zona; sono scappati tutti, anche il mio ragazzo. Io, però, avevo bevuto troppo ed ero anche un po’ fatta, così non riuscivo a muovermi velocemente come gli altri. I poliziotti mi hanno presa ma io facevo resistenza, allora mi hanno dato la scossa – tutti e due nello stesso istante, col taser al massimo della potenza. Immagino che non l’avessero previsto, ma è andata così. Tieni presente che il taser era ancora una novità in quel periodo: erano modelli sperimentali, nuovi di zecca, e non se ne conoscevano bene gli effetti – erano grandi il doppio e il doppio più potenti di quelli di oggi. Ho attraversato la fase del Risveglio, si chiama così quando muori ed entri in una specie di stato d’ibernazione. Ma non ero morta del tutto, li sentivo parlare, i poliziotti. Loro invece credevano che lo fossi: non mi batteva il cuore, non respiravo, ero gelida eccetera eccetera. Uno disse che aveva moglie e figli e che non avrebbe rischiato la galera per una tossica come me. Disse proprio “tossica”, me lo ricordo ancora. Carino, eh? L’altro era giovane, avrà avuto più o meno la mia età. Disse che non voleva rovinarsi la carriera. Così mi hanno lasciata lì: non mi hanno nemmeno coperto con un lenzuolo o con qualcos’altro, neanche fossi un cane. Un paio di giorni dopo, quando mi sono risvegliata, mi sono alzata cercando di capire cosa fosse successo e poi sono corsa via. Non volevo che quegli stessi poliziotti mi prendessero di nuovo. Ho iniziato a vagare qua e là; non mi ci è voluto molto per capire cos’ero diventata, allora mi sono rimboccata le maniche ed eccomi qui». «Come sapevi che bisognava mangiare del cervello entro quarantott’ore?» Scuote la testa. «Non lo sapevo. Sapevo solo che... avevo una gran fame e... l’unica cosa che mi andasse era il cervello. Immagino succeda allo stesso modo quando sei incinta. Il giorno successivo le cose sono peggiorate a tal punto che riuscivo addirittura a fiutare cervelli senza neanche varcare la soglia del supermercato. Così mi appostai dietro l’angolo finché il negozio non chiuse, sgattaiolai dentro a notte fonda e mangiai a sazietà. È stato... fantastico.» A furia di ascoltare mi viene l’acquolina... A cuccia, bella. Concentrati. Sforzandomi di non leccarmi le labbra al pensiero della carne fresca, le domando: «E non hai mai più rivisto il tuo ragazzo?». Lei dà l’ultimo sorso e allontana il gigantesco bicchiere di carta. «Ma chi, lo stronzo che mi ha lasciato lì a fare i conti con i poliziotti? No, Maddy, non l’ho più visto, non ho più voluto incontrarlo. Ma il tizio a cui stavi sbavando dietro, quello grosso che gioca a football, non sembra male. Come hai detto che si chiama? Stamp?» Alzo gli occhi al cielo e bevo tutta concentrata dalla mia cannuccia. «Sai quanto me ne importa. Non hai visto come Hazel ci ha interrotti?» Chloe mi guarda con un sorrisetto. «Credevo foste migliori amiche.» «Anch’io.» Dopo un po’ si porta un dito alla tempia e dice: «Posso rivederlo?». «Cosa?» domando, e d’istinto tiro ancora più giù il mio ridicolo basco. «Il segno» risponde avvicinandosi. «L’ho notato mentre lo mostravi a Dane sul camper, ma vorrei osservarlo meglio. Avevo sentito parlare di zombi animati da un fulmine ma non ne avevo mai incontrato uno di persona. Voglio solo vederlo.» Mi assicuro che nessuno ci stia guardando, poi mi tolgo il basco e mi chino. Non appena ha fatto mi risistemo. Quando alzo gli occhi lei annuisce piena d’ammirazione. «Molto carino. Sai, i capelli continuano a crescere per sei settimane dopo la morte. Perciò per, diciamo, il giorno del Ringraziamento... dovrebbe tornare tutto a posto.» «Davvero?» chiedo speranzosa; e io che pensavo di dovermelo tenere per sempre. (Ah, quante cose assumono una sfumatura diversa quando sei morto.) «Davvero» dice lei squadrandomi di nuovo dalla testa ai piedi. «Ma adesso basta con le confidenze. Se vuoi passare inosservata, dobbiamo darci da fare.» Non mi lascia neanche il tempo di protestare, si alza e getta il bicchiere nel cestino. Rassegnata, la seguo. Un paio d’ore e gran parte dei risparmi di mio padre dopo, io e Chloe ci ritroviamo piene di buste e bustine varie. Sono abituata a fare shopping con Hazel, una che si diverte a comprare cose carine in negozi carini. Fare shopping con Chloe è un’esperienza deprimente e inquietante proprio come le cose che mi fa comprare, ovvero magliette nere, pantaloni neri, camicie nere, jeans neri, calzini neri, scarpe nere e ancora non siamo arrivate ai cosmetici. «Non posso mettermi una cosa del genere in faccia» dico mentre mi costringe a comprare una cipria bianca compatta, del tipo che si metteva mia nonna prima di andare a letto. «Non è da me.» «Ascoltami bene,» risponde sospirando mentre poggia alla cassa la cipria e altri 30 dollari di ombretto, rossetto e smalto neri «sei già diventata un po’, come dire, grigia. E sei morta da quanto, due giorni? Per lunedì mattina sarai costretta a metterti (a) tanto di quel phard da sembrare un clown o (b) imitare me e diventare una dark. E, credimi Maddy, quest’ultima ipotesi è molto più credibile.» «Io?» esclamo mentre usciamo dal negozio e ci dirigiamo verso l’entrata principale del centro commerciale. «Una dark? Davvero ti sembra più credibile? La maggior parte di quelli che conosco, anche se non sono tanti, faticherebbe meno a credere che sono uno zombi piuttosto che una dark.» Lei osserva attentamente il mio look (compreso il baschetto alla francese) e sbuffa. «Be’, forse all’inizio faranno un po’ di fatica, ma qualsiasi teenager prima o poi attraversa delle fasi: punk, dark, ribelle, troietta, fattona e così via. Devi solo fingere che ora ti senti dark. Lì per lì tuo padre avrà qualcosa da ridire ma poi capirà. Quanto a Hazel e agli altri tuoi amici cervelloni, all’inizio potranno anche guardarti male ma – se sono veri amici – non te lo faranno pesare. Fidati, è la soluzione più semplice.» Si ferma davanti al negozio di caramelle assortite per spartirsi meglio le buste fra le mani e sistemarsi la bretellina del reggiseno nero, e aggiunge: «Se non altro lo stile dark adesso è di moda. Prova a immaginare che fatica ho fatto io a camuffarmi così negli anni ’80, quando erano tutti dei figli di papà viziati». Poi conclude a malincuore: «Senza offesa». 19 ARRIVANO I MOSTRI Il mattino seguente sento il rumore della doccia provenire dal bagno di papà. Vedo le chiavi della macchina sul mobile all’ingresso e tiro un sospiro di sollievo. È assurdo che debba fare il doppio, se non il triplo turno considerando il ruolo che riveste. Non lo sopporto, soprattutto ora che ne so di più sui non-morti. Basta un attimo e magari, mentre infila l’ennesimo cadavere nell’ennesima busta, uno di loro salta su e lo morde al collo. Per aiutarlo a riprendersi dalla lunga nottata, accendo la macchinetta del caffè, infilo due fette del suo pane integrale preferito nel tostapane e metto dell’acqua sul fuoco per preparargli un altro piatto che adora: le uova sode (una delle poche cose che so fare senza combinare un disastro). Esco un secondo di casa e raccolgo una margherita dal giardino, poi torno dentro e cerco un piccolo vaso dentro uno dei mobili della cucina. Una volta trovato, lo riempio d’acqua, ci metto dentro il fiorellino e lo sistemo fra le due tovagliette da colazione che ho steso sul tavolo. Nel frattempo papà si è vestito e, mentre si aggira per la cucina ipnotizzato dall’odore del caffè, immergo tre uova nell’acqua bollente, imburro dei waffle e ci verso sopra dello sciroppo proprio come piace a lui: un sacco di burro e un filo di sciroppo. Poi gli servo il caffè nella mega tazza natalizia, la sua preferita. «A cosa devo l’onore di vedere mia figlia portarmi praticamente la colazione a letto?» cinguetta allegro mentre si siede al suo posto guardando compiaciuto il fiore nel vaso improvvisato. Parla in tono vivace ma ha gli occhi stanchi, si vede che inizia a risentire di tutte queste notti in bianco. (Fosse l’unico!) Mi appoggio al ripiano della cucina accanto al forno. «A niente, papà. È solo che... non mi piace che lavori fino a notte fonda alla... sì insomma...» Non finisco la frase ma lui è abbastanza sveglio da interpretare quell’attimo di esitazione. «Che lavori fino a notte fonda alla... mia età? È questo che stavi per dire, tesoro?» Incassa il colpo sorridendo. «So che pensi che tuo padre sia ormai un vecchio decrepito, ma dammi sei di quegli sgallettati freschi di studi che mandano a far pratica da me ogni estate, e gli mostro io cosa significa lavorare, chi è più sveglio e chi dura di più.» È rosso in viso e ha finito quasi tutto il caffè. Gliene verso ancora. «Ehi, ehi, calmati, stavo solo dicendo che non mi piace vederti lavorare fino a quell’ora, punto e basta. Non volevo insinuare nulla, te lo giuro.» Lui mi guarda scettico, beve un sorso di caffè e torna a guardarmi, un po’ più da vicino questa volta. «Dimmi una cosa. Hazel approva questo tuo nuovo... look?» Ah già, questo è il giorno della mia investitura da dark. Ripenso all’aspetto che avevo quando sono uscita dalla mia stanza, appena mezz’ora fa: nera dalla testa ai piedi, con due dita di trucco, una tonnellata di mascara e di eyeliner. Dulcis in fundo, rossetto scuro e smalto nero. Una dark fatta e finita. «Non ti piace il look alla Twilight, papà?» «Maddy, sei mia figlia e ti voglio bene. Staresti bene anche se ti mettessi la gonna col cerchio e l’impermeabile. Sei giovane e non ne so granché su cosa va di moda, perciò non ho nulla in contrario.» Fine della storia: papà è uno di poche parole. Sua figlia è una dark? Be’ se non si stufa prima lei, ci farà l’abitudine lui. Una cosa o l’altra, discutere non serve a niente. Non ti urla, non ti sgrida, non ti giudica, ti dice quello che pensa e stop. Sbadiglia, butta giù dell’altro caffè e prende un’altra fetta di pane perfettamente tostato. Dopo averlo masticato e ingerito, con aria soddisfatta domanda: «Non fai compagnia al tuo vecchio?». Guardo il mio piatto vuoto e mi rendo conto che ha ragione. «Sto cercando di perdere peso, papà, sai...» Lui mi fa l’occhiolino. «Ho capito. È per via del ballo.» Non proprio, papà, ma almeno ho una scusa in meno a cui pensare e una bugia in meno da dire, stamattina. Non rispondo, così lui incalza: «Allora, il tuo amichetto ti ha invitato?» Prendo una bottiglietta di succo dal frigo così almeno vede che ingerisco qualcosa. Il fatto che papà non mi faccia una scenata perché sto bevendo una delle sue bibite zuccherose o che non abbia nemmeno notato che, per la prima volta nella mia vita, non sto bevendo qualcosa di dietetico, significa che questo argomento gli sta proprio a cuore. «Non è il mio “amichetto”, papà, e se lo vuoi proprio sapere, no... non ancora... ma voglio mettermi in forma, nel caso succedesse.» Lui, con la bocca piena di waffle, dice: «Allora dovrebbe darsi una mossa. Non è il prossimo venerdì?». Mi porto la bottiglietta alle labbra proprio mentre sta per finire la frase così non devo rispondere, ma lui aspetta con la forchetta in una mano e il coltello nell’altra davanti al suo piatto vuoto. Sto quasi per dirgli che sono affaracci miei, quando all’improvviso mi viene in mente che le tre uova sono ancora sul fuoco. Senza pensarci, poso la bottiglietta, gli prendo il piatto e tiro fuori le uova dall’acqua. A. Mani. Nude. Non ci faccio neanche caso perché ho le mani gelate e l’acqua è piacevolmente calda (per non dire bollente) e, secondo quanto ho letto a pagina 68 della Guida, gli zombi non sentono il dolore, perciò... Guardo il piatto di papà, sorrido e penso, Gli piaceranno un sacco, poi alzo gli occhi e vedo la sua faccia. È scioccato. Scioccato. «Maddy,» grida balzando su dalla sedia per controllarmi le mani con fare professionale «stai bene?» «Che c’è?» chiedo cercando di ritrarre le mani perfettamente intatte, ma la sua presa è più forte dei miei superpoteri da zombi (che ho scoperto di avere leggendo pagina 32 della Guida). Mi tiene le mani sollevate e se le rigira fra le sue esaminandole da ogni punto di vista: sono bianche, proprio come un istante prima che le immergessi nell’acqua bollente per tirare fuori le uova. Niente segni, né ferite, né vesciche, non c’è nemmeno un vago arrossamento. «Incredibile» dice come se stesse osservando una nuova specie di germe al microscopio del suo laboratorio. «Neanche una scottatura.» Poi mi guarda dritto negli occhi e in tono più calmo mi domanda: «Maddy, non sono in vena di scherzi, adesso spiegami cosa ti è passato per la testa?». Mi arrovello per cercare una scusa vagamente plausibile che un uomo di scienza come lui riesca a bersi. «Non lo so» rispondo a disagio. «A scienze ci hanno detto che se lo fai in fretta puoi immergere la mano nell’acqua gelata o, come in questo caso, in quella bollente, senza subire danni. Volevo provare.» Lui mi scruta: è ufficiale, non mi crede. «Bastava che lo chiedessi a me, Maddy, e ti avrei detto di no. La tua mano ora dovrebbe essere in gravi condizioni, ricoperta di ustioni di secondo grado, se non addirittura di terzo, fino al polso. Ma tu non hai nemmeno un arrossamento.» «Si vede che la teoria del prof era giusta.» «No, niente affatto. Si vede che mia figlia è un fenomeno della natura» cerca di scherzarci su, ma è evidente che è ancora sconvolto. Dentro mi sto maledicendo. Perché sono così stupida? Lui si mette a sedere, si rialza, si rimette a sedere e poi allontana il piatto con le uova ancora intatte. «Be’, Madison, a quanto pare sei riuscita anche in un’altra impresa impossibile.» «Cioè?» Nascondo le mani dietro la schiena. «Sei riuscita a farmi perdere l’appetito con la tua specialità: uova extrasode.» Continuiamo a chiacchierare mentre lui finisce di prepararsi, con me che nascondo le mani per quanto possibile e lui che le vuole vedere ogni due secondi alla ricerca di sintomi post-traumatici, che però non si manifestano. Quando esce di casa, avvertendomi che anche oggi gli tocca il turno di notte, sta ancora scuotendo la testa e io mi sento sempre più stupida. Mio padre, però, non è l’unico curioso della famiglia. Ora che la diagnosi mi ha ufficialmente dichiarata zombi, ho anch’io una piccola ricerca da fare. Ma non in biblioteca. Il videonoleggio apre alle 10 del mattino di sabato; io arrivo alle 9:58. Nei due minuti che mi separano dall’apertura, tiro fuori il cellulare e invio un messaggio a Hazel: Cinema più tardi? Impiego 30 secondi a scriverlo e a spedirlo, e so che Hazel (a) è già sveglia, (b) ha il cellulare acceso, (c) di solito mi risponde in sei secondi netti e (d) ha scelto il silenzio per punirmi del mio comportamento. Sospiro, do un’occhiata all’orologio nel cruscotto – che adesso segna le 10:01 – e scendo dalla macchina. All’entrata un ciccione con gli occhiali a fondo di bottiglia e una maglietta sbiadita su cui si legge la scritta Blockbuster, mi accoglie con un «Benvenuta» mentre entro e – più su, sopra la mia testa – suona una campanella elettronica. Nascosta dal cappuccio della felpa e dagli occhiali scuri, sorrido e gli faccio un cenno con la mano pallida, per nulla ustionata, rimettendola in fretta in tasca. Vado dritta alla sezione film dell’orrore e lui inizia a pulire preparandosi per un altro noiossimo turno di sabato mattina. Ci sono due scaffali interi di horror tra cui scegliere: un sacco di sequel e prequel e una marea di locandine nere macchiate di sangue con titoli del tipo Il derby della morte 6, Il campeggio degli orrori 3 e Succhiasangue 2. Sono quasi tutti film sui vampiri, perciò li scarto. (Li avrei scartati comunque, anche prima di diventare uno zombi.) Poi ce n’è qualche altro sui lupi mannari, i fantasmi, le mummie e così via; scarto anche quelli. Gli unici sugli zombi – e ce ne sono proprio pochi – sono vecchi, roba degli anni ’70 e ’80 con le copertine brulicanti di zombi mangia-carne e membra sparse qua e là, ai loro piedi cadaverici. Scelgo quelli che dai titoli mi sembrano i meno peggio – L’invasione degli zombi 3 , La notte dei succhia-cervello, Vacanza da zombi – e chiedo al ciccione con gli occhiali se ce ne sono altri non esposti. «Zombi?» D’istinto si gratta la testa e dà un’occhiata ai pochi dvd che ho fra le mani, poi mi chiede incerto: «Cos’hai lì?». Io gli faccio vedere e lui con aria di sufficienza li liquida uno a uno con un gesto della mano grassoccia. «Senti» dice avvicinandosi con fare cospiratorio anche se non c’è anima viva nel negozio a parte me. Il suo alito sa di collutorio ma non è proprio profumato, non so se mi spiego. «Quella è roba per principianti. Tienili, se vuoi, ma il meglio l’ho nascosto nella sezione documentari, così è comunque esposto. Tanto non ci va mai nessuno.» Mi guida verso un angolino impolverato e in penombra, dove c’è un’enorme scatolone pieno di poster arrotolati con su scritto a mano SONO GRATIS, portami a casa! Sullo scaffale, nascosti fra una serie di film d’epoca – alcuni in bianco e nero, per lo più sottotitolati e ricoperti di polvere – c’è il non plus ultra del cinema zombi: sei capolavori in tutto, che lui prende per me. «Questi sì» dice trattenendo a malapena l’entusiasmo «che sono film sugli zombi degni di questo nome.» Se li tiene appiccicati al petto mentre si dirige verso la cassa, come se avesse paura che una folla di clienti si riversasse all’improvviso nel negozio per portarmeli via. Alla cassa mi prende i tre che avevo in mano e mi osserva con attenzione. Quando gli allungo la tessera mi guarda come fossi un fenomeno da baraccone. «Lasciami indovinare,» dice «tu e i tuoi amici dark vi ritrovate a casa di qualcuno per una maratona sugli zombi.» Scuoto la testa. «Ma come, non lo sai? I dark non hanno amici.» Lui sorride e continua: «Ci sono: ti sei appena messa con un patito degli zombi e hai pensato di farti una cultura, così penserà che avete gli stessi interessi!». Be’, in generale, non sarebbe male (a) conoscere uno, (b) talmente patito di zombi, (c) da decidere di mettersi insieme a una di loro. Scuoto di nuovo la testa. Vecchio mio, non ci sei proprio. Sembra sempre più preoccupato. «Non capita spesso che delle ragazze noleggino questa roba» dice con un sorrisetto malefico mentre si rigira i dvd fra le mani come se ci avesse improvvisamente ripensato e non mi ritenesse degna di portarli a casa. «Mmm, ti è appena capitato.» «Cioè, è roba forte. Sicura di voler vedere dei morti che camminano?» Direi di sì. «Sicurissima.» «Aborti della natura che si nutrono di cervello?» Si dà il caso che abbia iniziato a farlo anch’io. «Sì, sono sicura.» «Guarda che» dice dandomi finalmente i dvd «poi non dormi la notte.» «Poco male,» rispondo dirigendomi all’uscita «tanto soffro... di... insonnia.» Nel breve tragitto verso casa, me la rido da sola pensando all’ironia della sorte: uno zombi che noleggia un film sugli zombi. Entro in casa e chiudo la porta a chiave, con la paura che i vicini vedano la pila di film horror e improvvisamente facciano due più due, poi infilo il primo che capita nel lettore e mi butto a sedere sul divano... Un momento... non ho niente da sgranocchiare. Mi rendo conto che è la prima volta che esco da Blockbuster senza una montagna di schifezze, popcorn compresi. Che sensazione strana. Non solo non mi va di mangiare (l’unico vero metodo per dimagrire), non mi va proprio quel tipo di cose. Mi chiedo se guardare un film senza schifezze da film sarà la stessa cosa. C’è solo un modo per scoprirlo, premo play... che film ho messo? Ah già, Uno zombi al ballo. Simpatico, eh? Mentre scorrono i titoli sull’immagine in bianco e nero di quel che sembra un invito formale a un ballo scolastico, do un’occhiata alla confezione. Lo zombi in copertina è una ragazza scheletrica in abito da sera rosso fiammante, con una coroncina di diamanti che le pende sulla fronte verdognola e appiattita (diventerò verde? Questo è il destino che mi aspetta?) e una fusciacca nera che a malapena nasconde lo squarcio che ha sulla gola, dal quale s’intravedono le corde vocali. (Fantastico. Un gran tocco di classe da parte del regista.) È morta a tutti gli effetti, non è bella – e di sicuro non è simpatica – ed è vitale quanto una maschera scadente su un manichino di pessima qualità. Sospiro mentre osservo la reginetta che, una volta raggiunta in macchina la palestra, dove chiaramente si terrà il ballo (s’intuisce dal megastriscione con su scritto Ballo che campeggia sulla porta), non si ferma e prosegue fino a una centrale nucleare, presumibilmente per appartarsi col ragazzo che... lavora lì? A quell’ora? Anche se va ancora a scuola? E poi quella sera... c’è il ballo? Non poteva chiedere un permesso? Da qui le cose iniziano a degenerare. (Del resto, cosa mi aspettavo?) I primi dieci minuti di film vedono la nostra impavida eroina (a) parcheggiare l’auto accanto a una montagna di barilotti giallastri, arrugginiti e marchiati con il simbolo rosso di pericolo rifiuti tossici in bella vista, sebbene a due passi da lì si intraveda chiaramente un parcheggio vuoto, (b) inciampare su non si sa cosa, (c) scovare il ragazzo in un bagno chimico (???), (d) pomiciare con lui (lì dentro, il che è disgustoso), (e) dirigersi alla macchina del suddetto ragazzo, (f) che se ne va senza neanche dirle ciao (stronzo), e (g) i barilotti tossici aprirsi per magia e rovesciarsi sull’auto soffocandola con una strana sostanza verde e viscida (che assomiglia in maniera inquietante alla gelatina alla menta). Allo scoccare dell’undicesimo minuto, la ragazza si tramuta in un grosso orco verde e il suo ignaro cavaliere, facendo ingresso al ballo, le pesta le scarpette n. 42 staccandole un paio di dita dei piedi. Risate assicurate. Poco dopo quella scena, tiro via il dvd e ne infilo un altro, Lo sposo zombi. Oddio. Almeno Uno zombi al ballo aveva un minimo di trama, questo fa proprio schifo. È idiota, palloso, e fa schifo. Un attimo si vede il nostro protagonista, uno sposo vagamente piacente (non è certo il tipo di film che può vantare un cast da urlo) allontanarsi dal pranzo nuziale per fumare di nascosto, e l’attimo dopo uno zombi spuntato dal nulla arriva – inciampando qua e là – e lo morde al collo trasformandolo... attenzione, rullo di tamburi... nello sposo zombi! Lo sposo zombi è decisamente più affamato della reginetta zombi del ballo, che ci ha messo almeno cinque minuti per divorare la sua prima vittima. Lui passa subito all’attacco, morde il suo testimone al braccio, poi glielo strappa e si mette a spolpare l’osso del gomito come fosse una gigantesca coscia di pollo. Dopo di che il testimone senza un braccio morde il responsabile del catering sul collo, il sangue sprizza dappertutto sul cibo e, di nuovo, le risate sono assicurate. Continuo a guardare per un po’, mentre lo zombi diventa sempre più grigio, affamato e... meno umano ogni minuto che passa. Dopo circa mezz’ora di entrambi i film che ho (quasi) visto, gli zombi iniziano ad aggirarsi con le braccia penzoloni, sdentati, gli occhi fuori dalle orbite, la mandibola dislocata, il mento grondante di sangue e a mangiare piccoli pezzi di intestino come antipasto e cosce per dessert. Mi sforzo di guardarne altri – Picnic con gli zombi, Zombi Cheerleader 4, Zombi su due ruote 3 – e alla fine mi sono fatta un’idea piuttosto precisa di cosa dicono normalmente gli zombi. Riassumendo: «Cervello! Mangiare cervello!». Tiro fuori l’ultimo dvd, lo rimetto nella custodia e dispongo tutti i film, uno accanto all’altro, sul tavolino del salotto, a mo’ di parata zombi. Osservo il mio futuro – corpi in via di decomposizione, occhi incavati, pelle putrida (il grigio e il verde sembrano andare per la maggiore), vestiti con i buchi, orrendi abiti da ballo, fusciacche strappate, capelli incrostati di terra, intestini che pendono dalla bocca come salsicce – e mi chiedo, è davvero questo ciò che mi aspetta? Mi dite chi ha deciso che i vampiri dovevano essere i più sexy fra i non-morti? Nei film li vedi volare, flirtare, sedurre, brillare, trasformarsi, prendere i nemici a calci nel culo, restando sempre e comunque impeccabili. Persino i lupi mannari possono essere umani per 29 giorni al mese. Possono abbronzarsi, gustarsi un hamburger, giocare a frisbee con gli amici. E gli zombi? Non ho mai visto uno zombi che sembrasse anche solo lontanamente... umano. Sono sempre e solo lugubri cadaveri grigiastri (o verdastri, a seconda) con gli occhi spenti, le labbra inesistenti, l’encefalogramma piatto e l’anima dannata. Non sanno dire altro a parte «Cervello!», «Mangiare cervello!» se capita, o in alternativa «Cervello, mangiare!», non fanno niente, non... provano... niente. Allora com’è che io provo ancora tutti i sentimenti di prima? Per quanto ancora riuscirò a farlo? 20 COLPISCI! Hazel si presenta a casa mia mentre sto finendo di guardare l’ultimo film. (È più forte di me: se noleggio nove dvd, devo guardarli tutti e nove – persino se, come in questo caso, denigrano la categoria degli zombi in generale e me in particolare.) Non bussa, non gratta sul vetro della porta, tira fuori una copia delle chiavi di casa mia ed entra. «Non si usa più bussare?» le dico più che altro per farle capire dove sono. (Come se le urla delle vittime inseguite da zombi inebetiti non fossero già sufficienti.) «Fare la stronza invece si usa ancora, a quanto pare.» A momenti sputo fuori tutto il succo di frutta che sto bevendo. Lei si accascia sul divano, mi prende il bicchiere di mano e inizia a bere. «Che schifo, dov’è quello senza zucchero?» mi chiede col naso arricciato e la voce di chi sta per vomitare. «Non lo compro più.» Ora che mi capita di doverlo fare spesso, sono diventata piuttosto brava a sparare balle. «Tutto quel dolcificante fa male. Mio padre ha letto un articolo in cui...» «Davvero?» m’interrompe posando in fretta il bicchiere come se contenesse scorie radioattive. «Be’, allora digli di leggere anche l’articolo sulle ragazze che smettono di bere bibite dietetiche e si ritrovano grasse, sole e senza amici per il resto dei loro giorni. Sono certa che lo troverà interessante. Magari potresti leggerlo anche tu.» «Mmm.» Sospiro, felice che Hazel sia tornata sul mio divano e nella mia vita per rompermi le palle. «E su quale rinomata rivista scientifica l’avresti letto? Stronzate, stronzate, solo stronzate? O forse sull’ottavo numero di Non so cosa sto dicendo, ma di sicuro sono stronzate?» «In realtà l’ho trovato su Pillole di buon senso per sfigate, n. 1.» «Touché» esclamo e scoppio a ridere. Dopo un po’ lei si unisce a me. Ce ne stiamo lì in silenzio per un minuto, poi lei si abbandona contro lo schienale del divano e mi guarda. «Scusa, Maddy.» Ricambio lo sguardo e le sorrido. «Scusa per cosa, Hazel? Per avermi accusato ingiustamente di averti mentito?» Non appena lo dico mi sento una merda a farla sentire in colpa, quando alla fine sono io che le racconto un mucchio bugie. «Sì» borbotta. «O per avermi completamente ignorato durante l’ora di economia domestica?» «Anche» mormora lei. «Aspetta che non ho ancora finito. Volevi scusarti per non avermi spedito nemmeno un messaggio per un giorno intero, o sbaglio?» «Sì, sì. E per qualsiasi altra cosa tu stia per dire ti chiedo scusa, Maddy. Mi dispiace, è che...» «Lasciamene dire solo un’altra. Ti scusi per esserti intromessa fra me e Stamp proprio mentre forse, e dico forse, stava per invitarmi al ballo?» «Cosa? Non lo sapevo. Perché non me l’hai detto?» «Be’, ho provato a dirtelo... con gli occhi. Credo di averti lanciato uno sguardo del tipo, “Se non sparisci subito di qui, ti avveleno il cane e – se non ce l’hai – ripiego su qualcun’altro”.» Hazel è piegata dalle risate. «Oddio, che stupida sono stata. E io che credevo di farti un favore.» «Scusa, ma che cavolo di favore pensavi di farmi impedendo a Stamp di invitarmi al ballo?» «Volevo coinvolgerlo nei preparativi per la festa. In questo modo avrei potuto entrarci più in confidenza, non come con quegli idioti dei suoi compagni di squadra, e avrei potuto darti delle dritte.» «Mmm.» Sospiro scuotendo la testa mentre rifletto sul ragionamento di Hazel. «Fammi capire: mi vedi lì con un figo mezzo nudo che magari mi sta invitando al ballo e tu cosa fai? Pensi bene d’interromperci, di mandarmi via in malo modo e di arruolarlo nel comitato decorazioni per convincerlo a fare tra una settimana una cosa che aveva già intenzione di fare ieri? Be’, grazie, Hazel, grazie mille davvero.» Lei se la ride talmente tanto che sembra – sembra – non notare il mio nuovo look da dark. Ma non sarebbe lei se non sparasse sentenze – in maniera quasi mai velata – su di me, e infatti alla fine se ne accorge e mi guarda come solo un’amica del cuore sa fare. Assicurandosi che ogni occhiataccia, ogni sospiro o grugnito di disapprovazione vada a segno, osserva lentamente le mie scarpe nere, i pantaloni neri, la felpa nera, fino ad arrivare al viso imbrattato di cipria bianca, eyeliner e rossetto scuro. «Mmm» biascica fissandomi negli occhi. «È solo una tenuta casalinga o pensi di vestirti così anche in pubblico?» Le faccio una smorfia. «Non è mica per sempre, Hazel. Dammi solo il tempo di capire che tipo di... malattia... mi sono beccata e ti prometto che torno normale. Quando mi sentirò di nuovo me stessa, senza dovermi più imbattere in completi sconosciuti che mi fermano in corridoio per chiedermi quanto ancora mi resta da vivere, allora mi rimetterò i miei stracci cachi e bianchi, ma per adesso... prendere o lasciare.» Lei alza gli occhi al cielo, poi le cade lo sguardo sulla mia mano appoggiata allo schienale del divano. «Lo smalto nero è un tocco di classe. Fa molto terza media, molto retrò.» «Grazie» dico ridendo. E in un baleno Hazel è tornata a essere la stessa di sempre, solo più alta, più forte, più allegra, più felice, più divertente e più criticona che mai. Mi rompe le palle per via del mio nuovo look ancora per un po’, poi si volta verso lo schermo del televisore. Mi volto anch’io, giusto in tempo per vedere il protagonista di Uno zombi in giardino 3 tagliare le dita dei piedi della sua vittima con le cesoie e poi vomitare una specie di gelatina nera sul pavimento della stanza. «Dev’essere... uno di quei vecchi film che danno il sabato sera. Cos’altro c’è in tv a quest’ora?» Ma Hazel è una tipa sveglia e nota subito la pila di dvd sul tavolino proprio accanto al telecomando. «Maddy, non stiamo guardando la tv, questa merda l’hai noleggiata tu. Sei uscita di casa e te li sei scelti con cura, uno a uno.» Poi si sporge in avanti e legge qualche titolo. «Uno zombi in giardino 3? Perché, hanno fatto anche l’1 e il 2? Zombi a tutta birra? Ma che ti prende, Maddy? Ti lascio sola per un giorno e ti riduci così...?» Qualcuno bussa alla porta interrompendo la sua filippica. Quel po’ di cuore che mi resta sussulta, ma lei subito sorride e dice: «Non ci credo. Sarò mica arrivata due secondi prima che Stamp venisse a prenderti per uscire? Ti prego dimmi di sì, sarebbe la ricompensa per averti chiesto scusa per prima, stavolta». Mi alzo per andare ad aprire, per dimostrarle che si sbaglia, e anche di brutto, ma lei mi precede di un nanosecondo (maledetti muscoli umani, caldi e scattanti) e spalanca la porta. Sulla soglia non c’è nessuno... be’, non proprio. Faccio per chiudere ma Hazel mi blocca e punta il dito in direzione della strada deserta: per la precisione verso un tizio e una tizia in piedi sotto un lampione. Lei è minuta e ben vestita, lui è alto e sembra un pagliaccio: Dahlia e Scheletro. «Ma quelli...?» esclama Hazel impietrita, con la mano ancora sulla maniglia. «Non sono i due fantasmi di economia domestica? Ora si sono messi a fare gli scherzi il sabato sera?» Ha paura, lo sento. Io ho i brividi, ma non certo perché me li ritrovo davanti. Dopotutto avevano promesso che sarebbero tornati per beccarmi da sola, e suppongo di aver inconsciamente atteso questo momento dal giorno in cui hanno teso un’imboscata a me, Dane e Chloe di ritorno dalla nostra simpatica visita notturna al Consiglio degli Anziani. È più che altro perché se ne stanno lì in mezzo alla strada, rigidi come stoccafissi, ai piedi del lampione. Se ho paura? Paura è dir poco. Lascio Hazel da sola per due secondi e apro l’armadio all’ingresso, dove papà tiene la sua uniforme da softball. E, sotto, una mazza di alluminio. La prendo ed esco sul vialetto passando come una furia davanti a Hazel. Lei sta per venirmi dietro ma io le dico: «Hazel, chiuditi a chiave e chiama la polizia». Ovviamente non fa né l’una né l’altra cosa e mi segue. «Guarda, guarda» sibila Scheletro senza muoversi di un millimetro e senza sorridere, mentre solleva impercettibilmente un labbro e osserva Hazel andargli incontro con i codini rossi che le rimbalzano sulle spalle. «Questa deve essere proprio la nostra serata fortunata, Dahlia. Veniamo a cercare la vittima n. 4 e indovina con chi la troviamo? Con la n. 5.» «Ma che stanno dicendo, Maddy?» mi domanda Hazel col fiato caldo – e come sempre profumato di menta – sul collo, dopo essersi rifugiata dietro di me. «Niente» grido anche se il suo orecchio è a due millimetri dalle mie labbra. «Sono solo due pazzi che dicono cose senza senso, tutto regolare.» «Maddy ha ragione, Hazel» interviene Dahlia avvolta in vestiti neri aderenti da capo a piedi. L’ombretto e lo smalto sono in pendant. «Siamo pazzi e diciamo cose senza senso. Niente di cui preoccuparsi.» «N-n-no, no» balbetta Hazel un pochino meno sicura di sé per la prima volta nella sua vita. «Avete parlato di vittime, che significa?» Scheletro sorride. «Vuoi che ti faccia lo spelling, Hazel? Non sei tu quella che insiste tanto sul fatto che la terza ora è... maledetta?» Vedo la faccia che fa Hazel mentre mette insieme i pezzi del puzzle, e ripenso alle Sentinelle inquietanti, alle loro tute blu, ripenso a cosa farebbero a me o a Hazel se venissero a sapere che ho raccontato a una Normale degli Zerker, della Tregua e in generale dell’esistenza degli zombi. (O del fatto che sono una di loro, nello specifico.) Così, controvoglia, impugno la mazza e avanzo verso di loro. Scheletro ride mentre procedo a passi rigidi ma spediti. Dahlia invece no. Mi affianca e – all’improvviso – insieme a Scheletro mi si avventa contro. Da quel momento in poi tutto scorre al rallentatore. La mazza mi dà coraggio e quando si abbatte sulla scapola di Dahlia sento un rumore come di qualcosa che va in frantumi. Lei cade tramortita ma si rialza quasi subito; nel frattempo Scheletro afferra la mazza con la sua possente mano ossuta. Io gliela strappo e la abbatto una, due volte sulle sue nocche producendo un suono metallico. Lui ride ma ritrae la mano e capisco che – anche se non gli ho fatto male – almeno l’ho preso in contropiede. Subito Dahlia mi si scaglia addosso placcandomi senza pietà e spedendomi gambe all’aria sul marciapiede, ma per fortuna la mia presa sulla mazza è salda e la colpisco agli stinchi mentre lottiamo a terra. Lei lancia un grido stridulo e si allontana trascinandosi dietro i pesanti stivali neri. All’improvviso Scheletro è sopra di me, sorride e mi tira un calcio che mi fa atterrare sull’asfalto, accanto alle ruote della mia macchina. Hazel grida di nuovo e s’inginocchia vicino a me per aiutarmi. «Hazel, va’ via» le sussurro. Ma lei non se ne va. Resta lì seduta come una stupida mentre cerco di difenderla come posso. Non provo dolore ed è una sensazione confortante, però con Hazel nei paraggi sono consapevole che tutto potrebbe cambiare in un istante. Allora mi avvento di nuovo su di loro, che mi sfuggono perché ormai conoscono i miei movimenti. Trascino la mazza per terra. Mi piace il rumore metallico che produce a contatto con la strada e mi piace ancora di più lo sguardo spiazzato che vedo negli occhi di quegli Zerker. Scheletro sussulta quando Dahlia cerca di portarsi di corsa alle mie spalle: io sfrutto un suo momento di distrazione e la colpisco sotto il mento. Lei stramazza a terra, temporaneamente stordita. Ma Scheletro è dietro di me e mi solleva bloccandomi le braccia così che non possa usare la mazza, solo perché ho osato alzare un dito – una mazza, in effetti – sulla sua preziosa Dahlia. Dentro di me qualcosa si rompe – qualcosa che mi farebbe comodo restasse intatta – e mi rendo conto di non essere ancora abbastanza forte da contrastare Scheletro. Per lo meno non così, non da sola, Zerker vs zombi. Gemo e mi dibatto, agitandomi e scalciando, mordendo e graffiando, finché – come un giardiniere che scopre un nido di vespe – Scheletro d’un tratto non mi rimette giù sbattendomi forte contro il marciapiede, pronto a schiacciarmi come un insetto. Resto a terra, stordita, per un secondo, poi penso a Hazel e cerco di strisciare verso di lei. Troppo tardi: non ce la posso fare da sola. All’improvviso vedo Scheletro disteso sull’asfalto con il collo sotto la gamba di Dane e Chloe che solleva Dahlia sopra la testa, minacciando di spezzarla in due come una noce con un colpo ben piazzato del suo tutt’altro che delicato ginocchio. «Scusa, Maddy» dice Dane cercando di immobilizzare Scheletro. «Siamo corsi non appena abbiamo sentito.» «Sentito cosa?» chiedo andandogli incontro, piena di gratitudine e orgogliosa di zoppicare solo un po’. «Te» risponde Chloe facendo un cenno verso la base della collina. «Ti abbiamo sentita urlare dal cimitero.» Poi vede Hazel accovacciata accanto alla mia macchina tutta vestita di rosa, con lo smalto glitterato, i codini rossi, il rossetto perlato e ai piedi un paio di Converse rosse, e si corregge: «O forse è lei che abbiamo sentito». Scheletro ringhia e si libera dalla presa di Dane. Lui torna sulla difensiva e io corro al suo fianco, afferro la mazza da terra e la faccio strisciare ancora un po’ sull’asfalto. Dane mi lancia un’occhiata a metà fra il compiaciuto e il sorpreso. Scheletro avanza, mentre Chloe si schiarisce la voce sollevando Dahlia ancora più su, come a dire, Fai un altro passo e lei non sopravviverà a questa notte. Scheletro ringhia di nuovo. «Ok, ok, mettila giù, me ne sto al mio posto. Per adesso...» Chloe la lascia andare e Dahlia scappa da Scheletro. Indietreggiano piano mentre io, Dane e Chloe li seguiamo. «Credevate davvero che l’avremmo lasciata sola?» domanda Dane con un sorriso. «È proprio quello che avete fatto» risponde Scheletro mentre Dahlia sghignazza al suo fianco. Sghignazzo anch’io, però, vedendo che si massaggia una gamba. «E ti dirò di più» esclama mentre Dahlia si appoggia a lui «lo farete di nuovo.» Poi scompaiono fra gli alberi sull’altro ciglio della strada. Muovo un passo per seguirli, perché sappiano che si sbagliano, che sono pronta a chiudere la questione anche ora, ma Dane mi posa una mano sulla spalla. «Un’altra volta, Maddy. Adesso dobbiamo pensare a cosa fare con la tua amica.» «Hazel?» mi volto e la vedo seduta a gambe incrociate che piange disperata, allora corro da lei. «Che è successo?» mi chiede con la voce che trema per la paura. «Chi sono quelli e perché hai una mazza in mano e che fine ha fatto la nostra serata film?» «E adesso c-c-cosa le dico?» domando a Dane che nel frattempo si è avvicinato. «Dille la verità» risponde. «Prego?» Chloe ci ha raggiunti e ci guarda inespressiva. «Devi dirle la verità: che sei uno zombi, che anche io e Dane lo siamo, così come Scheletro e Dahlia... solo che loro... sono cattivi e si sono mangiati già il cervello di tre vostre compagne e che, se non fosse stato per noi, a quest’ora avrebbero mangiato anche il tuo.» 21 FATTORE Z «M-m-ma è impossibile» insiste Hazel qualche istante dopo, ormai al sicuro nella mia cucina, seduta al tavolino della colazione con la tazza natalizia piena di cioccolata calda fra le mani ancora tremanti. «Ho letto tutti gli articoli a proposito delle tre ragazze morte che frequentavano economia domestica e da nessuna parte si parlava di cervelli, figuriamoci di zombi.» «E secondo te, se anche avessero voluto, avrebbero potuto farlo?» ribatte Dane mentre verso a lui e a Chloe del succo. «Be’, a meno che non fossero abbonati a Horror Magazine, no, direi proprio di no» dice Chloe e scoppia a ridere, allora Dane si unisce a lei e io lancio a entrambi un’occhiataccia. Hazel trema sulla sedia, circondata da zombi – una dei quali una volta era la sua migliore amica. Chloe sbuffa infastidita, Dane invece sembra capire cosa sta succedendo e dice: «Eh dài, Chloe, lasciamo a Hazel il tempo di... assimilare... tutte queste novità». Sentendo pronunciare il suo nome, lei solleva lo sguardo. Ha gli occhi vacui, guarda Dane ma non lo vede. Chloe lo trascina fuori dalla cucina verso l’ingresso e io li seguo. «Se hai bisogno di noi, ci trovi al cimitero» dice con il tono di chi preannuncia una disgrazia. Dane mi rivolge un mezzo sorrisetto colpevole mentre sono ferma sulla soglia. «Maddy, ascoltami bene. Ora è necessario che tu le faccia capire quanto questa situazione... sia... delicata.» Chloe si avvia a passi pesanti in fondo al vialetto, io e Dane diamo un’ultima occhiata a Hazel che tiene lo sguardo fisso sul fondo della tazza. «Se pensi che sia abbastanza forte da mantenere il segreto, noi non abbiamo nulla in contrario. Se invece pensi che ci causerà guai, devi dirmelo. Conosco gli Anziani e hai visto anche tu le Sentinelle, perciò sai qual è la posta in gioco.» Indietreggio un po’, innervosita al pensiero delle implicazioni. «Dane, lei è la mia migliore amica. Mi fido ciecamente.» «Ricordati però che è una Normale, Maddy, non sei più come lei.» Annuisco ma non me la sento di ribadire la promessa fatta. «Ok. Se ti fidi di lei, a me può bastare. Non dimenticare però che siete entrambe in pericolo adesso che abbiamo fatto infuriare Dahlia e Scheletro. D’ora in poi dobbiamo restare uniti.» Quelle parole rimangono a lungo con me dopo che lui se n’è andato e dopo che la cioccolata bollente che Hazel non ha nemmeno assaggiato è diventata fredda. Stanotte è cambiato qualcosa, qualcosa di fondamentale. Chi è che deve restare unito d’ora in poi? Io e Hazel, in qualità di amiche del cuore? O io, Dane e Chloe, in quanto zombi del cuore? Da brava miglior amica, sto dalla parte di Hazel. Conosce il mio segreto e io devo fidarmi di lei, credere che lo manterrà a tutti i costi. Da brava amica zombi, sto dalla parte di Dane e Chloe. Quando mio padre e Hazel moriranno, loro saranno gli unici al mondo a rimanere al mio fianco e a guardarmi le spalle. Dobbiamo restare uniti. Dobbiamo, chi? La risposta non tarda ad arrivare. «Hazel,» dico facendole distogliere di colpo lo sguardo dalla cioccolata ormai fredda «scusa se non ti ho raccontato niente. Gli zombi, o meglio, gli Anziani non me l’avrebbero... permesso.» Lei non scuote nemmeno la testa. «Sentivo che c’era sotto qualcosa.» La sua voce è piena di rassegnazione, di tristezza e delusione. «Che qualcosa non andava. Sapevo che... mi stavi mentendo.» Non cerco di giustificarmi, ha ragione. Dopo un po’ lei solleva lo sguardo: «Provamelo». «Cosa devo provarti?» le chiedo, anche se so benissimo a cosa si riferisce. «Dimostrami che quello che hai detto – che quel mostro col cappuccio ha detto – è vero. Che sei uno... uno... zombi.» Temevo che questo momento sarebbe arrivato. Mi alzo, vado verso di lei e le prendo una mano, poi me la poso sul petto e inizio a contare: «Mille, duemila, tremila...». Non faccio in tempo a dire «quattromila» che lei si allontana bruscamente. «Ok, sei uno zombi, ma questo non prova il fatto che Scheletro e Dahlia abbiano succhiato via il cervello a Amy, Sally e Missy. Cose di questo tipo non accadono nella vita vera.» «Che la tua migliore amica sia trasformata in uno zombi, invece sì?» Fa per ribattere, per protestare, però non trova le parole. Mi sento in colpa nei confronti di Hazel. A me è stato concesso del tempo per accettare l’Assimilazione. Non molto, questo è vero, ma sempre più di quello che ha a disposizione lei. «E se ti provassi che, quando le ragazze sono state portate all’obitorio, il loro cervello non era intatto? Mi crederesti?» Lei solleva lo sguardo e annuisce. Non c’è bisogno che mi intrufoli nell’ufficio di papà per dare un’occhiata ai loro file. Non in quello di lavoro, perlomeno, e questa è una fortuna perché l’obitorio si trova nello stesso edificio in cui ha sede lo sceriffo, ed è piantonato 24 ore su 24, 365 giorni l’anno. Papà ha un suo ufficio anche in casa, e un computer collegato all’archivio di medicina legale della contea di Cobia. Così accedo al sito, clicco su «Decessi recenti» e, quando mi vengono richiesti username e password, non devo fare altro che sbirciare sotto la tastiera per trovare un post-it con su scritti i dati di cui ho bisogno. Dopo un istante che li ho digitati, ho i risultati delle autopsie a portata di mano. Inserisco i nomi delle tre ragazze nel motore di ricerca, separati da punto e virgola: «Amy Jaspers; Sally Kellogg; Missy Cunningham». Come per magia, i pdf dei loro casi appaiono sullo schermo. Il respiro di Hazel, in piedi alle mie spalle, è affannato sulla mia testa e, non appena compaiono le foto dell’autopsia di Amy, distoglie lo sguardo. Le richiudo subito e cerco la relazione di papà, una sorta di scheda in cui accanto al nome dei vari organi c’è uno spazio bianco in cui se ne annota il peso. Trovo quella di Amy, poi quella di Sally e infine quella di Missy e le stampo, poi esco dall’account di papà ed elimino le mie ricerche dalla cronologia, in modo che non sappia cos’ho fatto mentre lui lavorava. Vado alla stampante per prendere i tre fogli e, dato che ci sono, afferro un evidenziatore dal portapenne. Mi guardo intorno ma Hazel è sparita. Quando finisco di evidenziare gli spazi vuoti dove invece avrebbe dovuto essere indicato il peso del cervello di ciascuna ragazza, la ritrovo seduta al tavolo della cucina con davanti le chiavi di casa e la borsetta rosa sulle gambe. «Allora?» Dispongo i fogli uno accanto all’altro. Hazel li osserva scettica finché non le indico le caselle evidenziate. «E allora? Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa. Una svista del laboratorio o della polizia, possono esserci mille motivi...» «Proprio per questo ho evidenziato anche le annotazioni di papà nel riquadro a piè pagina, Hazel.» Lei rivolge a malapena lo sguardo dove le indico e subito allontana i fogli da sé. «Ok» dico, e inizio a leggere a voce alta. «Amy Jaspers, causa del decesso, incidente. Unica anomalia: presenta un profondo squarcio sulla testa da cui sembra sia stato strappato il cervello. Sally Kellogg, causa del decesso, incidente. Unica anomalia: presenta un profondo squarcio dietro il cranio, assenza di cervello – Hazel, dove stai andando?» «Basta così» esclama correndo verso la porta con le lacrime agli occhi. «Mi hai convinta, ok? Sono ufficialmente terrorizzata, va bene? Non solo scopro che esistono gli zombi, ma che la mia migliore amica è una di loro. Fantastico. E non è l’unica in città, ce ne sono altri quattro. Urrà! E due di loro se ne vanno in giro a mangiare cervelli scegliendo le proprie vittime alla lezione di economia domestica. Meno male che gli altri due ci tengono d’occhio dal cimitero, difendendoci dagli attacchi dei cattivi. Contenta, Maddy?» «E io cosa ho fatto di male? Mi hai chiesto di dimostrarti che sono uno zombi e l’ho fatto. Credi che sia stata io a volere tutto questo?» Lei si ferma e mi guarda col mascara che le cola sulle guance scintillanti per le lacrime versate. «Non ci capisco più niente, Maddy, proprio niente. So che non eri troppo entusiasta di essere viva, allora non mi resta che sperare che almeno tu sia felice ora che sei... uno zombi...» 22 LA NUOVA MADDY La mia prima settimana da dark alla Barracuda Bay non va proprio liscia. Mi fissano tutti, mi indicano e bisbigliano fra loro, per non parlare delle ramanzine giornaliere di Hazel e della prof Haskins: un vero disastro, insomma. Arrivo alla pausa pranzo di mercoledì talmente schizzata – grazie alle attenzioni che ricevo tutti i giorni per tutto il giorno da parte di tutti – che al solo pensiero di dover sopportare un’altra lezione di Hazel sulla differenza tra fighetto e dark mi dà il voltastomaco. Allora decido di non passare dalla mensa, esco e mi dirigo verso la pista di atletica leggera, dove qualcuno si è fermato a pranzare dopo l’ora di educazione fisica sfidando il caldo stranamente soffocante di un mattino d’ottobre. Be’, devo ammettere che non è affatto un brutto modo di trascorrere la mezz’oretta d’aria che ci è concessa. È pieno di ragazzi più piccoli in pantaloncini attillati e canottiere ancora più attillate, ma non ci faccio caso mentre salgo sulle gradinate chiedendomi come mai tutti rompano tanto se ho deciso di vestirmi da dark. Una cosa, però, ve la devo confessare: sentire il sole sul viso è proprio una bella sensazione. Strizzo gli occhi e mi tiro gli occhiali sulla testa con fare da star. Attraverso la pelle sottile e grigiastra delle mie palpebre, osservo tutto e niente. «Maddy?» Che c’è?! Mi fa un effetto strano vederlo in pantaloncini, non che abbia delle brutte gambe, ma... è strano vederle nude... così da vicino. «Stamp?» «Ti ho cercata ovunque» dice sinceramente preoccupato, mentre si siede su una panca girato verso di me. «La tua macchina non c’era già più quando sono passato stamattina, sono secoli che non vai al tuo armadietto e hai saltato l’ora di arte. Ho come la sensazione che tu stia facendo di tutto... per evitarmi.» Bingo!, penso, ma non nel senso in cui crede lui. «Stamp, non ti sto evitando, credimi. È solo che...» «Ti sei messa il rossetto nero?» domanda allungando una mano per toccarlo. Non voglio che si spaventi sentendo quanto sono fredda, perciò mi ritraggo di scatto. La cosa non sembra ferirlo, al contrario... lo incuriosisce. «E come mai, sì insomma, quand’è che hai deciso di diventare... dark?» «Cos’è, non ti piace? Be’, non mi aspettavo certo di piacere a tutti. Credi che solo perché – una volta – mi hai invitato a una festa, tu abbia il diritto di dirmi come vestirmi e con chi uscire?» Lui sorride e poi scoppia a ridere. «No, no, assolutamente no. È che un giorno sei Miss Precisina col baschetto e la sciarpa e non pensi ad altro che ai compiti, e il giorno dopo – all’improvviso – ti trasformi in... un vampiro. Non fraintendermi, io lo trovo... sexy.» Inclino la testa da un lato. Col sole alle spalle, sembra quasi che abbia l’aureola. «Davvero?» chiedo speranzosa. Cioè, se uno come Stamp non ha nulla da ridire su questo look, forse ho qualche speranza di passare inosservata fra i Normali. «Sì» annuisce sporgendosi in avanti. «Mi sono sempre piaciute le dark.» «Non ci credo. Non puoi dire sul serio.» «In Wisconsin erano tutte così... bionde. Tutte uguali. Questo tuo nuovo stile mi piace proprio.» Oh Signore, sarà più dura del previsto. «Senti, Stamp, a proposito dell’altro giorno...» «Di’ un po’» fa giocherellando distrattamente con i lacci dei miei stivali. «Hai intenzione di vestirti così anche per venire al ballo con me?» Mi si serra lo stomaco, mi cade la mandibola e chiudendo gli occhi penso, Grandioso. Il Consiglio degli Anziani ti ha proclamato ufficialmente zombi da una settimana e stai già pensando di trasgredire la regola n. 1, la più importante di tutte, ovvero «Non uscire con i Normali»? «Non posso» gli dico allontanandomi di scatto come se avessi appena visto uno scarafaggio camminargli sulla coscia. Lui mi guarda, un po’ sconcertato, ma senza mai smettere di sorridere. «Sì che puoi, Maddy, di’ di sì e il gioco è fatto. Dopotutto è solo un ballo.» «No, non posso proprio, Stamp...» «Se il problema è tuo padre, ci parlo io e lo convinco...» Mentre chiacchieriamo, il ricciolo sulla sua fronte ondeggia e io mi sciolgo sempre più a ogni frase. Non importa quanto lo trovi (o sia effettivamente) irresistibile, devo zittirlo subito, non devo sentire ragioni. Non si tratta nemmeno di rispettare una regola vera e propria, è solo una forma di cortesia nei confronti della nuova specie a cui appartengo. E poi, se anche uscire con i Normali non fosse proibito nel mondo degli zombi, perché mai dovrei farlo? Perché devo mettermi con uno come Stamp pur sapendo che la cosa non andrebbe da nessuna parte? Che farò, quando sarà ora di passare al livello successivo? (Al secondo o al terzo appuntamento? Credo...) Mi assicurerò che accada in sauna, o meglio, dentro la sauna, così non sentirà che sono fredda come un morto? E quando passeremo al livello ancora successivo? E se fosse amore vero e mi chiedesse di sposarlo e un giorno dovessimo avere dei figli? Gli zombi possono avere figli? Ne dubito, dato che non hanno battito cardiaco e i nutrienti si trasmettono attraverso il sangue, giusto? E comunque... no, non esiste. Devo fermarlo. Immediatamente. Qualsiasi cosa stia blaterando lo interrompo nella maniera più brusca possibile. «Non è che non posso andare al ballo, Stamp. Non posso andarci... con te.» Ahi. Gli occhi gli diventano lucidi, non come se stesse per piangere... lucidi come chi si sente ferito. Grandioso. Cos’è, all’improvviso mi sono trasformata nella cattiva del finale di Zanna Bianca, quella che tira bastoni di legno al lupo per farlo allontanare, perché sa che sarebbe meglio per lui se vivesse nella foresta? «Ma come? Credevo che fra noi ci fosse... qualcosa.» «E infatti c’è, Stamp, o meglio, c’era. Purtroppo però non sono come credi. Non sono quel genere di persona. Non sono una brava ragazza, non lo sono affatto.» Lui scuote la testa. «C’è dell’altro?» dice con aria quasi incredula. E mi serve su un piatto d’argento la scusa più cattiva, la più crudele che potesse venirmi in mente da quando l’ho visto salire sulle gradinate. «Sì. Non avrei voluto dirtelo ma...» «Chi è?» mi chiede. «Chi è?» «Non lo conosci.» «Non importa, Maddy. Voglio sapere chi è.» È tutto rosso in viso e io non riesco a credere di avergli fatto questo, né che se la stia prendendo tanto, ma più di ogni altra cosa lo invidio perché le mie guance non potranno mai più arrossire come le sue. «D’accordo, Stamp» grido alzandomi in piedi, pronta per una scenata. «Vuoi proprio sapere perché non posso venire al ballo con te? Non posso perché ci vado già con... con... Dane Fields.» Oh, cavolo, questa sì che è bella. Per un attimo resta confuso, ma le nuvole passano subito e il sole torna a splendere. Mi sorride con le labbra tese e lo sguardo duro. «Ma chi, quel disadattato che sta sempre con la finta dark? Quello che non si tira mai giù il cappuccio della felpa, nemmeno in classe? Quello che fuma fuori dal laboratorio ogni giorno? Preferisci quello sfigato a me?» Vorrei ribattere che Dane non è uno sfigato, che la sfigata sono io, ma è meglio che la pensi così. Continuo a ripetermi che è davvero meglio così. Lo lascio sbraitare quanto vuole e a ogni singolo spruzzo di saliva che esce dalle sue belle labbra carnose lo ringrazio, lo ringrazio per aver fatto quello che andava fatto e che io non avevo la forza di fare. Perché qualsiasi cosa ora pensi di me, dopo tutte le bugie che gli ho raccontato, almeno non ci sarà bisogno che gli dica la verità. La verità vera. «Ok, Maddy» esclama lui torreggiando su di me con il ricciolo che oscilla di qua e di là come il pendolo dell’orologio del nonno. «Fa’ come ti pare. Portati quel deficiente al ballo. Non ho bisogno di te. Posso scegliere fra altre due, se non tre dozzine di ragazze.» «Allora scegli» urlo senza voltarmi mentre scendo gli scalini della gradinata con un diavolo per capello. «Ma faresti meglio ad avvertire il fioraio in tempo.» 23 UNA TOMBA VALE L’ALTRA Più tardi, quel giorno, album alla mano e borsa a tracolla, mi avvio verso il cimitero, bisognosa della mia dose quotidiana di strofinamento di tombe, e ai cancelli mi imbatto subito nel Guasto. È tutto indaffarato: sta potando dei cespugli e sembra accaldato mentre traffica con i guanti da giardinaggio e le maniche tirate su. Riparandosi gli occhi dal sole del tardo pomeriggio, mi chiede: «Perché sorridi?». Scuoto la testa respirando a pieni polmoni l’odore sano del suo sudore, il suo vigore, la sua... vitalità. «C’è poco da sorridere con la giornataccia che ho avuto, ma meglio ridere che piangere, no?» «È la verità?» mi domanda con apprensione, come se lui potesse sapere cosa sto passando. In piedi lì accanto rovisto nella borsa in cerca del sacchetto di biscotti integrali che ho preparato dopo scuola e, una volta trovato, glielo porgo. «Ah» dice sfilandosi un guanto e prendendone subito uno. «Se solo non fossi sposato e non avessi undici anni più di te, e tu non fossi la figlia del medico legale...» scherza. Scaccio quella battuta con un gesto della mano e mi addentro nel cimitero, lasciandomi alle spalle il rumore dei dentoni del Guasto che sgranocchiano i miei biscotti ancora caldi. Sono venuta prima del solito, per evitare di ritrovarmi sola dopo il tramonto. Non voglio, non con Scheletro e Dahlia che si aggirano minacciosi e la questione della Tregua fra zombi e Zerker ancora aperta. Mi consola sapere che il Guasto sarà ancora qui quando avrò finito di strofinare l’ultima tomba della giornata. Ok, ok, forse avrei dovuto avvertire Dane e Chloe, ma che differenza fa? Sono già morta. Cos’altro potrebbe accadermi di male? Morire per la seconda volta? Per un momento mi sforzo di non pensare agli zombi, in particolare agli Zerker, e al fatto che Hazel e la Haskins – così come chiunque altro a scuola – sembrino odiare il mio nuovo «stile di vita». Ma, mentre cerco la tomba che possa farmi dimenticare anche solo per un istante tutto questo, mi viene in mente Stamp: ripenso alla faccia che aveva quando l’ho rifiutato, a come sembrava deluso, quasi gli avessero succhiato via la vita. Nessuno mi aveva mai guardato così prima d’ora e, molto probabilmente, non succederà più. Sono talmente persa in questi pensieri che mi ritrovo davanti a una lapide come tante altre, priva di dettagli o decorazioni interessanti; ho talmente tanto bisogno di posare la borsa e darmi da fare per ritrovare la calma che una vale l’altra. Sono troppo triste per far visita alle tombe delle mie compagne di economia domestica, a maggior ragione ora che so cosa si nasconde dietro la cosiddetta Maledizione della Terza Ora e quanto io stessa sia andata vicina a essere la vittima n. 4. Dane ha detto che agli Zerker piace perseguitare le proprie vittime, giocarci un po’ per assicurarsi che il loro cervello sia carico di paura prima di divorarselo. Che lo stiano facendo anche con me, ultimamente, torturandomi durante la lezione e seguendomi fino al cimitero? Mi perseguitano per stimolare il mio cervello? Penso a Amy, Sally e Missy e mi chiedo cosa abbiano fatto a loro prima che morissero. Scheletro le avrà pedinate per tutta la città? E Dahlia le avrà tormentate fino alla fine dei loro giorni? Al solo pensiero dei loro volti felici, tristi, sorridenti o rigati di lacrime, rabbrividisco contenta di aver deciso di stare alla larga dalle loro lapidi. Mi siedo davanti alla tomba dall’aria anonima. Apro la borsa e tiro fuori il pennello; spolverare la lapide mi dà una bella sensazione, così continuo finché brilla come non mai. (Nulla da ridire sul lavoro del Guasto, ovviamente.) Dopo di che strappo un foglio dall’album, lo fermo con il nastro adesivo, prendo un carboncino nuovo e inizio a strofinare... strofino, strofino e basta, ascolto il rumore del carboncino nero a contatto con la carta bianca, il fruscio del foglio sul granito, il suono prodotto dalla mia mano che fa su e giù, su e giù, finché non raggiungo il particolare stato di coscienza che solo questa attività sa darmi, trasportandomi in un luogo dove niente e nessuno può toccarmi – nemmeno i fantasmi del cimitero. Mentre sto per finire, il Guasto si avvicina trascinandosi dietro con la pala un mucchio di rametti caduti, terriccio ed erba. Do un’occhiata all’orologio e mi accorgo di essere lì ormai da un’ora. Un’intera ora senza Stamp, senza Anziani, senza Dane o Chloe, senza Hazel, niente dark o fighetti, niente Scheletro. «Come va, Guasto?» dico, felice di vederlo. Del resto, da un po’ di tempo a questa parte, sono felice di vedere chiunque abbia ancora il sangue che gli pulsa nelle vene. Lui scuote la testa e risponde: «Non so, non mi sento al massimo». Se ne sta lì in piedi davanti alla tomba, con la faccia paonazza e il collo bianco, sembra un bastoncino di zucchero fatto però di pelle gelida e pelle bollente. Lascia cadere la pala e si asciuga la fronte. Alcune gocce di sudore scivolano sul mio foglio rovinando tutto quello che ho fatto finora. «Che schifo, Guasto. Ma stai bene? Non hai un bell’aspetto.» «Senti chi parla» ribatte con gli occhi gialli carichi di rabbia. «Come scusa?» domando incredula. «Che c’è?» sussurra quasi, e i suoi occhi di colpo tornano gentili – e bianchi. «Cos’ho detto? Perché mi guardi così?» «Guasto, ti sembra il modo di comportarsi? Un secondo fa mi hai offeso senza motivo. Mi hai rovinato il disegno sudandoci sopra. Mi stai troppo vicino. Dico sul serio, allontanati! Sembra quasi che stia per venirti un infarto.» Guasto spalanca gli occhi che di colpo tornano a essere gialli, ha la pelle del collo e delle braccia a chiazze rosse, come un bastoncino di zucchero impazzito. «Ah sì? E tu sembri uscita dalla Famiglia Addams.» «Adesso basta. Perché mi tratti così?» «Non lo so» mormora. Mi fissa con gli occhi di nuovo bianchi, come se stesse per mettersi a piangere e sussurra di nuovo: «Non... lo... so». Poi inciampa e con lo stivalone lurido n. 46 mi rompe il foglio in due. Il nastro adesivo tiene ancora salda la parte superiore e le due laterali, però ormai il danno è fatto. A quel punto scorgo lo squarcio che il Guasto ha sul collo, una ferita rosso fuoco gonfia di pus, come un bozzolo palpitante che nasconde una nuova forma di vita pronta a venire alla luce da un momento all’altro. Quando recupera l’equilibrio, il collo della maglietta si sposta e riesco a vedere meglio: è il segno di un morso. In un istante capisco tutto: Scheletro o Dahlia – o tutti e due insieme – l’hanno attaccato. E ora sono qui, nel cimitero, da sola. Questa volta non ci sono Dane e Chloe a salvarmi. Come ho potuto essere così stupida? Indietreggio verso la pala, mi conforta saperla vicina – non si sa mai. Il Guasto mi guarda in modo strano, come se mi vedesse per la prima volta, e la sua pelle non è più rosea, né ricoperta di sudore. Non è più la pelle del Guasto. Il Guasto non c’è più, al suo posto solo un corpo rigido e grigiastro che mi guarda minaccioso con gli occhi gialli e si lecca le labbra come fossi la sua cena. O il dessert. «Cosa sei venuta a fare nel mio cimitero?» La sua voce è un rantolo spaventoso, non ha più nulla a che vedere con quella del Guasto. È grande e grosso e non gliene importa un fico secco delle buone maniere. Avanza piano, inciampa, si avvicina con movimenti scomposti, scoordinati. Più si avvicina, più mi accorgo che del Guasto rimane solo un guscio vuoto. Il ragazzotto di 28 anni che ho corrotto a suon di mele e biscotti integrali al burro d’arachidi durante gli ultimi tre anni si è trasformato in uno zombi affamato, in uno Zerker che non vuole nient’altro che cervello. E non un cervello qualsiasi, il mio cervello. Le sue braccia sono ormai rigide, pelle e ossa, e le muove lentamente, con gesti convulsi. Il suo volto è pallido, prosciugato, il suo sguardo spento; non sorride più. All’improvviso i suoi occhi gialli s’illuminano e mi fissa la testa come fosse un forziere colmo di tesori. «Cervello» dice il mio amico custode del cimitero. Ma non è più il mio amico... non è più nemmeno umano. «Cervello... Maddy.» Mi abbasso, afferro la pala e lui mi si avventa contro, i suoi denti mi mancano di poco ma riesce ugualmente a graffiarmi il braccio con le unghie dure come la roccia. Sento la manica della mia nuova felpa nera strapparsi e le sue unghie penetrarmi nella carne: sono come artigli. Un dito, forse il pollice, gli rimane impigliato nella felpa e cade a terra. È un gigante di pietra di due tonnellate, un gigante in jeans, e non appena tocca terra, tutto trema. Agita le braccia e digrigna i denti storti e ingialliti – clac, clac, clac –, impaziente di affondarli nella mia carne. Non trovo più la pala; mentre gli sferro un pugno alla testa e una ginocchiata alle parti basse, con l’altra mano tasto l’erba attorno a me. Finalmente tocco il legno dell’impugnatura e la brandisco con tutta la forza che ho. La pala sferza l’aria e sento un rumore sordo, stoc, quando incontra il suo ginocchio e mette il Guasto k.o. Lui, però, non si arrende, striscia verso di me: con o senza ginocchio è come un treno in corsa. Io balzo in piedi e lo colpisco sulla spalla facendo schizzare il sangue fuori da una ferita aperta. Ma Guasto non si ferma. È come se non sentisse nulla. È carponi, tutto rotto, con gli arti piegati in maniera innaturale. Io continuo a picchiarlo con la pala, e lui continua a gemere, ringhiare e urlare come un ossesso: «Cervello! Mangiare cervello!». «Guasto. Guasto, fermati!» «Cervello!» Grido e chiudo gli occhi roteando la pala a casaccio e non lo sento più muoversi, non strilla, silenzio assoluto finché qualcosa... non rotola ai miei piedi. Apro gli occhi e mi ritrovo la testa del Guasto fra gli stivali macchiati di sangue. Poi percepisco distintamente delle... urla... le mie urla. TERZA PARTE L’OLTRETOMBA 24 E TUTTO EBBE INIZIO Qualche istante dopo sono nel camper di Dane e Chloe. Mi stanno pulendo e bendando le ferite. Non mi fanno male (gli zombi non provano dolore, ricordate?) ma, come potete immaginare, non è proprio semplice spiegare che ti è successo a insegnanti e amici il giorno dopo. «Ah, questo? Non è... niente. Mi stavo depilando... le orecchie, in questo punto... poi mi è scivolato il rasoio di mano e mi sono tagliata la gola. Cos’è, non ti è mai successo?» «Sono stati loro, Maddy» mi dice Chloe. «L’hanno morso, forse un’ora prima che arrivassi lì; gli Zerker ci mettono poco a trasformarsi.» Non ci credo. Non riesco a credere che un tizio, a cui per anni – e dico anni – ho regalato biscotti e sorrisi, di punto in bianco volesse staccarmi la testa dal tronco e fare merenda col mio cervello. «Allora perché è stato così carino quando sono arrivata? Che cavolo, abbiamo persino fatto conversazione. Si è mangiato un biscotto che gli avevo portato, ha fatto una battuta... ha quasi flirtato con me! Un attimo è il Guasto di sempre e l’attimo dopo è... uno... Zerker.» «Si chiama fase di resettaggio» mi spiega Dane. «Una sorta di zona neutra fra l’essere Normali e la trasformazione prima in zombi e poi in Zerker. Vengono morsi, ma a volte non se ne accorgono, non se lo ricordano nemmeno. Così pensano di essere ancora Normali, del resto perché mai non dovrebbero? Nel frattempo, dentro il loro corpo, il cuore smette lentamente di funzionare, i polmoni s’irrigidiscono e le sinapsi mantengono come unica forma di alimentazione l’elettricità. Ci vogliono dai 30 ai 45 minuti per vederne gli effetti. E poi altri 10 o 15 perché il cambiamento sia completo.» Chloe aggiunge: «Probabilmente ti stavano seguendo, Maddy. Sanno della tua passione per le lapidi; è proprio al cimitero che ti hanno minacciato la prima volta, quando tutto ha avuto inizio e tu eri ancora una semplice Normale a cui volevano succhiare il cervello. Perciò, quando ti hanno visto con album e borsa degli strumenti, hanno capito subito dove eri diretta. Sono andati al cimitero e come prima cosa hanno morso il Guasto. Sapevano che si sarebbe trasformato prima che tu finissi. E avevano ragione». Mi appoggio al ripiano del loro cucinotto, con le mani tremanti e sporche di sangue, e Dane mi dice: «Forse è meglio se ti dai una lavata». Allora mi guardo e capisco a cosa si riferisce. Oddio, ho guidato in queste condizioni? Con i vestiti e le braccia ricoperti di sangue? E se mi avesse fermato la polizia? Lascio scorrere l’acqua sulle mie mani, lavando via quello che resta del Guasto mentre il rosso si trasforma in rosa. Dane si alza e mi sussurra da dietro, quasi a volermi rincuorare: «Hai fatto la cosa giusta». «Credevo che solo gli Zerker uccidessero gli umani» mormoro guardando fuori dalla finestra sopra il lavello il piccolo lembo di prato che loro chiamano cortile. Lui mi prende per le spalle e gentilmente mi costringe a voltarmi. «Ti stavi difendendo, Maddy. E ricorda che sono stati gli Zerker a trasformare il tuo amico.» Le mani mi gocciolano sulle sue scarpe. Allora lui prende uno strofinaccio e le asciuga con molta, molta delicatezza. «Appunto» faccio io strappandogli lo strofinaccio per continuare da sola. «Era mio amico. Mi proteggeva sempre e sono certa che l’hanno morso per colpire me. Come si fa a vivere con un tale peso?» Dane annuisce e sta per rispondere con una di quelle classiche frasi da papà mortificato, tanto che mi preparo a dargli un pugno non appena si azzarderà a pronunciarla ma, a un tratto, sembra ripensarci. Buon per lui. Sento la sedia stridere contro il pavimento e un istante dopo Chloe ci raggiunge. Fare entrare tre persone in una stanza così piccola è come ostinarsi a voler rinchiudere tre matricole in un armadietto. «Se può esserti d’aiuto, Maddy,» dice «quello non era più l’amico che conoscevi. L’istante in cui l’hanno morso, ha smesso di essere il Guasto.» Annuisco, felice per una volta di non poter piangere, visto che non è proprio da signorina mettersi a frignare nel cucinotto di un camper verde a doppio asse. Lei si schiarisce la voce e guarda Dane. «Forse dovremmo andare a recuperare... il corpo.» 25 CATTIVE COMPAGNIE Alle prime luci dell’alba del mattino seguente imbocco il vialetto di Hazel. Da mercoledì scorso è stata così presa dai preparativi per il ballo che mi ha dato buca praticamente ogni pomeriggio e si è fatta riportare a casa da Tracy Byrd (alias capo cheerleader, presidentessa del consiglio studentesco, nonché tipica spilungona bionda del sud tutta frizzi e lazzi). Ma se c’è qualcosa di cui ho bisogno adesso è un’amica che conosce il mio segreto – anche se è passivoaggressiva e vagamente risentita con me solo perché sono una non-morta. Quindi mi presento alla sua porta e la costringo a venire a scuola con me. «Ma Tracy si chiederà che fine ho fatto» mi dice mordendosi il labbro china davanti al mio finestrino. Ha i capelli rossi ancora umidi e tiene in equilibrio due bicchieroni di caffè, uno per mano: salire in macchina diventa ancora più difficile per una dal risveglio lento come lei. La guardo male e lei aggiunge: «È a capo del comitato decorazioni del ballo quest’anno». «Quello è per Tracy?» le chiedo per farla sentire in colpa mentre sale. Non risponde, così continuo: «Ti ho dato un passaggio a scuola per un anno intero e a me non hai portato il caffè neanche una volta». A fatica riesce a infilare i bicchieri fumanti nel piccolo portabevande della mia macchina. «Tu non bevi caffè, te lo sei dimenticato?» Penso a quand’è stata l’ultima volta che ho ingerito cibo umano. «E la tua cara Tracy Byrd come lo gradisce? Con o senza zucchero? Macchiato o liscio?» «Due cucchiaini di zucchero, niente latte. C’è altro che vuoi sapere?» «No, a posto così.» Afferro uno dei due bicchieri, tolgo il coperchio e ne bevo due sorsate. «Attenta! Scotta.» Ma mentre lo dice si ricorda del mio segreto, di cosa sono diventata, e si rilassa contro il sedile. Continuo a bere finché non riesco di nuovo a sentirmi quasi umana. A metà tragitto, in tono casuale, o meglio altezzoso, butta lì: «Ho sentito che Stamp ti ha invitato al ballo». «Già» rispondo stringendo il volante così forte da farmi diventare ancora più bianche le nocche. Mi chiedo dove l’abbia sentito, dato che non ci parliamo da allora. Che gliel’abbia detto Stamp? O uno di quegli idioti che fanno educazione fisica con lui e che l’altro giorno hanno visto la mia simpatica scenata sulle gradinate? Chi lo sa. Magari sa semplicemente leggere nel pensiero. «E che gli hai detto di no» aggiunge. Visto? «Esatto.» «Mmm.» Sospira meditando sul vapore del caffè caldo. «C’è una ragione particolare o sei solo determinata a sabotare del tutto il tuo ultimo anno di scuola?» Mi fermo a uno stop a pochi isolati dalla scuola e la guardo di sbieco. Invece di levare il coperchio al bicchiere e lanciarlo sui sedili posteriori, come ho fatto io, Hazel ha preferito sollevare l’apposita linguetta e sta bevendo dalla piccola apertura triangolare. Scuoto la testa. Viva o morta, riuscirò mai a fare qualcosa come si deve? «Hazel, basta di fingere che questo sia un anno scolastico come tutti gli altri, ok? Smettila di far finta che sabato scorso non sia mai esistito e di non sapere che sono una morta vivente. Considerando che forse ho ben altro a cui pensare oltre al ballo, credi davvero che mi importi come si concluderà questo stupido anno?» Non risponde. Almeno non fino a quando non entro nel parcheggio della scuola. Allora, con fare pacato, naturale, come se ci avesse riflettuto a lungo dice: «Cosa ti aspetti, Maddy? Che mandi a quel paese anche il mio anno solo perché tu sei morta e non te ne frega più nulla della scuola? Be’, si dà il caso che invece a me importi ancora, e parecchio. Non posso... permettermi... di perdere un anno per stare dietro a te che tenti di capire cosa significa essere uno zombi. Devo pensare al college, devo trovarmi un ragazzo, sai... il genere di cose di cui solitamente si preoccupano gli umani. E poi non sei del tutto sola. Quando la tua migliore amica si trasforma in uno zombi, devi pur trovare il modo... di andare avanti». Mi volto e sto per posarle una mano sul braccio ma lei si è già sganciata la cintura di sicurezza e, borsetta alla mano, è uscita in fretta dall’auto. «Mi dispiace, Hazel» dico, cercando di ignorare il fatto che – come al solito – ha rigirato la frittata comportandosi da vittima. E, soprattutto, ignorando che scaricare Stamp mi ha ferito in un modo che lei nemmeno immagina. Lo dico solo perché rivoglio indietro la mia migliore amica. Lei si blocca un attimo prima di sbattere la portiera e poi la sbatte lo stesso. Fa un passo, si ferma, si volta e torna alla macchina. Per un istante credo quasi che stia per scusarsi, che si sia resa conto che essere una zombi è centomila volte peggio che essere la sfigata di turno. Invece la sento dire: «So che non l’hai voluto tu, Maddy. Ma per una volta mi piacerebbe che riflettessi sulle conseguenze che le tue azioni hanno su di me». E al posto di tirarle uno schiaffo, di ribattere a tono o semplicemente di farle notare che da sempre mi preoccupo per lei – persino ora, nell’Oltretomba – cosa faccio? Ci rinuncio e piagnucolando inizio praticamente a supplicarla. Non le lascio il tempo di girare i tacchi e in preda all’ansia le chiedo: «Ci vediamo a economia domestica?». (Sono o non sono una povera disperata?) Lei mi guarda come se avessi appena parlato in swahili. «Sei impazzita, Maddy? Il ballo è stasera, ricordi? Ma tanto a te che importa? In fin dei conti hai solo dato buca al figo più figo della scuola. Be’, in ogni caso, il comitato decorazioni sarà impegnato per le prossime 12 ore. Oggi non vengo a lezione. Mi dispiace.» (Non sembra.) E si avvia tacchettando. La vedo salutare con la mano una delle sue stupide compagne di comitato e le urlo dietro, sempre più disperata: «Allora quando ci vediamo?». Ma lei non mi risponde, non si volta nemmeno. Brava, Maddy. Prima Stamp e adesso Hazel. «Se continui così, a breve ti ritroverai a corto di persone da ferire» bisbiglio al riflesso dark che mi guarda dallo specchietto retrovisore. Poi mi ritocco il rossetto nero, esco dalla macchina, bevo l’ultimo sorso di caffè di quella cretina di Tracy Byrd e mi dirigo verso l’entrata della scuola. Due passi lungo il corridoio e non ne posso già più: dagli altoparlanti non si sente dire altro che, il ballo qui, il ballo là, una serata indimenticabile, ricordatevi di comprare i fiori alle vostre partner. E anche quando gli annunci terminano, in classe è tutto un parlare di smoking affittati, abiti su misura, appuntamenti dal parrucchiere e di quanto costa poco farsi la pedicure da Ricci e Capricci, in fondo alla via. Immagino Stamp in smoking, con i capelli tutti pettinati all’indietro, un sorriso timido e allo stesso tempo malizioso sulle labbra, in mano un fiore per me. Mi domando chi ci porterà al posto mio – tra le «dozzine» di oche a cui l’avrà chiesto dopo che io gli ho detto di no – e, in segreto, sono contenta di non doverli vedere entrare a braccetto. Inizia l’ora di educazione civica ma le cose non migliorano affatto. Molti devono essere nel comitato decorazioni perché la classe è quasi vuota. Essendo in pochi, la prof ci lascia fare quello che vogliamo per una buona cinquantina di minuti. E dato che non c’è nessuno di quelli che spero vogliano ancora essere miei amici, sono i cinquanta minuti più lunghi della mia vita. Quando finalmente esco in corridoio e vado verso la classe di economia domestica, manco a dirlo, vedo Scheletro e Dahlia appoggiati alla soglia dell’aula. Hanno un’aria talmente compiaciuta che all’improvviso mi balenano in mente immagini di me con la pala in mano, della testa del Guasto che rotola ai miei piedi, e vorrei sbattere quei due Zerker contro un muro. Così mi piazzo di fronte a loro. «Spiacente di avervi deluso ieri sera» dico incazzata, sprezzante del pericolo come se lo stress degli ultimi giorni mi avesse resa di colpo impavida. Dahlia spalanca gli occhi: «Deluso chi... noi?» «Perché?» mi chiede Scheletro. «Lo sapete perché e sapete anche chi e dove. Ma non importa, tanto non sarò mai uno Zerker, mai.» Loro ridacchiano e prima che m’infili in classe, Scheletro sussurra: «Forse non abbiamo più bisogno di te, dopotutto». «Già» gli dà man forte Dahlia. «I tuoi amici sono... deliziosi. Be’, se non altro hanno un sapore decisamente migliore delle tue patetiche compagne di economia domestica.» Non avevo mai picchiato una ragazza, o un ragazzo, prima d’ora, ma devo confessare che è una sensazione assolutamente fantastica. Anzi, no, non è esatto. Che parola ha usato Dahlia prima che le tirassi un pugno sul naso? Ah sì, deliziosa, proprio deliziosa. «Brutta stronza» grida, portandosi entrambe le mani al naso mentre si accovaccia a terra. Scheletro accorre subito in suo aiuto e gliele allontana delicatamente dal viso. Ha il naso piegato da un lato, sembra un pugile. (Sì, un pugile di 72 anni, però, ah ah!) Non esce sangue, però – a giudicare da ciò che vedo – ho centrato il bersaglio. Mi guardo le nocche e sono appena sbucciate, niente di che. Sorrido mentre Dahlia geme, ma Scheletro si alza e dall’alto del suo metro e novanta mi fulmina con quei suoi terribili occhi gialli. «Andiamo» dice a Dahlia. «Ti porto in infermeria. Tanto con la Haskins e la sua economia domestica abbiamo già dato per oggi.» È allegro, quasi entusiasta, e lì per lì non riesco proprio a immaginare a cosa si riferisca. Poi entro in classe e vedo la Haskins. Nessuno sembra essersi accorto che al posto della prof c’è un morto vivente. Bisbigliano fra loro e con aria svogliata rompono uova e setacciano la farina come è giusto che facciano, visto che è ancora il Mese del Muffin. (Il gusto del giorno? Mirtilli rossi.) La Haskins – che è sempre così composta, sexy e sofisticata – oggi ha l’aria stanca, sbattuta, anzi, esausta. È vestita in maniera impeccabile, perciò è comunque presentabile (merito di Scheletro e Dahlia, che devono averle dato due dritte su come evitare di destare sospetti fra i Normali), ma è evidente che qualcosa è cambiato. Ora so a cosa si riferiva Dahlia quando diceva che i miei «amici» sono deliziosi. Il Guasto non dev’essergli bastato e se la sono presa con la prof. Questa volta però non ho davanti uno Zerker famelico, con gli occhi spiritati, ma uno simile a... loro. I capelli della Haskins, che fino a ieri erano neri come la notte e che tutte le invidiavamo, hanno assunto una sfumatura grigia. Ha gli occhi gialli e lo sguardo perso, come se attendesse di risvegliarsi da un brutto sogno. Indossa abiti sexy e alla moda, come sempre, ma c’è qualcosa che... non va: l’orlo della gonna rossa attillata è piegato all’insù e sembra quasi che si sia dimenticata di allacciarsi l’ultimo bottone della camicia, anch’essa troppo stretta, troppo bianca. (Suppongo che ora che è morta anche lei, non sia più in lutto per le sue tre alunne defunte.) Mentre tutti sono indaffarati a scodellare e a sfornare, ridacchiando fra loro, la Haskins se ne sta lì... dietro la cattedra, a fare avanti e indietro come una rotella in una scanalatura. Stringo forte lo zaino al petto, ignoro i miei compagni e vado verso di lei. «Professoressa Haskins?» azzardo pur avendo il ricordo dell’agguato del Guasto ancora ben impresso nella mente, e i suoi graffi sulla pelle. Lei alza gli occhi, gialli come i denti, e sorride torva con le labbra sottili come lame di rasoio. «Sì... Maddy?» Non sembra sicura che mi chiami così, o meglio: non sembra le possa fregare di meno chi sono. Mi schiarisco la voce. «Volevo solo sapere se... si sente... bene?» Lei inclina leggermente la testa da un lato e io riesco a vedere i segni del morso che ha sul collo, semi nascosti dal colletto. Non è una ferita fresca, purulenta, come quella che aveva il Guasto, al contrario: è quasi del tutto rimarginata e secca, come se avessero morso lei per prima lasciandole a disposizione tutta la notte – o forse di più – per raccapezzarsi, calmarsi e dare libero sfogo ai suoi nuovi appetiti. «Sto bene.» Dalla voce rauca sembra che si sia fumata 42 pacchetti di sigarette di fila alternandoli a una dozzina di litri di whisky. «Perché me lo chiedi?» «Così. Mi sembrava... non importa. In realtà sono io che non mi sento troppo bene oggi. Mi domandavo se per caso potesse scrivermi una giustificazione...» Non faccio nemmeno in tempo a inventarmi una scusa che lei allunga una mano, prende il suo blocchetto delle giustificazioni con su scritto «Dalla cucina della prof Haskins» e me lo tira. Io lo afferro e scuotendo la testa esco dalla classe. Scheletro e Dahlia se ne sono andati, di certo non in infermeria. Staranno vagando per i corridoi, avventandosi di tanto in tanto sulle persone che conosco da sempre, a cui voglio bene, a cui tengo o da cui semplicemente ho preso in prestito una matita una volta. Mi rifugio nel bagno dell’ala C più a lungo che posso, con la schiena appoggiata all’asciugamano elettrico tutto scassato, sotto la finestra, a scrivere messaggi disperati a Chloe e Dane: Dove cavolo siete?!?!?! Nessuno dei due risponde subito – e io ho la fobia dei luoghi chiusi –, perciò mi dirigo verso la stanza più grande che c’è a scuola: la palestra. Non ho mai avuto l’onore di partecipare ai preparativi per il ballo (o al ballo, se è per questo), quindi rimango abbastanza scioccata alla vista di tutto quel fermento. Da settimane ormai la scuola è tappezzata di poster che chiamano il ballo la «Notte delle Stelle» (ammazza, che fantasia, ragazzi) e ora che vedo il comitato in azione, sembra proprio che abbiano preso quella definizione alla lettera. Non che ci siano vere stelle, questo no, ma ce ne sono a centinaia – fatte di cartone e ricoperte di strass – sparse su tutto il pavimento. File e file di ragazzi sono impegnate a passare della lenza da pesca nei fori precedentemente ritagliati su una punta di ciascuna stella, così da poterle appendere; sembra che raccolgano le fragole, accovacciati e concentrati come sono, uno accanto all’altro, spalla a spalla. Non vedo Hazel però sento la sua voce. Sta ridendo di gusto insieme a un ragazzo. Non a un ragazzo qualunque. In piedi in mezzo a un mare di stelle scintillanti osservo Stamp scherzare con Hazel, che ridacchia giocherellando con il suo ricciolo alla Superman. Poi lui, con gli occhi a cuore, le scosta una ciocca rossa dal viso e si china per darle un... «Ehi» urla qualcuno. «Guarda dove passi.» Ma non posso guardare dove passo. Non so nemmeno cosa sto facendo mentre corro verso l’uscita, calpestando una stella dopo l’altra così che un misto di colla e strass mi rimane attaccato alla suola degli anfibi. Penso solo a uscire alla svelta di lì e a non voltarmi mai più indietro. 26 TUOI PER SEMPRE Gradualmente, col passare di questa giornata interminabile, l’ordine cede il posto al caos, qui alla Barracuda Bay. Sarà per le quattro o cinque persone che mancano perché impegnate a dipingere, cospargere di glitter e appendere le stelle in palestra, o per le altre due o tre che simpaticamente hanno deciso di saltare la scuola per provvedere agli ultimi ritocchi all’abito o ai capelli, oppure per gli insegnanti che vagano inespressivi fra i banchi distribuendo cruciverba e simili a quegli sfigati che sono venuti a lezione lo stesso, fatto sta che tutto è avvolto dalla tipica patina da ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, un misto fra indolenza e menefreghismo generale. Un’atmosfera di trepidazione pervade i corridoi rendendo tutti euforici, e persino i prof – almeno quelli che non sono stati ancora trasformati in Zerker – sembrano in vena di festeggiare. Vado a far visita a ciascuno di loro, passando di classe in classe, e tenendo a mente questo criterio: se hanno i vestiti abbottonati come si deve, gli occhi non sono gialli e rispondono chiamandomi per nome, sorrido e dico: «Mi scusi, ho sbagliato classe». Fin qui tutto bene. Escluso l’episodio con la Haskins, ovvio. Entro nell’aula di arte, preparandomi al peggio, ma sorprendentemente la Witherspoon ha gli occhi di sempre e la classe è semivuota. Le ochette che si sono degnate di venire a lezione sono radunate intorno a uno dei lunghi tavoli neri da disegno, curve sull’ultimo numero di Vogue, e fingono di non vedermi con quelle loro facce da cretine, gli occhi da faina e le bocche sempre aperte. C’è anche Stamp, è seduto in fondo, imbronciato, con le braccia conserte e le labbra rigide – non stile zombi, più stile... incazzato – in attesa di vedermi apparire. Dato che i posti sono in pratica tutti liberi, salto quello accanto a lui e mi siedo al banco davanti al suo. «Un gesto davvero maturo» mi dice. Poi sento il rumore della sua sedia che striscia sul pavimento e un istante dopo me lo ritrovo accanto. «Stammi alla larga» rispondo. Poi, dimenticandomi di possedere una superforza da zombi, lo spingo via e lui si ritrova seduto al tavolo vicino. Sopra la lente gigante dei buffi occhiali della Witherspoon vedo apparire un sopracciglio inarcato. Le ochette sghignazzano e una esclama, «Bisticci fra innamorati», con voce cantilenante, ma Stamp non demorde, afferra la sedia, attraversa la stanza e mi si siede ancora più vicino. «Cos’è, hai fatto le flessioni?» chiede tutto rosso in faccia per l’umiliazione di essere stato spedito dall’altra parte della classe da niente popò di meno che... una ragazza. «Ogni tanto» mento. Nella Guida c’era scritto che sarei diventata sempre più forte. Non immaginavo tanto: decapito un becchino al primo colpo, spacco il naso a una Zerker con un pugno, e adesso sposto senza sforzo un ragazzone di novanta chili abbondanti. La cosa potrebbe iniziare a piacermi. «Allora... hai saputo di me e... di Hazel?» «Non so di cosa tu stia parlando» dico con aria innocente. Stamp sbuffa. «Ti abbiamo vista in palestra, Maddy. Ti hanno vista tutti.» Non rispondo, allora lui continua: «Non volevo... che lo scoprissi... così». Rido stizzita e alzo gli occhi al cielo. «E come ti sarebbe piaciuto che lo venissi a sapere, eh, Stamp? Pensavate di noleggiare uno di quegli aeroplanini con gli striscioni e annunciarlo a tutta la Barracuda Bay, tanto per umiliarmi ancora di più?» «Senti un po’, guarda che sei stata tu a rifiutarmi, te lo sei scordato?» «Ho capito, e tu allora che fai? Giri le chiappe, corri dritto dritto da Hazel e la inviti al posto mio? Hazel? La mia migliore amica? Che fine hanno fatto le altre tre dozzine di ragazze a cui potevi chiederlo?» Lui resta in silenzio a guardarsi le scarpe, non prova nemmeno a difendersi, allora di colpo capisco tutto. Penso a quant’è strana Hazel ultimamente, al modo in cui si è infilata fra me e lui il giorno in cui Chloe mi ha portata a fare shopping, a come ha evitato di andare a scuola e tornare a casa con me per tutta la settimana, alla faccia da colpevole che aveva stamattina un istante prima di scendere dell’auto, tipo che voleva dirmi qualcosa ma all’ultimo minuto aveva cambiato idea. «Non l’hai invitata tu, vero? Ti ha invitato lei.» Non fa cenno né di sì, né di no, ma non ce n’è bisogno. Mi balena un pensiero. «Dimmi solo una cosa, Stamp. Te l’ha chiesto prima che tu lo domandassi a me... o dopo?» Stamp arrossisce, sta per rispondere ma ci ripensa. «Non... non posso dirtelo, Maddy.» «L’hai appena fatto.» In quell’istante la porta dell’aula si spalanca e Hazel irrompe in classe. «Hazel» urliamo entrambi alzandoci in piedi mentre lei si dirige minacciosa verso di noi. Ha un aspetto... orrendo. Mi si stringe lo stomaco. Anche a distanza riesco a scorgere i segni di un morso sulla sua spalla nel punto in cui la camicetta si solleva e si riabbassa al ritmo dei suoi passi. Oddio, oddio no. Non Hazel, non la mia Hazel. «Sta’ alla larga da lui, Maddy» grida sputacchiando, con gli occhi sbarrati, glaciali... gialli come un lampo nel buio, come quelli di un gatto... come quelli di uno zombi. Hanno morso anche lei. In un attimo tutto scompare. Tutto. Tutto quello che abbiamo costruito insieme va in frantumi e si dissolve nel nulla. Penso a quando l’ho incontrata per la prima volta: aveva i codini, così come li ha adesso e indossava un vestitino rosa svolazzante simile a quelli che disegnavamo da piccole sul marciapiede con i gessetti rosa e azzurri. (Indovinate quale colore sceglieva sempre lei?) Ripenso a tutte le prime volte vissute insieme: il primo giorno di liceo, i primi armadietti, le prime ore di lezione, le prime mestruazioni, i primi baci, le prime cotte, le prime birre alle feste in piscina di Rob Blonsky, le prime lezioni di guida... tutto. Mi vorticano in mente migliaia di ricordi: la conosco da una vita e ora non c’è più traccia di vita in nessuna delle due. Nonostante questo, non riesco a guardarla. Sapere in cosa si è trasformata, in cosa Scheletro e Dahlia l’hanno trasformata, cioè in un essere immondo dalla fame insaziabile e gli occhi che brillano al buio, mi fa venire voglia di distogliere gli occhi, di rinnegare lei e quello che abbiamo fatto insieme. Ma non posso. Lei è ancora la mia migliore amica. Alzandosi Stamp fa cadere la sedia all’indietro e l’impatto produce un’esplosione assordante di plastica e metallo. Sotto gli sguardi increduli della Witherspoon e delle altre, Hazel si avventa su di me dall’altra parte del banco. (Roba da soap opera, eh?) Stamp è veloce ma non abbastanza. Io sì, però. Grazie alla mia nuova forza, le blocco i polsi con una sola mano e le afferro la nuca con l’altra, sbattendola – forte – sul tavolo. La tengo giù e le sussurro all’orecchio: «So cos’hai fatto e cosa ti hanno fatto. Sparisci, Hazel, questo gioco non fa per te». Lei digrigna i denti, sputa e io mi allontano un po’ prima di mollare la presa. Poi spingo via Stamp mentre lei si rimette in piedi, pronta a tornare alla carica. Mi sembra strano prendere le sue parti contro la mia migliore amica, ma ho già visto cos’è stato capace di fare uno Zerker al Guasto. Se Hazel è diventata una di loro, allora non ha più speranze. D’un tratto però accade una cosa strana. Una minuscola parte della vecchia Hazel riaffiora – quella simpatica, quella che si impegna a prendere buoni voti nelle attività extracurricolari per arrotondare la media, quella carina con tutti, la cocca dei prof. Con Stamp al sicuro alle mie spalle e le compagne rintanate in un angolo insieme a una Witherspoon tutta tremante, Hazel si guarda intorno, si liscia il vestitino, sposta una ciocca rossa dietro l’orecchio e dice: «Chiedo scusa per il piccolo... inconveniente... professoressa. Non so che mi è preso. Stamp, se non ti dispiace, il comitato decorazioni avrebbe bisogno del tuo... aiuto». Dopo di che, senza neanche chiedere il permesso, lo trascina fuori dalla classe. Lui la lascia fare e non si volta. Mi ritrovo sola, a dover rimettere insieme i pezzi di questo casino, ma so di non essere più la Maddy che la Witherspoon o le altre conoscono. Afflitta, mi dirigo verso la porta, ignorando le proteste della prof e sventolandole il blocchetto delle giustificazioni della Haskins davanti alla faccia. Corro dietro a Hazel e la becco che gira l’angolo dell’ala C in direzione dell’uscita. «Hazel!» Lei si volta, bisbiglia qualcosa a Stamp e lo spinge verso il parcheggio. «Stamp?» urlo disperata, ma lui mi guarda solo un istante come a dire «Non è colpa mia», poi si gira e si allontana. Hazel mi si pianta davanti con aria di sfida, probabilmente pensando che voglia fermarlo e che lei abbia il diritto di impedirmelo. Allora mi blocco e indietreggio. «Ehi, calma» dico in tono rassicurante, ma sempre mantenendo le distanze. «Hazel, voglio solo... parlare. Tutto questo è... assurdo.» Lei resta lì, non muove neanche un muscolo e già riesco a vedere il pallore cadaverico divorarle la pelle e le ombre scure aumentare intorno ai suoi occhi. «Che c’è di tanto assurdo, Maddy?» Mentre mi guarda in attesa di una risposta, capisco che nulla di ciò che le dirò potrà farle cambiare idea ora che è quello che è, ora che entrambe siamo quello che siamo. «Tutto, Hazel. Non capisci? Tutto questo è pazzesco, tu che irrompi in classe e trascini via Stamp come una donna delle caverne. Non è da te.» «Ma questa, Maddy, è la nuova me e tu non puoi farci niente.» Io me ne sto lì a piangere sui resti della nostra amicizia e lei invece sembra quasi... felice. Sorride, ma non per apparire coraggiosa; sorride perché nel profondo del cuore è felice di non dover essere più mia amica. «Oh sì, che posso, Hazel. Io sono sempre io, viva o morta. Sono quella di sempre. Io posso aiutarti; Dane, Chloe, gli Anziani, le Sentinelle... loro... possono aiutarti. Devi resistere, Hazel, resisti ancora un po’, giusto il tempo di cercare aiuto.» «Resistere per cosa, Maddy? Perché mai dovrei combattere un sensazione così... bella? Per la prima volta nella mia vita posso essere esattamente come voglio, e nessuno potrà impedirmelo. Nemmeno tu.» Scoppio a ridere di gusto. «E quando mai non hai fatto esattamente quello che volevi, Hazel? Non avevi mica bisogno di diventare uno Zerker per agire di testa tua, perché è da quando ti conosco che lo fai.» Lei avanza di un passo, ma non vuole attaccarmi, non fisicamente almeno: è aggressiva a parole. «Lo credi davvero, Maddy? Credi davvero che abbia sempre agito di testa mia? Che l’abbia fatto solo per me? Pensi che esserti amica mi abbia aiutato? Sei proprio una stronza. Per starti vicino mi sono sempre sacrificata, perché non potevamo uscire con le persone che contano o con i ragazzi più popolari. Credi che mi divertissi a guardare un film con te ogni sabato sera? O a dar buca a gente del genere per fare da babysitter alla cara Maddy ogni maledetto finesettimana? Ti ho fatto un favore, Maddy, e ora mi sono stancata. Ora basta.» Mi trema il mento anche se, ovviamente, non verso nemmeno una lacrima. Muovo un passo e lei sussulta, ma continuo lo stesso ad avanzare e, quando ci ritroviamo faccia a faccia, le tiro uno schiaffo. Uno schiaffo talmente forte che, se fosse ancora viva, le avrei rotto la mandibola. E invece si ritrae appena, la mia mano è marmo contro il marmo della sua guancia. «Rimangiati quello che hai detto, Hazel. Rimangiati ogni cosa e alla svelta. So che non lo pensi davvero e che sei sempre stata una vera amica. Non puoi aver finto per tutti questi anni. E sai perché lo so? Perché non sei brava a fingere. Qualcosa... si è impadronito di te... e ti ha fatto parlare in questo modo.» Lei non ribatte, non mi si scaglia contro per strapparmi la camicia o tirarmi i capelli o rovesciarmi addosso l’armadietto di qualche matricola. Si massaggia la guancia dove l’ho colpita e dice: «Scheletro aveva ragione, non sento niente». Ha lo sguardo vuoto, come se non fosse più qui, come se niente di quello che abbiamo fatto insieme, di cui abbiamo parlato, per cui abbiamo riso e pianto in questi anni avesse lasciato traccia dietro quegli occhi gialli che mi fissano inespressivi. È stato tutto cancellato. «Come fai a essere così... crudele?» gemo, detestandomi per averlo detto anche se non potevo farne a meno. Hazel si mette a ridere. La sua risata è già sinistra di per sé, ma lo diventa ancor di più riecheggiando fra le pareti piastrellate e avvolgendomi in un vortice di pura cattiveria. «Scheletro aveva ragione anche su di te, Maddy. Quando diceva che eri debole, pensavo che si sbagliasse. E invece no, tu sei debole. Nel momento in cui ti sei trasformata in zombi hai avuto l’occasione di mostrare chi sei, ora però tocca a me.» «Credi che sia una specie di gara? Qui si tratta di vita o di morte, Hazel, e dovremo farci i conti per sempre. Non pensare di poter essere uno Zerker per un po’ e di smettere quando ti pare, quando sei stanca, perché se scegli di essere una di loro lo sarai per l’eternità. E non pensare che sia felice di essere morta per prima, cara mia, perché allora non hai capito proprio niente.» «Adesso sarei io quella che non capisce?» esclama sporgendosi verso di me e allontanandosi subito dopo. «Staremo a vedere. Ride bene chi ride per ultimo, Maddy.» Poi gira i tacchi e si allontana scossa da violenti spasmi. So che non può più sentirmi, ma urlo lo stesso: «Ultimo! Ride bene chi ride ultimo. Non sai neanche parlare. Le uniche cose che sai, te le ho insegnate io». In un attimo i corridoi sono vuoti, vuoti come la mia vita. È il mio personale giorno dell’Apocalisse. Mi dirigo verso l’armadietto su gambe malferme con l’intenzione di recuperare qualche libro per il weekend... filare a casa, chiudere a chiave la porta e provare a dimenticare le ultime due settimane. (Cavolo, sono passate solo due settimane?) Inserisco la combinazione, apro lo sportello e mi cade fra le mani una busta argentata. Sul davanti c’è scritto il mio nome, per intero, Madison Emily Swift, con mano nervosa ma – a occhio e croce – femminile. Per una frazione di secondo il mio cuore senza vita torna a battere. Spero sia un bigliettino di scuse o una lettera a cuore aperto da parte di Hazel, poi rifletto: Come faceva a sapere in anticipo di doversi scusare per qualcosa? La apro e leggo: Cara Maddy, sei cortesemente invitata a partecipare al ballo di stasera. Sentiti pure libera di portare con te i tuoi due nuovi amici, Dane e Chloe. Ti promettiamo che non te ne pentirai. Molti darebbero la vita pur di esserci. Tuoi per sempre, Scheletro e Dahlia Sento degli stivali cigolare sul pavimento alle mie spalle e mi viene un colpo, poi giro le spalle all’armadietto aperto e vedo Dane e Chloe che mi aspettano con lo stesso invito in mano, già aperto e letto. «A questo punto direi che la Tregua è finita» esclamo. Dane fa una smorfia, come se avesse appena ingoiato mezzo chilo di cervello andato a male, e ribatte: «Dici bene». 27 FRA UNA SCOSSA E L’ALTRA «Devo proprio farlo?» chiedo un’ora e mezzo dopo fermandomi davanti alla sede dello sceriffo di Barracuda Bay. «È l’unico modo, Maddy» risponde Dane seduto nel lato passeggero della mia modesta Honda Civic verde. «Ma è l’ufficio di mio padre. Se qualcuno si accorgesse che mancano, perderebbe il lavoro.» «Non se ne accorgerà nessuno» interviene Chloe dai sedili posteriori. «Sono solo dei taser, tre stupidissimi taser. Non stai mica per irrompere al Pentagono per sottrarre materiale top secret al governo.» «Voglio solo che non ci vada di mezzo mio padre. Io sono spacciata ormai, non ho più nulla da perdere e mi sta bene. Ma lui è ancora vivo. Deve ancora guadagnarsi il pane e sperare di avere un tetto sulla testa.» «Per ora» dice Chloe. Mi volto di scatto. «Che significa, per ora?» Dane mi posa una mano sulla spalla e resta zitto finché non mi giro a guardarlo. «Maddy, se non lo facciamo, anche tuo padre – volente o nolente – ci andrà di mezzo. Proprio come la Haskins e... Hazel. Se non fermiamo gli Zerker una volta per tutte, l’intera città potrebbe essere contagiata nell’arco di una notte.» «Ok» dico scendendo dalla macchina e sbattendo la portiera. Dopo essere entrata nell’ufficio dello sceriffo sorrido a quei pochi tizi che ho conosciuto a qualche barbecue casalingo o alle partite di softball o alle feste natalizie organizzate dalla contea di Cobia in cui papà mi trascina ogni anno. Mi becco un paio di occhiatacce, però, e subito mi rendo conto che queste persone non hanno ancora visto la nuova Maddy, la figlia di Marilyn Manson. (Povero papà, dopo la mia breve visita gli faranno una testa così, domani in pausa pranzo.) In spalla ho lo zaino vuoto, ho tolto libri, quaderni e cartelline per far spazio ai taser che Dane e Chloe pretendono che rubi dall’armeria. L’ufficio di mio padre è proprio lì di fronte ma, viste le dimensioni ridicole dell’edificio, è praticamente di fronte a tutto: la macchinetta del caffè, quella degli snack, il bagno delle donne, lo sgabuzzino – insomma, vi siete fatti un’idea. Papà sembra sorpreso di vedermi, ma neanche troppo. La nostra è una piccola cittadina e la stazione di polizia è a due passi da scuola. Sono abituati a vedermi arrivare una o due volte alla settimana con una cena da asporto quando so che mio padre fa il doppio turno, o con una confezione di ciambelle e un thermos di caffè se è di turno la mattina presto. «Maddy!» esclama, e gli s’illuminano gli occhi mentre balza su dalla sedia. «Che bella sorpresa!» «Ciao, papà.» Mi sforzo di non far trapelare dalla mia voce il senso di colpa che mi divora. «Come te la passi?» «Chi, io?» dice spostando le lenti bifocali in punta di naso per guardarmi meglio. «Come te la passi tu, piuttosto? Stasera non c’è il ballo che aspetti da tanto?» Crollo a sedere su una poltrona grigia scricchiolante davanti alla sua scrivania e fingo di essere esausta. «Già» annuisco sbadigliando di continuo. «È per questo che sono passata. Sapevo che non avresti avuto il tempo di fare un salto a casa per scattare una foto a me e al mio... accompagnatore... così ho pensato di venirti a fare un salutino.» Papà sposta la sua attenzione sulla porta. «E il tuo accompagnatore è con te?» domanda speranzoso. «No» rispondo fissando lo scheletro di plastica appeso in un angolo della stanza. «Secondo te sono così scema da riempirgli la testa di immagini di cadaveri proprio stasera?» Lui scoppia a ridere e poi mi osserva più attentamente. «Non avrai mica intenzione di presentarti al ballo vestita così, vero?» Sbuffo dando un’occhiata al mio superlook del giorno. Finora papà è stato piuttosto indulgente nei confronti del nuovo stile di vita che ho adottato. Non che ne sia entusiasta, questo no, ma di sicuro è stato più comprensivo di... Hazel, per esempio. (E adesso so anche il perché.) Giocherello con l’orlo della minigonna in similpelle e dico: «No, devo ancora passare a casa a cambiarmi. Sono venuta ora per essere sicura di trovarti». E giù sbadigli. Lui mi guarda divertito. «Be’, faresti meglio a darti una svegliata, Maddy. Ti aspetta una lunga notte di divertimento sfrenato. Che ne dici di un bel caffè? Ho ancora un paio di minuti liberi prima della prossima autopsia, così puoi descrivermi il tuo abito.» Bingo! «Credevo che non me l’avresti più chiesto» esclamo (almeno questa non è una bugia). Mentre lui si allontana lungo il corridoio per andarmi a prendere il caffè, proprio come ho cercato di indurlo a fare sin da quando sono entrata, allungo una mano dall’altra parte della scrivania, apro il cassetto in alto e afferro il suo portachiavi. Ebbene sì, mi sento un po’ in colpa per questo e diciamo pure che sono una figlia degenere, ma del resto sono uno zombi e agisco per il suo bene. Mi sembra quasi di sentire la voce di papà: ruba le chiavi ora e ti sentirai in colpa per qualche minuto; oppure non rubarle, non fermare gli Zerker, lascia che contagino la città, e poi vedremo come ti sentirai quando persino tuo padre sarà diventato un morto vivente e la notte cercherà di sgraffignarti i cervelli per farsi uno spuntino prima di andare a letto. Quando lui torna con due tazze di caffè fumante, le chiavi sono già al sicuro nella mia tasca. Guardo dentro la mia e noto che ci ha messo del latte, ma trattengo la nausea e ne bevo un sorso per farlo contento. Iniziamo a chiacchierare del più e del meno e lui mi dice: «Allora, si tratta del ragazzo nuovo di cui mi parlavi? Quello che gioca a football e assomiglia a Superman?». Mi limito ad annuire sperando che non conti come bugia. (Notate bene, cedo agli scrupoli quando gli ho appena rubato un mazzo di chiavi e sto per rubargli anche un paio di taser.) «Oh, sono proprio felice. Ha l’aria di essere un bravo ragazzo.» Annuisco di nuovo e nella mia mente si riforma l’immagine di Hazel che trascina Stamp fuori dall’aula di arte, lo sguardo disperato di lui quando gli ordina di seguirla in palestra. Ripenso a Hazel, la povera piccola non-morta Hazel. Papà sembra intuire che qualcosa non va: «E Hazel? Com’è il ragazzo che l’ha invitata?». A momenti gli sputo in faccia il caffè che sto fingendo di godermi. Ma quella che solo 24 ore fa mi era apparsa come un’assurda messa in scena, ora mi rende profondamente triste. Non rispondo perché non saprei proprio cosa dire (basta con le bugie!), allora il sorriso malizioso sulle sue labbra svanisce e mi chiede: «Maddy, sembra che tu abbia appena visto un fantasma. Stai bene? Santo cielo, hai atteso questo momento per due anni e ora che è arrivato credevo che avresti mostrato un po’ più di entusiasmo». Quanto mi piacerebbe confessare tutto, confessare di volergli rubare i taser, spiegargli il perché, ma soprattutto dirgli che Hazel – la sua cara dolce Hazel – se n’è andata per sempre. Eppure non riesco a parlare: la sua preoccupazione aumenta ogni secondo di più e io non posso farci niente. Non ce la faccio più a fingere che il mondo non mi stia crollando addosso, che la mia migliore amica non sia solo morta ma abbia pure deciso di tormentarmi dopo la morte, trasformandosi in uno Zerker che non appena avrà l’occasione tenterà di uccidermi con le sue stesse mani. Sento un bip, mi volto e vedo il cercapersone di papà agitarsi sulla scrivania come un popcorn nel microonde. «Perbacco» esclama lui con aria assente mentre si sistema gli occhiali sul naso. «Credevo di avere un po’ più di tempo. Maddy, sappi che sono tanto contento per te. Domani mattina voglio che mi racconti tutto.» Come no, penso. Se siamo ancora vivi... E invece dico: «Certo, papà. Ti preparo la colazione e poi ti racconto i dettagli più piccanti». «Magnifico.» Mi abbraccia prima di uscire, poi indugia un secondo sulla soglia: «Vuoi che ti accompagni all’ingresso?». Io gli faccio cenno di no e indico il bagno delle donne. «Vado a incipriarmi il naso. Ci vediamo... a casa.» «Ok. A dopo.» E mi sorride sornione. «Ti ricordi a che ora hai il coprifuoco o posso fidarmi?» Io lo guardo sconcertata. Papà che mi chiede se so a che ora devo rientrare? Si è forse dimenticato le sue stesse regole? Lui sembra leggermi nel pensiero e scrolla le spalle. «Be’, sono stato il primo a non rispettare le regole dandoti il permesso di andare al ballo con un ragazzo che non mi hai ancora presentato; per punizione, dovrei offrirti la possibilità di scegliere di testa tua a che ora tornare, no?» «Dici sul serio? Niente coprifuoco?» Non l’avrei rispettato comunque, visto quello che Dane e Chloe hanno in mente per stasera, ma il fatto che me l’abbia chiesto significa molto per me. Non mi risponde. Il cercapersone ricomincia a vibrare e lui lo spegne subito per non sentire quel rumore fastidioso, poi si allontana lungo il corridoio. Prima di entrare nella sala dell’autopsia si volta e mi fa l’occhiolino. Sospiro, mi guardo intorno, tiro fuori la chiave che mi serve ed entro nell’armeria. Non è molto più grande di uno sgabuzzino ma conserva attrezzi ben più efficaci. Ovviamente, le pistole vere sono chiuse a chiave in una teca. Sulle pareti sono appese dozzine di fucili protetti da una rete metallica. Altrettanto dicasi per le munizioni e le rivoltelle. I giubbotti antiproiettile invece sono lì a portata di mano, così come i walkietalkie e i taser, questi ultimi in bella vista accanto al muro, ciascuno collegato al proprio caricabatterie. I minuti scivolano via. Non so più da quanto tempo sono entrata, sembra un’eternità, e ogni rumore di passi che sento fuori dalla porta minaccia di dirigersi proprio verso l’armeria. Alla fine, mi faccio coraggio e commetto il mio primo reato – o crimine? – staccando tre taser ultracarichi dalle loro prese nere. Li infilo nello zaino, richiudo la cerniera – i taser sono più grossi e più pesanti di quanto pensassi – e resto in ascolto con l’orecchio accostato alla porta finché non mi sembra che sia tutto tranquillo. Mi sporgo sulla scrivania di papà per rimettere le chiavi al proprio posto e poi mi fermo un attimo per calmare i nervi e prepararmi ad affrontare l’ultima fase dell’Operazione Frega-tuo-padre-per-salvare-la-città-da-sicuro-contagio. Per tutto il tragitto verso l’uscita mi aspetto che da un momento all’altro uno dei suoi colleghi mi blocchi, scopra cos’ho fatto, mi rinchiuda in prigione e butti via la chiave, e invece tutti sorridono alla cavalletta dark, alla figlia diciassettenne del medico legale, scuotono la testa ricordando i tanti errori commessi in gioventù, lanciano occhiate furtive alla mia minigonna nera e non si accorgono che appena sopra il mio sederino cadaverico rimbalza uno zaino che rivela chiaramente i contorni di tre taser. Carico lo zaino nel bagagliaio e, allontanandomi dall’ufficio dello sceriffo, a fatica soffoco la crisi di nervi che mi sta assalendo. «Adesso?» chiedo in tono allegro, quasi naturale, come se facessi questo genere di cose tutti i giorni. «Li hai presi?» chiede Chloe scettica. Annuisco sicura e riparto in direzione del centro della città, per continuare il nostro bel giro di shopping zombesco. Prossima fermata, il negozio di fuochi d’artificio. Mentre Dane entra con in mano una banconota da venti, mi giro e chiedo a Chloe: «Avete intenzione di spaventarli con un paio di petardi?». Lei sbuffa e non solleva neanche lo sguardo dalle unghie nere che sta attentamente ispezionando. «Sono miccette, per la precisione. Gli Zerker le detestano. Credo che la puzza di zolfo richiami alla loro memoria la cassa da morto, non so, in ogni caso ti giuro che danno di matto.» «Muoiono?» Chloe si decide a guardarmi e scrolla le spalle rassegnata. «Magari. No, s’indeboliscono e vanno nel panico per qualche minuto. È un po’ come l’aglio per i vampiri. Sempre ammesso che esistano davvero. L’obiettivo è spaventarli con le miccette e dargli la scossa con i taser prima che si rendano conto di cosa stia succedendo.» Noto l’espressione cupa che ha in volto. «Non sembri convinta che possa funzionare.» «Sai perché li chiamiamo Zerker, Maddy?» Io faccio cenno di no e lei prosegue: «Viene da “berserkir”, il nome con cui si indicavano i guerrieri vichinghi consacrati a Odino, noti per la furia con cui combattevano. Con loro puoi solo pianificare e sperare che funzioni; puoi tentare di prevedere cosa presumibilmente accadrà ma, alla fine della fiera, hai sempre di fronte una stirpe di zombi imprevedibili, dalla forza sovrumana, violenti, spietati, crudeli e che – di tanto in tanto – possono dare in escandescenze». La cosa mi rende nervosa e fisso impaziente la porta del negozio in attesa di vedere uscire Dane. Ci sta mettendo un po’ troppo, allora Chloe dice: «È la sera del ballo. I ragazzi comprano i fuochi d’artificio per portarli in spiaggia dopo la festa. È una specie di tradizione. Lì dentro sarà un manicomio in questo momento». «Lo facevate anche tu e Dane?» le chiedo da donna a donna. Lei riflette un istante, poi sorride. «Non crederai mica che io e Dane... stiamo insieme?» «Be’...» mi limito a biascicare con gli occhi sempre puntati verso il negozio da dove Dane dovrebbe uscire con un mucchio di miccette. «Dunque... non vi ho mai visto separati da quando siete arrivati, all’inizio dell’anno. Venite a scuola in macchina insieme, pranzate insieme, vivete insieme. Cos’altro dovrei pensare?» Sembra perplessa, quasi come se non le interessasse quello che penso io. «Siamo solo compagni di camper, Maddy. La mia storia te l’ho già raccontata, la sua è un po’ meno triste.» Sto per chiederle di raccontarmela ma non ce n’è bisogno, soddisfa di sua spontanea volontà la mia curiosità di sapere come il Dane di una volta sia diventato... uno zombi. «Quando la sua macchina ha sbandato ed è andata a schiantarsi contro un palo della luce, dalle lamiere hanno estratto un cadavere. Qualche ora più tardi, però, Dane si è risvegliato in un obitorio e... se n’è andato. Nessuno ha mai denunciato la scomparsa del corpo. I suoi genitori lo credevano morto e Dane allora ha pensato che non avesse senso andare a smuovere le acque. Così ha vagato di città in città per qualche settimana, viaggiando di notte e restando nascosto di giorno. Io sono stata il primo zombi che ha incontrato e da allora sono sempre stata il suo mentore. Tutto qui. È la stessa cosa che è successa a te. Non c’è nient’altro, Maddy, credimi.» «Sì, ma voi vivete insieme; vi verrà la tentazione ogni tanto.» Lei sbuffa e sorride. «La tentazione di che? Guarda che Dane è ancora un bambino in confronto a me. È un po’ troppo... giovane per i miei gusti.» «Non venirmi a dire che gli zombi hanno ancora dei gusti...» «Non tutti... gli impulsi... muoiono, sai? L’elettricità continua a mantenerli in vita. Io per esempio ho un debole...» All’improvviso la portiera si spalanca interrompendola a metà frase. «Hai un debole per cosa?» domanda Dane stringendo soddisfatto la busta con dentro le miccette mentre scivola sul posto del passeggero. «Niente» rispondo io, voltandomi per fare manovra e uscire dal parcheggio. «Cose... da ragazze.» Dallo specchietto retrovisore faccio l’occhiolino a Chloe che subito ricambia – miracolo! La boutique del centro commerciale è stata presa d’assalto per gli acquisti dell’ultimo minuto. Non resta che qualche scarto, visto che i capi migliori sono stati venduti settimane fa. Trovo un abitino verde smeraldo, abbastanza sexy ed elegante, ma di una taglia di troppo. «Posso sistemartelo io» dice Chloe senza indugio. «Davvero?» Mi sorride. «Lo faccio spesso anche per noi, perciò... Vedrai che ti starà bene.» Chloe ne sceglie uno bordeaux, un po’ troppo... plissettato... per i miei gusti. Ma per quello che abbiamo in mente di fare, direi che non importa poi tanto, giusto? Troviamo Dane nel reparto degli uomini con in mano uno smoking azzurro pastello – l’ultimo rimasto della sua taglia. È imbarazzato, ma mentre Chloe paga alla cassa (e chi immaginava che gli zombi avessero la carta di credito?) gli sussurro: «Basta con tutto questo... nero». Lui si morde il labbro inferiore, poco convinto. Prossima fermata, il cimitero. «Siete proprio sicuri?» chiedo mentre scendiamo dalla macchina. «Mi dispiace, Maddy» dice Dane. «Abbiamo bisogno di un po’ di terra fresca, è come la criptonite per gli Zerker. E poi ho pensato che ti avrebbe sollevato sapere dove abbiamo sepolto il corpo del Guasto.» Mi portano davanti a una lapide, nella parte vecchia del cimitero. È identica a tutte le altre, almeno a un primo sguardo, ma se ti avvicini noti la terra smossa. «Dopo che ci hai raccontato cos’è successo,» interviene Chloe riempiendo il suo zaino di terra «siamo venuti a cercare il corpo del Guasto. Lasciarlo lì così avrebbe sollevato dei sospetti, allora abbiamo cercato una vecchia tomba che nessuno visita più, l’abbiamo disseppellita e abbiamo messo il Guasto nella bara.» «Gli hai fatto un favore» continua Dane e Chloe chiude la cerniera dello zaino ormai pieno fino all’orlo. «A decapitarlo?» chiedo guardandomi le punte dei piedi. «Meglio riposare in pace qui, che essere uno Zerker per l’eternità.» Mi stringe un braccio con delicatezza, indugia un istante e poi si allontana dietro Chloe. Si fermano ancora un attimo e alla fine se ne vanno. «Vieni, Maddy?» esclama lei girandosi. «Cinque secondi» gli assicuro sollevando la mano aperta. «Voglio solo... dirgli addio.» Attendo che raggiungano i cancelli aperti del cimitero di modo che non possano sentirmi, poi sottovoce dico in tono solenne: «Guasto, sei sempre stato gentile con me, eri l’unico essere sulla faccia della Terra a cui piacessero i miei biscottini integrali al burro di arachidi e mi dispiace tanto di averti coinvolto in tutto questo. Non è stata colpa tua e so che non capirai, ma stanotte – con un piccolo aiuto da parte dei miei nuovi amici – saprò farmi perdonare. Te lo prometto». 28 FINE DELLA STORIA Una volta saliti sul camper, andiamo dritti verso l’obiettivo. Chloe e Dane hanno spostato i mobili del soggiorno nelle loro stanze (separate), perciò nell’abitacolo non resta altro che la moquette e le pareti nude. Sul ripiano della cucina solo tre paletti con l’impugnatura di metallo, più o meno della lunghezza dei coltelli da macellaio tipici dei film horror. Chloe si è cambiata e ora indossa un paio di pantaloncini neri da ginnastica e una maglietta grigia aderente con su scritto, Gli zombi durano di più. (Per favore.) Dane è in pantaloni della tuta e canottiera, è glabro e non ha un filo di grasso su quei muscoli definiti. È seduto all’indiana sul pavimento del soggiorno e cerca di capire come funzionano i taser. Chloe prende in mano un paletto e dice: «Sai, Maddy, è quasi impossibile ferire uno Zerker. Hanno la pellaccia dura». «Tipo cuoio?» ipotizzo osservando i tre paletti. «Tipo pietra» risponde lei. «È più dura della nostra, più spessa.» Ripenso all’impatto del naso di Dahlia con le mie nocche e non posso che essere d’accordo. «Questi a cosa servono, allora?» Lei non fa in tempo a fermarmi che ne ho già preso in mano uno dalla parte del metallo. Quando riprendo i sensi, sono distesa sul pavimento della cucina e vedo Dane e Chloe accanto a me che scuotono la testa come genitori rassegnati. «Wow!» esclamo mentre la corrente mi attraversa ancora il corpo dandomi alla testa più che un’overdose di zuccheri. «Che è successo?» Aiutandomi a rimettermi in piedi, Dane mi spiega: «L’hai afferrato dalla parte sbagliata, Maddy». «Ma come? Non è l’impugnatura?» dico godendomi le ultime scariche che mi pervadono il corpo. «Sì, tecnicamente sì, ma noi li usiamo... al contrario» dice Chloe con un’espressione vagamente divertita. «Tienilo così.» Lo prende dalla parte del legno puntando quella sfaccettata color rame verso l’esterno. «Non sembra molto minaccioso, usato così.» Lei sghignazza. «Sarà, ma ti ha messo k.o. per venti o trenta secondi. Quanto basta per far fuori chiunque, se si presenta l’occasione. E anche se non riuscisse a penetrare la pelle, basterebbe continuare a premere un po’ per ucciderli.» Sono un po’ confusa, sto per afferrarne uno e – loro subito scattano, pronti a fermarmi –, ma all’ultimo secondo lo impugno dalla parte del legno. «Il metallo è un conduttore di elettricità. A contatto con i Normali non fa granché, ma negli Zerker provoca una sorta di cortocircuito. Li infilzi con uno di questi e, bam, black out completo» mi spiega Dane. «Almeno in teoria.» Agito il paletto in aria stile manganello, attenta a non toccare il metallo, e dico: «Come in teoria? Che significa?». Non rispondono e si scambiano un’occhiata colpevole. «Non ne siete sicuri?» urlo. Loro se ne stanno lì, uno accanto all’altro, a testa bassa. «Non ci avete mai provato? È così, vero?» «Non proprio» sussurra Chloe. «Cioè, abbiamo passato l’esame, Massacro Zerker modulo 1...» «Abbiamo letto il capitolo in cui se ne parla sulla Guida» le viene in soccorso Dane. «Ma...» «Ma cosa, ragazzi? Vi date delle arie come se foste i giustizieri più celebri e letali del mondo e ora scopro che di fatto non avete mai ucciso uno Zerker prima d’ora?» Silenzio. Continuano a fissarsi la punta dei piedi. «Chloe?» dico in tono aggressivo. «Quanti Zerker hai ammazzato?» «Nessuno, contenta?» «Dane?» «Be’, ne ho seppellito uno.» «Mmm» sospiro. «Tipo... ieri?» Lui annuisce, evitando il mio sguardo. «Dunque, fatemi capire, sono uno zombi da appena due settimane e ne ho già uccisi più di voi? Incredibile, assolutamente... incredibile.» 29 UNO È COMPAGNIA. DUE È UNA FOLLA. TRE È UN PARTY. «Oddio, le spalline» esclamo scettica rivolta a Chloe mentre, qualche ora più tardi, sistema l’orlo delle maniche del mio vestito. «No, dài, le spalline no, senza offesa, Chloe. Va bene che eri un’adolescente negli anni ’80 ma lo sai vero che la moda è cambiata da allora? Questo stile alla Like a Virgin non va più da un pezzo!» Dane sorride sulla soglia del soggiorno, bello come il sole – anche se un po’ rigido – nel suo smoking azzurro. Invece di far risaltare la sua pelle chiara e gli occhi scuri, questo colore li completa; sembra la versione zombi di 007, quasi m’intimidisce. Chloe nota il mio imbarazzo e dà uno strattone con l’ago per attirare la mia attenzione. «Le spalline servono per metterci dentro la terra del cimitero» dice Dane dandosi dei colpetti sulle spalle. «Per questo sono così... pesanti.» «E allora tu?» ribatto mentre Chloe fa un nodo col filo e lo spezza con i denti. «Dove la nasconderai, eh, Uomo del Mistero?» Lui sorride e solleva i risvolti della giacca. Sulla parte interna intravedo due tasche azzurre gonfie di terra. «Qui. Niente male, eh?» In effetti, anche da vicino non si nota nulla. «E guarda anche qui» aggiunge infilandosi le mani in tasca ed estraendone altra terra. «E Chloe? Lei non ha le spalline» incalzo. «No,» risponde lei alzandosi dal pavimento e indicandosi i fianchi «ma ho queste.» Sopra le balze, all’altezza del suo vitino da vespa, ha fissato una cintura, molto simile a un tubo, piena di terra e nascosta da una fila di roselline bianche che le gira intorno come una pianta rampicante. «Insisto: a confronto con me, fate un figurone.» «Maddy,» dice Chloe tirando fuori un paletto dalla mia borsa «ricordati che non stiamo andando al ballo per divertirci, per guardare gli altri e metterci in mostra, ok? Ci andiamo per massacrare degli Zerker, ricevuto?» Alzo gli occhi al cielo e Dane scoppia a ridere. «Guarda» continua trascinando Dane verso lo specchio grande che ha portato lì dal soggiorno per fare le riparazioni. Poi afferra anche me e un istante dopo ci ritroviamo in piedi uno accanto all’altro a fissare il nostro riflesso. Dane sta benissimo, è proprio bello. Chloe ha un’aria (quasi) femminile, sofisticata, avvolta nell’abito di raso che la fa sembrare ancora più magra. E il mio vestitino verde con le spalline non è poi così male se abbinato al trucco da bambola, che prevede uno spesso strato di rossetto color prugna e l’ombretto scuro. In più, l’acconciatura morbida che mi ha fatto Chloe mi dona. C’è silenzio nel camper mentre ognuno prende il proprio paletto e se lo nasconde addosso. Chloe e io lo cuciamo sotto le pieghe sul davanti, assicurandoci che il tanto temuto metallo non entri a contatto con la pelle, Dane invece se lo mette in tasca. I paletti sono facili da nascondere, i taser sono molto più ingombranti. Hanno la forma di un cellulare ma sono grandi il doppio... più grossi, più spessi e soprattutto più pesanti. Dane può infilarselo tranquillamente in tasca e, ciò nonostante, non dare troppo nell’occhio, però vuole assicurarsi che ciascuno di noi ne abbia uno quando arriveremo in palestra e ci divideremo. Metto il mio nella borsetta e da fuori non si vede nulla ma, la pochette di Chloe – a forma di conchiglia – è troppo piccola. «Chloe,» dice Dane in tono brusco «quella borsetta non va bene, prendine un’altra.» Lei mi lancia un’occhiata d’intesa e io scrollo le spalle; quella borsetta è davvero perfetta per l’abito che indossa (inutile pretendere che quello zoticone di Dane lo capisca). Ma d’altronde, un massacro è un massacro, e lei – da brava zombi qual è – la rimpiazza con un’altra abbastanza capiente da contenere il taser. (Sfortunatamente questa è nera e piuttosto pacchiana: ha un teschio tempestato di brillanti come fibbia.) Nel frattempo, il freddo pungente del tardo pomeriggio autunnale ha ceduto il passo al crepuscolo e il crepuscolo al tramonto. Mentre ci dirigiamo verso la scuola, siamo immersi in una luce arancione. Avanziamo lentamente in fila per il parcheggio e, per quanto sia assurdo viste le circostanze, devo ammettere di sentirmi coinvolta dall’atmosfera elettrizzante che precede il ballo. In coda ci sono per lo più limousine dal cui tettuccio aperto spuntano qua e là coglioni in smoking bianco, i quali urlano apprezzamenti vari alle ragazze accomodate nelle decappotabili che li precedono o li seguono. Chloe e Dane li guardano disgustati, ma sarà che sono uno zombi da poco, sarà che nel profondo del cuore (senza vita) sono – e sempre sarò – un’inguaribile romantica, fatto sta che una parte di me vorrebbe tanto poter tornare indietro e accettare l’invito di Stamp. Se l’avessi fatto allora, avrei disobbedito alla madre di tutte le leggi zombi e la cosa non avrebbe di certo impedito a Scheletro e Dahlia di trasformare il Guasto, la Haskins... e Hazel... in Zerker, ma almeno sarei potuta andare al ballo senza dovermi preoccupare di avere della terra di cimitero nelle spalline, un paletto fissato appena sotto la scollatura e un taser nella borsa. Entrando nel parcheggio già congestionato, intravedo il preside e il suo vice in giacca e cravatta (niente smoking per loro) che controllano il contenuto delle borsette delle studentesse all’entrata. «Mmm, ragazzi» dico indicando il posto di controllo che non avevamo previsto. Nello specchietto retrovisore Dane mi rivolge un sorriso ingiallito. «Non preoccuparti, tesoro, ho già provveduto.» Poi si mette ad armeggiare con qualcosa che ha sulle gambe e Chloe mi dà un colpetto col gomito articolando con le labbra: «Tesoro?». Io scrollo le spalle e avanzo fra il traffico verso uno degli ultimi posti liberi. Ma mentre faccio manovra penso, Possibile che Dane abbia davvero usato un termine così affettuoso? Dirigendoci all’entrata, io e Chloe ci aggiustiamo le borsette con dentro i taser e le miccette spara-zolfo. Indossiamo scarpe col tacco basso (che altro avremmo potuto scegliere per combattere contro un branco di Zerker?), ma dopo una settimana di fila con ai piedi gli stivali neri lucidi, mi fa sorridere il ticchettio che producono a contatto con l’asfalto. Si è formata la fila al controllo-borsette e io sposto nervosamente il peso da un piede all’altro, allungando il collo caso mai dovessi avvistare qualche Zerker che vaga con aria persa in abito nero con gli strass o smoking bianco lucido. Ma non sento altro che Dane che chiacchiera con due bulletti alle nostre spalle, entrambi in smoking di raso nero dall’aria retrò e capelli a spazzola pieni di gel. «Siete insieme?» domanda loro quando rimangono solo due coppie prima di noi da controllare. «Dane,» gli sussurro dandogli una gomitata mentre i due si avvicinano «non abbiamo tempo per queste cose.» «Lascialo stare» mi fa Chloe, assestandomi a sua volta una gomitata fra le costole. «Sa quello che fa.» «No» risponde uno dei due tizi. «Perché?» chiede l’altro con aria divertita. «Sei interessato, dolcezza?» Sono talmente cerebrolesi che non colgono nemmeno la battuta offensiva di Dane. «No» ribatte lui sarcastico. «Ma il tuo ragazzo a quanto pare sì. Non fa che guardarmi...» E subito dopo sento il rumore di un pugno che si abbatte sulla fronte di Dane – proprio mentre lui a sua volta sferra un colpo a uno dei due – e delle urla che mi sembrano di ragazza e invece sono gemiti del tizio dolorante. «Voi entrate» dice il vicepreside ai noi, povere ragazze indifese, e abbandona all’istante il suo compito di controllore per correre in soccorso del bulletto. Così, mentre il preside e il vice cercano di farsi spiegare cos’è successo dai due piagnucoloni, Chloe afferra Dane per un braccio, io per l’altro, e approfittiamo della confusione generale per sgattaiolare dentro prima che ricomincino i controlli. Avanziamo in fretta superando il tavolo con sopra il punch, i vassoi d’uva glassata e i pasticcini, dritti verso la pista da ballo. Spero che non vi capiti mai di vedere uno zombi ballare: facciamo pena. Se non altro – quando arriviamo – mettono su un lento, così possiamo muoverci con cautela per non scardinare ciò che resta delle nostre misere giunture. Al termine della canzone crediamo di essere ormai al sicuro e ci allontaniamo lentamente dalla pista verso un tavolino alto, ricoperto da una tovaglietta blu, in fondo alla sala. Chloe e Dane stanno scandagliando la folla in cerca di Zerker. Ma individuarli non è facile, nemmeno con la nostra supervista. La pista da ballo pullula di ragazzini che si dimenano in abiti eleganti, o almeno questo è ciò che credono. Le luci vorticano, ruotano su se stesse, prima sotto forma di una cascata di cerchietti luminosi che si riversa sul pavimento, poi come tanti flash colorati che appaiono qua e là sulla pista e a un certo punto si fermano su una coppia in particolare, che deve fare del suo meglio fino a quando il fascio di luce non si deciderà a umiliare qualcun altro. Per un attimo mi pare di scorgere un paio di occhi gialli da Zerker all’interno del perimetro della pista e subito scatto in avanti, ma Chloe mi trattiene. «Dobbiamo restare uniti» mi bisbiglia. «Altrimenti facciamo il loro gioco: per colpirci non aspettano altro che ci separiamo. Se vogliamo sopravvivere, e batterli, dobbiamo restare uniti.» «Ok, ok, scusa» dico liberando il braccio dalla morsa glaciale della sua mano. «Credevo di aver visto...» «Dahlia!» esclama Dane indicando con un bicchiere di plastica mezzo vuoto lo zombi dagli occhi gialli e i movimenti impacciati che avevo notato pochi istanti prima. Lancio un’occhiataccia a Chloe e avanziamo piano fra la folla in direzione della Zerker. Se ne sta tutta sola soletta accanto a un tavolino alto, simile a quello che abbiamo appena abbandonato. Ci fermiamo a qualche passo da lei e la osserviamo attentamente. Sembra sola; non sta bevendo nulla, stringe in mano una borsetta molto simile alla mia e ha l’aria serena. Passano cinque minuti e nessuno le si avvicina. Niente Scheletro, né Haskins, né Hazel... né nessun altro che possano avere contagiato da quando stamattina hanno infilato la busta argentata nei nostri armadietti. «Come facciamo?» domando cercando di superare il frastuono dei bassi della canzone in sottofondo. «Ci sono troppe persone.» Chloe annuisce. «Dobbiamo aspettare che la folla si disperda, dopo di che li isoliamo e li attacchiamo uno alla volta.» Tira fuori il cellulare dalla pochette e dice a Dane: «Mandami un messaggio quando la vedi andare in bagno». Poi rivolta a me: «Tu valle dietro, le prepariamo un’imboscata». Dane scuote la testa. «Non mi piace.» Allunga il collo in cerca di una traccia – una qualsiasi – di Scheletro o di Hazel. «Così è fin troppo... semplice.» «E allora?» fa Chloe e si allontana. Passa a pochi centimetri dalla Zerker, ma lei non sembra nemmeno vederla. «Ehi» le grida dietro Dane. «Hai dimenticato la borsetta!» Poi mi guarda e aggiunge: «Come sempre». «Dove pensi che siano?» gli domando avvicinandomi per non dover urlare (o almeno così dico a me stessa). Lui scrolla le spalle ampie e robuste, nascoste sotto il tessuto del suo stupendo smoking. «Staranno aspettando anche loro che la gente diminuisca.» Le stelline, le luci stroboscopiche e quelle intermittenti gli illuminano il volto e io lo osservo. A scuola non viene mai senza felpa col cappuccio, non indossa nient’altro che jeans e scarpe consumate. Ho sempre immaginato che avesse un fisico debole, fragile, l’ho sempre visto come uno spilungone secco, e invece – per tutto questo tempo – non ha fatto che nascondere un fisico da urlo sotto tutti quegli strati di protezione. Si accorge che lo fisso, allora solleva davanti a sé una delle sue mani enormi e pallide e mi fa cenno di non badare a lui, come se gli zombi sapessero anche leggere nel pensiero. «Rilassati. Sì, lo so, ho dei bei muscoli; s’induriscono dopo un po’, il grasso lentamente svanisce e loro lo rimpiazzano, niente di che. Io non ho nessun merito. Non mi sono certo iscritto in palestra» dice. Sorrido. «Vale anche per me?» Lui mi guarda dritto negli occhi e dice: «Tu non ne hai bisogno, sei già bella così». Poi di colpo distoglie lo sguardo, come se avesse notato qualcosa con la coda dell’occhio. Infatti. Dahlia se n’è andata. Ci allontaniamo dal tavolo come una coppia, con lui che mi tiene la mano per aiutarmi a superare quella folla di teenager ancora pieni di vita. Finalmente riusciamo a raggiungerla e, camminando a pochi passi di distanza da lei, vediamo che si sta dirigendo verso il bagno. «Andiamo» dice Dane mentre cerco di stare al passo. Lui preme un tasto del cellulare e un attimo dopo lo sento dire: «Sta arrivando. Chloe? Ci sei? Chloe?». Intanto io proseguo e lui mi urla qualcosa ma non capisco cosa perché sono troppo concentrata su Dahlia e non posso – non voglio – perderla di vista. Così finisco dritta in bagno. Nella sua trappola. 30 AL BAGNO DELLE DONNE (ZOMBI) Quando arrivo, trovo Chloe con le braccia e le gambe legate con una corda per saltare; di sicuro ce l’avevano nascosta in borsa. È distesa a testa in giù sul pavimento del bagno, ma tiene il mento sollevato con aria di sfida e le labbra si agitano mentre un calzino le tappa la bocca. Intanto l’acqua trabocca dai lavandini e si riversa sul pavimento formando qualcosa di molto simile a un lago. Mi arriva già a metà scarpe. All’improvviso sento Dahlia alle mie spalle. Mi dà una spinta così forte, così violenta che per poco non cado di faccia sull’acqua. (E i tacchi non aiutano.) Allora la vedo. Con indosso l’abitino attillato che l’ho aiutata a scegliere qualche settimana fa, Hazel incombe con sguardo trionfante su Chloe, che intanto si dibatte nel tentativo di liberarsi dalla corda. «Non provarci nemmeno» mi dice Hazel con una radio portatile sollevata proprio in corrispondenza della testa di Chloe. Lì per lì mi viene da ridere. Stupidi Zerker, non sapete nemmeno che l’elettricità, invece di porre fine alla vostra miserabile vita, vi ha fatti resuscitare? All’improvviso Chloe riesce a liberarsi dal calzino che le hanno ficcato in bocca e grida: «Scappa, Maddy. Una scossa ti restituisce la vita e una... te la toglie, ricordi? Se prendi la scossa due volte, sei spacciata». E in un momento la mia vena sarcastica cede il posto al terrore – non tanto per quello che potrebbe accadere a me, non mi aspettavo comunque di sopravvivere a questa notte, ma per Chloe, che è nei guai a causa mia. Se non fossi andata a sbattere contro Stamp quel giorno, se lui non mi avesse mai invitata a quella stupida festa, se non fossi uscita di nascosto quella notte, niente di tutto questo sarebbe accaduto. Chloe sarebbe ancora Chloe, Dane sarebbe ancora Dane, Hazel sarebbe Hazel e io la ragazza sullo sfondo che osserva tutto dall’ultima fila. Dahlia è di guardia davanti alla porta, non abbiamo scampo (persino se fossi talmente codarda da abbandonare Chloe e decidessi di darmela a gambe). Hazel invece ha ancora la radio in pugno e minaccia di porre fine alle nostre sofferenze da un momento all’altro. Dopo un po’ la posa con fare noncurante sull’asciugamano automatico mentre l’acqua si riversa fuori dai lavandini come una cascata e finisce sul pavimento già allagato. Hazel avanza verso di me con un sorrisetto malefico sulle labbra pallide, esangui, i segni del morso in bella mostra appena sopra la spallina sottile del suo abito da sera. «Credevo che tutti gli zombi lo sapessero.» «Ma che ne sai tu, Hazel?» ribatto con voce un po’ più profonda e minacciosa rispetto all’ultima volta che ci siamo viste. «Non sei nemmeno uno zombi. Sei la brutta copia di questa sottospecie di zombi che hai per amici.» «Sarà anche come dici tu,» risponde Hazel e il sorriso le muore un po’ sulle labbra «ma non sono io quella che ha l’amica incaprettata sul pavimento, o no?» «Perché fai così, Hazel?» le chiedo cercando di guadagnare tempo e intanto avanzo. Essendo un vero zombi sono più robusta di lei, più alta, i miei muscoli, le mie gambe, le mie ossa sono più forti di quanto le sue saranno mai. «Eri mia amica. La mia migliore amica. Ci conosciamo da undici anni, Hazel. E ti rivolti contro di me così? Come... se non mi conoscessi, come se non mi avessi mai conosciuta?» Hazel non si scompone, non aspetta altro che questo mio patetico tuffo nel passato giunga al termine e le permetta di riprendere il filo del discorso. «Sin dal primo giorno che ci siamo conosciute, Maddy, ti ho chiesto di non mentirmi. E tu cos’hai fatto?» «Quando, Hazel? Quand’è che ti ho mentito?» «Quando hai deciso di non dirmi di essere stata colpita da un fulmine, Maddy. O di essere diventata uno zombi. Mi hai lasciato credere che fossi solo malata, e invece per tutto questo tempo non eri altro che... morta.» «Non è vero, Hazel. Forse non te l’ho detto subito, ma dopo un po’ ho confessato.» «Solo perché non potevi più continuare a nascondermelo. Solo quando ti ho visto con i miei stessi occhi.» «Ok, ok, ho omesso un paio di particolari, Hazel, ma non ti ho mai mentito.» Hazel inizia a scuotere la testa. «È la stessa cosa, Maddy. E poi, qualsiasi tipo di legame ci sia fra noi, o almeno crediamo ci sia stato, non è nulla in confronto a quello che adesso ho con Dahlia e Scheletro.» Mi giro verso Dahlia che compiaciuta esclama: «Te l’avevo detto, Maddy, che prima o poi ti avremmo beccata da sola. E avevamo bisogno della tua amichetta perché accadesse». «Hazel, ti stanno usando per arrivare a me» grido rivolta di nuovo alla mia ex amica del cuore. «Non capisci? Per loro è solo un gioco, mordere le persone, trasformarle in Zerker e poi lasciarle al loro destino. A volte muoiono, altre sono loro stessi a ucciderle. Non gliene importa niente di te. Hanno persino morso il Guasto, Hazel. Sono stata io a doverlo uccidere, a doverlo sopprimere.» Faccio una pausa e la guardo dritto in quei suoi occhi gialli e spietati. «Non credere che avrei degli scrupoli a fare lo stesso con te.» Nel frattempo – indietreggiando di qualche passo – ha raggiunto l’asciugamano automatico, ha preso in mano la radio e ora la tiene di nuovo sollevata sopra la testa. Ha i capelli rosso fiammante – un po’ meno fiammante di un tempo ma sempre meravigliosi – raccolti in una coda alta. Abbasso lo sguardo e vedo Chloe chiudere gli occhi in attesa di ricevere lo shock fatale. «Non se io lo faccio prima di te» dice Hazel. E lascia cadere la radio. «Non dimenticare che sei uno zombi anche tu» grido balzando sulla tavoletta del water più vicino. Sul pavimento divampa una scia serpeggiante di elettricità allo stato puro, come un sottile rivolo blu che si ramifica e si espande, incontrollabile, sul bianco e nero delle piastrelle. Nel box accanto, Dahlia scoppia a ridere mentre Chloe si abbandona priva di sensi e Hazel si affloscia al suolo accanto a lei, come una gigantesca bambola di pezza, una bambola con indosso abiti carini, ma pur sempre una bambola di pezza. Cerco con tutte le forze di aggrapparmi al box e di arrampicarmici sopra per allontanarmi da Dahlia, mentre l’elettricità fa strage delle mie amiche – vecchie e nuove. Le luci forti del bagno vanno e vengono per un istante, poi si spengono di colpo. Nell’oscurità vedo la Zerker avvicinarsi a me e subito, saltando da un box all’altro, cerco di raggiungere l’uscita. Con la testa sfioro quasi il soffitto, perciò devo restare accovacciata e avanzare a mo’ di granchio. Mi fermo, non so più dove andare. I generatori si attivano e una luce d’emergenza lampeggia sopra gli specchi dei lavandini proiettando un sinistro bagliore rosso sul bagno allagato. (Ora ti vedo, cara mia.) Dall’esterno sento già provenire delle urla. Le urla dei Normali. Il corto circuito deve aver mandato in tilt l’intero sistema, facendo piombare la pista da ballo e la palestra nell’oscurità. Qualcuno bussa alla porta, qualcuno di grande e grosso, e mentre spero che sia Dane accorso a salvarci, sento una voce adulta tuonare: «C’è nessuno lì? Hanno tagliato la corrente e i generatori non riescono a produrre l’energia sufficiente a illuminare la vostra cara pista da ballo; la festa è finita. Uscite subito all’esterno per essere inclusi nel conteggio dei partecipanti. Stanno andando via tutti...». Immersa nella luce rossa intermittente vedo Dahlia saltare giù dal box restando appesa al corrimano con agilità da ginnasta. Si abbassa lentamente, come fosse legata a una fune, e si cala al suolo senza alcuno sforzo, i suoi muscoli da zombi evidentemente sono ben più allenati di quanto i miei saranno mai – deve essere abituata agli effetti della forza di gravità. «Tutto come previsto» dice calpestando il corpo privo di vita di Chloe per non entrare in contatto con la corrente elettrica che ancora produce potenti scariche blu sulle piastrelle bianche e nere. Resto accovacciata in cima al box. Dahlia guarda su. «Scendi, bella, se no finisce che ti perdi la parte più divertente.» Attendo che mi volti le spalle per andare verso l’uscita e faccio la mia mossa. Balzo giù e il mio corpo, a peso morto, atterra con un tonfo sordo sulla schiena della povera Chloe. Mi sembra di udire un crack ma lo ignoro. Sentendo quel rumore, Dahlia si gira senza smettere di cercare la maniglia della porta. In quell’istante salto su Hazel e mando la Zerker in fuga a sbattere contro la porta del bagno. Le si rompe il naso una prima volta, e poi continua a rompersi: le tiro la testa indietro e la sollevo di peso, per poi gettarla alle mie spalle. Atterra su un lavandino scivoloso, straripante d’acqua. Agita le mani in cerca di un appiglio e le braccia, con le vene in evidenza, tentano invano di resistere più a lungo possibile mentre le gambe scalciano verso l’alto per evitare di toccare il suolo. Le cadono le scarpe col tacco, ha i collant neri intrisi d’acqua e spalanca gli occhi in preda al terrore quando, alla fine, le mani perdono aderenza sulla porcellana fredda e umida, e crolla a terra. Si sente un lieve scoppiettio, uno sfrigolio d’elettricità e Dahlia si spegne per sempre. La tensione mi serra la gola e, attraversando le corde vocali, dal profondo scaturisce un gemito che riecheggia nell’aria rossa, immobile, del bagno ancora pervaso dalle scosse elettriche. Come una rana che salta da una foglia di ninfea all’altra, balzo da corpo a corpo finché non sento le costole di Dahlia spezzarsi sotto i miei tacchi. Poco distante scorgo la presa a cui è attaccata la radio ancora funzionante grazie agli stupidi generatori della scuola; la stacco dalla parete un attimo prima di scendere dal cadavere di Dahlia e toccare il pavimento. L’acqua torna a essere solo acqua, il bagno solo un bagno. Guardo il mucchio di corpi inermi accatastati sul pavimento: Dahlia giace di sbieco rispetto a Hazel e Hazel è abbandonata in posizione innaturale su Chloe, come una sorta di intreccio di zombi. Vado subito a controllare come sta Chloe, la giro sulla schiena e con rigidi movimenti delle dita le sciolgo i nodi ai polsi – ha ancora le gambe intrecciate a quelle di Hazel. Le braccia ricadono sul pavimento producendo un patetico splash a contatto con i sette centimetri d’acqua che tentano di defluire attraverso lo scarico intasato. «Chloe» sussurro, ma è morta. Avverto un movimento accanto a me, mi giro e vedo Hazel che si mette a sedere massaggiandosi la testa. Solo allora noto dov’è caduta dopo aver gettato la radio nell’acqua, provocando la violenta scarica elettrica: parte di lei giace a terra e parte sul corpo senza vita di Chloe. Il fatto di non aver aderito perfettamente al pavimento allagato deve averle evitato lo shock letale. La mia borsetta, completamente fradicia e rovinata, è a terra, troppo lontana perché riesca a raggiungerla in tempo, e quella di Chloe giace chissà dove su un tavolino della palestra, ormai inutile. Allora faccio scivolare una mano fra le pieghe del mio vestito in cerca del paletto, guardandomi bene dal toccare l’estremità di metallo. «Hazel!» grido mentre lei tenta di rimettersi in piedi con gli occhi fiammeggianti di rabbia, i capelli bagnati e aggrovigliati, e il viso bianco come le piastrelle del pavimento. «Sono io, mi riconosci?» Lei inclina la testa da un lato e sorride. «Dimmi, Maddy, chi è il vero zombi adesso?» E mi si scaglia contro, terribile come solo uno zombi sa essere e furiosa come uno Zerker; si muove velocemente, senza esitazioni, e con un colpo scaraventa lontano il paletto che ho in mano, in un misero angolo buio del bagno. Preoccupata e allo stesso tempo in preda alla collera, lo guardo rimbalzare sulle piastrelle. La maledico con quanto fiato ho in gola, la spingo via e, quando sbatte contro uno spigolo di metallo del box lì vicino, sento qualcosa andare in frantumi nella sua schiena. Hazel geme all’impatto e scivola sul pavimento, ma si rialza subito sulle ginocchia malferme. Ha un grosso buco nella calza e anche il vestito è strappato. Ha le spalle ricurve in avanti, leggermente fuori asse – le ho provocato una frattura seria – ma non smette di sorridere. È incazzata, pronta a qualsiasi cosa e impaziente di farla finita una volta per tutte. Mi aggira calciando via le scarpe col tacco per meglio aderire al suolo scivoloso. Una mi colpisce la gamba e lei sghignazza senza pietà; l’altra atterra a qualche metro di distanza. Io non cedo, la aspetto al varco mentre dentro mi si agita un misto di tristezza, dolore e tanti tipi di rabbia diversi. «Guarda!» esclamo mentre continua a girarmi intorno. «Guarda cos’hai fatto. Sarai soddisfatta di te stessa ora.» «Non del tutto» dice scagliandosi di nuovo su di me. Ma questa volta sono preparata. Nell’istante in cui si abbassa per sferrare il colpo, mi faccio da parte, stile torero, e col gomito la colpisco alla nuca mentre le afferro il retro del vestito e la scaravento di testa contro la parete più vicina. Dopo poco si rimette a sedere con le gambe abbandonate davanti a sé e si strofina la testa sorridendo appoggiata al muro, allora approfitto per correre a recuperare il mio paletto. Ma lei mi intercetta e, con un violento calcio al mento, mi manda gambe all’aria facendomi scivolare all’indietro. Mi fermerei, se non fosse che il pavimento è ricoperto d’acqua e fanghiglia viscida che puzza di morte. Tento di frenare con le mani bagnate sulle piastrelle ma non faccio che peggiorare le cose. Hazel, che è sempre stata una tipa sveglia, una che reagisce velocemente, nota il paletto che cercavo di raggiungere e si dirige in quella direzione. Cammina male, tutta scomposta, e ha negli occhi uno sguardo da pazza, ma avanza con ogni singolo impulso d’energia che le resta in quel suo corpo di Zerker senza vita. Il suo vestito è ormai a brandelli, i capelli rossi sono ricoperti di frammenti d’intonaco del muro, ha le calze strappate e i piedi scalzi. «Tu non vuoi farlo, Hazel» le dico mentre striscio verso di lei sulle piastrelle. Sono troppo lontana, perciò prendo tempo cercando di far ragionare la mia cara vecchia amica. «Psicologia inversa, eh?» ribatte lei. «Mi è sembrato che stessi cercando di afferrarlo, quindi deve essere qualcosa di simile a un’arma.» «Non quella che cerchi tu, Hazel.» Lei si avvicina al paletto, euforica, ora che pensa di aver trovato qualcosa con cui ferirmi, pugnalarmi, uccidermi e non sente ragioni, non sente la paura nel tono allarmato della mia voce. Con un’espressione di pura gioia sul volto, gli occhi sgranati e un sorriso di vittoria che inizia ad affiorarle sulle labbra, allunga una mano verso il paletto. «Hazel!» grido, ma è troppo tardi, troppo tardi ormai. Afferra l’arma dalla parte del metallo, probabilmente pensando che l’estremità di legno fosse quella con cui uccidermi. (Quanta voglia ha di uccidermi...) Credevo di vederla crollare a terra istantaneamente, come è successo a me non appena l’ho toccato nel camper di Dane. Poi mi ricordo che è uno Zerker e non uno zombi. L’elettricità le attraversa il corpo rinvigorendola e lei sfrigola come un wurstel infilato all’estremità di uno spiedo e messo a cuocere sul fuoco in un barbecue estivo. Dato che le cose sono andate così, non posso far altro che affrettarmi a porre fine alla sua esistenza. Scivolo sulle piastrelle bagnate ma mi aggrappo alla parete di un box e mi spingo in avanti, premendole forte il paletto contro il petto nudo, finché non va a sbattere contro il muro. Il paletto le penetra per metà nella carne e lei grida e piagnucolando mi supplica: «Ero tua amica, Maddy! Tua amica». «Ti sbagli, lei era mia amica» ribatto e, guardando Chloe, spingo il paletto fino in fondo. «Tu non eri altro che una... conoscente.» All’improvviso, come se avesse atteso che la nostra piccola danza macabra terminasse, qualcuno inizia a bussare insistentemente alla porta del bagno. Corro ad aprirla ma mi accorgo che Dahlia l’ha chiusa a chiave dall’interno, allora giro il chiavistello e, una volta aperta, mi ritrovo davanti Dane ancora intento a bussare. Non appena mi vede, mi afferra, mi tira a sé e mi stringe forte. Poi si scosta e mi chiede subito: «Chloe?». Faccio per allontanarlo dalla soglia perché non scopra il corpo di Chloe che giace privo di sensi sul pavimento, ma lui è più forte di me. Mi supera e va a inginocchiarsi accanto a lei, muove le labbra in silenzio, proprio come me davanti alla tomba del Guasto quello stesso pomeriggio. Dopo di che si rialza e mi dice in tono amaro: «Dovevo capire che ci stavano aspettando. Avrei dovuto studiare le nostre mosse con più attenzione». Si guarda intorno e nota il cadavere di Hazel ancora scosso da violenti spasmi, con il paletto infilato nel petto dalla parte metallica, ed esclama: «Hazel?». «Ho dovuto farlo.» Sospiro. «Allora è vero, il metallo funziona, visto?» Annuisco e le mie labbra s’increspano in un sorriso triste, spaventato. Mi ricade l’occhio sulle scarpe immobili di Chloe e il dolore torna a impadronirsi di me. «Cos’è successo?» gli chiedo con lo sguardo rivolto alla sala da ballo. L’ultima volta che l’ho vista brulicava di ragazzini che saltellavano felici, era illuminata da un vortice di luci ed era piena di musica, di vita e di risate. Ora è deserta, le luci d’emergenza lampeggiano su una pista vuota, il pavimento è ricoperto di bicchieri di plastica rovesciati, mentre le stelle argentate e i festoni osservano dall’alto file e file di tavolini abbandonati. Ora che la musica è spenta, è come guardare un film senza audio. «Quando è andata via la luce» spiega Dane «la folla si è dispersa.» Lo allontano con delicatezza dal bagno, guidandolo verso la pista da ballo. «E adesso?» chiedo. In quell’istante le porte sul retro della palestra si spalancano e fanno ingresso tre figure scure, due di loro spontanea volontà, l’altro trascinato con la forza come un condannato alla forca. «Adesso» dice Dane voltandosi per affrontarli a pugni serrati «scopriamo come finisce la storia.» 31 UN PAPPONE CHIAMATO MORTE Scheletro ha sostituito la tuta da ginnastica con uno smoking. Come sia potuto accadere, non lo so, eppure è così: indossa un vestito di raso bianco e un cappello a tesa larga al posto del solito berretto. Ma il tocco di classe è un patetico garofano rosso fissato al risvolto della giacca. Sembra un magnaccia, un pappone di nome Morte, e se le circostanze non fossero così tragiche, gli scoppierei a ridere in faccia. Poi prenderei la suddetta faccia tra le mani e gliela spiaccicherei contro uno specchio, di modo che capisca quant’è ridicolo. (Non capirebbe comunque. Uno che ogni giorno va in giro in tuta e pensa anche di essere figo evidentemente non sa nemmeno cosa significhi avere gusto, o sbaglio?) Al contrario, la Haskins indossa un tubino nero, di un tessuto meno lucido e molto più sofisticato, in netto contrasto col bianco della pelle, il rosso fuoco del rossetto e il gelo dei suoi occhi vitrei. Sotto le calze a rete le gambe sono pallide come il marmo e non posso fare a meno di chiedermi quanto ci avrà messo ad abituarsi all’idea di dover trascorrere il resto della sua esistenza nei panni di una maestrina sexy. In piedi fra loro, Stamp trema come una foglia. Indossa uno smoking nero da quattro soldi, della misura sbagliata, quasi avessero preso l’ultimo rimasto in negozio e glielo avessero infilato a forza mentre scalciava e si dimenava. Ha le labbra serrate, ma i suoi occhi gridano Aiuto! Non sembra che l’abbiano maltrattato troppo eppure il messaggio degli Zerker arriva forte e chiaro: Una mossa sbagliata e Stamp è spacciato. Dane si mette davanti a me, come a volermi proteggere, ma io lo spingo da parte e ci ritroviamo fianco a fianco. (Credo di essermi guadagnata il suo rispetto ormai!) Scheletro sorride, felice e soddisfatto per aver escogitato un piano perfetto. Guarda oltre le nostre spalle, verso il bagno buio. «Mi sembra di capire che Chloe e Dahlia non ci raggiungeranno stasera.» La Haskins segue il suo sguardo, poi con fare languido mette su il broncio e chiede: «E di Hazel che ci dici, Maddy?». Scuoto la testa. «A lei che importa, professoressa?» «Niente, in effetti» risponde lei, poi sospira e si guarda le unghie. «So che ti suonerà strano ma Hazel non mi è mai piaciuta. Non è bello detto da un’insegnante, lo so, ma è così.» «Non credo che la licenzieranno per questo. Sa, ora che è diventata una Zerker, che se la fa con uno dei suoi studenti e si presenta al ballo col suo nuovo amante, se lo meriterebbe. Ma quando avremo finito con voi, quello sarà l’ultimo dei suoi problemi, mi creda.» Lei mi inchioda al muro con lo sguardo. «Parole grosse per una ragazzina così insignificante. E pensare che nutrivo tante speranze su di te, Maddy. Oh, be’.» Scheletro si mette a ridere. «E comunque non hai capito proprio un bel niente, Maddy. Noi non vogliamo ucciderti; vogliamo solo farti diventare una di noi. Ora che Dahlia e Hazel non ci sono più, gli Zerker hanno bisogno di nuovi seguaci.» «Scordatelo» sbotta Dane. «Staremo a vedere, mio caro eroe» ribatte Scheletro. «Dopo stasera, non potrai più difendere la tua fidanzatina.» Sto per rispondere, ma Dane mi batte sul tempo: «E chi ha detto che ha bisogno di protezione? A occhio e croce sembra aver fatto persino più vittime di te». «Per ora.» Sembra annoiato. «Dunque, dicevamo. Per come la vedo io, vi restano due opzioni: unirvi a noi... o morire.» «Prima di prendere una decisione, però,» interviene la Haskins «riflettete un momento sul vostro futuro. Unitevi a noi ed entro l’alba di domani la scuola sarà ne l l e nostre mani. Pensate, un insegnante e due ex allievi. Questo posto brulicherà di Zerker in men che non si dica. Non dovrete più preoccuparvi di insospettire i Normali né fingere di essere dark. In una scuola di Zerker non c’è posto per i Normali; saremo tutti uguali.» Dane fischia per schernirli. «Che bel piano, non vedo l’ora di sentire cosa ne pensano gli Anziani.» «Ti comporti come se fossi già uno di loro, Dane» dice Scheletro con aria divertita. «L’inferno è il regno dei peccatori, amico mio. Se non ti va di spassartela, facci almeno il favore di toglierti dai piedi e di lasciare il divertimento a chi lo sa apprezzare.» «Basta così, Scheletro» esclamo avanzando lentamente. Dane mi segue a ruota. «Nella morte, come nella vita, non c’è solo il divertimento. Altrimenti sarebbe... l’anarchia più totale.» Scheletro lancia un’occhiata complice alla Haskins. «E cosa ci sarebbe di tanto sbagliato in questo?» «Cosa farai tra una settimana, Scheletro, quando la scuola sarà piena di Zerker – Zerker sportivi, Zerker fattoni, Zerker secchioni – e ti accorgerai che sono tutti forti come te, intelligenti come te? Finora sei stato il capo, Scheletro. Vuoi davvero dover lottare ogni settimana, ogni giorno, ogni minuto per mantenere il comando?» Scheletro non sembra gradire la mia osservazione. Scatta in avanti e digrigna i denti. «Credo che tu stia leggermente sopravvalutando il corpo studentesco della Barracuda Bay, Maddy.» «Chiudiamola qui, ok?» sibila Dane a denti stretti. «Basta stronzate su chi comanda chi. Fatevi sotto.» «Se insisti.» Scheletro scoppia a ridere e poi si volta verso la Haskins. «Cara, perché non inviti i nostri amici a entrare e a dare inizio ai... festeggiamenti?» «Con molto piacere.» E mi lancia un’occhiata malvagia, distruggendo quel poco che resta dell’immagine di mentore, di adulto esemplare, di... amica che ho di lei. Spalanca le doppie porte da cui sono entrati poco fa e i raggi della luna fendono l’oscurità. L’atmosfera è così surreale, lo scenario così tranquillo e l’attrice così elegante che mi aspetto quasi di vedere un soffice manto di nebbia strisciare fino ai nostri piedi, come spesso si vede nei B-movie. Poi, all’improvviso, la Haskins si infila due dita in bocca e fischia (che classe!) e, al di là delle porte, si leva distintamente un fruscio di centinaia di piedi che si trascinano. Ma c’è dell’altro: non si tratta solo del rumore prodotto dalle scarpe sul ghiaino del parcheggio o dai vestiti a contatto con la pelle in via di decomposizione, quanto piuttosto di un coro di lamenti, ringhi, urla di Zerker fuori di sé dalla fame. Non ho idea di cosa ci aspetti e ho una sola certezza: a differenza degli zombi e dei primi Zerker, questi sono lenti come lumache. Passo dopo passo, centimetro dopo centimetro appaiono alla nostra vista – forse per via delle luci d’emergenza, o del bianco del cappello di Scheletro, o ancora della luna piena e del buio pesto – all’inizio non distinguo nulla, finché non è troppo tardi. Dane mi guarda con gli occhi più spaventati che gli ho mai visto e dice: «Qualsiasi cosa accada, Maddy... stammi accanto». Il fruscio si fa sempre più vicino e io osservo Stamp. Sembra che, al contrario di noi, lui sappia fin troppo bene cosa ci aspetta, perché inizia a divincolarsi come un pazzo dalla presa di Scheletro, tentando di liberarsi con tutte le sue forze. Ma Scheletro non molla, lo strattona violentemente, gli sussurra qualcosa all’orecchio e lui si calma. Mentre mi domando cosa gli abbia detto, i due ragazzi mi guardano: Stamp con un sorriso imbarazzato, Scheletro con un ghigno minaccioso. Chiudo gli occhi per un istante, tentando di deglutire. Quando li riapro, sulla soglia è comparso un folto gruppo d’insegnanti. I nostri insegnanti (o almeno quello che ne rimane). Sono sette o otto, pallidi come la luna, morti come le foglie che calpestano, lenti come tartarughe ma forti come buoi. Hanno gli occhi vitrei cerchiati di scuro e infossati nelle orbite, il volto cinereo, lo sguardo perso, e muovono le labbra – da alcune fuoriescono dei suoni mentre altri si limitano a digrignare i denti o a leccarsele. I nostri insegnanti sono diventati Zerker. Almeno su una cosa Scheletro e la Haskins avevano ragione: dopo stasera niente sarebbe più stato come prima. «Vi presento il nuovo superstaff della Barracuda Bay» esclama la Haskins in tono solenne, mentre uno dopo l’altro, il prof di educazione fisica, il consulente scolastico, il vicepreside e persino la Witherspoon mi sfilano davanti nella tipica andatura Zerker. Oddio, è un incubo senza fine. Ripenso alla testa del Guasto ai miei piedi, al corpo di Hazel scosso da violenti spasmi e trafitto dal mio paletto, e ora ci mancavano solo tutti questi prof. Mi chiedo che ne sarà di loro. Come si fa a dezombizzare un insegnante di ginnastica? O il vicepreside? O la prof di arte? «E grazie al nostro caro Stamp,» dice Scheletro spingendolo in avanti con violenza tale da buttarlo a terra «abbiamo l’onore di avere con noi anche la squadra di football al completo.» Le mani di Stamp stridono sul pavimento duro della palestra mentre avanza verso di noi a quattro zampe. Alle spalle degli insegnanti, appare un’orda di Zerker dal collo taurino, pieni di muscoli. Avanzano strisciando i piedi e sono enormi, come le scarpe che indossano per l’occasione e gli smoking taglia XXL, ma cerco di ignorarli. «Stamp» grido, e lui di certo non perde tempo e si precipita verso di me, sempre a quattro zampe, con sguardo vulnerabile, disperato. «Mi dispiace» dice. Dane corre ad aiutarlo e ci piazziamo davanti a lui per proteggerlo, d’istinto ci stringiamo l’uno all’altro, come a volere formare una sorta di barriera di salvezza per l’ultimo umano rimasto. Stamp è tormentato dal rimorso. «Mi hanno costretto, Maddy. Non avevo scelta.» «Ti ha morso?» gli domanda Dane impaziente, mentre all’orda impazzita che campeggia davanti alle porte della palestra si aggiungono una o due dozzine di Zerker da football, giganti, superaffamati e superincazzati. Dà un’occhiata sotto il colletto della camicia di Stamp, girandogli la testa con gesti bruschi per assicurarsi che non ci siano segni di morsi da nessuna parte sul suo collo arrossato. «Ti hanno morso?» Stamp scuote la testa e mi guarda con aria innocente. Non mi fido più, non dopo tutto quello che è successo col Guasto, Hazel e la Haskins. Che Dio mi perdoni, ma non mi fido più di nessuno. Di nessuno, tranne che di Dane. «Hazel ti ha per caso morso, Stamp?» chiedo senza fare tante cerimonie e gli arrotolo le maniche, gli tiro su i pantaloni, ispezionando ogni centimetro del suo corpo (magari non proprio ogni centimetro) alla ricerca delle impronte dei denti di Zerker. Ho le mani ruvide, mentre la sua pelle è così morbida. Non sembra che stia per trasformarsi, ma io che cavolo ne so? Avrei detto lo stesso del Guasto, almeno finché non mi sono ritrovata i suoi denti a due centimetri dal cranio. «Credimi, Maddy,» dice in tono supplichevole, delirante «non mi ha morso, te lo giuro. Hanno detto che mi avrebbero usato come... esca. Hazel mi ha fatto credere che saremmo usciti da soli invece c’erano anche Scheletro e Dahlia. Io ce l’avevo con te per avermi dato buca alla festa. Ero... confuso e ho pensato “Al diavolo, vediamo se s’ingelosisce”. Quando sono passati a prendermi mi hanno chiesto subito di chiamare tutti i miei compagni di squadra e di dargli appuntamento in spogliatoio. Mi hanno minacciato dicendo che se non avessi obbedito... avrebbero fatto... del male... a te.» Gli prendo una mano e sento che trema. Gli sfioro una guancia bagnata di lacrime. «Non è colpa tua, Stamp.» «Magari hai ragione,» interviene Dane con gli occhi puntati sui giocatori rabbiosi e affamati di cervello «ma grazie al tuo ragazzo ora siamo nella m... melma fino al collo. Come se Scheletro, la Haskins e una decina dei suoi colleghi preferiti non fossero già abbastanza.» «Ehi, ma mi hai ascoltato?» sbotta Stamp. «Non stiamo insieme.» «Ora basta, voi due» esclamo. «Abbiamo ben altre gatte da pelare al momento, invece di preoccuparci dei miei affari di cuore.» Entrambi mi guardano poco convinti, si scambiano un’occhiata e poi guardano di nuovo me, sempre poco convinti. Nel frattempo l’orda sta attraversando la palestra avvicinandosi sempre più e il confine che ci separa da morte certa si assottiglia (ancora una volta). Ora che la minaccia è reale, Dane si prepara allo scontro e dà un taser anche a Stamp. «Ascoltate, dobbiamo dividerci. Stamp, tu occupati della squadra. Trafiggili alla gola con questo e dovrebbero crollare senza più rialzarsi. Maddy, tu pensa agli insegnanti. Usa il mio paletto.» E me lo porge. «Si sono rianimati da poco, non hanno esperienza, quindi non dovrebbero accanirsi troppo. Io penso a Scheletro...» Ma non fa in tempo a finire di informarmi sul suo piano che Scheletro abbaia un qualche comando e gli Zerker iniziano ad avanzare più velocemente. Mi sposto cauta sulla sinistra, verso il buffet e la lunga fila di tavolini alti che potrebbero essere un’ottima barriera per arginare l’assalto dei prof. La Haskins li aizza contro di me con la gonna che le sale sempre più sulle cosce e la camicia quasi sbottonata, in versione Lolita dei Morti Viventi. «Che stile» dico cercando di colpirla col paletto di Dane. «Che frana» ribatte lei schivando il colpo e il paletto si conficca nello stomaco del coach Potter. In preda agli spasmi, lui si irrigidisce e subito dopo crolla a terra su una pila di corpi. Lei ne approfitta per darmi una sberla. «Non mi piacciono i ruffiani.» Io le restituisco il favore, schiaffeggiandola forte a ogni parola. «Sì,» bam «che» bam «le piacciono!» bam! È più grande di me, ma io sono morta da più tempo. È più alta ma io sono più forte, i miei muscoli e le mie ossa sono duri come il marmo e, di conseguenza, più pesanti. Le mani non sono più quelle di una volta, assomigliano a guanti di gomma ripieni di cemento a presa rapida. A ogni sberla, le rompo qualcosa, uno zigomo, un ossicino dell’orecchio, forse anche la bella mandibola che si ritrova sotto quella pelle liscia come alabastro. Cade al suolo con un gemito e sollevo di nuovo il paletto pronta a colpirla quando, apparsa dal nulla, la Witherspoon me lo fa volare di mano, si toglie gli occhialoni con la montatura rossa e li tiene sollevati davanti a sé come un’arma. Tenta di trafiggermi con le stanghette agitando in aria la mano ancora paffuta. Schivo i colpi senza difficoltà, poi mi butto a terra, rotolo fino al paletto e lo afferro un attimo prima che i miei professori riescano a circondarmi come boy scout intorno a un falò. Tiro a ognuno un calcio allo stinco e loro sono ancora troppo inesperti per non reagire al dolore. Si abbassano per toccarsi la gamba, con le labbra che formano piccoli cerchi neri di sofferenza. Ululano cadendo a terra e con una scarica elettrica, uno a uno, li strappo a quel surrogato di vita cui sono stati condannati, servendomi dell’estremità metallica del paletto. È come friggere le zanzare, solo che queste sono persone. Cadono a terra, una dopo l’altra, formando un unico corpo putrescente, che geme con la bava alla bocca in preda all’agonia. Si impilano come tronchi d’albero e, mentre le forze li abbandonano, mi sforzo di pensare che sono solo Zerker e che gli insegnanti che conoscevo, amavo, a volte detestavo e temevo, ora sono morti, se ne sono andati l’istante in cui la Haskins, con un morso, li ha strappati alla Normalità per accoglierli nell’Oltretomba. Alla fine resta in piedi solo la Haskins, che non è affatto andata in soccorso dei suoi colleghi caduti. Al contrario, si è allontanata sempre più da me, finché non si è ritrovata con la schiena contro quella di Scheletro, impegnato a contrastare Dane. Non ce la caviamo granché nella lotta corpo a corpo, figuriamoci due contro uno. Dane sembra esausto, ha paura, allora corro in suo aiuto. Con la coda dell’occhio mi vede arrivare e grida: «Stamp, Maddy! Va’ ad aiutare Stamp!». Mi arresto di colpo, combattuta sul da farsi. Per quanto malridotto, Dane è pur sempre uno zombi e da molto tempo anche, sa come fare a salvarsi – la pellaccia, ma anche le ossa, il sangue e la cartilagine – persino davanti a un mostro infuriato come Scheletro, mentre il povero Stamp è solo un Normale ed è circondato dalla linea difensiva della squadra di football della Barracuda Bay al completo, sul punto di ricevere una scarica di pugnalate alle spalle dai suoi ex compagni. Alcuni dei giocatori più robusti sono a terra, privi di vita, ma il resto – una dozzina circa – sta facendo lentamente a pezzi Stamp. Il suo smoking è ormai ridotto a brandelli e dalla manica strappata s’intravede la camicia bianca macchiata di sangue. Rabbrividisco, terrorizzata. Continuo a scordarmi che non è un zombi e che quindi non è immune al dolore. Mi dimentico che il suo cuore pompa ancora sangue, che il suo corpo può essere ferito, rotto, dilaniato; che può... morire. Allora balzo sulla schiena di due dei giocatori e li trafiggo al collo col paletto. Uno crolla subito e per un attimo mi convinco quasi che sarà facile come è stato con gli insegnanti, ma l’altro si ribella e prima di cadere a terra tramortito mi colpisce la mano facendo volare il paletto dall’altro lato della palestra. Grandioso, non ho più niente con cui difendermi e il mio taser giace bagnato e inutilizzabile sul pavimento del bagno. Mentre un gruppetto prende a pugni Stamp, cerco di rimettermi in piedi. Ho una leggera confusione in testa, ma cadere a terra con sopra centotrenta chili di omaccione non mi ha provocato nessun dolore. Nel frattempo altri due Zerker altissimi mi stringono in un angolo, con le spalle rivolte a uno dei tavolini. Uno è mingherlino e gli spezzo un braccio con un calcio ben assestato alla spalla. Lui rimane tramortito ma continua ad avanzare, allora ripeto l’azione e gli spezzo anche l’altro. Adesso è come un gatto senza artigli, un burattino senza burattinaio. Nel momento in cui lo spingo da parte senza fatica, l’altro mi arriva alle spalle e prima che possa girarmi mi afferra con entrambe le braccia e mi solleva da terra. Tento di divincolarmi ma lui, più muscoloso, mi serra in una morsa. È forte, molto più forte di me, tuttavia è ancora fatto di carne mentre io sono granito dai muscoli di ferro e ossa d’acciaio. Lo mordo, poi sputo un brandello di carne, gli sferro calci alle ginocchia ma lui non molla e stringe ancora di più la presa. Mi agito invano, finché non ricordo di avere le spalline imbottite di terra del cimitero. Allora ringhio, gli tiro un altro calcio e mi muovo finché non riesco a voltarmi verso il bestione. Rimane sorpreso quando con una testata gli rompo il naso, eppure questo non basta a farlo desistere dal tentativo di mandarmi la spina dorsale in frantumi con le sue enormi braccia che mi soffocano come le spire di un pitone. Ci riuscirà la terra del cimitero, però. Smetto di divincolarmi e gli chiudo le braccia intorno al collo stringendolo a me, poi cerco di tirarmi un po’ su, fino a spiaccicargli contro il muso le spalline piene di terra che mi ha cucito Chloe, le spalline di cui poco tempo prima avevamo tanto riso. Le sue urla rimbombano nella sala minacciando di rompermi i timpani. Cerca di mettermi giù ma ormai sono un tutt’uno con lui, lo seguo come un’ombra, se si gira, se cade, se corre, con le dita di granito che gli affondano nella carne macilenta, lo cavalco come un campione di rodeo. Il giocatore si agita, poi cade al suolo ma nemmeno allora lo lascio, gli ribolle il naso e ha il volto ricoperto di bruciature nere per l’effetto della terra che gli ho messo dritto sotto il naso rotto. Non lo mollo finché non smette di muoversi e si accascia col viso fumante e gli occhi aperti velati da una sottile pellicola grigiastra. Me ne sbarazzo e cerco qualcosa da usare come arma, quando finalmente vedo la borsetta di Chloe abbandonata su un tavolo vicino; la riconoscerei ovunque – è l’unica con la chiusura a forma di teschio. Ci infilo una mano dentro e tiro fuori il taser e una manciata di miccette. Sono grandi come sassolini ma, dato che non sono mai stata una grande fan delle bombette – mai usate, nemmeno per fare uno scherzo a qualcuno –, non so cosa aspettarmi da queste piccole bastarde. Se Dane ha detto che funzionano, io mi fido di lui (nonostante l’abbia letto solo sulla Guida). D’altronde, che senso avrebbe smettere ora? Restando in disparte mentre le urla disperate di Stamp mi riecheggiano nelle orecchie, accendo la prima miccetta e la lancio tra gli Zerker-giocatori intenti a ringhiare e ululare in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. La miccetta prende fuoco, sfrigola, attera in mezzo alla folla e, dopo il primo scoppio, lo zolfo si sprigiona sotto forma di gas verde. Una dopo l’altra le accendo, loro iniziano a sfrigolare, prendo la mira e lancio; accendo, sfrigolano, prendo la mira e lancio. Atterrano scoppiettando, bim-bum-BAM! Di colpo un odore di zolfo si diffonde per tutta la stanza, una miccetta si spegne e subito ne esplode un’altra, sparando scintille sul pavimento, sui tavoli e incendiando l’aria che tanto non ho più bisogno di respirare. Gli Zerker impazziscono, iniziano a darsele fra loro, tirando pugni a vanvera, scalciando con le ginocchia rotte e le scarpette lucide della festa, agitando le mani con le nocche insanguinate, tutto pur di scappare dalla puzza intensa di zolfo che infesta quell’angolo della palestra. Approfittando del trambusto, Stamp scappa, ma ha una gamba piegata in maniera innaturale, il braccio sinistro che ciondola rotto, il volto graffiato, ferito, sanguinante. Mi raggiunge tremando e piagnucolando come un bambino, sollevato e allo stesso tempo imbarazzato, come se non riuscisse a decidersi se odiarmi o amarmi. Con Stamp al mio fianco, vedo Dane che urla disperato, bloccato fra due Zerker, e in un impeto di follia cerco di inventarmi qualcosa per aiutarlo. Ignoro Stamp che mi ringrazia in preda al panico, gli prendo il taser dalle mani tremanti ricoperte di sangue, mi scuso con lo sguardo e uno per uno do la scossa ai suoi ex compagni di squadra finché non stramazzano al suolo, immobili, e non sento il rumore delle loro teste che colpiscono il parquet con un tonfo e uno scricchiolio finale. Lentamente davanti ai miei occhi si forma una pila, anzi un mucchio di carne sanguinolenta, smoking strappati, occhi pesti, pelle annerita dallo zolfo, colli bruciati dal taser e di colpo non sono più Zerker, i loro corpi pallidi e giallastri stanno marcendo, i loro occhi sono pozzi scuri senza vita. Nonostante tutto provo ancora pietà per loro, perché non sono altro che pedine di un piano contorto e malato concepito da Scheletro ai danni degli zombi. Intrappolati, seppur per poco, nella loro condizione di Zerker, almeno una cosa sono riusciti a farla. Per battermi, ho perso tempo prezioso allontanandomi da Stamp e lasciando solo Dane. Ora ci troviamo ai vertici di un pericoloso triangolo: Dane alle prese con Scheletro, Stamp in pericolo di morte sul punto di cadere fra le grinfie della Haskins e io che con aria vagamente trionfante a malapena mi reggo in piedi su una pila di corpi mutilati e scoppiettanti, stile Regina degli Orchi. Dietro di me, Stamp geme per via della caviglia slogata e del braccio rotto, ha il volto rosso per la sofferenza, la paura e la vergogna. Dall’altra parte della stanza, la Haskins avanza verso di lui. Ha gli occhi carichi di odio, tipici degli Zerker, il cervello fuso dal morso di Scheletro e non desidera altro che servire il suo signore, strappare a Stamp il cervello e me da Stamp, l’unico ragazzo in tutta la Barracuda Bay ad avermi degnato di uno sguardo. Li osservo impotente, sono troppo lontani per le mie giunture intorpidite, e me ne sto lì con l’ultima miccetta rimasta sul palmo della mano. Alle mie spalle, Scheletro solleva Dane con braccia forti e resistenti come pilastri di granito. Sono entrambi in condizioni pietose, con gli abiti a pezzi da cui s’intravedono porzioni di pelle, e le bocche spalancate per la rabbia. «E adesso, Maddy?» mi dice Scheletro sghignazzando, come se tenere Dane sollevato sopra la testa implicasse per lui lo stesso sforzo richiesto per schiacciare una mosca su un tavolo. «Chi salverai? Stamp dalla Haskins? O Dane da me? Chi condannerai a morte?» Bella domanda. Senza sapere che fare, resto a guardare mentre Scheletro lascia cadere Dane sul suo ginocchio, nemmeno fosse un wrestler e la Haskins tira su Stamp per il colletto e si avventa sul suo collo come un ciccione su una scatola di cioccolatini. Lancio un grido. Scheletro ride, Stamp si contorce e, quando alzo gli occhi al cielo per supplicare aiuto dall’alto, all’improvviso vedo un groviglio di tubi. Scheletro solleva di nuovo Dane, ridendo ancora più forte, allora accendo l’ultima miccetta dietro la schiena, salgo sopra il tavolo più vicino e la lancio più in alto che posso. Prende fuoco in volo sprigionando un’odore acre, metallico, e vorticando diffonde ovunque un fumo denso e scuro, mentre continua a scoppiettare. Scheletro è il primo ad accorgersene, inclina di scatto la testa verso l’alto e vede la miccetta salire e infilarsi fra i tubi dell’impianto idrico. Allora continua a tenere Dane sollevato sopra la testa a mo’ di ombrello. La Haskins invece non se ne accorge nemmeno, troppo intenta ad affondare il viso nel corpo ancora in vita di Stamp, non si preoccupa della sua fine imminente. E Stamp? Stamp ha già perso i sensi quando le scintille si sprigionano e, un attimo dopo, una cascata d’acqua si riversa sul pavimento della palestra come un’onda gigantesca. E io? Io prego, urlo, poi mi sporgo fuori dal tavolino, accendo il taser di Stamp – che si attiva producendo una scarica blu ad alto voltaggio fra i suoi dentini metallici da vampiro – e lo premo contro il pavimento. Lo premo con una forza tale che riesco a vedere la vernice creparsi persino attraverso la spaventosa ondata d’elettricità che scaturisce fra guizzi e scintille dalla cascata d’acqua, innalzandosi come un gigantesco fungo atomico blu cobalto. 32 LA SCELTA DI MADDY Il tempo non si è fermato. Solo scorre mooooolto lentamente. Dentro di me so che sta succedendo tutto alla velocità della luce, ma i miei occhi riescono a cogliere un fatto alla volta, come se stessi guardando una scena al rallentatore, una scena che procede un fotogramma alla volta, in una specie di galleria degli orrori. Fotogramma 1: Scheletro grida. Fotogramma 2: Scheletro alza gli occhi e guarda Dane. Fotogramma 3: Scheletro abbassa lo sguardo sul pavimento. Fotogramma 4: Scheletro lascia cadere Dane. Fotogramma 5: Dane, precipitando, compie una lenta rotazione in aria. Fotogramma 6: Poi un’altra. Fotogramma 7: La Haskins solleva la testa dal collo di Stamp. Fotogramma 8: La Haskins grida. Fotogramma 9: Stamp geme. Fotogramma 10: La Haskins mette giù Stamp. Fotogramma 11: Stamp cade in ginocchio. Fotogramma 12: Poi carponi. Fotogramma 13: Stamp si accascia al suolo. Fotogramma 14: La Haskins ruota su se stessa. Nel frattempo, alla velocità di milioni di fotogrammi al secondo, il pavimento della palestra, ormai più simile a un campo di football, si accende attraversato dall’elettricità. Le fiamme divampano e si diffondono con un leggero crepitio e scricchiolio di fondo. Tutt’intorno nient’altro che acqua che sgorga e zampilla ovunque ti giri. L’elettricità penetra ovunque e i fotogrammi iniziano a scorrere più velocemente, prima al rallentatore poi come se qualcuno stesse mandando avanti la pellicola. Dane precipita in silenzio, con gli occhi spalancati, mentre la gravità lo attira al suolo. Nemmeno la sua forza sovrumana può aiutarlo ormai. Trattengo il fiato ma all’ultimo momento, mentre precipitando Dane passa davanti al volto di Scheletro, lo vedo afferrargli la testa in una presa letale. Il suo braccio avvolto nello smoking strappato sembra un ramoscello a confronto con il collo taurino di Scheletro. Persino da dove mi trovo, cioè sul lato opposto della stanza, sento il rumore del pomo d’Adamo dello Zerker che si spezza e vedo il suo volto essere attraversato da un’espressione di sorpresa e insieme di rabbia – soprattutto di rabbia. È fatta. Per grosso che sia, può tentare di liberarsi, ma il tempo questa volta è contro di lui e i fotogrammi che scorrevano piano iniziano ad accelerare, fino a ritrovare il normale ritmo della scena. Crollano sollevando una pioggia di schizzi d’acqua e Dane cade a peso morto col braccio ancora intorno al collo dello Zerker. Non ce la faccio a guardare, così chiudo gli occhi – e quando li riapro – Scheletro è disteso sul pavimento che si agita come un pesce sul pontile per divincolarsi dalla presa di Dane e tornare in vantaggio. Dane gli sta sopra, sforzandosi di mantenere l’equilibrio come se fosse su un canotto nel punto in cui le rapide si fanno più insidiose. Lascio cadere il taser, acceso. A contatto con l’acqua sfrigola e scoppietta emettendo l’ultima, debole scintilla d’elettricità prima di andare definitivamente in corto circuito. Dane rotola giù da Scheletro, cade in acqua e a fatica si rimette in piedi per poi tentare disperatamente di scappare dall’altra parte della stanza, mentre l’acqua che gli arriva alla caviglia evapora a ogni suo passo rigido e scomposto. Prova a fermarsi in tempo, ma le suole lisce delle sue scarpe nuove continuano a farlo scivolare così finisce contro il tavolino, su di me, ed entrambi cadiamo a terra. «Maddy! Stai bene, Maddy!» In tutta la mia vita non ho mai visto nessuno più felice di vedermi, di sapere che sono viva, di toccarmi, stringermi fra le braccia come se davvero nient’altro al mondo importasse al di fuori di questo. Il suo sguardo, solitamente cupo e minaccioso, brilla di vita. Il sorriso gli illumina il volto pallido e lo rende irresistibile. Mi sento così al sicuro fra le sue braccia, così lontano da tutti quegli insegnanti, dalla squadra di football e da Scheletro, che – quando mi bacia dolcemente – mi viene da ridere e poi da piangere, anche se gli zombi non piangono, e lo bacio a mia volta (anche se un po’ meno dolcemente). Dane ride e mi dice: «Mi sa che d’ora in poi sarai tu lo zombi n. 1, eh?». Lo bacio, lo ribacio e rido e piango senza piangere. Lui mi aiuta a tirarmi su dal pavimento gelido e bagnato, e mi prende per mano mentre ci dirigiamo verso il corpo, una volta perfetto, ora privo di vita, della Haskins. Ha gli occhi aperti così, piuttosto che chiuderglieli, con un abile gesto degno del peggior mago della storia, tolgo la tovaglia da un tavolino e, mentre piatti e bicchieri di plastica volano a terra, gliela getto sopra senza tante cerimonie. So bene che non era in sé quando faceva quelle cose terribili, ma a volte il male riesce a spazzare via i bei ricordi in un istante. Svanisce l’immagine dolce, piena di calore, che ho di lei durante l’ora di economia domestica mentre mi scrive una lettera di raccomandazione e mi esorta a seguire la mia passione per l’arte. Davanti a me, ora, c’è solo uno Zerker morto con la bocca imbrattata del sangue di Stamp e i piedi bianchi che spuntano da sotto il telo, uno ancora con la scarpa, l’altro senza. Se n’è andata, se n’è andata per sempre, come tutti gli altri, sparsi qua e là sul pavimento, insegnanti che ho adorato, temuto, con cui ho riso, di cui ho riso, che ho ignorato – sono tutti morti, condannati a tacere da qui all’eternità. Che tutti questi atleti, giovani e promettenti – cadaveri inerti destinati al cimitero proprio come il Guasto – possano riposare in pace. Papà, il mio papà, li toccherà uno a uno nell’obitorio, con affetto e rispetto infiniti, piangendo al pensiero della vita che troppo presto è stata strappata loro in maniera così spietata e gratuita. Se sapesse che è stata proprio sua figlia a ucciderli. A pochi passi dalla Haskins, Stamp giace privo di vita, con gli occhi chiusi e un’espressione di pace sul volto, il suo povero volto malconcio ridotto a una maschera di dolore e sofferenza. Sembra un enorme fantoccio di pezza con le braccia e le gambe abbandonate, i tratti rilassati, immobili, un mucchio di carne e ossa inermi. La sua pelle sta diventando pallida, della consistenza della cera, in netto contrasto col rosso fuoco dello squarcio che la Haskins gli ha lasciato sul collo. Il mio povero, dolce, Stamp non c’è più. Mi inginocchio accanto a lui e piango, ma mi si stringe la gola per i troppi singhiozzi che non possono sfociare in lacrime. Sento la mano di Dane sulla spalla e il suo respiro caldo sull’orecchio mentre dice: «Devi morderlo, Maddy. Devi... trasformarlo... prima che sia troppo tardi». «P-p-perché?» balbetto. «Se n’è andato ormai. Perché non possiamo lasciarlo in pace?» «Ma non troverà pace, Maddy» dice Dane. «Non più. Pensaci un attimo: la Haskins l’ha morso un istante prima di prendere la scossa che l’ha uccisa. Prima che anche tutti gli altri morissero. Tecnicamente lui non si è ancora trasformato. Scossa o non scossa, in questo momento in teoria dovrebbe essere nella fase di Risveglio. È come se... come se fosse prigioniero in una sorta di limbo, in cui niente – e nessuno – può raggiungerlo. Nemmeno una scarica da 10.000 volt, nemmeno una da un milione. Hai presente come funziona il salvavita che si installa in casa? Il salvavita serve a bloccare gli sbalzi di corrente per proteggere l’impianto elettrico. Ecco, in questo momento, il corpo di Stamp è un gigantesco salvavita.» «E cosa sta proteggendo?» chiedo con voce soffocata. «Il suo cervello. Potrei puntargli contro un taser acceso per dieci minuti di fila e non ottenere nulla, nemmeno un fremito. Quando si sveglierà, sarà uno Zerker, Maddy. Non c’è scampo. A meno che...» «A meno che... a meno che io... non... lo morda.» Dane mi guarda con espressione tenera e apprensiva. È chino su di me con lo smoking fradicio, la pelle gelida, il viso bianco e gli occhi così scuri, così... gentili. Ora so che non è la persona che pensavo che fosse, ma del resto nemmeno io lo sono. Insieme, io e lui... chissà come sarebbe... chi ci impedisce di voltarci in questo preciso istante e andarcene, lasciandoci alle spalle tutti quei cadaveri, quei compagni e amici? Sono così tentata di chiudere gli occhi e stringerlo a me, di nascondermi da tutto, di premere il viso contro il suo petto freddo e senza vita, e sperare che voglia portarmi via dove non esistono né calore, né famiglia, né amici o luoghi che conosco – niente, solo una lavagna bianca su cui riscrivere il nostro futuro. Insieme. Stamp è morto per colpa mia. Per colpa mia Scheletro ha morso Hazel e Hazel ha sedotto Stamp. Scheletro voleva potere su entrambi, consapevole che questo sarebbe servito a indebolirmi, a farmi vacillare e infine fallire. Non gliene importava niente delle conseguenze del suo piano malato, è entrato nelle nostre vite e le ha distrutte senza pietà. Dane si schiarisce la voce. Guardo prima Stamp poi lui, che mi restituisce lo sguardo sbattendo le palpebre. Ha le ciglia così lunghe... non l’avevo mai notato prima d’ora. Poi, in tono quasi solenne dichiara: «Che ci piaccia o no, si sta già rianimando mentre parliamo. Nel profondo, la furia Zerker si sta facendo strada dentro di lui, ristabilendo contatti recisi, cancellando per sempre il ragazzo che conoscevamo. Il ragazzo che... amavi. Che ami ancora e che potresti amare ancora». Si ferma un istante, mi accarezza il mento, poi lascia ricadere la mano e continua: «Puoi decidere di portarlo dalla nostra parte e assicurarti così che sia al sicuro, oppure puoi lasciare che si svegli sottoterra ma come Zerker, arrabbiato, spietato, affamato... e solo. Vuoi davvero che si risvegli e scopra di esser solo? Che non si ricordi più di te, di Hazel, di me o Scheletro, insomma di niente di tutto... questo? E poi chissà, forse un giorno saremmo costretti a fare a Stamp quello che tu hai fatto a Scheletro e alla Haskins». Ripenso al bacio di Dane, così dolce e sofferto allo stesso tempo, alle sue mani, fredde come le mie, penso a un’eternità al suo fianco, al suo sguardo cupo, ai suoi modi diffidenti, alla sua personalità forte. Lo guardo e capisco che anche lui sta pensando alla stessa cosa. E nonostante ciò che prova, insiste perché io e Stamp possiamo trascorrere il resto della nostra esistenza insieme. Per sempre. Perché lo fa? Avrebbe potuto allontanarmi da Stamp, sapendo che quando si fosse risvegliato sarebbe stato uno Zerker e non il ragazzo che conoscevo, che amavo o a cui semplicemente volevo bene. E, soprattutto, sapendo che io sarei rimasta all’oscuro di tutto questo. Avrebbe potuto tacere, baciarmi, portarmi via e io non avrei saputo nulla di cosa sarebbe accaduto a Stamp. E invece mi sta dando l’opportunità di scegliere, incurante del fatto che potrei decidere di rianimare il primo amore della mia vita. Inizio a tremare. «Dane...» Lui raccoglie da terra un paletto e me lo porge. «Oppure esiste un’altra opzione.» Prendo il paletto. «Quale?» «Se lo colpisci ora che è privo di sensi, se gli pianti il paletto nel petto e lo lasci lì, quando finalmente si risveglierà, l’avresti ucciso comunque.» «Ma hai detto che...» «Non puoi ucciderlo con una semplice scossa, Maddy, nemmeno con un milione di taser ma, secondo la Guida, il metallo aprirà un varco nel suo sistema, riattivandolo. Agirà come una specie di interruttore automatico di cui lui non potrà comunque servirsi. Non riuscirà nemmeno ad arrivarci e... non si sveglierà più.» «Wow, Dane,» esclamo usando il sarcasmo per supplire alla mancanza di lacrime «ma è meraviglioso! Che gioia. Che felicità! Perché non me l’hai spiegato prima? Dunque, se ho capito bene, posso trasformare Stamp in uno zombi e restare a guardare mentre marcisce per i prossimi mille anni oppure posso ucciderlo ora. Ho capito bene?» «Nessuno ha detto che sarebbe stata una scelta facile, Maddy.» Parla in tono calmo ma con sguardo intenso, triste, compassionevole. «Ho detto solo che se vuoi, hai la possibilità di scegliere.» Rimane a fissarmi a lungo, poi aggiunge: «Vado a dare un’occhiata a Scheletro, Maddy. Sai quei film in cui pensi di aver ucciso il cattivo, poi ti distrai un secondo e quando guardi di nuovo il cadavere è sparito? Ecco. Io non voglio che ci sia un seguito a questa storia, capito cosa intendo? Voglio essere sicuro che non tornerà. Qualsiasi decisione prenderai riguardo a Stamp, sappi solo che... sappi che tengo a te, che ci terrò sempre, sia che tu decida di stare con me... che con Stamp.» Si volta e si allontana senza aggiungere altro. Vorrei richiamarlo, ma non basterebbe a esprimergli ciò che sento dentro. Così mi alzo, gli corro dietro e lo afferro facendolo girare. Poi lo bacio, sulla guancia, sugli occhi, sul naso, e infine sulle labbra. Sento che non riuscirò più a smettere, che non vorrò più smettere per paura di non avere un’altra occasione in futuro. Lui rimane lì, immobile, non ricambia ma non si scosta, e quando finalmente mi sento soddisfatta, gli prendo il viso fra le mani, punto gli occhi dritto nell’abisso dei suoi e gli sussurro: «Grazie». Lo guardo allontanarsi fra i cigolii delle scarpe a contatto col pavimento bagnato, con le gambe irrigidite dalla fatica, dalla rabbia, dalla disperazione con cui ha lottato poco prima. Ha le spalle ampie e forti ma abbandonate; è come se fosse invecchiato di un secolo in una sola notte. Lo guardo finché non lo vedo inginocchiarsi con fare disinvolto accanto a Scheletro e subito dopo sento il rumore di qualcosa che si spezza. Lentamente, accanto a ciò che rimane del corpo inerme dello Zerker si forma un mucchio di membra – le sue membra. Rabbrividisco, stanca di tutta questa violenza, della paura, stanca di sentire e vedere cose disumane, e mi giro verso Stamp. È bianco come la neve ormai, disteso lì, sul pavimento, inerme. Cerco di immaginarlo come uno di... noi. Dalla sua ha già il tipo di capelli, questo devo riconoscerglielo: scuri, robusti, spessi alla radice e, sarò egoista, ma non mi dispiacerebbe per niente poter guardare quel suo ricciolo alla Superman per l’eternità. Ma è davvero questo che desidero per lui? Che desidero... per me? Resto in ascolto, Dane sta facendo Scheletro... a pezzi, una volta per tutte. Poi guardo Stamp e penso alla sua famiglia, a quanto sentiranno la sua mancanza, al di là di tutto. A quanto io sentirò la sua mancanza. Sollevo il paletto stringendogli la mano con quella libera, soffoco l’ultimo singhiozzo senza lacrime e mi inginocchio per finire quello che ho cominciato. EPILOGO MADDY FRA DUE FUOCHI Dane è nel camper, aspetta che io e Stamp terminiamo il nostro spuntino notturno. Mentre usciamo controvoglia dal cimitero, Stamp si inclina un po’ verso di me e mi chiede, come se avesse l’impressione di doverlo sapere ma non se lo ricordasse: «Chi è quello?». Vorrei rispondergli, «È il ragazzo con cui pensavo di voler stare per il resto della mia vita», ma non lo faccio (per ovvie ragioni). E siccome ci stiamo avvicinando al camper, e non c’è alcun bisogno di urtare ancora una volta i sentimenti di Stamp, mi limito a sussurrare: «È Dane, quello che ci ha salvato la vita dopo la morte». Lui annuisce e come un ragazzino che non vuol ammettere di aver avuto bisogno di chiedere: «Ah già, lo sapevo». Mi muore il sorriso sulle labbra. Credevo che sarei stata felice con Stamp, e lo sono, per certi versi. Su questo non ci piove. È tornato, dolce come una volta, è qui al sicuro con me e, al diavolo, sono sicura di aver fatto la cosa giusta. Ma poi rivedo Dane seduto nel camper, che stringe forte il volante con le dita pallide, mentre aspetta che io riesumi il mio ragazzo per portarlo via con noi, e mi sento in colpa per tutta una serie di motivi. «Ciao, Dane» dice Stamp facendomi l’occhiolino. Prendo posto accanto a Dane e gli faccio cenno di sedersi accanto a me. (Che grazioso triangolo, eh?) Dane sorride triste e rispondo, «Ehi, campione», con tono amichevole, premuroso, di chi va a prendere qualcuno all’ospedale o a una casa di cura. La sua voce è così cupa. So bene che si sta sforzando di essere forte ma è come se ogni singola parola che pronuncia gli provocasse dolore, e glielo leggo negli occhi che non vorrebbe far altro che scaricarci entrambi e ripartire sgommando. Non lo biasimerei per questo. Lo seguirei ovunque andasse, questo è certo, ma non lo biasimerei neanche un po’ se tentasse di sbarazzarsi di me e Stamp. Mentre mi sposto sul sedile per lasciare spazio a Stamp, Dane si sporge verso di me e bisbiglia: «Chissà quanto gli ci vorrà per ricordarsi che mi odia». Vorrei rispondergli: «Ma lui non ti odia, almeno non fino a quando saprà che mi hai baciata». E invece sbuffo, prendo il giornale dal cruscotto con fare noncurante e comincio a leggere ad alta voce il titolo di apertura: Tragedia al ballo, 31 vittime: compagni e famigliari piangono la morte dei loro cari mentre la Barracuda Bay High School tenta di ricomporre i pezzi... Passato il cimitero, in cima alla collina, Dane rallenta all’altezza della casa di Hazel. Le luci sono tutte accese e c’è una corona di fiori neri appesa alla porta. Le finestre danno quasi tutte sulla strada ma i suoi genitori non sono dietro nessuna di queste. Me li immagino a letto, ancora vestiti, che singhiozzano in modo sommesso stretti l’uno all’altra. O al cuscino. Conserveranno gelosamente la sua cameretta rosa così com’è, trasformandola in un santuario, finché un giorno non saranno costretti a vendere la casa e a lasciarsi alle spalle i ricordi. Ma anche allora non si arrenderanno, impacchetteranno tutto e lo disporranno nella nuova casa, proprio com’era in questa, e Hazel non sarà molto diversa da un quadro da esibire. (Proprio come avrebbe voluto.) La tensione inizia a montarmi dentro, perché vivo solo qualche abitazione più in là. Dane lo intuisce e mi sfiora con la spalla. Il tocco della sua pelle gelata è esattamente quello di cui ho bisogno. Senza dire una parola, premo forte il braccio contro il suo, assicurandomi che Stamp non veda, per fargli capire che gli sono vicina e che... in un certo senso... sono sua. A pochi passi da casa mia, o meglio, dalla casa di papà, Dane rallenta e procede col motore al minimo. Sulla nostra porta non ci sono corone di fiori, ma dalla finestra vedo papà che in solitudine siede sullo sgabello della cucina e fissa il mio, vuoto, dall’altro lato del tavolino da colazione, su cui giace una tazza di caffè. Ha gli occhi asciutti ma lo sguardo perso; l’uomo che si guadagna da vivere con la morte altrui, di colpo comprende cosa vuol dire trovarsi al di là della barricata. Deglutisco e darei il resto dei miei giorni pur di poter versare una lacrima. Una parte di me vorrebbe precipitarsi fuori dal camper di Dane, correre verso la porta, andare da lui solo per un secondo, per abbracciarlo, aggiustargli il colletto della camicia, riscaldargli il caffè ormai freddo e dirgli: «Papà, sto bene ma non posso restare; non posso spiegarti perché ora, ma lo farò presto. Ti basti sapere che sto bene. Non essere triste, non sentire la mia mancanza...». Ma non succederà. Non capirebbe se gli parlassi di zombi, Zerker, Anziani e Sentinelle, di Stamp, di Dane... di tutta questa storia. È un uomo di scienza, fatto di cellule cerebrali e fibre muscolari, un uomo che sa quando è ora di morire. Non crede alle favole, alle fate, ai fantasmi che popolano il cimitero. Potrei tentare di raccontargli e lui potrebbe semplicemente fidarsi di me con occhi supplichevoli, ma non sarebbe sufficiente a soddisfare la sua razionalità. Mi prenderebbe fra le braccia, poi mi costringerebbe a mettermi seduta e a dargli delle spiegazioni. Mi incalzerebbe con mille domande e io sarei obbligata a dirgli tutto di Dane, di Stamp, degli Anziani e delle Sentinelle, a rivelargli la nostra natura di cadaveri rianimati, di non-morti, di immortali, di morti viventi... chi più ne ha più ne metta. Non me lo permetterebbero. Il suo cuore e il suo cervello resterebbero al loro posto, ma se gli rivelassi il nostro segreto causerei danni ben maggiori. E alla fine, le Sentinelle, per ordine degli Anziani, lo ucciderebbero. Proprio come con Stamp, anche con papà ho la possibilità di scegliere se salvargli la vita provocandogli dolore o se raccontargli la verità e condannarlo a morte. E, come allora, dentro di me conosco già la risposta. Non mi piace ma è così. Indossa ancora l’abito nero del funerale che non ha potuto celebrare, non ha potuto perché il mio corpo non è stato ritrovato in mezzo all’acqua, fra le macerie e le dozzine di cadaveri dei miei ex insegnanti, compagni di classe, amici e nemici. Per Stamp è stato più semplice. Dopo che l’ho morso, Dane mi ha assicurato che sarebbe rimasto privo di sensi per tutto il weekend del funerale. E aveva ragione. Quando tutti sono tornati a casa e i custodi del cimitero se ne sono andati, esausti, lasciando le sedie bianche a vegliare su di lui nell’oscurità, io ero lì ad attenderlo con un sacchetto pieno di cervelli, una forchetta e qualche spiegazione. Siamo le ombre di noi stessi ora, tutti e tre. Siamo morti e sepolti. Al nostro posto restano le persone che più ci hanno amato e che mai sapranno la verità: la famiglia di Dane che non immagina nemmeno che il figlio si sia rianimato; papà, che mi crede dispersa a causa dell’ondata di scariche elettriche, di morte e di panico che si è abbattuta sul ballo di quest’anno; i genitori di Stamp che l’hanno seppellito e credono che il suo corpo sia ancora là, tre metri sotto terra, al sicuro nella sua bara da quattro soldi, nel cimitero di Sable Palms, dove possono andare a fargli visita quando vogliono. Mentre Dane avanza piano davanti alla finestra, Stamp dice in tono calmo: «Non ho conosciuto tuo padre». Lo guardo, nei suoi occhi scorgo ancora un barlume di vita, e rispondo: «Ti sarebbe piaciuto, Stamp». «Già, e io... io gli sarei piaciuto?» «Oh sì.» Stamp annuisce poco convinto, come se non mi credesse. Dal lato del guidatore, Dane sussurra: «Nemmeno io l’ho mai conosciuto». E mentre Stamp è ancora intento a guardare papà dalla finestra, lancio una breve occhiata a Dane e gli sorrido – come quella volta sul camper o accanto ai cassonetti durante la sesta ora, o quando mi insegnava a usare il paletto nel modo giusto. Poi, muovendo le labbra in silenzio dico: «Anche tu gli saresti piaciuto». Ma suppongo che nemmeno Dane mi creda. E fa bene. Stamp è il classico ragazzo che porti a casa per farlo conoscere ai tuoi, non Dane. Stamp, la stella del football, il ragazzino ambizioso che si aggira per la cucina sciorinando con disinvoltura i suoi successi sportivi e dando consigli a papà sul softball o sul carbone migliore da usare per il barbecue del quattro luglio. Dane invece è il classico ragazzo per cui svicoli fuori dalla finestra del secondo piano nel bel mezzo della notte, al diavolo le regole. L’ombroso, il ribelle, il tipo che non si tira indietro se si tratta di parlare con papà, ma che poi non sa cosa dirgli. Il tipo che papà non capirebbe, di cui si lamenterebbe: «Ma perché non puoi avere un ragazzo decente, uno come Stamp?». Come spiegargli che al cuor non si comanda e che il mio ha già scelto... Dane? All’improvviso, come se non si fosse accorto di nulla, o forse proprio perché se n’è accorto, Stamp dice: «Dane, portami a casa». Non suona come una domanda, anzi, è proprio un ordine. Per un attimo penso che Stamp sia tornato e ora si ricordi esattamente chi è Dane. Dane si schiarisce la voce, poi preme sull’acceleratore allontanandosi da casa mia come se dovesse immettersi in autostrada e risponde: «Senti, Stamp, non credo sia una buona idea...». «Ti prego, Dane» sussurra lui supplichevole. «Voglio solo vederli un’ultima volta. So che non c’è tempo e che nessuno deve vedere me... ma io devo vedere loro.» Stamp non gli dà l’indirizzo: Palmetto Court è a due passi da Mangrove Lane, dove si trova il parcheggio in cui di solito Dane tiene il camper. Mentre ci addentriamo nel sobborgo cadente e sovrappopolato, Stamp – quasi imbarazzato – mormora: «Sto al 1791». Andiamo avanti finché non lo troviamo. È una casetta dall’aria triste, ora più che mai. Stamp si sporge in avanti appiccicando il naso al parabrezza, ma Dane lo tira indietro con delicatezza. «Non possiamo rischiare che ti notino, Stamp» gli ricorda, ora è il suo turno di dare ordini. Dal lato suo, Stamp annuisce in silenzio e scruta fuori dal finestrino del passeggero sperando di vedere qualcosa. Le luci sono accese, anche se è tardi. La mamma sta lavando i piatti in cucina, i profondi solchi che le segnano il volto stanco sono visibili persino da qui. Il padre sta spolverando le grandi foto appese alla parete del soggiorno che dà sulla strada: sono tutte foto di Stamp. Stamp in Little League, Stamp in armatura da football, Stamp che gioca a hockey in Wisconsin, Stamp su una pista da sci, Stamp e la famiglia, Stamp da solo. «Adora quella stanza» dice lui fra sé in tono quasi religioso. Passiamo davanti alla casa il più lentamente possibile, col motore al minimo e le luci spente, rasentando il marciapiede, finché all’improvviso la madre di Stamp, d’istinto, alza lo sguardo dal lavello e nota il camper che si aggira lì davanti in maniera sospetta. «Vai!» grida Stamp, abbassandosi dietro di me. Si sente puzza di gomma bruciata e ripartiamo a tutta velocità. L’ultima cosa che vedo è la signora Crosby che si precipita fuori e resta in piedi in mezzo alla strada, i capelli sciolti illuminati dall’unico lampione che c’è; ha ancora in mano il piatto che stava asciugando e la tristezza negli occhi mentre fissa i fanali del camper di Dane. «Che brutto» esclama Stamp, sbattendo più volte le testa contro il finestrino. «Puoi dirlo forte» rispondo io. Dane sospira. «Vorrei tanto potervi dire che dopo un po’ non si soffre più ma...» Io e Stamp lo guardiamo, poi ci scambiano un’occhiata. Stamp solleva un braccio e mi prende la mano. Dane è tutto concentrato sulla strada e non riesco a capire se se n’è accorto o no. Poi lo sento scostarsi piano da me, verso il suo finestrino, e capisco che ha visto. La cosa mi ferisce, ma stringo a mia volta la mano di Stamp, perché è questo che si aspetta dalla sua ragazza. Mi concentro solo su di lui, perché è questo che si aspetta dalla sua ragazza. Ma persino adesso non posso fare a meno di guardare Dane con la coda dell’occhio. Sto con Stamp perché è colpa mia se ora è morto e non potevo voltargli le spalle. Sto con lui perché, tanto tempo fa, quando ancora eravamo vivi e respiravamo, fra noi stava per nascere qualcosa. Sarebbe accaduto quella notte, a una festa, la festa a cui non sono mai arrivata. Poi tutto è cambiato, Hazel si è messa in mezzo, Stamp è stato debole – d’altronde, io ero stata crudele con lui – ed è andato tutto storto, finché il pericolo non è entrato in scena, perseguitandolo per colpa mia. Non si fanno rimettere le penne a uno per poi mollarlo per il ragazzo che ti ha baciata una sola volta, ma con un trasporto tale che ancora senti il suo sapore sulle labbra, e ancora ti chiedi se è accaduto davvero e speri con tutta te stessa di poter rivivere quel momento, di continuo, per sempre. Me lo ricordo perfettamente, ce l’ho impresso a fuoco nella memoria. Buffo pensare che Dane sia stato il primo a baciarmi, proprio quando mi auguravo che Stamp si decidesse a farlo. E l’avrebbe fatto eccome, se quella notte non fossi stata tanto stupida da uscire sotto la pioggia, morire, resuscitare e poi, be’, le cose si sono un tantino ingarbugliate e a quel punto tutta la storia del bacio è passata, come dire, in secondo piano, visto che, sì insomma, ero morta. E più tempo passavo da morta, più Dane faceva il carino. Più faceva il carino, più la confidenza fra noi aumentava. Da due siamo diventati tre e la piccola Maddy si è ritrovata prigioniera tra due fuochi. E, che Dio mi perdoni, ma ora – mentre Stamp mi tiene una mano con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino – allungo l’altra e prendo il braccio di Dane; lui sussulta per la sorpresa e lo fa in maniera così evidente che temo che Stamp se ne accorga. Ma no. Osserva placido il paesaggio che sfila fuori confortato dalla convinzione che io sono sua e lui è mio. Che diavolo succederà adesso? In uno strano silenzio, i minuti scivolano via e i chilometri scorrono lenti sotto le ruote del camper di Dane. Superiamo Palmetto Court imboccando Marlin Way, siamo quasi ai confini della città quando un furgoncino ci sfreccia accanto ai centotrenta all’ora sulla corsia opposta in direzione di Barracuda Bay. Dane guarda fisso nello specchietto retrovisore e, all’improvviso, altri due furgoni ci passano accanto a tutta birra. Lui preme l’acceleratore e ci allontaniamo in fretta. «Che succede?» chiedo lasciandogli il braccio mentre armeggia col volante mantenendo la velocità. A denti stretti, Dane risponde: «Erano Sentinelle». «Di già?» esclamo. Lui annuisce, poi dà un paio di colpetti sul giornale che ho rimesso sul cruscotto e risponde: «Ci sono interi squadroni di Sentinelle il cui unico compito è quello di tenere d’occhio titoli come questo. Sospettano qualcosa e mi dispiace dirlo, Maddy, ma quando parleranno con tuo padre e lui gli dirà che il tuo corpo non è stato ritrovato, faranno due più due e verranno a cercarci». «Per quanto?» domando con lo sguardo perso nell’oscurità che ci circonda. «Finché non ci troveranno.» Stamp si aggrappa forte alla mia mano. Dovrei sentirmi in colpa se non posso fare a meno di pensare che in quel preciso istante, stringere la mano di Dane mi avrebbe fatta sentire molto meglio? Dane preme sempre più sull’acceleratore catapultandoci nella notte, il più lontano possibile dalle Sentinelle. «Che succederà se ci prendono?» chiede Stamp dopo qualche minuto con lo sguardo vitreo, il viso teso in avanti e la mano abbandonata nella mia. Dane emette un sospiro lungo, amaro, sembra quasi che non si sia nemmeno reso conto di averlo fatto. Poi, come parlando fra sé, risponde: «Non lo so, Stamp. Non mi sono mai trovato nel mirino delle Sentinelle prima d’ora. Io e Chloe... noi abbiamo sempre obbedito alle leggi degli zombi, abbiamo sempre tenuto le Sentinelle al corrente dei nostri spostamenti, siamo sempre stati attenti a non fare passi falsi, finché...» Non riesce a terminare la frase ma so cosa stava per dire: finché non è arrivata Maddy e ha rovinato tutto. Ripenso alle persone che sono state morse, rianimate e poi uccise per sempre, solo per colpa mia: Hazel, la squadra di football, il Guasto, insegnanti come la Haskins, la Witherspoon e poi... Chloe. Ora ho l’occasione di aggiungere anche Stamp e Dane alla lista. Ho condannato le due persone a cui tengo di più al mondo, oltre a mio padre, ovvio. Prima ho coinvolto Stamp, poi ho spinto Dane a passare dalla parte del torto, inimicandogli le Sentinelle. «Mi dispiace» mormoro a voce così bassa che a malapena riesco a sentirmi. Dane invece mi sente benissimo e ribatte: «Non c’è niente di cui dispiacersi, Maddy». «Sì, ma...» «Sì, ma niente» taglia corto lui. «Non sei stata tu a scatenare la furia degli Zerker. Hanno iniziato a decimare le tue compagne di economia domestica e – a giudicare da come poi ti hanno perseguitata – probabilmente saresti stata la prossima vittima. Tu o qualcun altro. Forse non questa settimana, né il mese prossimo, ma presto avrebbero messo in atto il loro piano e io mi sarei ritrovato comunque qui, in questo camper, a guidare come un matto in autostrada per scappare da tutto questo casino.» Dopo un lungo silenzio carico di tensione e una decina di chilometri sull’autostrada deserta, Stamp dice: «È andata come è andata, ora siamo qui, tutti e tre insieme, giusto?». Si gira a fissare Dane finché quest’ultimo non annuisce deciso. Stamp mi osserva, mi sorride innocente, i suoi denti hanno già assunto una tonalità giallastra, la sua pelle è tre volte più pallida di prima e intorno ai suoi begli occhi nocciola si stanno formando delle occhiaie sempre più scure. Ricambio il sorriso, incerta. Nell’abitacolo la tensione si taglia col coltello, evitiamo di guardarci quando invece non desideriamo altro che un’occhiata d’approvazione da parte di chi ci sta più a cuore. Non so che dire, non sono mai stata brava in situazioni simili. Non ho mai avuto un ragazzo, figuriamoci due. E non so quanto ancora potrò resistere rassicurando uno ma desiderando segretamente l’altro. Il semplice fatto di non essere solo in tutto questo, sembra essere un motivo di conforto sufficiente per Stamp. Si schiarisce la voce, si raddrizza un po’ sul sedile e chiede: «Allora, dove stiamo andando?». Dane fa cenno con il mento verso il cruscotto e risponde: «C’è una cartina della Florida lì dentro. La tengo per le emergenze. Adesso mi sto dirigendo a sud senza una meta precisa. Cerco di allontanarmi il più possibile dalle Sentinelle, ma prima o poi dovremmo cercare un posto, meglio se grande e affollato, in cui nasconderci». Tiro fuori la cartina, la spiego e non ci metto molto a individuare i contorni lunghi e sinuosi della Florida, con la supervista notturna dei miei occhi giallo banana. Passo in rassegna qualche nome: «Miami potrebbe fare al caso nostro, è sempre piena di gente». Dane aggrotta le sopracciglia. «Sì, ma sono tutti belli e... abbronzati. Dobbiamo cercare un posto dove non diamo nell’occhio.» Il dito scorre ancora sulla cartina, quando Stamp salta su: «Prima di scegliere di trasferirci a Barracuda Bay, mio padre aveva ricevuto un’offerta di lavoro nelle Keys; più a sud di così non ce n’è. Non l’ha accettato perché, quando è andato a fare un sopralluogo, ha detto che era pieno di gente strana». Poi sorride e aggiunge: «Perfetto per noi». Dane annuisce, ma dopo aver cercato la città sulla mappa li avverto: «Guardate che si trova nella punta più a sud della Florida. Voglio dire, se le Sentinelle venissero da nord, resteremmo bloccati, senza via di scampo». Sia Dane che Stamp annuiscono. «Giusto, Maddy» esclama uno. «Non ci avevo pensato» fa l’altro. Ripercorro a ritroso lo Stato aiutandomi col dito e Dane suggerisce: «Che ne dite di un posto più centrale, lontano dalle coste, non troppo a sud? Un posto tipo...». «Orlando?» azzardo, e contemporaneamente punto l’indice sul nome della città. «È in posizione centrale, anzi è proprio nel mezzo, ha un aeroporto, una lista interminabile di hotel ed è pieno di turisti fra cui confonderci.» Dane non sembra troppo convinto, finché Stamp non dice: «Sì, sì, i miei mi hanno portato agli Universal Studios qualche anno fa. C’è tutta una sezione dedicata ai mostri e al trucco usato per film come La Mummia, Terminator, I fantastici quattro ecc. Potremmo cercare lavoro lì, far parte dello staff, e non avremmo nemmeno bisogno di nasconderci, dato che siamo già perfetti così». Dane si lascia scappare un sorriso. «I mostri che fanno i mostri. Mi piace. Maddy, abbiamo appena passato il chilometro 23 sulla statale 75. Quanto dista Orlando da qui?» Do un’occhiata alla cartina, finché non leggo Tampa. «Al massimo 70, 80 chilometri. Quando vedi l’indicazione per la statale 4 direzione est, prendila e – stando a quello che vedo sulla mappa – dovrebbe condurci dritti a destinazione.» Dane mette la freccia anche se a quest’ora non ci sono altre macchine in vista, si sposta sulla corsia di destra e pochi chilometri dopo imbocca l’uscita per la S-4. Le indicazioni per Orlando appaiono quasi subito e i cartelloni pubblicitari, meno di un chilometro dopo. Disney, Universal, SeaWorld e almeno un milione di hotel. Penso alla marea di turisti bruciati dal sole, in camicia hawaiana, sandali e calzini neri, macchine fotografiche a tracolla e cappelli da mare afflosciati sulla testa, e non posso fare a meno di sorridere. Ha tutta l’aria di essere il posto giusto in cui perdersi, un posto in cui la gente non fa troppe domande. Il posto ideale in cui un trio di zombi come noi può rifarsi una vita, lontano dagli occhi vigili delle Sentinelle. Almeno per un po’. Guardo Stamp, sorride, e sorride anche Dane. Almeno per un po’. Poi ci ricordiamo cosa siamo e il sorriso ci muore sulle labbra; la paura riaffiora. Fra un’occhiata e l’altra allo specchietto retrovisore, Dane mi fissa ostentando coraggio. Ma io conosco quegli occhi, vedo il terrore in agguato, e tutt’a un tratto, anche lui smette di fingere. Se non altro l’imbarazzo ha ceduto il posto al pericolo imminente delle Sentinelle armate che potrebbero già essere sulle nostre tracce. D’istinto mi scosto da Dane e lascio la mano di Stamp (è talmente in ansia che nemmeno se ne accorge). L’angoscia è sempre lì, sepolta in profondità ma non riesco ad affrontarla ora, qualsiasi cosa abbia in serbo il destino per me. Mentre le luci di Orlando fanno capolino all’orizzonte e i cartelloni ci promettono «divertimento assicurato» e «fuga dalla realtà», guardo i nostri giovani volti scarni ed emaciati che ai primi bagliori del giorno si riflettono sul parabrezza. Una nuova vita ci attende, ma il passato continuerà a perseguitarci. E, a giudicare dall’espressione sul volto di Dane, non dovrebbe metterci poi tanto a raggiungerci. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare le seguenti persone per il loro inestimabile contributo alla stesura di Zombies Don’t Cry. Prima fra tutti, Jamie Brenner della Artists & Artisans Inc., che era già a conoscenza di questo libro quando ancora s’intitolava Have a Nice Afterlife. Jamie mi ha insegnato il valore dell’intreccio e l’importanza di aver ben presente il pubblico a cui ci si rivolge. Mi ha anche insegnato che il tempismo è tutto e che scrivere un libro «senza tempo» è meglio che inseguire la moda del momento. Ringrazio poi la redazione della Medallion Press. Trovare un editore disposto a pubblicare il tuo libro non è impresa facile; trovarne uno a cui importi davvero qualcosa dei propri autori, considerati i tempi in cui viviamo, lo è ancora meno. Sono fiero di aver trovato nella Medallion una «casa» in cui i miei zombie fossero sempre i benvenuti. Ringrazio la caporedattrice, Lorie Popp, per avermi sempre incoraggiato, e soprattutto il direttore editoriale, nonché punto di riferimento, Emily Steele, che ha reso l’intero processo molto più semplice di quanto non fosse in realtà. Un ringraziamento va anche ai miei mentori ufficiosi su Facebook e Twitter. Sono troppi per essere riportati tutti, ma aver avuto la possibilità di discutere di scrittura, pubblicazione, e-book, stampa, presentazioni, lettere di candidatura, trame e caratterizzazione dei personaggi con gente che da sempre ammiro – e leggo – è stato di grande ispirazione. Si dice che quello dello scrittore sia un mestiere solitario, e per gran parte del tempo è così, ma i social network mi hanno spalancato un mondo e mi piace pensare che, se sono migliorato in quello che faccio, lo devo anche a questa contaminazione. Infine ringrazio la mia famiglia e miei amici che, volenti o nolenti, ora ne sanno più di quanto avrebbero mai voluto sugli zombi. Non mi stancherò mai di ascoltare i miei suoceri Helen e Gerry fare domande su terribili zombi mangiacarne o di vedere mia madre Colee cercare di convincere le sue amiche insegnanti a comprare un libro sui morti viventi solo perché l’ha scritto suo figlio. (Per non parlare di quando prova a persuadere mio padre Rusty senior del fatto che un libro sugli zombi starebbe proprio bene sugli scaffali del suo Rusty’s Raw Bar, visto che i crostacei vengono serviti crudi.) Hanno sentito parlare di questo libro per così tanto tempo che spero non rimangano delusi quando i morti finalmente si risveglieranno!