Un tappeto di pietre su cui inginocchiarsi

Transcript

Un tappeto di pietre su cui inginocchiarsi
IMP. SETTEMBRE_italiano.qxp 18/08/15 17.02 Pagina 14
LA BASILICA DI SANT'ANTONIO
di Alfredo Pescante
Un tappeto di pietre
su cui inginocchiarsi
I pavimenti della Basilica non rappresentano una peculiarità,
al pari di quelli delle chiese veneziane o delle antiche basiliche
romane, ma vantano dignità, bellezza e storia da riscoprire.
«
14
P
ochi oggi avvertono che i pavimenti cosí belli e preziosi sono
fatti anche per le ginocchia dei
fedeli: un tappeto di pietre su
cui prostrarsi davanti allo splendore
dell’epifania divina»: cosí ha scritto
mons. Marco Agostini, cerimoniere
pontificio. Se pensiamo che una volta
le chiese erano sgombre dai banchi allora è chiaro perché
le pavimentazioni,
nate per isolare dal
freddo e dall’umidità, fossero ricche,
fin dai primi tempi
del cristianesimo, di
marmi preziosi colmi di figurazioni richiamanti
pagine
dei Vangeli o dell’Antico Testamento. I fedeli, percorrendo il pavimento,
dall’ingresso all’altare maggiore, avevano modo di meditare momenti di vita
cristiana.
I pavimenti delle
nostre chiese, facendo ricorso a materiale pregiato, strappato spesso a ville patrizie, templi pagani
o palazzi pubblici
romani, non ostentano lusso, manifestano invece la luce
del mistero che rifulge dall’altare e
la grandezza della
misericordia divina. È bene tornare a
riammirarli per immergerci nel divino.
«Davanti ad alcuni verrebbe da togliersi le scarpe come fece Mosè davanti a
Dio che gli parlava dal roveto ardente».
Nulla nell’arte è lasciato al caso e
cosí materiale, colori e disegni richiamano a significati codificati dalla storia
e dalla religione. Di tutti i nostri edifici
religiosi anche il materiale piú semplice, oltre che da caratteristiche di econo-
micità e di facile reperibilità, viene individuato perché trasmette quel di piú
che ci rapporta con l’aldilà. La sorpresa, con un po’ di pazienza, irrompe anche dai pavimenti.
Anche nella nostra Basilica emerge
l’oculata scelta dei frati nei pavimenti
che prevedono, se non il collegamento
all’architettura, la divisione secondo
aree liturgiche e la focalizzazione su
punti centrali.
entriamo in Basilica
Dal tempio antoniano, specie agli albori, non dobbiamo attendere mirabilia.
Dapprincipio, a partire dalla chiesetta
della Madonna Mora, ove officiò
sant’Antonio, la superficie di calpestio
doveva risultare in terra battuta. Il miracolo del ritrovamento della Lingua
incorrotta del Santo (1263) “costrinse”
i frati a nobilitare il pavimento, posando pietre cotte. A partire dal ’400 subentrò il marmo di buona qualità, per
esplodere, alcuni secoli dopo, nei ricchi
materiali provenienti non piú dal solo
Veneto ma dalle cave di mezza Italia,
IMP. SETTEMBRE_italiano.qxp 18/08/15 17.02 Pagina 15
originanti una croce a bracci eguali,
inscritta in un quadrato. Il piano di
calpestio dell’altare del Santissimo,
disegnato da Ludovico Pogliaghi negli
anni trenta del secolo scorso, è di pregiato marmo rosa, su cui spuntano
conchiglie, il tutto contornato da marmo bianco e nero.
policromi e fini nelle ornamentazioni.
Nel tempo, l’impiantito, usurato dal
continuo calpestio dei fedeli, venne rinnovato piú volte, talora non rispettando
il disegno originale.
In una giornata di sole, il suolo della
navata centrale (a sinistra) sgombra
da banchi e con poche presenze umane,
stupisce per la bellezza del pavimento
che nei suoi tre semplici colori, bianco,
rosso e nero, mena diritto all’altar maggiore. I vari quadri che lo compongono,
inneggianti alla croce, or nera or rosata,
quasi senza accorgerci, trascinano alla
visione del Crocifisso donatelliano, capolavoro d’arte e oggetto di meditazione che consente di ammirare i momenti
del volto di Cristo: sofferente, quasi a
digrignare i denti, e sereno, nell’abbandono alla volontà del Padre.
Anche le navate laterali, separate
dalla principale da una striscia marmorea fra i pilastri, ripetono, fino all’altezza del deambulatorio, lo stesso disegno,
che, osservato in orizzontale e in diagonale, permette d’immaginare movimenti e suggestioni, nate dagli occhi o dal
cuore, non legati al progetto dei marmorari.
Il piú antico pavimento è quello
che accompagna le cappelle radiali, a
riquadri bianchi e rossi, colori del Comune di Padova, posti “a scacchiera”;
motivo, assieme al terrazzo, raccomandati dal Palladio per le chiese. Fu il ricco Pietro Casale a disporre nel testamento del 1405 che, vendute le sue proprietà, col ricavato fosse pavimentata la
chiesa di Sant’Antonio, “sostituendo il
suolo di mattoni logori con lastricato in
quadri alternati in marmo bianco e rosso di Verona”. L’intervento, affidato ai
padovani Mainardo e Giacomo, iniziò
nel 1424 e si protrasse fino al 1435
quando fu liquidato delle sue competenze il fiorentino Piro. Quest’opera,
che ingloba alcune lastre funerarie,
contornate da cornici, conobbe l’insulto
dei secoli, specie quello dell’incendio
del 1749 quando numerosi quadri danneggiati furono sostituiti.
I piani di calpestio di sei delle otto
cappelle radiali ripetono il motivo bicromo a scacchiera e sono opera (1744)
di Antonio Fasolato, mentre quelli dei
Santi Stefano e Bonifacio vantano disegni elaborati, d’inizio ’900, prodotti
dalle maestranze della ditta padovana
Toninello.
Forse non è un peccato che la cappella della Madonna Mora e quella
del Belludi conservino pavimenti semplici: nei tre colori classici la prima e a
marmo verde la seconda, opere
dell’800, esaltano cosí lo spirito di
francescana sobrietà.
Un accenno alle cappelle di San
giacomo, di Santa Chiara e del Santissimo. La prima, nata con pavimento
a quadri bianchi e rossi, mutò a mezzo
’800, grazie a Michel Angelo Ferrari,
nei colori bianco, rosso e nero, presentando la figurazione a rettangoli prospettici, generanti svariati intrecci di
disegni. Il tricolore pavimento della
seconda, d’ispirazione sansoviniana,
opera di fine ’800, presenta dei quadrati con al centro un tassello nero,
il Presbiterio e
le cappelle dell’Arca e del tesoro
Autentico capolavoro di pavimentazione è quello della Cappella che conserva i reliquiari antoniani (a lato), realizzata su pianta ellittica e preceduta da
un atrio. La luce che penetra dai finestroni rende caleidoscopica la superficie di battuta e quasi dispiace sfiorarne
i tasselli nei colori bianco, verde, giallo, rosso, nero, cenerognolo, disegnati
con variata simmetria e piacevole
gaiezza. Nel 1707 gli artisti chiamati al
progetto, che doveva rifarsi al pavimento dell’altar maggiore, formante disegni esagonali concentrici, presentarono diversi elaborati; fu scelto quello del
patavino Giovanni Bonazza che si serví
di numerosa maestranza, impiegando
lastre dalle cave di Bassano e marmi
colorati da Venezia, al cui porto affluiva materiale d’ogni parte. Nel 1711 Bonazza diede vita anche all’atrio della
cappella. Fantasmagorico il rosone centrale che, nell’architettura, indicava una
soprastante cupola.
Il pavimento del presbiterio, nella
porzione del coro, è a marmi bianchi e
rossi, mentre complesso risulta quello
che racchiude la zona antistante e circonda l’altare, simile a quello della
cappella del Tesoro, arricchito di porzioni marmoree nell’ingresso delle
quattro porte del presbiterio, che disegnano stelle a dodici punte. Già nel secolo XV a marmi bianchi e rossi, nel
1654 fu mutato nell’attuale conformazione e colori da Giuseppe Sardi, su disegno di Lorenzo da Reggio. Risistemato dal Fasolato dopo il 1749, fu rifatto nel 1963, conservandone disegni e
colori, coll’impiego di materiali affini e
di maggior effetto.
Chi ammira i delicati colori bianco
di Carrara, bardiglio e verde di Polcevera nel pavimento della cappella dell’Arca che dispiega tredici moduli figurati a stella di diciotto petali? I devoti
son tutti presi dal posare la mano alla
verde Tomba del Santo, invocandone la
protezione, e il pavimento, settecentesco nella formulazione, rifatto piú volte
nei secoli, sfiorandoli, li solleva verso
il Cielo.
l
15