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SENTENZE CORTE DI CASSAZIONE
CASSAZIONE CIVILE, Sezione lavoro, sentenza n. 3920 del 20 febbraio 2007
E’ illegittimo il licenziamento senza giusta causa di un lavoratore il cui incarico di dirigente è
formalmente scaduto anche se, di fatto, continua a esercitare le stesse mansioni. In questi casi non
opera il principio secondo cui i vertici aziendali possono essere licenziati senza particolari garanzie. Con sentenza 3920 depositata il 20 febbraio 2007, la Cassazione ha respinto il ricorso di un
clinica privata che aveva licenziato un primario con incarico provvisorio, quando questo era scaduto.
FATTO
1. È domandata per due motivi la Cassazione della sentenza con la quale la Corte d'Appello di Milano ha confermato le decisioni di primo grado che avevano ritenuto privo di giusta causa o giustificato motivo il licenziamento intimato dalla Italia Hospital s.p.a. a B.G., primario di reparto, condannando il datore alla reintegra ed al risarcimento del danno.
2. Per ciò che rileva in questa sede la Corte territoriale ha rigettato l'appello ritenendo anzitutto
l'applicabilità della L. n. 300 del 1970, dato che al momento del licenziamento il B. non era più dirigente apicale, essendo da tempo scaduto il suo incarico da Direttore sanitario, come del resto era
inequivocabilmente previsto sin dal momento dell'assegnazione secondo quanto risultava dalla lettera 25 settembre 1998.
3. La Corte territoriale, esaminati gli addebiti, li ha poi ritenuti in parte infondati in parte irrilevanti.
4. Il B. resiste con controricorso.
DIRITTO
5. Il primo motivo di ricorso denunzia omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo
della controversia e violazione dell'articolo 112 c.p.c..
5.1. Si assume, sotto il primo profilo, l'assoluta apoditticità dell'affermazione secondo cui l'assegnazione al B. della categoria dirigenziale, quale direttore sanitario, avesse carattere temporaneo,
non essendo sufficiente a tale fine il rinvio fatto dalla semenza alla lettera 29 settembre 1998, poiché non era stato spiegato perchè ed in quale punto la lettera disponesse nel senso della provvisorietà di tale assegnazione di mansioni superiori.
5.2. Sotto il secondo profilo, sempre con riferimento alla lettera menzionata, si addebita alla Corte
di aver esaminato un documento allegato al processo ma sul quale le parti non avevano preso posizione e sulla base del quale non avevano svolto domande ed eccezioni, visto che il ricorso del B.
era fondato sul carattere accessorio delle mansioni di direttore sanitario e non sulla temporaneità
della relativa assegnazione.
6. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione dell'articolo 2103 c.c..
6.1. Si assume che la norma menzionata, non derogabile da pattuizioni contrarie, non consente una
assegnazione a mansioni superiori in via temporanea, sicché non sarebbe possibile, una volta ces-
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sato, il periodo di assegnazione dismettere la qualifica superiore, con le conseguenze inerenti anche ili ordine alla tutela invocabile in relazione alla qualifica ormai acquisita.
7. Il primo motivo deve essere disatteso.
7.1. Il ricorrente intende confutare da un lato l'interpretazione di un documento da parte del giudice di merito, e d'altro lato la sua utilizzazione in una direzione che nessuna delle parti aveva a suo
dire, prospettato. Il contenuto di tale documento non è stato però riprodotto nel ricorso.
7.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte qualora il ricorrente in sede di legittimità denunci
l'omessa valutazione di un documento ovvero di una prova testimoniale, il vizio di motivazione
può ritenersi sussistente soltanto nel caso di totale obliterazione del documento o di elementi deducibili dal documento, oppure dalla deposizione, che si palesino idonei a condurre - secondo una
valutazione che la Corte di Cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di verosimiglianza - ad una decisione diversa da quella adottata dal giudice di merito. Nella denuncia di questo vizio, il ricorrente ha dunque l'onere, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di riprodurre il tenore esatto del documento, ovvero della prova testimoniale, il cui omesso
esame è denunciato, riportandone il contenuto nella sua integrità, in modo da permettere siffatta
valutazione di decisività, essendo insufficienti i richiami "per relationem" agli atti della precedente
fase del giudizio, inammissibili in sede di legittimità. (Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405).
7.3. Questo principio oltrechè nel caso di mancata valutazione vale, ovviamente in quello di valutazione insufficiente o contraddittoria, trattandosi di giudizi che non possono essere formulati se
non mediante il confronto con il contenuto del documento valutato, la cui lettura è, infine, altrettanto indispensabile per accertare, mediante il confronto con le posizioni emergenti dagli atti difensivi, in qual modo le parti abbiano inteso avvalersi della produzione effettuata. In proposito
questa Corte ha infatti recentemente precisato che in sede di legittimità la denuncia di omessa valutazione di prove documentali comporta, per il principio di autosufficienza, non solo l'onere di
trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per Cassazione, al
fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze
che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l'irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi,
per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini
della decisione (Cass. 25 agosto 2006, n. 18056).
Quindi anche il secondo profilo del motivo, pur contenendo un principio astrattamente condivisibile, non può essere accolto.
8. Anche il secondo motivo è infondato.
8.1. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato che la dequalificazione, unilateralmente
operata dal datore di lavoro, del dirigente apicale a dirigente riconducibile alla "media" o "bassa"
dirigenza, mentre - costituendo inadempimento contrattuale - consente al dipendente la tutela risarcitoria e può costituire giusta causa di dimissioni, non muta il regime giuridico del licenziamento "ad nutum" proprio dei dirigenti di vertice dell'azienda, essendo la dequalificazione nulla "ex"
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art. 2103 c.c. Conseguentemente, non trovano applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 10, e le connesse garanzie procedurali di cui alla L. n.
300 del 1970, art. 7.
(Cass. 8 novembre 2005, n. 21673). Meno recentemente, ma nello stesso ordine di idee, si è anche
precisato che una volta acquisita da parte dell'interessato la qualifica di dirigente, non rileva, al fine di rendere applicabile la disciplina limitativa dei licenziamenti, la dequalificazione unilateralmente operata dal datore di lavoro, con l'assegnazione di mansioni non dirigenziali, data la nullità
a norma dell'art. 2103 c.c., di un siffatto provvedimento. (Nella specie il giudice di merito, con la
sentenza confermala dalla S.C., aveva ritenuto che al ricorrente era stata effettivamente attribuita
la qualifica, con le relative mansioni, di dirigente al vertice della gerarchia aziendale, quale direttore generale ed unico dirigente - senza che rilievo contrario assumesse la riserva al consiglio di
amministrazione del potere di assunzione del personale, peraltro su proposta del direttore generale
-, e che quindi fosse legittimo il suo licenziamento "ad nutum" anche in relazione all'art. 85
C.C.N.L., che invece richiedeva la giusta causa o il giustificato motivo per i dirigenti sottordinati).
(Cass. 28 ottobre 1997, n. 10627).
8.2 Nei casi di cui alle sentenze appena menzionate si trattava quindi di lavoratori che al momento
del recesso da parte del datore di lavoro rivestivano formalmente una qualifica dirigenziale ed erano stati licenziati quindi senza l'applicazione delle garanzie proprie dei dipendenti privi di tale qualifica.
8.3 Nel caso in questione la situazione è, per così dire, rovesciata, trattandosi di un lavoratore al
quale al momento del licenziamento, avvenuto secondo il procedimento previsto dall'articolo 7
dello Statuto dei lavoratori, era stato revocato ormai da diversi mesi l'incarico dirigenziale, senza
peraltro alcuna reazione da parte dell'interessato.
8.4. Il problema posto dal secondo motivo consiste allora nello stabilire se, stante il divieto di assegnazione a mansioni inferiori, stabilito nell'articolo 2103 c.c., e la nullità di qualsiasi patto contrario, si debba ritenere che il lavoratore avesse comunque mantenuto la qualifica dirigenziale e
potesse perciò essere licenziato secondo il meno favorevole regime della qualifica non validamente revocatagli.
8.5. La soluzione di tale problema va ricercata muovendo dalla considerazione che il comportamento del sanitario, nei termini accertati dal giudice di merito, è in sostanza qualificabile sul piano
giuridico come una rinunzia a far valere il diritto alla qualifica dirigenziale già acquisita, anche se
il giudice di merito non si è soffermato su tale profilo avendo ritenuto che l'incarico dirigenziale
fosse stato attribuito a termine.
8.6. Va quindi richiamalo il principio secondo cui le norme inderogabili statuenti un diritto a favore del lavoratore possono essere violate o da un atto (incidente sul cosiddetto momento genetico
del diritto stesso) che ne impedisca l'acquisizione o da un atto (incidente sul cosiddetto momento
funzionale) dispositivo del diritto già acquisito dal titolare, configurandosi nella prima ipotesi la
nullità e nella seconda ipotesi la annullabilità del negozio compiuto in violazione di dette norme.
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In particolare, in tema di mansioni e di qualifiche, la nullità di ogni patto contrario, sancita dall'art.
2103 c.c., u.c., deve essere riferita ad ogni regolamento contrattuale (collettivo o individuale) anteriore alla nascita dei diritti considerati dalla norma, mentre le rinunzie e le transazioni relative a
violazioni di diritti già acquisiti dal lavoratore sono colpite dall'invalidità (configurabile non come
nullità ma come annullabilità) comminata dall'art. 2113 c.c., comma 1, e, benché riguardanti diritti
indisponibili, debbono quindi essere impugnate con le modalità e nei termini previsti dai successivi commi dello stesso articolo. (Cass. 24 gennaio 1987, n. 672).
8.7 In applicazione di esso è stato infatti stabilito che il lavoratore che abbia rinunciato alla qualifica dirigenziale già acquisita ed abbia smesso di svolgerne le relative mansioni, pur conservando il
precedente trattamento retributivo dopo il passaggio alle mansioni inferiori, può essere licenziato
(ove non sia intervenuta la caducazione di tale rinuncia, che non è nulla ma annullabile, ai sensi
dell'art. 2113 c.c., su impugnazione del solo lavoratore) soltanto per giusta causa o giustificato motivo, ancorché per fatti riferibili ad epoca in cui il lavoratore medesimo era dirigente, dovendo la
tutela applicabile essere individuata con riguardo al posto ricoperto dal lavoratore all'epoca del licenziamento, dato che in tale posto - e non in quello (dirigenziale) precedentemente occupato - egli sarebbe reimmesso in caso di accoglimento dell'impugnazione del recesso. (Cass. 17 gennaio
1992, n. 565). D'altra parte anche la cit. sentenza 28 ottobre 1997, n. 10627, non ignora il rilievo di
una siffatta rinunzia, dato che nel rigettare come non decisivo un motivo di ricorso, del dirigente
licenziato, concernente la produzione di un documento relativo alla eccezione di nullità della dequalificazione, ha osservato a sostegno della ritenuta mancanza di decisività che neppure con il ricorso il lavoratore aveva sostenuto di aver rinunziato alla qualifica di dirigente o di aver accettato
la riqualificazione.
8.8. Ne deriva che, nel caso ora in esame, in assenza di impugnativa della rinunzia da parte del lavoratore esclusivamente legittimato ad essa, il datore di lavoro non poteva certo far valere, in proprio favore, l'invalidità del proprio atto negoziale di revoca dell'incarico dirigenziale al dipendente.
9. Correttane in tali sensi la motivazione, la decisione impugnata deve ritenersi pertanto conforme
a diritto.
10. In conclusione, il ricorso dev'essere rigettato con condanna della ricorrente alle spese, liquidate
come in dispositivo.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente alle spese in Euro 26,00 oltre ad Euro 3.000,00 per
onorari, nonchè I.V.A., C.P.A. e spese generali.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2006.
(Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2007)
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