Da Parigi verso itaca, ultimo approdo del teatro

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Da Parigi verso itaca, ultimo approdo del teatro
teatromondo
Da Parigi verso Itaca,
ultimo approdo del teatro
La stagione primaverile parigina favorisce il racconto di avventure umane, prima ancora che teatrali: il dramma
dei migranti di Lampedusa e le frontiere incontaminate dello Yukon, evocate da Lina Prosa e Sarah Berthiaume, o ancora la tournée del Théâtre Aftaab, il “Sole” afghano che risplende grazie all’impegno di Ariane Mnouchkine.
di Giuseppe Montemagno
S
ede privilegiata dell’impossibile, il teatro da sempre racconta ciò che non
è ma potrebbe essere, ciò ch’è precluso alla ragione ma permesso al sentimento, valicando distanze incolmabili sol che si
alzi il velario. La stagione primaverile parigina è
stata prodiga di questi mirabolanti viaggi verso
un’Itaca dell’anima, non plus ultra vagheggiati
ma irraggiungibili, mete immaginarie perché remote ma necessarie.
Itaca come Lampedusa, per salutare il debutto alla Comédie Française della drammaturga
italiana Lina Prosa. Nella versione epica eppur
poeticamente misurata di Jean-Paul Manganaro, Lampedusa Beach racconta non già di un
viaggio, bensì della sua ultima fase: una carretta di mare, partita dalle coste africane, naufra-
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ga proprio mentre l’isola siciliana già si profila
all’orizzonte, «un punto azzurro sulla costa più
alta», «una piccola palma davanti la casa più vicina alla costa, si direbbe la ciocca di capelli di
una regina cresciuta a latte di cocco». Shauba,
una ragazza partita alla scoperta dell’Italia, inutilmente si aggrappa agli occhiali da sole, l’unico bagaglio consentito, quasi fossero una scialuppa di salvataggio. È partita seguendo i saggi
consigli di Mahama, una zia che è anche la memoria storica del paese e l’accorta organizzatrice di un futuro possibile solo altrove, di là dal
mare, nel paese da cui provengono le cartoline
d’innumerevoli adozioni a distanza, passaporti per coscienze monde da responsabilità. Poi
sarebbe stato un viaggio difficile, sotto un sole cocente, una piramide di corpi accatastati e
violentati da trafficanti senza scrupoli; quindi
un primo impiego in una famiglia capitalista,
poi baby-sitter e magari addirittura segretaria e
informatica: ultimo desiderio di un Icaro pronto a farsi hacker per sovvertire l’ordine costituito. E invece Shauba vive la tragedia di una
solitudine rumorosa, di un dramma collettivo
ignorato da due continenti che – se solo una
delle portentose macchine di Leonardo fosse
riuscita a risucchiare tutta l’acqua del mare –
sono legati l’uno all’altro da un misterioso, eppur ineludibile cordone ombelicale, un deserto
di sabbia che si estende da una costa all’altra.
Immobile in scena, un secchio d’acqua al suo
fianco, un paio di occhiali da sole che ne occultano lo sguardo, Jennifer Decker è l’immagine
stessa del rigore nel corso di un monologo in
teatromondo
crescendo: perché più s’immerge negli abissi,
più fa emergere un grido di rivolta, squaderna
una geografia (im)possibile e visionaria, che restituisce appieno il senso di una scrittura in versi, intrisa di mito perché impastata della terra e
dell’acqua di un mare che non è più nostrum ma
terribile, famelico monstrum. Benché difficilmente comprensibile dal pubblico francese, lo
spettacolo di Christian Benedetti si chiude con
un autentico, vibrante colpo d’ala: Lu pisci spada, dalle note di Modugno, si spegne sulle labbra di Shauba, uccisa dal pedaggio della libertà, arpionata sull’estrema spiaggia del dissenso.
Più vasto della vita
Itaca come lo Yukon, ai confini del mondo occidentale – e occidentalizzato – dove l’immaginifica, densa scrittura teatrale di Sarah Berthiaume riunisce i destini dei protagonisti di Yukonstyle, un quartetto di argonauti del nord, figli
del sole di mezzanotte in fuga dal mondo: Yuko (Cathy Min Jung), una giapponese in cerca dell’unico luogo dove ancora non siano arrivati i suoi connazionali; Kate (Flore Babled),
una Lolita alle prese con il tentativo di abortire
il frutto di un incontro fugace su un autobus
che attraversa il continente coast to coast; Garin (Dan Artus), un giovane disoccupato e misantropo che deve fare i conti con un’infanzia
negata e, soprattutto, con l’assenza di una madre amerindiana, vittima delle politiche di “assimilazione” praticate nel dopoguerra; e Dad’s
(Jean-Louis Coulloc’h), il padre di quest’ultimo,
alcolizzato e affetto da un delirium tremens che
lo porterà a un triste quanto inevitabile epilogo. Sul palcoscenico della Colline – che sempre
più si accredita, grazie alla direzione di Stéphane Braunschweig, come il teatro di ricerca più
innovativo della capitale – la giovane regista
Célie Pauthe ha mano particolarmente felice
nell’assemblare i frammenti di una storia che,
inizialmente ambientata nel monolocale disegnato da Guillaume Delaveau, progressivamente si schiude alla vastità di un territorio larger than life, penetrando nel passato dei protagonisti, in quei grumi di non detto che vengono esplicitati, condivisi, risolti. L’alternanza tra
introspezione e azione viene valorizzata dall’adozione di registri linguistici volutamente contrastanti: un francese letterario, poetico, abitato dal soffio panico della natura per la prima, una lingua più quotidiana e arricchita da
idiotismi – americani o del Québec – per la seconda. Dall’inverno alla primavera, complice il
volo di un corvo di ascendenze mitiche, questi
cercatori dell’oro nell’esistenza di tutti i giorni
riusciranno a ricomporre i cocci di una famiglia
per caso, stelle di una notte polare che alla fine
risplende limpida e consolatoria.
Ma Itaca può anche essere la porta accanto.
È quanto tenta di dimostrare Philippe Minyana, una delle voci più interessanti della drammaturgia contemporanea francese, in Cri et
Ga cherchent la paix (Cri e Ga cercano la pace), scritta per il talento teatrale di Christophe Huysman e Gaëtan Vourc’h – il titolo allude infatti alle rispettive iniziali – e affidata dal
Théâtre du Rond-Point alle cure registiche di
Frédéric Maragnani. Nel mezzo del cammino
delle loro vite, i due amici raccontano una serie
di vicende on the road, seguendo una sorta di
Stationendrama irriverente e burlesco, liberamente ispirato ai numeri del music-hall. Vicino
ai meccanismi della fiaba, il testo abusa però
di inconcludenti nonsense, limitandosi a mettere in luce la clownerie sorniona e beckettiana dei due pur validi interpreti: troveranno la
pace nel confronto con un’anziana signora che
muore serenamente, con occhio disincantato
sui misteri della vita.
La Cartoucherie a Kabul
Oppure Itaca è lontanissima. Per il Théâtre du
Soleil di Ariane Mnouchkine – ormai prossimo
al cinquantennio di attività nella luminosa sede della Cartoucherie, nel bosco di Vincennnes – coincide con Kabul, capitale dell’Afghanistan, che dal 2005 ospita dapprima uno stage, quindi la formazione di una compagnia, il
Théâtre Aftaab en voyage (il termine vuol dire
“sole” in persiano dari). Da allora sono nate otto produzioni, creazioni collettive capitanate da
Hélène Cinque, ora regista de La ronde de nuit (La ronda notturna), uno degli spettacoli più
emozionanti e coinvolgenti finora creati sotto
l’ala protettiva della Mnouchkine. Tutti afghani
ma ormai naturalizzati al francese, i venti attori evocano le disavventure in cui incorre Nader,
assunto come guardiano di notte in un teatro
– che guarda caso coincide con la Cartoucherie e i suoi dintorni. Certo non poco disturbano le presenze esterne: un clochard autorizzato a venire a fare la doccia se non è (come è)
ubriaco, una locataria che fa i turni di notte in
un cabaret, una prostituta che capita proprio
durante il collegamento con la famiglia d’origine, indignata nel constatare la depravazione
dei costumi occidentali. E se si ride di cuore di
fronte alla capacità di raccontare lo scontro tra
le due culture, altrettanto fa pensare l’irruzione di un gruppo di migranti, che si accampa per
una notte prima di transitare a Londra. Lutti e
separazioni, violenze e massacri, fantasmi del
passato e memorie di guerre, canti afghani, riflessioni sulla politica internazionale e sul ruolo
strategico giocato dalla Francia, da sempre paese d’accoglienza («È per questa bella donna dai
seni nudi che sono venuto fin qui!», sbotta uno
di loro, osservando la Marianna di Delacroix)
punteggiano una notte agitata da sogni, apparizioni oniriche che si profilano mentre la neve
cade incessante. Occidente e Oriente si ritrovano così a convivere, sotto il pallido sole della
ghost lamp di un teatro, tra cattedrali di valigie,
maschere balinesi ed elementi scenici, la documentazione di un teatro che ha raccolto «tutti
gli archivi del mondo» e ne ha fatto il soggetto
di un’avventura che è teatrale e umana al tempo stesso. Per uno strano caso del destino, Nader e i suoi amici salveranno la sala da un incidente che rischia di essere fatale: e solo allora ti
accorgi, con loro, che il teatro è diventato non
luogo di esilio ma di asilo, rifugio e Terrasanta
di un domani utopistico ma non irrealizzabile o
irraggiungibile.
Come Itaca, ultimo approdo del sogno e della
speranza. ★
In apertura, una scena di Yukonstyle (foto: Elisabeth
Carecchio); in questa pagina, Jennifer Decker
in Lampedusa Beach (foto: Cosimo Mirco Magliocca).
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