Tunisia 2011
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Tunisia 2011
Tunisia 2011 Antefatti e testimonianze a cura di DARIA SETTINERI con la collaborazione di Abderrazek Dridi ACHAB Tunisia 2011 Antefatti e testimonianze a cura di DARIA SETTINERI con la collaborazione di Abderrazek Dridi ACHAB D. Settinieri (a cura di), Tunisia 2011. Antefatti e testimonianze, con la collaborazione di A. Dridi, Achab - Rivista di Antropologia, testo reperibile sul sito: www.achabrivista.it, Milano, 2011. Le immagini in prima e quarta di copertina sono di Abderrazek Dridi. 2 Indice Premessa di Daria Settinieri ........................................................................................................................ 6 Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili............................................................................. 12 Questioni di Abderrazek Dridi ................................................................................................................... 13 Il 7 novembre 1987 ................................................................................................................................. 14 L’elezione del 1989 e il primo mandato ................................................................................................. 17 L’ elezione del 1994 e il secondo mandato ............................................................................................. 18 L’ elezione del 1999 e il terzo mandato .................................................................................................. 19 L’elezione del 2004 e il quarto mandato ................................................................................................ 20 Le elezioni 2009 e il quinto mandato ..................................................................................................... 21 Apertura economica e chiusura politica di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri. .................................... 22 Il matrimonio che ha cambiato il destino di un Paese .......................................................................... 27 Chi è Leila Trabelsi................................................................................................................................. 29 Il sistema e la sua faglia ......................................................................................................................... 32 Ma cos’è successo quel giorno? di Abderrazek Dridi ............................................................................... 39 TESTIMONIANZE................................................................................................................................... 45 Sognando la rivoluzione di Noaman Beji ............................................................................................... 45 I doveri della rivoluzione di Hager Daly................................................................................................ 66 E ho pianto di Nidal Khef ....................................................................................................................... 71 Finalmente giornalista! di Nabila Abid ................................................................................................. 79 La rivoluzione a distanza di Hamza Dridi e Hela Gaieb........................................................................ 85 Eppur si parte di Daria Settinieri ............................................................................................................... 93 Qualche osservazione ............................................................................................................................. 96 E ora? di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri............................................................................................ 99 L’Egitto come la Tunisia? .................................................................................................................... 102 E gli altri Paesi nordafricani?.............................................................................................................. 103 Metà marzo 2011, considerazioni parte prima: rompere con il passato, investire nella democrazia di Abderrazek Dridi ....................................................................................................................................... 106 Ultimi giorni di aprile 2011, considerazioni parte seconda: Sviluppi prevedibili? di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri.......................................................................................................................................... 109 Suggerimenti per un approfondimento.....................................................................................................114 3 L’idea da cui è nato questo libro è semplice: raccogliere storie di vita, pensieri, riflessioni di quanti hanno partecipato, in prima persona o da lontano, ai giorni della rivoluzione tunisina e di quanti ne hanno beneficiato. Queste memorie personali occupano, nel testo, l'intera seconda parte, chiamata appunto Testimonianze. Nella prima parte, invece, tento di delineare il quadro politico, sociale ed economico della Tunisia dal 7 novembre 1987 a oggi. La terza e ultima parte, infine, è occupata da una riflessione sulla rivoluzione alla luce dei recenti fatti avvenuti in Tunisia ma anche in Europa, per la conseguente recrudescenza degli sbarchi sull'isola di Lampedusa. Ho vissuto con particolare trepidazione i giorni in cui scoppiavano i moti in Tunisia1. Sapendo dei rischi che avrebbero corso i miei amici qualora, nelle nostre conversazioni telefoniche, avessi chiesto informazioni precise sull’andamento delle cose, mi sono limitata a chiedere se stessero bene in salute2. Sapevo bene che le mie preoccupazioni non erano eccessive. C’è da dire che, anche in questi giorni di teorica libertà post-dittatura, quando, al telefono, si arrivava a parlare troppo nello specifico con alcune persone particolarmente coinvolte, talvolta la comunicazione stranamente si interrompeva e i telefoni diventavano improvvisamente irraggiungibili. Il dubbio che ancora qualcosa tramasse credo sia lecito. Ad alcuni degli autori di queste testimonianze sono legata da lunga amicizia e l’idea che potessero raccontare la propria storia, finalmente ad alta voce e senza timore, direttamente dalla Tunisia, mi ha reso 1 Non sono stata, in questi mesi, in Tunisia e, dunque, gli scambi con le persone che mi hanno aiutato a elaborare questo testo, sono avvenuti grazie alla posta elettronica e a skype. Soltanto con due autori delle testimonianze mi sono incontrata di presenza in questi mesi. Si tratta di Noamen Beji, che abita a Palermo, e di Nabila Abid, con cui sono andata a Lampedusa. Conosco la Tunisia perché a lungo vi ho svolto le mie ricerche etnografiche. 2 Il regime ha sempre tenuto sotto controllo sia le linee telefoniche sia la rete e molti erano i siti oscurati. 4 particolarmente amato questo progetto. Mi è sembrato un bel modo per ricucire i fili interrotti nel tempo, ma che, per mille ragioni, mi legano ancora alla Tunisia. Spesso nei racconti si noteranno toni enfatici e retorici che a noi potrebbero stridere. Credo, però, che anch’essi siano un’interessante testimonianza di atteggiamenti e aspettative. Sarà importante notare come i giornalisti tunisini, non abituati al nuovo tipo di informazione che si trovano a poter fare, gestiscano le loro competenze, soprattutto in campagna elettorale. Un instant book. Nessuna pretesa di completezza d’argomentazione, né di sufficiente analisi. Una voce, una testimonianza immediata di quella che è stata ribattezzata in occidente la “rivoluzione del gelsomino” e chiamata dai suoi artefici “rivoluzione per l’indipendenza”. Un ringraziamento particolare va ad Abderrazek Dridi, amico fraterno, che in un momento storico particolarmente impegnativo ha trovato il tempo di curare con me un testo che fosse comprensibile a un pubblico non esperto di storia della Tunisia. Ringrazio anche Noaman Beji per aver voluto ricostruire con me anni dolorosi della sua militanza politica di cui aveva deciso di non parlare più. Un ringraziamento a tutti gli altri autori per aver voluto condividere la loro dolorosa e gioiosa esperienza mettendo a nudo anche le proprie responsabilità. Ho tradotto quasi sempre molto fedelmente il testo e laddove (raramente) alcuni periodi o espressioni idiomatiche non rendevano in italiano quanto si sarebbe voluto esprimere, ho discusso con gli autori della possibilità di modificare il testo francese. L'ultima delle testimonianze (“La rivoluzione a distanza”) di Hamza Dridi e Hela Gaieb è stata tradotta dall'inglese. Ho inserito in nota l’esplicazione di tutte quelle informazioni storiche e sociali che potrebbero risultare poco chiare a un lettore non avvezzo alla questione nordafricana. D. S. 5 Premessa3 Avrò avuto cinque o sei anni quando sentii parlare per la prima volta della Tunisia. Era d’estate e trascorrevo i miei giorni felici su uno di quei lembi di costa siciliana tanto vicini all’Africa da sembrare Africa essi stessi. La curiosità bambina di saper come si abitasse al di là del mare mi induceva a incantarmi nell’ascolto, seppur incomprensibile, di una lingua che pescatori del mediterraneo avevano forgiato in secoli di scambi. Cosa fosse una colonia, una guerra d'indipendenza, un presidente a vita che stava invecchiando, non erano concetti di facile comprensione per la bambina d’allora. La quale preferiva sognare i luoghi di ambientazione delle sue favole piuttosto che capirne qualcosa. Ma alla conclusione dell’anno 1987 ero meno bambina e qualche infarcimento di storia e geografia ormai l’avevo. Succedeva, nella vita al di là del mare, quello che ormai intuivo dai banchi di scuola. Felice che accadessero cose nel significato delle quali ormai mi orientavo, nell’estate successiva ascoltavo con più gusto i commenti dei pescatori tunisini e siciliani nonché degli adulti che mi circondavano. Ma ben altre erano le urgenze dell’età, e il proposito di capire di politica fu soppiantato da più imminenti e allettanti avvenimenti. La Tunisia al di là del mare rimase un pensiero lontano cui di tanto in tanto tornavo. Quand’ebbi, però, la possibilità di trascorrere nei luoghi dei miei sogni di bambina il tempo della mia prima esperienza di campo etnografico, la cosa mi emozionò non poco. Era l’alba del nuovo millennio e il presidente del colpo di stato del 1987 continuava ancora a essere lo stesso. Seppur le mie ricerche etnografiche riguardassero diverse istanze, le vicissitudini delle persone che incontravo erano talmente legate alla storia politica del Paese che fu inevitabile che anch’io finissi col farvi i conti nel dettaglio. E non fu cosa facile. Allo stordimento emotivo per il fatto che il paesaggio in cui mi muovevo era connotato dalla presenza orwelliana delle immagini del 3 Di Daria Settinieri. 6 presidente, si aggiungeva lo sgomento di respirare un’aria pregna di terrore, in cui si calibrava anche il peso del non detto. Le pratiche del terrore hanno ripercussioni sulle politiche di (auto)gestione del corpo. Cercando di tornare indietro con la memoria, mi pare di ricordare che fosse questo l’aspetto che più mi colpiva della dittatura. Le posture che i corpi assumevano quando si trattavano certi argomenti; i modi in cui ci si muoveva negli spazi, caffè o negozi, in cui troneggiava la gigantografia del presidente che, il volto disegnato in un benevolo sorriso, guardava chi si spingeva attorno al suo simulacro. Le scelte di resistenza attraverso il corpo si praticavano spesso nell’intimità domestica. Penso allo stupore che inizialmente provavo quando alcune ragazze che a scuola andavano a capo scoperto, si velavano poi in casa, da sole. Una rivalsa che in qualche modo si sentiva la necessità di perpetuare. A monito, affinché si conservasse il ricordo di una possibilità di autonomia. In questa direzione ho sempre pensato si potesse leggere l’uso che, in alcuni contesti, si faceva del velo. Una lotta su basi ideologiche, profondamente antitetiche a quelle apparentemente immaginabili, si celava dietro la scelta di indossare, negli spazi intimi, quel velo per cui si era perseguitati in quelli pubblici e dietro quella di indossare, in questi ultimi, alcuni tipi di copricapo4. D’altronde, il memento dei diktat stava in tutte quelle fotografie che ricordavano la presenza costante di occhi giudicanti su ogni cittadino. Come dimenticherò mai la sensazione suscitatami, lungo la 4 Mi rendo conto che liquidare la questione sul velo in così poche battute può sembrare quantomeno riduttivo. Il velo ha un valore polifunzionale rappresentativo di più ambiti simbolici Per quanto riguarda la Tunisia, il velo oggi portato da molte ragazze che ho incontrato si differenzia notevolmente da quello portato dalle loro nonne (e che aveva un corrispettivo nella chechia, copricapo maschile) che già nella seconda metà del Novecento però il movimento femminista, nato subito dopo l’indipendenza, iniziò a contestare. Il tipo di velo di cui parlo è quello utilizzato in Tunisia a partire dagli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, legato, dunque, alla nascita del primo movimento integralista strutturato di radice wahabista e che dovrebbe rappresentare (e per alcune rappresenta) l’adesione a tale movimento. Molte sono però le donne con cui ho parlato per le quali il velo, a prescindere dalla sua origine, ha rappresentato un veicolo di resistenza al regime. Così come ha rappresentato, e rappresenta, una rivendicazione sociale rispetto a una globalizzazione che tende a non tener conto delle istanze dei Paesi arabi. 7 strada che collega Tunisi a La Goulette5, da quell'immensa immagine, la prima che saltava alla vista, che occupava buona parte del panorama? O come dimenticherò lo sgomento, entrando in un locale, per il fatto che la prima persona a ricevermi fosse ogni qual volta il presidente, la cui foto troneggiava sempre, spesso a mo’ di altarino, all’ingresso? Come non aver la sensazione che le sue orecchie e i suoi occhi accompagnassero in ogni momento le mie parole, i miei gesti? Come non immaginare di dover tenere sempre un posto vacante e stoviglie pulite per l’uomo davanti alla cui immagine mangiavo e bevevo? Come non pensare alle teorie sullo stato assoluto dei filosofi studiati a scuola o a quelle di più recente storia? Che lo stato capitalista neoliberista si fondasse su principî di violenza strutturale e di bio (e thanato) potere mi era sufficientemente chiaro6. Vivere in uno spazio in cui questi principî fossero gli unici praticati, uno spazio-nazione di matrice dittatoriale a ispirazione neoliberista, è stato ancor più difficile da praticare. La mancanza di margini per la negoziazione può diventare asfissiante. Non sto qui sostenendo che il modello democratico occidentale sia l’unico perseguibile o, men che mai, che esso vada esportato a forza. Sostengo certamente che l’impossibilità di creare degli interstizi di pubblica fruizione in cui manifestare il proprio dissenso, ancor più di provocare sacche di resistenza attiva, può mettere in moto strategie di resistenza passiva il cui peso poietico non è prevedibile. Questo è stato uno degli elementi che certamente hanno portato il regime tunisino al punto di non ritorno. Le “linee di fuga” di cui parlavano Gilles Deleuze e Félix Guattarì7 hanno creato fughe di immaginazione e fughe reali. Spesso verso quell’Italia che, da un lato, ha sostenuto e appoggiato il governo tunisino e dall’altro ha cacciato o sfruttato i suoi esuli. Ma le linee di fuga sono state anche quelle delle voci dissonanti che hanno accettato le persecuzioni, il carcere, la 5 Cittadina costiera a breve distanza da Tunisi di cui costituisce l’avamposto. Per la consistente presenza degli immigrati siciliani, fu ribattezzata a inizio secolo XX la Petite Sicilia, nome con cui ancor oggi viene da taluni rammentata. 6 Il riferimento è al filosofo francese Michel Foucault. 7 G. Deleuze e F. Guattarì, 1980, Mille plateaux, Paris, Éditions de Minuit. 8 tortura. Però se, ragionando ancora con Deleuze8, resistere è anche creare, possiamo affermare che in Tunisia si è continuato a creare. Lontano dalla politica, dai modelli imposti, nella quotidianità dell’esistenza, la gente comune ha immaginato, forse sognato, una vita fatta di libertà di pensiero e d’espressione. La fuga, reale o virtuale, ha aiutato a resistere. Il sabato sera, gli internet point sono pieni di giovani in cerca di coetanei europei con cui chattare su msn o su facebook. A casa, i meno giovani guardano Rai Uno. I social network e i media performano l’immaginazione e creano presenze senza corpo che alimentano il desiderio di cambiamento. Si creano reti di persone che questo cambiamento lo auspicano al di là del mare, diventando preda facile di chi organizza i viaggi clandestini oppure tentando di intessere il più possibile rapporti con gli europei che si trovano in Tunisia. Diventare l’amante etero o omosessuale di un occidentale viene vissuto come un possibile viatico. Ma la fuga può anche essere all’interno delle istituzioni. Lo sforzo di chi si è inserito nei circuiti ammessi dal regime tentando una sottile ma costante attività riformatrice che puntava sulla formazione della capacità critica dei giovani con l’organizzazione di progetti con partner occidentali e che coinvolgeva ragazzi in età scolare e universitaria, probabilmente ha contribuito a forgiare l’immaginario di qualcuno. Un’attività del genere, peraltro, puntava anche a dar lustro fuori dalla Tunisia e, dunque, non solo non veniva osteggiata ma addirittura era sostenuta. Nella convinzione di poter tenere sempre tutto sotto controllo, Ben Alì e consorte hanno creduto che la propaganda di stampo orwelliano potesse risultare bastevole. Altro discorso va fatto per quanti hanno tentato la lotta clandestina o aperta pagandone le conseguenze. È il caso, a esempio, di Radhia Nasraoui, attivista e avvocato per i diritti umani, tra i fondatori e presidente dell'Associazione per la Lotta alla Tortura in Tunisia (ALTT), di cui si può leggere la testimonianza sul sito di Amnesty International. Tutti questi elementi hanno contribuito alla creazione di ampie sacche di dissenso, 8 Questo tema attraversa gran parte dell'opera di Deleuze. Può essere interessante ascoltare la registrazione dei corsi tenuti all'Università Paris VIII registrandosi al sito http://gallica.bnf.fr 9 anche passivo, pronte a rendersi partecipi del cambiamento. È inevitabile, però, una considerazione: questa rivolta trasformatasi in rivoluzione, non è stata l’unica della Tunisia, né la più significativa. Quella avvenuta nella regione mineraria di Gafsa, nel 2008, conteneva certamente tutti i presupposti per sfociare in una rivoluzione. La Tunisia è il quarto produttore al mondo di fosfati proprio grazie alle miniere di Gafsa che, invece, è una delle regioni più povere del Paese. Per più di otto mesi, operai, studenti e famiglie hanno protestato e scioperato, eppure le autorità sono riuscite a mantenere il riserbo sulla questione, la polizia ha perseguito i contestatori e mantenuto lontano i giornalisti. Qual è stata la novità stavolta? Come mai l’informazione è riuscita a circolare così liberamente su Facebook e Twitter al punto da poter affermare che il motore della rivoluzione sia stato proprio il social network fondato da Mark Zuckerberg? Come mai non sono stati oscurati i siti web come tante altre volte era successo? Quando, nelle testimonianze presenti in questo libro, compare il termine ancien régime, ho deciso di non tradurlo. Si definisce il regime Ben Alì ancien régime in contrapposizione al fervore di questi ultimi mesi. Non c’è ancora un nuovo ordine, in Tunisia, ma certamente non ce ne sarà uno ispirato al modello della presidenza Ben Alì. L’ancien régime di memoria occidentale aveva, fra i propri tratti caratteristici, l’esaltazione della necessità di infliggere all’attore criminale (rispetto al sistema) una pena che fosse esemplare. Leggendo la testimonianza di Noaman Beji, che svolgeva la sua militanza politica all’interno dell’università, si potranno facilmente cogliere interessanti connessioni tra il modus operandi punitivo dell' ancien régime di memoria francese e quello della Tunisia di Ben Alì. Le modalità di gestione della politica del terrore sono state ulteriormente sofisticate in Tunisia perché non più rivolte soltanto alla punizione del corpo o alla gestione dello spazio pubblico, ma anche (e tanto) alla mente9. Gestione dei mezzi di informazione, oscuramento di siti web, organizzazione dei programmi scolastici, 9 qualsiasi cosa insomma, aveva il preciso Anche qui è utile far riferimento al filosofo francese Michel Foucault. 10 scopo di fare propaganda, di forgiare l’immaginario collettivo, e creare consenso. Non dare, però, alcuno spazio al dissenso ha creato quelle sacche di resistenza di cui scrivevo prima e che, tramite la rete stavolta non oscurata, hanno saputo di poter rappresentare una grande maggioranza. Non è questo lo spazio, né è adesso il tempo, per tentare un’analisi approfondita e verosimile di quanto sia accaduto dietro le quinte durante i giorni di gennaio. Quale ruolo abbiano giocato i servizi segreti, considerando non remota l'ipotesi di un loro coinvolgimento. D’altronde, ad esempio, i documenti comprovanti la partecipazione dell’Italia al colpo di stato del 1987 sono emersi parecchi anni dopo l’accaduto (Fulvio Martini, ex capo del sismi, lo dichiara nel 1999 sulla Repubblica dell’11 ottobre10). Certo, il dubbio che l’impero costruito da Leila Trabelsi, moglie di Ben Alì, e dalla sua famiglia fosse arrivato a un punto tale da disturbare gli equilibri euromediterranei del mercato ufficiale e non, rimane lecito: il controllo del narcotraffico, delle rotte dei migranti… i Trabelsi non subappaltavano nulla se non in cambio di grosse percentuali. E, più la loro potenza cresceva, più la fetta chiesta risultava grossa. Forse l’elemento vincente di questa rivoluzione è stato proprio quello di lasciarla fare, senza alcun intervento11. 10 L’articolo è tuttora consultabile sul sito: http://www.repubblica.it/online/fatti/afri/nigro/nigro.html 11 Volontariamente ipotizzo e accenno soltanto al coinvolgimento di servizi segreti e non faccio riferimento al dibattito che vi ruota attorno perché ciò implicherebbe una lunga analisi comparativa con altre rivoluzioni avvenute dopo la caduta del muro di Berlino. Per un approfondimento rimando al sito della rivista di studi geopolotici «Eurasia» http://www.eurasia-rivista.org/le-rivoluzioni-colorate-in-eurasia/8540/. Per riferimenti specifici alla Tunisia, vedi invece http://www.eurasia-rivista.org/cecchini-e-rivoluzionicolorate-rassegna-storica-e-analisi/12522/. 11 Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili 17 dicembre 2010: Mohamed Bouazizi, un giovane disoccupato, si dà fuoco. Morirà il 5 gennaio. 22 dicembre: Houcine Neji si suicida davanti alla folla di Menzel Bouzayane. La polizia spara e uccide un contestatore. 25 e 26 dicembre: gli eventi dilagano nel resto del Paese. 28 dicembre: primo discorso di Ben Alì alla nazione. 8 e 9 gennaio 2011: la rivolta di Kasserine, nel centro del Paese, degenera in violenti scontri. Si contano almeno 21 morti. 10 gennaio: Ben Alì condanna gli atti terroristici che destabilizzano il Paese e promette la creazione di nuovi posti di lavoro: 300.000 entro il 2012. 11 gennaio: i tumulti guadagnano la capitale e i suoi sobborghi. Nelle grandi città si impone il coprifuoco. 13 gennaio: secondo intervento di Ben Alì che, senza un preciso discorso politico, si impegna a non candidarsi alle elezioni del 2014. 14 gennaio: lo sciopero generale organizzato a Tunisi si trasforma in sommossa. Il governo cade ed è dichiarato lo stato di emergenza. Ben Alì lascia il Paese. Il primo ministro Mohamed Ghannouchi annuncia, in ottemperanza all’articolo 5612 della costituzione13, di assumere temporaneamente le prerogative di capo dello stato. 15 gennaio: il presidente della corte costituzionale annuncia che il posto di capo di stato è nuovamente vacante. Ne consegue l’applicazione dell’articolo 5714 della Costituzione. Il presidente della camera dei deputati diventa capo di stato per un massimo di 60 giorni entro i quali si dovrebbero organizzare elezioni presidenziali. 12 L’articolo 56 recita che in caso di vacanza temporanea del capo dello stato, il primo ministro ne assume la carica. 13 La Costituzione tunisina è stata varata il primo giugno del 1959. Il primo articolo recita: “La Tunisia è uno stato libero, indipendente e sovrano. L’islam è la sua religione, l’arabo è la sua lingua ufficiale”. L’articolo 5 garantisce le libertà fondamentali e i diritti dell’uomo e la loro accettazione universale e globale. Libertà di culto, di stampa e di parola sono espressamente garantite. 14 L’articolo 57 recita che, in caso di vacanza definitiva del capo dello stato, il presidente della camera dei deputati ne assume la carica per un massimo di sessanta giorni entro i quali vanno indette nuove elezioni. 12 Questioni15 …E ora che ho accettato di scrivere sulla rivoluzione in Tunisia, o meglio, sulla prima rivoluzione di questo nuovo secolo, mi rendo conto di quanto ciò costituisca un esercizio pericoloso. Come si fa a parlare di un sogno avverato senza cadere nella retorica? Come si fa a non ricordare fatti importanti che forse hanno determinato la riuscita di questa rivoluzione? E ancora, qual è la “vera” storia e quali i personaggi chiave? Si può parlare di rivoluzione senza essere contestati dai rivoluzionari del secolo scorso?16 Tutti questi interrogativi mi fanno temere il peggio al punto che, di tanto in tanto – e direi anche spesso –, mi viene voglia di alzare la cornetta del telefono e disdire l’impegno preso. Ma la grandezza dell’opera di quei giovani che tutti pensavamo senza coscienza politica, lontani mille miglia dall’avere il coraggio di contestare, o anche di alzar la voce, per chiedere un futuro dignitoso fatto di libertà, di lavoro e di partecipazione effettiva alla vita del Paese, mi ha dato la spinta che mi mancava per scrivere, nonostante tutto. Allora cominciamo dall’ultimo atto. Venerdì 14 gennaio. Una marea umana si sta recando all’avenue Habib Bourguiba, più precisamente al ministero dell’interno, simbolo cardine di uno stato poliziesco. Giovani, adulti e anche bambini (evidentemente qualcuno confidava nell’aspetto non violento della manifestazione) confluiscono da ogni parte della città e dai sobborghi per gridare la propria rabbia. Già dal giorno precedente, ovvero dalla reazione al discorso di Ben Alì, si percepiva che qualcosa di importante stesse per accadere: cosa? Nessuno si azzardava a rispondere a questa domanda anche perché, prendendo l’impegno preciso di non presentarsi per un nuovo mandato nel 2014, il presidente aveva abdicato alla dittatura. Si sarebbe potuto supporre, 15 Di Abderrazek Dridi. 16 La rivoluzione tunisina non ha avuto i tratti delle grandi rivoluzioni del secolo scorso. Si parla, infatti, di una rivoluzione moderna, che non attacca l’istituzione ma soltanto il sistema. 13 di conseguenza, l’inizio di una maggiore libertà e democrazia e la fine della corruzione: Ben Alì aveva dimostrato di aver ascoltato ed esaudito le principali richieste avanzate dai manifestanti attraverso i loro slogan. Allora c’è da chiedersi: perché mai il popolo tunisino nega al proprio leader una ulteriore chance? Perché mai decide che sia arrivato il momento di cambiare regime e che non ci sia motivo per credere a questo presidente? Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro per esaminare la storia recente di questo Paese. Il 7 novembre 1987 È la mattina del 7 novembre 1987. C’è una temperatura ancora estiva e la Tunisia inizia lentamente a svegliarsi quando un annuncio importante, letto con tono ufficiale e seguito dall’inno nazionale, catalizza l’attenzione di tutti. Ci si ritrova ben presto incollati alla radio, a tentar di capire meglio cosa stia accadendo. Le parole di quella che è ormai conosciuta come la “dichiarazione del 7 novembre” si succedono alternamente a canzoni di connotazione patriottica, canzoni simili a quelle che si sentono in occasioni importanti quali la festa nazionale del 20 marzo17. È così che il popolo tunisino apprende che il proprio leader carismatico, l’uomo che ha condotto la lotta nazionale per l’indipendenza, il liberatore della donna, colui che ha fatto conoscere la Tunisia in tutto il mondo, è stato destituito dal suo primo ministro Zine El-Abidine Ben Alì. Un colpo di stato bianco, senza versare neanche una goccia di sangue, in ottemperanza all’articolo 56 della costituzione nel quale si sancisce che, nell’ipotesi di vacanza di potere al vertice dello stato, il primo ministro debba assumerne la carica per 60 giorni entro i quali organizzare nuove elezioni18. La notte tra il 6 e il 7 novembre 1987, il presidente Habib Bourguiba viene destituito sulla base di un rapporto firmato da sette medici che ne attestano l’incapacità a svolgere le funzioni presidenziali per sopraggiunta senilità. Ben Alì ne diventa il 17 È la ricorrenza dell’indipendenza ottenuta il 20 marzo 1956. 18 Cfr. nota 12. 14 successore costituzionale, presidente e comandante in capo delle forze armate. La dichiarazione diffusa dai network nazionali annuncia: “[…] nell’epoca in cui viviamo non è più possibile concepire né presidenza a vita né una automatica successione del capo dello stato con l’esclusione della volontà del popolo […] La nostra gente – recita ancora la dichiarazione – è degna di una vita politica avanzata e istituzionalizzata, basata realmente su un sistema multipartitico e sulla pluralità delle organizzazioni di massa […]”19. La necessità della scelta di destituire urgentemente il presidente Bourguiba sarà successivamente giustificata con la scusa che i movimenti fondamentalisti erano in procinto di preparare un colpo di stato sanguinario in cui sarebbero morti diversi leader politici. È importante notare che la destituzione è accolta dalla gente con molto entusiasmo perché giunta in un momento storico delicato, segnato da un grande interrogativo sulla successione di Bourguiba da una lato, e da una rapida ascesa di un violento fondamentalismo religioso dall’altro, il tutto in un contesto di profonda crisi economica e valoriale20. È da notare anche il 19 È possibile leggere il testo integrale del discorso sul sito www.samibenabdallah.rsfblog.org 20 Gli anni Settanta sono caratterizzati dapprima dall’esperienza del collettivismo, ovvero di un socialismo adattato alle caratteristiche dell’economia rurale del periodo; fallita tale esperienza, si è successivamente scelto di adottare un sistema ultraliberale che ha dato il via al processo di industrializzazione del Paese. Questo processo ne ha innescato a catena diversi altri. Si sono riformulati, infatti, i concetti di educazione e di cultura. Industrializzazione (ovvero incentivazione all'imprenditoria privata), educazione e cultura vivono dunque una nuova era, mentre lo stesso non può dirsi per la politica, la quale rimane ancorata alla vecchia struttura monopartitica che continua a negare le libertà fondamentali. Questo crea una discrasia che esita negli eventi del 26 gennaio del 1978, quando la popolazione si riversa in strada per urlare il proprio dissenso al potere. La politica decide di cambiare nuovamente strategia. Dopo l’esperienza socialista-rurale e quella liberale-industriale, si passa a una scelta mista: un liberalismo con un sistema di ammortizzazione sociale. Sul piano politico, si imbocca la via del multipartitismo (alcuni partiti, in questo periodo, escono dalla clandestinità in cui erano stati relegati seppur con la garanzia di un raggio d'azione limitato). Gli anni Ottanta sono caratterizzati da un cambiamento strategico anche dal punto di vista culturale. Si propaganda il ritorno a un ideale periodo panarabista che sarebbe stato osteggiato dagli eventi degli anni Settanta e che deve arginare una sinistra laica che continua a vivere nella clandestinità, ma che rappresenta la vera opposizione. Tutto questo crea un profondo disagio sociale e una crisi di valori nella popolazione. 15 contrastante, ambiguo sentimento generato dal sollievo per l’avvenuta successione e il rammarico per un leader la cui opera era unanimemente riconosciuta, ma che non ha saputo uscire di scena al momento giusto e dalla porta principale, facendo così precipitare il Paese in uno stato di incertezza permanente. Superato il ricordo del “combattente supremo”, il Paese guarda ormai verso il futuro con più serenità e soprattutto con più voglia di vincere la sfida di entrare a far parte dei piccoli grandi stati della moderna civiltà, contando anche su quel capitale umano formatosi dagli inizi degli anni Sessanta e sempre più proiettato verso l’intellighenzia dei suoi membri e l’uso sapiente della tecnologia. Bisogna però assicurare il passaggio delicato, ma ormai scontato, verso la democrazia, il pluralismo politico e la libertà di espressione. Principî per i quali ha lottato la gioventù degli anni Settanta e promessi nella dichiarazione del 7 novembre. Il primo atto strategico del nuovo capo di stato è quello di ereditare anche il posto di Bourguiba al vertice del Parti Socialiste Déstourien, garantendosi l’acquisizione di questo fondamentale strumento politico al servizio del potere sin dal 195621. Compiuto tale atto, si prende forse la decisione più importante nella storia del Paese: dare un altro nome al PSD che diventa RCD, Rassemblement Constitutionnel Démocratique. Questo permette di salvaguardare il soggetto politico con la propria legittimità storica, la propria tradizione di lotta contro i vecchi avversari ed eventuali nuovi, la propria presenza sul territorio con possibilità di aggregare nuove forze tra i democratici, avendo però una conformità diversa che fa riferimento non più al vecchio ma, piuttosto, al nuovo regime. 21 Il PSD è attivo già dal 1934, all’inizio della formazione di quella coscienza nazionale necessaria per avviare il processo di lotta per l’indipendenza che ha attraversato la storia del Paese conducendo la Tunisia ad acquisire la propria sovranità. 16 L’elezione del 1989 e il primo mandato Definita la questione nodale del soggetto politico, si cerca di avviare le riforme promesse nella dichiarazione del 7 novembre, in primis la modifica della Costituzione per rimuovere la presidenza a vita e limitare il numero dei mandati presidenziali a tre. Si passa, quindi, all’adozione di una legge sui partiti politici e al riconoscimento di nuove formazioni partitiche contestualmente alla rimozione di tribunali speciali e dell'ufficio del procuratore generale. Il nuovo presidente cerca di creare un clima politico disteso aprendo il dialogo con le associazioni, tra cui la Ligue Tunisienne des Droits de l’Homme (LTDH)22, e stabilendo contatti con i partiti di opposizione. Il risultato di questa nuova strategia è la firma, il 7 novembre 1988, di un patto nazionale23 che riunisce le varie formazioni politiche e sociali del Paese, eccezion fatta per gli islamisti24. Tale patto vuole essere l’espressione di un impegno comune a rispettare l'uguaglianza tra i cittadini di entrambi i sessi, sancita dal Code du Statut Personnel25, i principi repubblicani, nonché il rifiuto di usare l’islam per scopi politici. Nelle legislative del 2 aprile 1989, i candidati dell'opposizione, tra cui gli islamisti (che si presentano come indipendenti), ottengono circa il 14% dei voti, e addirittura il 30% in alcuni quartieri popolari di Tunisi. All’elezione 22 La Lega Tunisina per i Diritti Umani nasce nel 1976 ed è la prima associazione di diritti dell’uomo in Africa e nel mondo arabo. 23 Il testo integrale del patto è consultabile al sito: www.droitsdelhomme. org.tn/.../LE%20Pacte%20National%20du%20%207%20Novembre%201988.pdf 24 All’inizio del 1988 vengono liberati tutti i prigionieri politici, islamisti compresi, che però non vengono riconosciuti mai formalmente come partito politico. Il leader Ghannouchi espatria in Inghilterra dove continua e intensifica la sua attività politica. Ritorna in Tunisia nel febbraio 2011 a capo di Ennadha, uno dei centodieci partiti attualmente presenti sul territorio. Si tratta di un movimento islamico derivato (come tutti) dal movimento dei “fratelli musulmani” egiziani, diventato poi Movimento Ennadha. Il gruppo si formò alla fine degli anni Settanta con il favore del futuro primo ministro Mazali che considerava i fratelli musulmani un valido baluardo alle forze di sinistra presenti nell’università e, in genere, nel Paese. Nel mese di febbraio 2011 il movimento, che sta vivendo un periodo di spaccature interne, è stato riconosciuto come partito. Uno dei fondatori e leader è Ghannouchi. 25 Il codice dello statuto personale tende all’unificazione dei diritti di genere pur mantenendo differenze sostanziali sui diritti di eredità che si rifanno tuttora alla Sharī’a. 17 presidenziale, tenutasi lo stesso giorno, essendo l'unico candidato, Ben Alì è eletto con il 99.27% dei voti26. Gli anni del primo mandato sono segnati anche dall’annuncio, nel 28 settembre 1991, della scoperta di un “piano preparato dagli islamisti che mirava alla conquista del potere” e dall’indizione dei relativi processi durante l’estate del 1992. Alcune organizzazioni non governative accusano la giustizia tunisina di non rispettare tutti i diritti delle persone condannate, mentre le autorità parlano del dovere del governo di garantire la tranquillità e la sicurezza delle persone e dei loro beni e di garantire la pace sociale e la stabilità delle istituzioni, condizioni necessarie per la riuscita del processo democratico. Incriminato per aperta opposizione ai principi di uno stato repubblicano, e al Codice dello Statuto Personale per aver perorato uno stato islamico, il partito islamista non viene riconosciuto e, accusato di aver violato anche il codice dei partiti politici, sceglie la via della clandestinità. Altro evento di questo mandato, a carattere personale ma non per questo meno importante, sono le nozze che Ben Alì celebra con Leila Trabelsi, un’ex amante che diventa adesso moglie del presidente e prémiere dame. L’ elezione del 1994 e il secondo mandato La scelta del principale movimento fondamentalista di passare all’azione violenta permette a Ben Alì di rallentare il processo di democratizzazione e di normalizzazione della vita politica. Si forma un consiglio costituzionale e il codice elettorale è modificato in diverse occasioni “per assicurare la trasparenza delle elezioni e aumentare la partecipazione dei cittadini e la rappresentatività dei partiti politici”. Viene stabilita la quota minima del 20% dei seggi alla camera dei deputati per le opposizioni riconosciute affinché venga assicurata la loro presenza in parlamento. Il 20 26 Stima ufficiale del ministero degli interni. 18 marzo 1994, Ben Alì è nuovamente unico candidato alla propria successione ed è rieletto con il 99.91% dei voti27. Conclusasi l’elezione del 1994, si pensa già alla successiva e si annunciano nuove riforme atte a garantire il pluralismo politico. È presentato, e adottato all’unanimità, un emendamento costituzionale speciale che esenta i candidati alla presidenza dall'obbligo costituzionale di sponsorizzazione da parte di rappresentanti eletti. Questa fondamentale riforma politica nasconde però la tendenza a restringere gli spazi di libertà e a sindacare sulle attività delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte la Ligue Tunisienne des Droits de l’Homme. Sul piano economico-sociale si cominciano a intravedere le prime strategie d’azione di un clan familiare il cui obiettivo è estendere il proprio dominio sulle attività economiche più redditizie. A tal scopo, la famiglia in ascesa usufruisce delle agevolazioni di accesso al credito concesse dalle banche su ordine esplicito di Ben Alì. Si tratta dei Trabelsi, i cui singoli componenti, da illustri sconosciuti, assurgono a ricchissimi cittadini grazie a mere ragioni di parentela. L’ elezione del 1999 e il terzo mandato Il 24 ottobre 1999, alle prime elezioni presidenziali pluraliste, concorrono Ben Alì e due altri candidati, Mohamed Belhaj Amor e Abderrahmane Tlili28. Ciononostante, il presidente uscente è rieletto nuovamente con il 99.45% dei voti rispetto allo 0.31% per Belhaj Amor e lo 0.23% per Tlili.29 Finite le elezioni, si torna di nuovo a modificare la Costituzione e, su iniziativa del presidente e con la scusa di “far progredire la vita politica”, nel 2002 si decide di modificare metà degli articoli della carta costituzionale con l’obiettivo dichiarato di andare verso un più moderno stato definito République de demain. Ma le modifiche puntano a tutt’altro 27 Stima ufficiale del ministero degli interni. 28 Facendo parte dell’opposizione tollerata, sono funzionali alla legittimazione della pluralità paventata. 29 Stima ufficiale del ministero degli interni. 19 poiché la riforma, sostanzialmente, rimuove il limite di mandati presidenziali introdotto nel 1988 e allunga l'età massima permettendo, in tal modo, ai settantacinquenni di candidarsi alla carica suprema. Convalidata il 26 maggio con un punteggio di 99.52%30 nel primo referendum della storia del Paese, la riforma consente a Ben Alì di candidarsi ancora due volte per completare il suo mandato nel 2014. La riforma amplia inoltre i poteri del consiglio costituzionale in materia elettorale e introduce anche il bicameralismo; si costituisce, dunque, la camera dei consiglieri nella quale però non è rappresentata l’opposizione e ciò spiega il fatto che il partito del presidente, oltre alle organizzazioni professionali, è l’unico rappresentato in questa sede. Il presidente della repubblica, inoltre, può nominare sette dei nove membri del consiglio costituzionale, il quale deve garantire la validità delle candidature per le elezioni presidenziali. Gli altri due sono nominati dal presidente della camera dei deputati, egli stesso membro del partito RCD. L’elezione del 2004 e il quarto mandato Per le elezioni del 24 ottobre 2004, oltre a Ben Alì si presentano al voto, grazie all’emendamento costituzionale che dispensa loro dalla condizione di sponsorizzazione, Mohamed Bouchiha, Mohamed Ali Halouani e Mounir Béji. Il voto, descritto come una simulazione di democrazia da ONG quali Human Rights Watch o Amnesty International, viene boicottato da diversi partiti di opposizione. Nell’agosto 2003, nuove restrizioni del codice elettorale vietano all’opposizione, durante la campagna in vista delle elezioni, di utilizzare network visibili all’estero. Il presidente in carica è però onnipresente nei media nazionali. Il risultato dello scrutinio vede nuovamente rieletto Ben Alì con il 94.49% dei voti contro lo 0.95% di Bouchiha, il 3.78% di Halouani e lo 0.79% di Béji31. 30 Stima ufficiale del ministero degli interni. 31 Stima ufficiale del ministero degli interni. 20 Per completare il quadro, una legge votata nel settembre del 2005 concede al capo dello stato l’immunità permanente per qualsiasi atto compiuto nell’esercizio dei suoi obblighi istituzionali. Le elezioni 2009 e il quinto mandato Alla fine del 2006, varie organizzazioni filogovernative lanciano appelli al presidente affinché si ricandidi alle elezioni del 2009. Il che avviene il 30 luglio 2008, in occasione del discorso di apertura del quinto congresso ordinario del Rassemblement Constitutionnel Démocratique. A queste ultime elezioni, Ben Alì si presenta nuovamente contro tre avversari ed è rieletto per il quinto mandato consecutivo con l’89.62% dei voti, contro il 5.01% ottenuto da Mohamed Bouchiha, il 3.80% da Ahmed Inoubli e l’1.57% da Ahmed Brahim32. Anche stavolta, trascorsi alcuni mesi, i sostenitori di Ben Alì ne chiedono la ricandidatura per le presidenziali del 2014. 32 Stima ufficiale del ministero degli interni. 21 Apertura economica e chiusura politica33 Ben Alì inaugura una politica di privatizzazione che riguarda il settore turistico, edile, tessile, agro-alimentare, ittico; e ancora quello della meccanica e dell’ingegneria elettrica. L'incoraggiamento degli investimenti e l'introduzione di una flessibilità legislativa e fiscale rinforza l'economia dopo un inizio anni Novanta contrassegnato dalla recessione dovuta alla crisi del turismo a causa della guerra del Golfo. Il settore turistico entra nuovamente in crisi nel 2002-2003 dopo l'attacco alla Ghriba di Djerba34. Ma, nonostante queste difficoltà, gli investitori stranieri si insediano gradualmente e il prodotto interno lordo torna a crescere raggiungendo quote tra il 5 e il 5.5%. Il governo favorisce anche l'industria manifatturiera, che produce soltanto per l’export, concedendo l'opportunità agli investitori di stabilirsi in tutto il Paese senza perdere il beneficio delle zone di libero scambio.35 Un accordo di associazione siglato con l’Unione Europea il 17 luglio 1995 ed entrato in vigore il primo marzo 1998, permette il progressivo smantellamento delle barriere commerciali entro il primo gennaio 2008. In questo contesto, lo stato si impegna a diversificare l'economia con l’aumento della quota dell'industria e con il rafforzamento dei settori tradizionali dell’agricoltura e del turismo. Viene svolta dal governo, dunque, una politica di incentivazione alla creazione di aziende e una serie di manovre volte a favorire la moltiplicazione di micro-imprese e l'estensione di tecnologie dell'informazione. 33 Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri. 34 Si tratta di una sinagoga dove si riunisce un'importante comunità di tunisini di religione ebraica che vivono sull’isola di Djerba. L’attacco è un atto terroristico a firma di Al Qaeda in cui sono rimaste vittime, oltre ai molti tunisini, anche turisti in visita alla sinagoga, soprattutto tedeschi. 35 Sono le stime del nono piano economico. Ogni cinque anni si prepara un’agenda economica in cui si tracciano le ipotesi di sviluppo per il quinquennio successivo basandosi sulle cifre dell’Istituto Nazionale di Statistica. 22 La natura della politica di apertura condotta dallo stato tunisino permette di mantenere una capacità di risposta significativa nonché lo sviluppo di nuovi settori (quali l'industria meccanica) e delle nuove tecnologie nelle quali un ingegnere tunisino, a parità di competenze, è remunerato meno di un collega europeo. Tuttavia, un rapporto della banca mondiale di giugno 2004 denuncia gli “interventi discrezionali del governo” che, secondo i relatori, danneggiano il clima degli affari e aumentano i rischi di eventuali investitori stranieri. Per riassumere, la politica economica è un successo. La Tunisia è il primo Paese extra europeo a siglare un accordo di associazione con l’Unione Europea intraprendendo uno sforzo senza precedenti per modernizzare la propria economia. In poco tempo si progettano e realizzano opere e infrastrutture di straordinaria importanza: viadotti, autostrade e strade, ma anche una moderna rete di telecomunicazione. Gli investitori europei apprezzano questo Paese moderno e soprattutto tranquillo dove il lavoro è a buon mercato e la manodopera qualificata. Ben Alì si assicura il sostegno della classe media imponendo un negoziato tra le parti sociali ogni tre anni e ottenendo dai datori di lavoro un costante aumento del salario minimo. Viene promosso il credito al consumo e ne viene facilitato l’accesso. È istituito un fondo di solidarietà di impronta paternalistica per sviluppare le zone rurali. Anche il turismo a basso costo si sviluppa a un ritmo sostenuto. In sostanza, un quadro economico e sociale dinamico che favorisce l’arrivo di capitali esteri sul mercato nazionale. Ma la disoccupazione costituisce una minaccia molto seria per gli equilibri economici e sociali del Paese ed è aggravata da un popolazione attiva in crescita. Essa colpisce non solo le fasce sociali più vulnerabili, ma anche i laureati: il tasso di disoccupazione di questa categoria è in aumento da diversi anni. Da un sondaggio della banca mondiale risulta che esso passa dallo 0.7% nel 1984, al 4% nel 1997 e che, in questi anni, impenna al 23 20% contro una media nazionale del 14%, con punte persino del 60% in alcuni settori36. Sul piano politico, il regime di Zine El-Abidine Ben Alì crea dissensi all’interno della classe politica e nella società civile. Gli islamisti, riuniti nel partito Ennadha, non sono riconosciuti e sono soggetti a significative repressioni: molti leader e attivisti vengono arrestati e condannati a lunghe pene. I partiti politici non riconosciuti tentano di svolgere le proprie attività, spesso in esilio, nonostante il divieto imposto. È il caso del Parti Communiste des Ouvriers de Tunisie (PCOT) e del partito Tunisie Verte37. Infine, le organizzazioni in difesa dei diritti umani cercano di denunciare le violazioni delle libertà e di opporsi alla retorica ufficiale. Tra queste: la Ligue Tunisienne des Droits de l'Homme (LTHD), l’Association de Lutte contre la Torture en Tunisie (ALTT), o ancora, il Centre pour l'Indépendance de la Justice et des Avocats (CIJA)38. Ma la loro opera viene sistematicamente attaccata e ridotta a semplice espressione di forze politiche di fondamentalisti o di sinistra estrema, ostili alla Tunisia e contrarie all’interesse nazionale. In Tunisia ci sono diversi partiti politici riconosciuti sin dagli anni Ottanta: il Mouvement des Démocrates Socialistes (MDS, social-democratici), il Parti de l'Unité Populaire (PUP, panarabista socialista), il Parti Démocrat Progressiste (PDP, post-marxista), il Parti Social-Libéral (PSL, liberale), l’Union Démocratique Unioniste (UDU, panarabista), il Mouvement Ettajdid (sinistra laica39), il Forum Démocratique pour le Travail et les Libertés (FDTL, socialista) e il Parti des Verts pour le Progrès (PVP)40 Ma queste formazioni esistono 36 Molto utile, per la consultazione di queste statistiche, è il sito della banca mondiale. 37 Entrambi i partiti hanno avuto riconoscimento ufficiale nel febbraio 2011. 38 Tutte queste associazioni sono emanazioni di ONG internazionali, ovviamente non riconosciute e puntualmente perseguitate. 39 Si osservi che nel mondo arabo esiste una sinistra cosiddetta nazionalista con una certa connotazione religiosa in opposizione a quella laica. 40 Questi partiti, riconosciuti agli inizi degli anni Ottanta da Bourguiba e alcuni dallo stesso Ben Alì, sono tutt’ora presenti. In certi casi, i leader (quelli appartenenti alla cosiddetta 24 formalmente poiché, in realtà, sono molto deboli sul piano della rappresentatività. Tranne il partito del presidente, difatti, nessun altra formazione ha la possibilità di agire liberamente per ottenere consenso popolare. Tutte le riunioni, le manifestazioni e le altre iniziative simili sono soggette ad autorizzazioni specifiche rilasciate dall’amministrazione che può negarle in qualsiasi momento per motivi di ordine pubblico. Si esercitano, inoltre, pressioni di varia natura sui privati affinché non cedano i propri locali per l’organizzazione di eventi dietro cui si possano celare incontri politici. La propaganda supporta massicciamente questo clima di repressione per fornire l’immagine positiva di un regime popolare al servizio dell’interesse generale. Così il 7 diventa il simbolo della presidenza di Ben Alì, segno tangibile di un nuovo ciclo politico o, meglio, di una nuova era iniziata il 7 novembre 1987. Questo giorno diventa ricorrenza festiva e occasione di grandi celebrazioni tant’è che entra a far parte del programma filatelico delle posta tunisina con l’emissione di una serie di francobolli il cui elemento visivo principale altro non è che la cifra 7 stilizzata. L’immagine onnipresente del presidente Ben Alì viene affiancata quasi sempre al sette: amministrazioni, caffè, negozi, viali, scuole, mezzi di trasporto sono obbligati ad averla. La compagnia aerea Tuninter viene ribattezzata Sevenair il 7 luglio 2007, cioè il settimo giorno del settimo mese dell'anno 2007. 7 novembre è anche il nome attribuito a un aereo di linea della Tunisair, allo stadio di calcio di Radès, all'aeroporto internazionale di Tabarka. Il simbolo è utilizzato anche nel campo dei media controllati dal regime, in particolare in televisione: il primo canale nazionale viene dapprima nominato TV7, poi rinominato Tunis 7 e ancora Tunisie 7. Il sette viene, inoltre, utilizzato come prefisso dei numeri di telefono: i numeri del governatorato di Tunisi iniziano con il 71, quelli del governatorato del Sahel con il 73 e così per tutti i distretti; il numero per gli SMS utilizzato nei giochi opposizione ufficiale) sono stati destituiti e sono in corso congressi per eleggere la nuova leadership. 25 televisivi è 87 ed è sempre accompagnato da un altro sette. Infine, sulla carta d’identità tunisina, sette bandiere sono presenti su un lato e sette colombe sull’altro. Il passo successivo è quello di intitolare un nuovo aeroporto internazionale a Zine El Abidine Ben Alì, inaugurato nel 2010. Varie organizzazioni di diritti umani e di difesa delle libertà accusano il presidente Ben Alì di essere un dittatore e il regime tunisino viene regolarmente accusato di violazione dei diritti umani. Stando al Comité pour la Protection des Journalistes (CPJ), Ben Alì è, nel 1998, uno dei “dieci peggiori nemici della stampa”, e Reporter senza frontiere lo indica come “predatore della libertà di stampa”41. Molti i prigionieri frequentemente torturati; i difensori dei diritti umani, tra cui gli avvocati, sono vittime di intimidazioni e vessazioni e le loro denunce non vengono mai accettate dalla giustizia tunisina. Alcuni carcerati sono sottoposti a maltrattamenti e a condizioni di detenzione molto dure, anche con lunghi periodi di isolamento. La legge antiterrorismo votata nel 2003 viene utilizzata per reprimere gli avversari politici. Uno dei casi più eclatanti si ha nel 2004 quando, con il pretesto di preparare un attacco terroristico, alcuni studenti di Zarzis vengono arrestati con il loro insegnante perché utilizzavano la rete per compiere ricerche compromettenti per il regime. Questi studenti sono poi rilasciati nel febbraio 2006. Dall’anno 2000 assistiamo, dunque, a un soffocamento delle libertà senza precedenti, a una censura della stampa e di internet intollerabile in un Paese nel quale i giovani sono incoraggiati a studiare sempre di più e a ottenere livelli di eccellenza in tutti i campi. L'intera popolazione è monitorata da un ministero dell'interno sempre più potente e da un partito di governo dislocato ovunque sul territorio, che può vantare 2.500.000 aderenti. Le critiche per la carenza di democrazia sono costantemente respinte nel nome della cosiddetta “mancata maturità del popolo”. 41 Si confrontino i siti delle rispettive associazioni. 26 Un mistificante inno alla gloria dello sviluppo, della democrazia “ammorbidita”, dei diritti umani, pervade la vita quotidiana dei tunisini. Il “cambiamento” e il numerale 7 sono i titoli di una ammaliante propaganda delle formule oscure. Il regime di Ben Alì inventa un nuovo linguaggio orwelliano-politichese. La crisi economica europea e la fine dell'accordo multifibre42 iniziano a intaccare il modello tunisino. Nello stesso tempo, Ben Alì pone fine a tutti quei meccanismi legislativi atti a ostacolare quella presidenza a vita che, nel 1987, aveva promesso di non esercitare. Nonostante le voci di cancro alla prostata, il presidente va oltre il limite del terzo mandato e si fa rieleggere per i due successivi con un punteggio superiore al 90%43. Come se non bastasse, l’avidità della famiglia della seconda moglie, Leila Trabelsi, è tale da risultare intollerabile alla maggior parte dei tunisini e degli uomini d’affari che non hanno possibilità di manovra alcuna senza interpellare i Trabelsi. I diplomatici americani parlano, nei telegrammi rivelati da WikiLeaks, di uno stato di “quasi mafia”. I comportamenti della famiglia Trabelsi sembra abbiano contribuito a far precipitare il tiranno tunisino che, malato e isolato, diventa ostaggio, per propria scelta, di una mafia insaziabile. Il matrimonio che ha cambiato il destino di un Paese Le prime elezioni presidenziali del 1989 sono un successo per l’entusiasmo suscitato nel popolo tunisino che, in massa, si riversa ai seggi. Tutta una nazione vuole testimoniare la propria riconoscenza all’uomo che ha salvato il Paese. La Tunisia vive a un ritmo frenetico di riforme a tutto campo e la gente sostiene un leader cui riconosce onestà, patriottismo, volontà di compartecipazione alla vita quotidiana. Neanche un anno dopo, però, fatti interni e internazionali determinano alcuni stravolgimenti. Sul 42 È l’accordo siglato nel 1974 tra Paesi in via di sviluppo e paesi Paesi avanzati. Secondo tale accordo vi sono quote fisse di export di prodotto tessile per ogni Paese. La fine dell’accordo avviene nel 2005. Alcune nazioni, tra cui la Tunisia, perdono quindi le quote fisse garantite dall’accordo a vantaggio di potenze quali Cina e India. Si consulti www.wto.org 43 Stima ufficiale del ministero degli interni. 27 piano interno, gli integralisti passano all’attacco in modo violento: prima con un attentato terroristico nella regione di Monastir, al fine di danneggiare il florido settore turistico della zona, e, successivamente, utilizzando acido nitrico44 contro i civili per spaventare la popolazione e imporre un clima di paura nel Paese. Sul piano internazionale domina la scena la prima crisi del Golfo e Saddam Hussein, per le sue posizione anti-israeliane e antiamericane, monopolizza l’attenzione di tutti gli arabi, tunisini compresi, che sognano qualcuno capace di fermare l’arroganza di chi non vuole mettere termine al martirio del popolo palestinese. Approfittando di questo quadro, Ben Alì non esita a compiere un imprevedibile giro di boa fermando il processo di democratizzazione della vita politica a favore di un bisogno sempre più pressante di sicurezza. Ma il vero cambiamento di rotta la Tunisia lo vive nel 1992, quando Ben Alì, dopo aver divorziato dalla prima moglie, decide di ufficializzare il suo rapporto con Leila Trabelsi, una parrucchiera nata nel 1957 e, dunque, molto più giovane di lui. Nessuno, in questo momento, sospetta il ruolo che avrebbe giocato questa nuova première dame che, invece, ritaglia per sé e per i suoi familiari spazi sempre più importanti prima negli affari e poi in politica. In pochi anni Leila riesce con ogni stratagemma a realizzare una vera ascesa, fino a diventare il vero artefice della politica tunisina. Per prima cosa elimina tutti quei deficit culturali che non si addicono a un leader. Intende creare attorno alla propria figura un mito che non esita a costruire anche mentendo e isolando tutti coloro che, con i loro interventi, avrebbero potuto fermare o anche rallentare il suo cammino verso il potere (comprese le figlie nate dal primo matrimonio del marito). Leila, madre di due figli avuti in un primo matrimonio, riesce a conseguire la maturità e a condurre un cursus universitario di tutto rispetto iscrivendosi a un corso di laurea in diritto a Tolosa, in Francia. Casualmente, il professore che si occupa della sua preparazione diventa ministro, e tale resterà sino alla fine del potentato Ben Alì. Si tratta di una mossa tattica volta a far dimenticare le proprie origini non altolocate e per 44 Dopo queste azioni in Tunisia è stato proibito il commercio di questo tipo di acidi. 28 poter ambire, un giorno, al posto di capo di stato. Anno dopo anno Leila conquista spazi sempre maggiori, riuscendo a diventare un fenomeno che suscita l’interesse di diversi osservatori stranieri, fra i quali i più illustri sono Nicolas Beau e Catherine Graciet. Attraverso un lungo lavoro di inchiesta e la raccolta di una serie di testimonianze, i due giornalisti-cronisti francesi scrivono e pubblicano la biografia della moglie del presidente dando ai lettori la possibilità di scoprire “dettagli” scottanti che suscitano le ire della coppia presidenziale, la quale tenta invano di impedire la diffusione del libro anche fuori dalla Tunisia. La Regente de Carthage. Min basse sur la Tunisie45 diventa la biografia per eccellenza di Leila Trabelsi, moglie di Zine El Abidine Ben Alì, secondo presidente della repubblica di Tunisia. Chi è Leila Trabelsi Leila nasce nel 1957 da una famiglia modesta, composta da 13 persone. Figlia di un venditore di frutta secca e di una madre casalinga, frequenta una scuola per parrucchieri nel centro di Tunisi dove consegue un diploma grazie al quale inizia a lavorare presso un salone della capitale. A diciotto anni incontra un giovane direttore di un’agenzia di noleggio di macchine e lo sposa, per poi divorziarne tre anni dopo. Libera da questo primo rapporto, Leila viene assunta da un’agenzia di viaggi il cui proprietario possiede anche un hotel al centro di Tunisi. Lavorando in questa agenzia, la giovane impiegata entra in contatto con personaggi importanti e, soprattutto, con uomini d’affari in giro per il mondo. Donna indipendente, sempre disponibile ad andare in spiaggia o a far festa, viene soprannominata Leila Gin, dalla sua passione per l’omonimo superalcolico. Grazie al proprio impiego ha la possibilità di viaggiare e i suoi spostamenti sono occasioni di piccoli traffici tra Parigi, Roma e Tunisi, traffici che perpetua fino a quando viene colta in flagranza di reato. In conseguenza di ciò, le viene ritirato il passaporto. La ricerca di qualcuno 45 Il libro è stato pubblicato nel 2009 in Francia dalla casa editrice La Découverte, ma ne è stata proibita la vendita in Tunisia. 29 disposto ad aiutarla a risolvere il problema potrebbe essere stata l’occasione per l’incontro con Ben Alì, allora direttore generale della sicurezza pubblica (incarico che ricopre dal dicembre 1977 all’aprile 1980, data in cui è accusato di negligenza in occasione degli eventi di Gafsa46 ed è relegato in Polonia come ambasciatore). Ma l'incontro che cambia davvero la vita di Leila Trabelsi è quello con Farid Mokhtar, cognato del primo ministro Mohamed Mzali e presidente di una grande impresa di stato. Farid fa assumere la sua amica, in qualità di segretaria, presso un’azienda controllata dalla Societé tunisienne de banque allora presieduta da Hassan Belkhodja, zio di Farid nonché compagno di Bourguiba, il quale nomina il nipote primo ambasciatore a Parigi della giovane Repubblica tunisina, e poi ministro e banchiere. È in compagnia di Farid Mokhtar che Leila frequenta l’alta società di Tunisi. Il loro rapporto dura tre o quattro anni, fino al ritorno di Ben Alì dalla Polonia nel 1984. Quest’ultimo si scopre ancora molto innamorato di Leila e, iniziata una relazione, le permette di trasferirsi in una confortevole villa alla Soukra47. Da questo momento, Leila interrompe ogni attività e comincia a vivere all'ombra del compagno che, nel frattempo, viene nominato ministro degli interni dal primo ministro Mohamed Mzali. Siamo agli inizi della vera lotta per la successione di Bourguiba e l’entourage del primo ministro si divide in due fazioni rivali. Una è composta da Fethia Mzali, moglie del primo ministro, nonché essa stessa ministro della donna, dell’infanzia e degli anziani; dal fratello Ferid Mokthar; da alcuni altri ministri, fra cui Frej Chedli, ministro dell’educazione. Della seconda fazione fanno invece parte Mezri Chekir, stretto consigliere di Mzali nonché ministro della funzione pubblica e oriundo di Monastir come Bourguiba; Ben Alì 46 Un gruppo armato di tunisini addestrati in Libia si era stabilito nel governatorato di Gafsa da cui intendeva fare un golpe militare. Il 26 gennaio 1980 l’intenzione è scoperta e il golpe sventato. 47 Quartiere periferico di Tunisi sulla strada per Cartagine. 30 ministro dell’interno; i fratelli Kamel, Raouf e Slaheddine Eltaief, cugini e fedeli di quest’ultimo. Farid Mokhtar avverte presto che Ben Alì rappresenta una minaccia, sia per la sua appartenenza al clan opposto sia per il vecchio rapporto tra lui e Leila che di Farid possiede molte informazioni. Cerca di fare presenti i propri timori, senza suscitare, però, un apparente interesse per le proprie preoccupazioni. Nel maggio del 1986 Farid muore in un incidente stradale e Ben Alì ne informa il primo ministro. Tutti, ovviamente, sanno che l’incidente non è casuale. Nei primi anni dell'ascesa al potere di Ben Alì, gli affari più interessanti della Tunisia vengono divisi fra le famiglie apparentate senza mai che nessuna di essa pretenda di aver il monopolio su un qualunque settore o tenti la scalata verso beni appartenenti all'altra famiglia. Tutti i fratelli e le sorelle del presidente, le tre figlie del primo matrimonio e i fratelli Letaief ricevono favori a tal punto che un documento circolante clandestinamente a Tunisi nel 1997-98 attesta la presenza di sette famiglie che saccheggiano la Tunisia. Il documento, molto dettagliato, descrive il funzionamento dei clan familiari intorno a Ben Alì che condividono “amichevolmente” terreni, contratti e altri affari. È chiaro che queste famiglie si oppongono più o meno energicamente al progetto di unione tra il presidente e Leila, senza riuscire, però, a impedire il matrimonio celebrato nel 1992. Da questa data inizia la resa dei conti e il primo a pagare per questa opposizione è Kamel Letaief, i cui locali a Tunisi vengono incendiati nel 1996 perché si sospetta vi tenesse documenti segreti atti a compromettere la nuova sposa. Successivamente vengono allontanati dal giro del presidente, uno dopo l’altro, i generi e dal 1996 Leila ha ormai campo libero per introdurre nel palazzo la propria famiglia rimasta fino a questo momento nell’ombra. Per prima cosa, proprio nel 1996, il primogenito e amato fratello di Leila, Belhassen, utilizzando un accesso al credito più che agevolato presso le banche, guadagnando acquista immobili, cifre spropositate. alberghi e quant’altro Immediatamente rivendendoli dopo acquista e la compagnia aerea che diventerà Karthago Airlines e diviene il perno della politica finanziaria della famiglia. Da questo momento non vi è un settore 31 che sfugga ai Trabelsi; non una transazione con un gruppo straniero in cui non siano parti coinvolte, non un terreno edificabile che si sottragga al loro interesse. E nessuno, nel clan, viene dimenticato. Dopo Belhassen, Moncef, ex fotografo di strada, diventa agricoltore grazie a un credito particolarmente agevolato; il primo figlio di Belhassen, Houssem, organizza spettacoli musicali senza, però, onorare i contratti; il secondo, Moez, e il terzo, Imed – presunto figlio di Leila nato dal suo rapporto con Farid Mokhtar e affidato al fratello – sono coinvolti, nel 2008, nel famoso giro di yacht rubati48 e incorrono in seri guai con la giustizia francese. Una delle sorelle, Jalila, diventa la regina dei bar, siano essi quelli della scuola IHEC di Cartagine o quelli della scuola nazionale di architettura. Il marito, El Hadj, da impiegato presso un distributore di benzina, diventa imprenditore nel settore immobiliare; una delle sue proprietà è affittata al ministero dei trasporti che stipula un contratto di locazione altissimo. E così si può dire di tutti gli altri fratelli e sorelle, ma anche di nipoti e cognati. L’ultimo della lista degli agevolati è il marito di una nipote che diventa in pochissimo tempo uno dei più importanti proprietari di agenzie pubblicitarie cui viene assegnata, per un valore di ventiquattro milioni di dinari, l’ultima campagna per la promozione del turismo, organizzata dal ministero di competenza. È importante osservare che questo contratto, valido per l’anno in corso, è stato rescisso subito dopo lo scorso 14 di gennaio, e il nipote è stato costretto a rimborsare tutta la somma anticipata dal ministero. Il sistema e la sua faglia Ma perché la capillarità del sistema sia completa e sostenibile, occorre mettere le mani anche su altri settori, in primis stampa e organizzazioni della società civile. Con la stampa si tratta di trovare il modo di mettere tutti “in riga”; nessuna pubblicazione, peraltro, deve suscitare contestazioni 48 Durante la presidenza Chirac, a un amico del presidente fu rubato lo yacht a Nizza su commissione di un nipote di Ben Alì. L’interpool riuscì a scoprire i mandanti del furto ma, in virtù di un accordo internazionale tra Francia e Tunisia, si riuscì a spostare il processo a Tunisi dove si costituirono due persone alle dipendenze del famiglia per scagionare il nipote di Ben Alì. 32 esterne che potrebbero influire negativamente sui partner economici occidentali. Si cerca, dunque, un referente cui affidare, fra l’altro, la gestione del pacchetto pubblicitario del governo, degli enti locali, delle altre aziende statali e parastatali. Un giro importante da cui dipende la vita stessa delle varie testate presenti sul mercato. Sarebbe bastato privare una redazione dagli introiti pubblicitari per condannarla a chiudere bottega in pochissimo tempo. Ai direttori di quotidiani e riviste il messaggio suona subito lampante e indiscutibile: per sopravvivere, possibilmente anche svilupparsi, bisogna solo stare al gioco e non osare mai sfidare il sistema. A corollario, si aggiunga che il pacchetto (repressivo) della legge sulla stampa rende difficile (se non impossibile) esercitare la professione di giornalista senza incappare in norme legali che, se applicate, stroncherebbero la carriera di chiunque e lo condurrebbero direttamente in galera. Ma non basta: dal 2005 in poi alcuni membri della famiglia diventano proprietari di stazioni radiofoniche private, fondano mensili e settimanali specializzati, s’impadroniscono di due quotidiani storici e si preparano a entrare nel mondo della televisione. Neanche lo spazio tradizionalmente occupato dalla società civile è risparmiato dal sistema Ben Alì. Si assiste, infatti, anno dopo anno, a un capillare inserimento da parte di Leila e famiglia in questo settore: il nipote a capo di una associazione culturale il cui scopo è organizzare spettacoli musicali (spesso mancando di onorare i compensi pattuiti); il marito della nipote alla guida di una organizzazione che recupera bambini abbandonati per darli in affidamento, senza un organo a controllare che tali operazioni si facciano nel rispetto delle leggi vigenti o meno; Leila stessa diventa madrina di varie associazioni benefiche e si fa attribuire tutti i fondi disponibili (e non). Dai terreni per costruire centri, all’acquisto di materiali e strumenti sofisticati, tutto viene gestito utilizzando mezzi e personale pagati dallo stato, senza che nessuno abbia il diritto di contestare o, semplicemente, di criticare. Lo scopo di questa filantropia è doppio: da una lato, assicurarsi una visibilità costante sui mass media che contribuisca a far entrare nell’immaginario collettivo l’idea di un donna responsabile, competente e umanamente molto vicina alla gente meno fortunata; dall’altro, profittare a 33 piene mani di ogni tipo di risorse locali e internazionali a disposizione per questo tipo di programmi sociali dirottandole da altre urgenze. E mentre la gestione di tutte le risorse e di tutti gli affari degli ultimi quindici anni di storia della Tunisia subisce questo percorso standardizzato, la militanza politica deve far tacere ogni voce dissonante rendendo l’arroganza di questo sistema, repressione dopo repressione, sempre più insopportabile. Ma in realtà qualche segnale di insofferenza che alla lunga sarebbe stato difficile da gestire comincia a manifestarsi. La propaganda del partito al potere, in apparenza enorme macchina, ma nella sostanza scatola vuota, non è più capace di far presa sulla popolazione né, tantomeno, di mobilitare le masse. Il consenso ottenuto con la forza non corrisponde a quello reale. A questo proposito, il segretario del partito RCD afferma, in un'intervista rilasciata al settimanale francese Jeune Afrique del 30 gennaio 2011, che il partito è morto, il sistema stesso l’ha ucciso: “Avevo tentato di rianimarlo ma non rispondeva più”. Inoltre, i partiti dell’opposizione cosiddetta ufficiale sono, in realtà, parte integrante del sistema e il loro consenso è profumatamente pagato: dalle carte rinvenute nelle sedi di governo si sono scoperte le tracce scritte di ingenti somme accettate dai segretari di questi ultimi in occasione di incontri organizzati al palazzo. I mass media parlavano allora di questi incontri periodici come di una “opposizione responsabile” le cui vedute sui diversi problemi del Paese convergevano con quelle del presidente Ben Alì. Adesso si capisce meglio che, nel sistema messo a punto dalla coppia presidenziale, tutto si vendeva, tutto si comprava. Anche le posizioni politiche. In realtà, una cosa che la coppia non può riuscire a comprare c’è, ed è il consenso della gente, quello vero, sussurrato nelle case e non sbandierato forzatamente in piazza. Di questa dimenticanza non si fa scrupolo. Ma un popolo, certo paziente, certo pacifista, certo non violento, non può accettare che qualcuno, e soprattutto chi ha in mano il suo destino e quello dei suoi figli, possa ingannarlo, sfruttarlo, umiliarlo, oltraggiarlo, violentarlo oltre i limiti. E questa dimenticanza sarà fatale per Ben Alì, per Leila e per tutto il sistema. 34 Atto primo. Il 17 dicembre, a Sidi Bouzid, paese al centro della Tunisia, un giovane tunisino disoccupato con famiglia a carico comincia la sua solita giornata spingendo il carretto carico di frutta e verdura e va a prendere posto nella piazza vicino alla sede del governatorato, per lui il luogo strategicamente migliore per riuscire a vendere la merce. Questo non è il parere degli agenti municipali, che gli intimano di lasciare subito il posto; Mohamed Bouazizi49, così si chiama il giovane, chiede di vedere il governatore al fine di esporre il problema e trovare una soluzione, ma anche l’incontro gli viene negato. A questo punto il giovane, esasperato e disperato, decide di spargersi di benzina e di darsi fuoco nella piazza. Il fatto è di una gravità tale da suscitare la reazione spontanea della gente del posto che manifesta la propria rabbia davanti alla sede del governatorato, ma la manifestazione viene duramente contrastata dalle forze dell’ordine. Nonostante la sua drammaticità, la notizia non viene diffusa né dai telegiornali della sera né dai quotidiani dei giorni successivi. Accade però che, dopo poche ore, la notizia è su Facebook corredata di immagini e filmati della repressione della manifestazione. Una mobilitazione generale si organizza attorno a quello che sta succedendo a Sidi Bouzid e le notizie vengono aggiornate minuto per minuto obbligando la televisione e gli altri mezzi di comunicazione a parlare del fatto, ma a modo proprio e, cioè, cercando di banalizzare e minimizzare l’incidente. Atto primo bis. Il 22 dicembre un altro giovane, Houcine Neji, si dà la morte di fronte a una folla incredula a Menzel Bouzaiene, a qualche chilometro da Sidi Bouzid. L’emozione è grandissima, la rabbia anche. La polizia reagisce e spara uccidendo un manifestante. La notizia arriva istantaneamente sulla rete provocando una mobilitazione nella regione vicina, Kasserine, altro governatorato abbandonato dallo “stato benefattore”. Nei giorni successivi, le manifestazioni si estendono ad altre città e internet è ufficialmente il mezzo di comunicazione più popolare in Tunisia; le 49 Sulla figura di questo ragazzo si confronti la nota 68. 35 notizie scorrono a una velocità tale da mettere in difficoltà il sistema da anni collaudato. Atto secondo. Il 28 dicembre Ben Alì interviene in televisione per la prima volta. I tunisini sono tutti fissi davanti agli schermi aspettando di capire come farà il presidente a superare la crisi, quale tattica adopererà. Discorso deludente: Ben Alì parla del suicidio di un giovane disperato come di un fatto di cronaca banale, sfruttato da “certe persone malintenzionate” per farne un problema politico, promettendo di colpire duramente quelli che stanno dietro alle manifestazioni. Analisi sbagliata e minacce inutili. La rabbia è ancora più radicata nonostante la rimozione del governatore e di qualche responsabile della regione. In questa prima settimana dell’inizio dell’anno nuovo l’atmosfera è pesante, la rivolta continua in vari posti e gli slogan dei cortei passano dalla rivendicazione di una vita migliore a una richiesta espressa di più libertà, più democrazia. Atto terzo. L’8 e 9 gennaio le manifestazioni pacifiche di Kasserine, nel centro del Paese, degenerano in violenti scontri che contano almeno 21 morti. L’uso di armi da fuoco per disperdere una manifestazione pacifica è un fatto gravissimo che ha come effetto quello di rendere la gente più determinata e di far saltare l’ultima barriera che tiene ancora a freno la più parte delle persone: la paura, dopo questi episodi, cambia ormai campo; non più nelle file dei manifestanti, bensì in quelle del governo. Atto secondo bis. Il 10 gennaio Ben Alì decide di intervenire in televisione per la seconda volta per denunciare “atti di terrorismo” commessi da alcuni manifestanti allo scopo di destabilizzare il Paese e promette la creazione di trecentomila nuovi posti di lavoro entro il 2012. Discorso ancora più deludente del primo. Ormai tutti hanno chiaro che Ben Alì ha deciso di non dare ascolto alla gente in piazza che non chiede più solo lavoro, ma dignità, libertà e democrazia. Alla risposta inadeguata del presidente corrispondono manifestanti più determinati non solo nelle città dell’hinterland, ma anche nella capitale e nei suoi sobborghi. A questo punto, il governo fa ricorso all’esercito e viene imposto il coprifuoco nelle grandi città. 36 Atto secondo tris. Il 13 gennaio Ben Alì è di nuovo in televisione. Dichiara che è stato ingannato, che alcuni consiglieri gli hanno nascosto la verità e che per questo saranno puniti. “Mi rivolgo ora a voi tutti perché la situazione impone profondi cambiamenti, […] cambiamenti profondi e completi. […]. Io vi ho capito, si vi ho capito, ho capito voi tutti, i disoccupati, i bisognosi e i politici, tutti quelli che rivendicano maggiore libertà. […] Vi ho capito, vi ho capito bene […] sono stato mal consigliato, vorrei spiegare che molte cose non hanno funzionato nel modo in cui speravo, specie quelle riguardanti la democrazia e la libertà, […] qualcuno, intorno a me, mi ha malconsigliato, qualcuno mi ha fuorviato nascondendomi la verità […]”50 Giura di aver dato ordine alla polizia di non sparare sui manifestanti. Promette di abbassare il prezzo del pane e della farina. Dice anche che non si candiderà alle elezioni del 2014 e che si impegna ad avviare riforme politiche molto profonde dando più libertà e più democrazia. È la prima volta da quando è iniziata la rivoluzione che Ben Alì fa un discorso squisitamente politico dando l’impressione di aver ascoltato le rivendicazioni della piazza. Ma ormai non basta più, la gente ha ancora in mente le promesse del novembre 1987. A confermare la fondatezza di questo timore è l’effetto prodotto dalla messa in onda delle manifestazioni di gioia organizzate subito dopo la fine del discorso dai suoi fedeli, prontamente riprese dalla televisione di stato, che, invece di ingannare l’opinione pubblica, inducono gran parte dei cittadini a pensare che il sistema Ben Alì non cambierà mai. Risultato: lo sciopero generale indetto dall’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT) è mantenuto e si prevede una manifestazione sul viale principale della capitale. Sarebbe interessante commentare anche i gesti e le espressioni con cui Ben Alì ha accompagnato il proprio discorso: la postura del corpo, lo sgomento nel viso per le cose che sono successe al “suo” popolo, il dolore espresso con la mimica facciale per i tanti giovani disoccupati. 50 Questo discorso è stato oggetto di parodia da parte di un tunisino un pomeriggio (5 aprile 2011) a Lampedusa, in piazza. Il ragazzo, salito su un palchetto, è stato applaudito da un nutrito gruppo di tunisini che lo incitava a continuare chiedendogli anche notizie di Leila. Qualcuno, con il telefonino, riprendeva la scena. 37 Atto quarto. Il 14 gennaio decine di migliaia di giovani e meno giovani si danno appuntamento di fronte al ministero dell’interno, simbolo della repressione che ha caratterizzato il regime. A quelli che sono arrivati sin dalle prime ore del mattino da ogni parte della città si aggiungono avvocati, medici, insegnanti, impiegati statali, personale delle banche e delle assicurazioni e altri ancora. Uno slogan unico viene subito adottato da tutti: “dégage!”51, che riassume l’unica richiesta di un intero popolo. Tutta questa folla non vuole altro che farla finita con Ben Alì e il suo regime. Per la prima volta tutti sono uniti sotto un'unica bandiera, quella nazionale, difendendo un solo slogan molto chiaro; ed è anche la prima volta che si arriva molto vicini al ministero dell’interno, dove agenti di sicurezza e manifestanti si fronteggiano senza scontri fino alle 14.45, ora nella quale la dimostrazione si trasforma in sommossa. Tunisi brucia. Si cominciano a contare i morti e i feriti. Alle 17.00, all’inizio del coprifuoco, si apprende che il governo si è dimesso e si dichiara lo stato di emergenza. Ma la notizia più importante, e che nessuno avrebbe sospettato, è quella che Ben Alì ha lasciato il Paese. Il primo ministro dell’articolo 56 Mohamed della Ghannouchi, Costituzione, di annuncia, assumere in ottemperanza temporaneamente le prerogative di capo dello stato. Atto quarto bis. Epilogo provvisorio. Il 16 gennaio il presidente della corte costituzionale annunzia la vacanza definitiva del posto di capo di stato e l’applicazione dell’articolo 57 della Costituzione: il presidente della camera dei deputati diventa capo di stato per un massimo di 60 giorni entro i quali si dovrebbero organizzare elezioni presidenziali. 51 Vattene. É stata una delle parole chiave della rivoluzione. Gli slogan brevi e incisivi sono tipici delle così dette rivoluzioni “colorate” di cui ho accennato alla nota 11. Tali rivoluzioni sono state definite dagli stessi attori proponenti e dai media internazionali in base a un colore (rivoluzione “porpora” in Iraq nel 2003 o “arancione” in Ucraina nel 2004) o a un fiore o pianta (rivoluzione “delle rose” in Georgia nel 2003 o “dei cedri” in Libano nel 2005 o ancora “dello zafferano” in Birmania nel 2007). Quella tunisina è stata definita dai media internazionali del “gelsomino”, epiteto però che è stato rifiutato dai tunisini stessi che non vi si riconoscono. 38 Ma cos’è successo quel giorno?52 È prematuro sapere con esattezza cosa sia successo esattamente il 14 gennaio 2011 in Tunisia ma, grazie ad alcune dichiarazioni rilasciate da personaggi chiave e a indiscrezioni credibili, disponiamo oggi di informazioni frammentarie ma ugualmente utili per una lettura verosimile della realtà dei fatti. La prima fonte interessante è Ridha Grira, ultimo ministro della difesa del governo Ben Alì che, in un'intervista rilasciata a una radio privata, parla degli avvenimenti del 13 e 14 di gennaio come fatti confusi in cui ogni minuto avveniva un episodio nuovo o una decisione importante. Racconta il ministro che la situazione ha cominciato ad assumere dimensioni drammatiche la notte tra giovedì 6 e venerdì 7 gennaio, quando l'ex presidente Ben Alì aveva ordinato il coinvolgimento militare per mantenere l'ordine nelle regioni dell'interno, mentre questo tipo di missioni è ufficialmente ed esclusivamente di competenza delle forze di sicurezza interna. Questa decisione è oggetto di una riunione tenutasi presso la sede del ministero degli interni, domenica 9 gennaio, in presenza, cosa non abituale, di Alì Seriati, direttore della sicurezza della presidenza, il quale aveva assunto le funzioni di coordinamento della sicurezza tra i due dipartimenti. La circostanza stupisce molto Ridha Grira, sconvolto nel vedere il direttore di sicurezza della presidenza dare ordini ai militari, una prerogativa che potrebbe assumere solo il capo dello stato o il ministro della difesa. Inoltre, Alì Seriati chiama giovedì sera, 13 gennaio 2011, il ministro della difesa per chiedere un intervento più incisivo da parte dell’esercito, altrimenti, afferma, il giorno dopo “non ci sarà più nessuno al palazzo presidenziale”. Nel frattempo, giunge al ministro un'informativa secondo la quale alcuni funzionari di polizia e della guardia nazionale avrebbero cominciato a consegnare armi di servizio all'esercito. Il ministro chiede agli ufficiali di non accettarne, onde evitare cospirazioni contro le forze militari, accusabili, in tal 52 Di Abderrazek Dridi. 39 caso, di aver tentato di disarmare le forze dell’ordine53. A seguito di una comunicazione telefonica con il presidente, la procedura viene invalidata. Il 14 gennaio, a mezzogiorno circa, Grira riceve una chiamata da Ben Alì, il quale gli chiede ragguagli riguardo un elicottero pilotato da agenti di sicurezza incappucciati che si sta dirigendo verso il Palazzo di Cartagine54. Dopo averlo rassicurato sul fatto che tutti gli elicotteri erano sotto il controllo dell'esercito, Grira afferma di aver sentito Ben Alì dire testualmente: “allora è solo delirio di Seriati”, interpretandolo come un tentativo di intimidazione. A questo punto, Ben Alì decide di affidare la missione di coordinamento tra i due ministeri dell'interno e della difesa al generale Rachid Ammar, capo di stato maggiore dell’esercito. Nella stessa giornata del 14 gennaio 2011, verso le 17.30, aggiunge ancora Ridha Grira, il commando delle forze aeree lo informa che Ben Alì ha lasciato il Paese a bordo dell'aereo presidenziale, dall'aeroporto militare di El Aouina. È solo 5 minuti dopo il decollo che Grira riceve una chiamata dal presidente deposto che lo informa di essere sull'aereo. “La sua voce era strana e sonnolente, sembrava quella di un drogato” dichiara ancora l'ex ministro. Secondo Grira, Alì Seriati si trova in quel momento all'aeroporto di Tunisi-Cartagine, in compagnia del direttore del protocollo ed è soltanto allora che chiede all’ufficiale che gli sta parlando di bloccare Seriati e di isolarlo. L’arresto è immediato. L'invito, esteso a quattro esponenti-simbolo55 del governo tunisino da parte di alcuni membri della sicurezza presidenziale, desta stupore e preoccupazione a Grira, che consiglia a Mohamed Ghannouchi di non 53 Le dinamiche che hanno portato alle valutazioni delle scelte fatte non sono ancora ben definibili. È ipotizzabile che il ministro temesse un rafforzamento dell’esercito tale per cui il generale Seriati avrebbe potuto organizzare un colpo di stato. Sarebbe interessante comprendere quale posizione avrebbe assunto l’esercito qualora Ben Alì ne avesse chiesto l’ intervento. 54 Il palazzo presidenziale, abitato già da Bourguiba, non era più dimora della famiglia Ben Alì da qualche anno. Il presidente si era fatto costruire un palazzo a Sidi Dhrif, nei pressi di Sidi Bou Saïd. Si è poi appreso che il palazzo era stato affittato alla presidenza con un canone mensile di cinquantamila dinari. 55 Si tratta di Abdallah Kallel (presidente della camera dei consiglieri) Foued Mebazaâ (presidente della camera dei deputati), Mohamed Ghannouchi (primo ministro), Rachid Ammar (capo di stato maggiore dell’esercito). 40 andare al palazzo di Cartagine. Il consiglio viene rifiutato. Solo il generale Ammar non si presenta all’appuntamento. Gli altri, annunciata la vacanza del potere, eleggono, ai sensi dell'articolo 56 della Costituzione, Mohamed Ghannouchi nuovo presidente ad interim. Successivamente, prosegue Grira, si decide di tenere una riunione urgente presso la sede del ministero degli interni dove sono presenti cinque membri del consiglio superiore delle forze armate: Ghannouchi, Friaâ (ministro degli interni) e alti funzionari del ministero degli interni. Un incontro che dura fino alle 3 del mattino e che si conclude con la decisione unanime di applicare l'articolo 57 della Costituzione che fa di Foued Mebazaâ presidente ad interim del Paese. A proposito delle insinuazioni che vorrebbero una presa di potere da parte dell'esercito, l'ex ministro della difesa nega questa possibilità sostenendo che le forze armate hanno categoricamente rifiutato di essere l'unico corpo a portare le armi in un momento tanto delicato. Una smentita categorica viene fatta anche sull’insinuazione di un intervento straniero preparato dagli USA già da tempo. Questi sono stati i punti cardini del racconto di uno degli attori principali di quei giorni; punti confermati, peraltro, dall’ex ministro degli interni nominato per due giorni con lo scopo di placare gli animi dei tunisini in piazza e di iniziare un nuovo percorso politico. Limitiamoci a questo racconto lasciando alla storia il compito di chiarire le scelte adottate in questo contesto e confermando, però, che, comunque sia avvenuto, resta il fatto che Ben Alì abbia lasciato il Paese determinando una nuova pagina di storia per la Tunisia. Il giorno successivo sarebbe dovuto essere un giorno di festa, ma così non è. Tutto il Paese è sotto choc sia perché nessuno aveva previsto la fuga del potente, arrogante, Ben Alì, sia per una serie di episodi molto inquietanti. Ben Alì, infatti, ha lasciato cecchini che continuano a sparare, dai tetti, sulla folla, nonché una milizia che sta provocando panico ovunque. Composta da mercenari israeliani, polacchi, bulgari che hanno occupato il terreno lasciato dalle forze di sicurezza interna, questa milizia è stata ingaggiata dal presidente con l’intento di mettere in pratica una politica di “terra bruciata” preparata da tempo da esperti per punire tutti i dissidenti. Sarà vero? I morti 41 sicuramente lo sono. Il compito di scoprire mandanti ed esecutori spetterà alla giustizia. Difficile descrivere lo stato d’animo dominante di una popolazione inerme, pacifica e che non chiede altro che vivere nella tranquillità e nella dignità. In poche ore, però, e come per magia, si decide di riprendere in mano la situazione mettendo in campo comitati popolari di protezione e di difesa civile. E la sera stessa, su tutto il territorio e in ogni quartiere, giovani e adulti armati di qualche bastone e di molto coraggio assediano le città in difesa della rivoluzione: Ben Alì, Leila & co. non passeranno mai. Ormai una miscela di gioia e di paura, di orgoglio e di modestia, di calma e di effervescenza, di euforia e di prudenza domina il Paese dal nord al sud. Ma la caratteristica principale che salta fuori da subito è che i tunisini sono ancora più determinati di prima. E questo si avverte dalla reazione alla formazione del primo governo di transizione. Difatti, appena formato, quest’ultimo cade sotto la pressione della gente a causa della presenza di ministri che, in passato, erano stati membri del RCD o avevano fatto parte dell’entourage di Ben Alì, anche se alcuni erano stati allontanati per dissensi strutturali con lui. La forma di lotta scelta è il sit-in nella piazza del governo con una rivendicazione principale: fuori tutti i ministri del RCD, compreso il primo ministro. Ciò accade qualche giorno dopo senza, però, che cambiasse l’opinione del “popolo sit-in” che torna di nuovo a occupare lo stesso posto provocando la disperazione di molta gente. Ed è in quest’occasione che assistiamo all’entrata in scena di alcuni partiti fondamentalisti quali Ennadha ed Hezeb Ettahrir56, di estrema sinistra quali il Parti Communiste des Ouvriers de Tunisie e il Mouvement des Démocrates Socialistes, che si sono alleati all’Union Générale Tunisienne du Travail, all’associazione dei magistrati, al consiglio dell’ordine degli avvocati e ad altri soggetti minori che hanno formato una coalizione a sostegno del sit-in e quindi contro il governo provvisorio. Il che non trova il sostegno di altri settori importanti della 56 Altro movimento fondamentalista nato negli ultimi anni che, però, non utilizza la stessa retorica politica di Ennadha, proponendosi direttamente come centro propulsore della diffusione della legge sciaraitica. 42 società che si sono decisi a scendere in piazza per esprimere il proprio dissenso e dare appoggio al secondo governo Ghannouchi chiedendo che si torni a lavorare per cercare di salvare una situazione economica già difficile e che rischia di peggiorare rapidamente. Da segnalare che questa prima spaccatura è motivo di preoccupazione per molta gente non abituata a vivere in una società dove espressioni politiche diverse convivono naturalmente. Ma il vento di libertà che ha soffiato sulla Tunisia ha cambiato anche questo: la gente ormai si riunisce, discute, manifesta in piazza. Ogni giorno diversi cortei sono organizzati per le strade di Tunisi e anche in tutte le altre città: studenti, insegnanti, avvocati, medici, operai specializzati e non, ma anche gente unita intorno a una espressione culturale, politica, a un modello di società, comuni. A tal proposito, sono organizzate manifestazioni per l’affermazione dei diritti della donna e quelle per esprimere preoccupazione rispetto ai partiti fondamentalisti nonché per segnalare la propria presenza come settore importante della società civile determinato a lottare per il proprio modello societario. Allo stesso tempo, e mentre il sit-in continua con l’appoggio della centrale sindacale, diverse categorie di lavoratori tirano fuori dal cassetto le rivendicazioni che vi dormivano da anni e organizzano scioperi continui per chiedere che vengano soddisfate subito le proprie richieste. Risultato: il Paese è fermo e cominciano a mancare anche i prodotti di prima necessità. E, come se non bastasse, giungono da diverse parti del Paese notizie di un ritorno della violenza e di bande armate che cercano in tutti modi di spaventare le popolazioni e di installare ovunque un clima di paura e di sospetto. A conferma di tutto ciò, gli incidenti gravissimi che accadono nella capitale il venerdì e che causano la morte di tre persone, provocando le dimissioni del primo ministro e la nomina al suo posto di Béji Caïd Essebsi, ex ministro durante il governo di Bourguiba, il quale riesce a ottenere la fine del sit-in e il ritorno alla vita normale. Vengono istituite anche tre commissioni speciali create dal primo governo Ghannouchi al fine di stabilire la verità dei fatti, condurre il dibattito e delineare le linee guide del futuro modello di società sul quale si accorda 43 una larga maggioranza. Si tratta dell’alto commissariato per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, per la riforma politica e la transizione democratica; della commissione nazionale per stabilire i fatti sui casi di appropriazione indebita e corruzione; della commissione nazionale per stabilire i fatti sugli abusi durante l'ultimo periodo. 44 TESTIMONIANZE Sognando la rivoluzione57 Sin da adolescente, uno dei miei sogni più intimi è stato quello di far la rivoluzione. Non saprei dare una motivazione esatta al perché di quest'idea assillante, da dove venisse questo pensiero costante. Una convinzione assoluta, la mia: per cambiare le cose, nel mio Paese sarebbe dovuta avvenire una grande ribellione, una scossa che facesse svegliare le persone dal lungo letargo in cui sembravano ormai vivere. Probabilmente la causa di questa mia impellenza rivoluzionaria era insita già nel modo in cui appresi gli avvenimenti che avevano portato al colpo di stato del 7 novembre 1987. Quel giorno stavo rientrando a casa mia dopo la scuola (frequentavo il liceo) quando, per strada, incontrai mio padre che, lapidariamente, mi disse: “Auguri. Da oggi avete un nuovo presidente.” Non compresi le sue parole, ma arrivato a casa avevo asceso la tv e… avevamo un nuovo presidente! Ma cosa significava? Ero abituato da sempre a considerare inscindibile la Tunisia dall’unico presidente che avesse mai avuto, il salvatore e capo della patria. Quello di cui, da sempre, avevo sentito i discorsi. I suoi poster ovunque… come potevo immaginare la Tunisia senza le sue gigantografie? Certo, si sapeva che era diventato troppo vecchio per continuare a reggere le sorti del nostro Paese, che la nazione era alla deriva, ma tutto avrei immaginato tranne che qualcuno potesse avere il coraggio di destituirlo. E, come me, la pensavano tanti altri tunisini. 57 Noaman Beji, autore di questa testimonianza, ha 39 anni, ed è mediatore culturale a Palermo, dove vive. È arrivato in Italia alla fine del 2000. A Palermo ha partecipato al concorso di dottorato in storia medievale e ha vinto. Si è addottorato nel 2007 con una tesi dal titolo “Una relazione mediterranea: Sicilia e Tunisia nel confronto delle fonti cronachistiche (secoli XII/ XIV)”. Attualmente lavora soprattutto con i minori non accompagnati. Ha da poco fondato la cooperativa Unione Mediatori Interculturali Professionisti. La sua mail è [email protected] 45 Ma quel giorno successe una cosa molto strana: la maggior parte della Tunisia era in strada a festeggiare il nuovo presidente. Una cosa incredibile, pensando che la stessa gente il giorno prima inneggiava “Bourguiba con l’anima e il sangue ci sacrifichiamo per te”. Ma quel 7 novembre lo slogan era improvvisamente cambiato: “Ben Alì con l’anima e il sangue ci sacrifichiamo per te”. Non riuscivo a comprendere cosa stesse succedendo attorno a me. Tutto quello cui ero abituato era soltanto ipocrisia? Non era nient’altro? In pochi giorni, una settimana al massimo, tutte le gigantografie di Bourguiba vennero rimosse per dar spazio a quelle del nuovo presidente. Tutti in fila per fare le congratulazioni e sancire atti di obbedienza: “siamo tutti con te”. Avevamo un nuovo salvatore. Il discorso del suo insediamento al potere raccontava, dopo un piccolo riconoscimento ai meriti dell’ex presidente, della fine della presidenza a vita, del capo di stato che non deve essere eletto più di due volte, della repubblica. Un elogio al popolo tunisino che meritava una vita politica più moderna e più democratica. Un discorso che apriva la via a un sogno di democrazia, un’apologia degna di una repubblica realmente democratica. Parecchie persone si sono arruolate nelle fila del “rinnovamento”. Molti hanno avuto l’illusione che da quel giorno si potesse iniziare a scrivere una nuova storia del nostro Paese, una storia diversa. Tanti hanno creduto nei suoi discorsi e nelle sue intenzioni. Troppi si sono ingannati sul fatto che era arrivato il momento di godere, finalmente, di un potere democratico. Gli anni successivi mi scivolarono addosso. La scossa era passata e il terremoto nel Paese non aveva lasciato dietro alcun segno, nessuna striscia di sangue né di dolore. Assistevo al rinnovamento: nuove facce al governo, nuovi poster che riempivano le strade e nuovi discorsi che saturavano la tv. Le sue idee. Quelle giuste, quelle che servivano al Paese per superare tutte le sue difficoltà. Non sbagliava in niente, lui, tutto quello che diceva o che faceva era la cura miracolosa per i mali che affossavano il Paese. La macchina si era messa in moto e niente la poteva arrestare. Mi sembrava tutto tornato come era una volta. Abbiamo cambiato conducente ma non il mezzo di locomozione. Bourguiba era tornato di nuovo ma con un’altra faccia; avevamo di nuovo il salvatore della patria. Il presidente pensava per 46 tutti, risolveva tutti i nostri problemi, potevamo dormire sonni tranquilli. C’era lui a vigilare su ogni cosa. Siamo un popolo beato, pensavamo, il nuovo popolo eletto con la guida del nostro salvatore. Avevo mosso i miei primi passi nella politica ad appena 12 anni e avevo iniziato a frequentare i circoli dei fratelli musulmani tunisini58. Su di me era iniziato il loro lavoro di indottrinamento, molto sottile e molto leggero, con un inno alla rivoluzione islamica in Iran. Non capivo per quale motivo, ma quel vecchio con quella barba lunga59 non mi piaceva affatto; l’idea della rivoluzione, invece, mi attirava. Per parecchi anni avevo continuato a seguire i miei fratelli: era una cosa che aveva il sapore dell’avventura. Talvolta, quando si affrontava qualche argomento delicato, ci avvicinavamo l’uno all’altro e si abbassava la voce: “State attenti ragazzi. Questa che vi sto dicendo è una cosa pericolosa e non dovete dirla a nessuno”. In quei momenti io mi sentivo una persona speciale e importante. Ero messo a parte di verità segrete perché un fratello molto più grande di me mi reputava all’altezza del ruolo. Si creava, in quei momenti, un’atmosfera particolare, ricca di mistero. Mi sembrava di essere dentro un film d'azione nel quale avevo un ruolo, minuscolo certamente, ma l’avevo! Con il tempo, e continuando a crescere, si sviluppava anche la mia voglia di lettura. Continuavo a divorare libri. Mi piaceva tanto leggere; una passione che avevo scoperto non appena iniziai a sillabare in maniera autonoma e che nutriva la mia piccola testa perché non c'erano per me testi proibiti, leggevo tutto quello che le mie mani riuscivano ad agguantare. In questo ero testardo, non accettavo le raccomandazione dei fratelli che volevano evitassimo di leggere una certa letteratura, in particolare di quegli “atei marxisti”, che a leggerli potevamo finire nell’inferno. Una raccomandazione che rifiutavo in silenzio: più veniva ribadita, più cresceva in me la voglia di scoprire questi eretici. Pian piano, la mia strada si stava allontanando da quella dei miei fratelli. La mia mente era in continuo fermento: la sete di capire e di cercare delle 58 Poi movimento Ennadha. Cfr. nota 24. 59 Khomeini, il leader della rivoluzione iraniana. 47 risposte a ciò che avevo in testa non era soddisfatta dalle dichiarazioni dei fratelli. Non mi bastavano e non mi soddisfacevano fino in fondo. In più, l’esplosione ormonale che da buon adolescente vivevo, faceva il resto. Una continua battaglia fra la mia religiosità, che avrei scoperto ben presto molto fragile, la paura delle punizioni divine che mi avrebbero aspettato se non avessi seguito i dettami dell’islam, e tutto quel che succedeva dentro di me, i cambiamenti. Una battaglia che porta i suoi segni ancor oggi che sono adulto. La voglia di trasgredire e la rivolta ormonale, entrambe silenziose ma molto pregnanti, l’insoddisfazione intellettuale, mi hanno fatto allontanare dalla sfera religioso-militante. Non accettavo di vivere nella paura di una religione che non conosce che un Dio punitivo, nel terrore di finire all’inferno, di bruciare nel fuoco eterno. Cambiar strada è stato questione di un istante. Dovevo iniziare una nuova ricerca, un nuovo impegno. Ho infranto il muro della paura a 17 anni. Non ho più fatto il ramadan, ho rifiutato di fare il digiuno, disertato la moschea e abbandonato i fratelli senza grossi rimpianti. La mia famiglia, quando ha saputo che non facevo più il ramadan, mi ha cacciato da casa per una settimana. Un figlio ateo ed eretico! I miei sono molto religiosi; soprattutto mia madre, la quale non poteva accettare il fatto che il proprio figlio non fosse più il bravo musulmano che era stato fino a quel momento. Ovviamente, dopo qualche giorno, il sentimento materno prese il sopravvento e tornai a casa di nuovo ma, mi fosse chiaro!, solo perché ero suo figlio. Ho iniziato a scoprire la letteratura marxista, un nuovo mondo, un nuova percezione delle cose, e mi sono buttato nelle mie letture come un affamato, uno che aveva vissuto in un deserto e aveva trovato una fontana di acqua fresca. Iniziò cosi una nuova fase della mia crescita: imparai a bere il vino anche se non riuscivo a digerirlo. Ogni volta che lo bevevo finivo in un fiume di vomito, ma non volevo e non potevo più tornare indietro. Tanto avevo già prenotato un posto nell’inferno eterno! Bastava soltanto capire in quale livello Allah mi avrebbe collocato anche se, allo stesso tempo, speravo nel perdono divino: non ho fatto del male a nessuno, me la dovevo discutere direttamente dopo con lui questa storia! La mia buona volontà nel cercare il bene del mondo lo avrebbe impietosito e avrebbe perdonato i miei peccati. 48 Nell’attesa di discutermela direttamente con lui, iniziai a frequentare gruppi di sinistra a essere più partecipe nelle discussioni che si animavano all’interno del mio liceo fra le varie fazioni politiche, senza però schierarmi o affiliarmi a nessuno. Ricordo alcune nostre discussioni in classe. Certe erano anche molto accese, pur nel rispetto dei ruoli. I professori facevano da mediatori e le lezioni si trasformavano in circoli di discussioni fra i ragazzi di sinistra e gli islamisti. Erano anni molto belli anche se, piano piano e col tempo, gli islamisti prendevano terreno e accoglievano molto consenso. D’altronde, era prevedibile in una società ancora legata alla sua identità religiosa malgrado (o forse proprio per) i venti del liberalismo economico nel quale il Paese si era imbarcato, che provocavano scosse molto forti all’interno della nostra società non ancora preparata a un tale cambiamento. L’anno decisivo per le mie posizioni politiche, quello della svolta definitiva, fu il sesto anno di liceo. Avevo un professore di francese molto colto e molto bravo, le sue lezioni erano diventate l’appuntamento quotidiano per discutere liberamente di ogni cosa. Con i miei compagni di classe iniziammo a chiederci da che parte stesse il nostro prof, a chi appartenesse, quale il suo gruppo politico di riferimento. Alla fine capimmo: apparteneva ai Patriotes Démocratiques60, un gruppo politico di sinistra molto attivo all’interno delle università. Io iniziai a nutrire simpatia per i membri di questo gruppo e aspettavo il giorno in cui avrei iniziato a frequentare l’università per conoscerli meglio e, forse, iniziare la mia militanza nelle loro file. Erano gli inizi degli anni Novanta e il clima era disastroso per noi tutti che eravamo abituati a vedere il mondo diviso in due blocchi: da una parte il mondo liberale e imperialista nostro nemico, dall’altra parte il blocco socialista, nostro alleato malgrado alcune critiche che muovevamo alla sua politica, e sostenitore delle nostre lotte. Ma il muro di Berlino era caduto lasciando un vuoto enorme dentro di noi. L’Unione Sovietica non esisteva più, il nostro sogno di rivoluzione era svanito. Il Paese della rivoluzione di 60 Movimento a tendenza maoista-nazionalista nato alla fine degli anni Settanta dalla scissione del Parti Communiste Tunisien. 49 ottobre, il Paese di Lenin… non era rimasto niente. Dopo è arrivata la seconda guerra del Golfo contro l’Iraq. Ci siamo mobilitati tutti, il liceo era diventato il nostro luogo di incontri e di organizzazione delle proteste. All’inizio avevamo iniziato a manifestare all’interno delle mura del liceo, ma poco dopo queste erano diventate troppo strette per noi. Tutto il Paese era in fermento, tutti parlavano, tutti discutevano, ovunque raduni e cortei. Restavamo incollati davanti alla tv per quasi tutta la notte, raccoglievamo informazioni dappertutto. Ogni giorno, la mattina, ci trovavamo al liceo per discutere sul da farsi. Eravamo un piccolo gruppo, ma eravamo riusciti a trascinare tanti liceali della nostra e di altre scuole alle iniziative che organizzavamo, pur restando sempre vigili per contrastare le infiltrazioni degli islamisti e bloccare i loro slogan e i loro tentativi di orientare e controllare le nostre manifestazioni. Ormai la maggior parte degli studenti seguiva il nostro piccolo gruppo, guardava a noi come punto di riferimento, ripeteva i nostri slogan. Un periodo molto bello nel quale eravamo padroni delle strade della nostra città senza che la polizia intervenisse. Osservava e lasciava correre. Ci sentivamo davvero liberi nel nuovo governo. All’improvviso però tutto cambiò: il governo aveva dato il via alla guerra contro gli islamisti che avevano iniziato la lotta al potere. Una battaglia nella quale non avevamo alcun peso e che era al di là delle nostre capacità. Non condividevo le posizioni filoislamiche assunte da molti miei compagni di scuola, ma non si poteva permettere che subissero le atrocità cui si sapeva fossero sottoposti coloro che venivano scoperti. Spesso questi nostri compagni di scuola sparivano o venivano arrestati; amici con i quali eravamo cresciuti erano costretti a nascondersi. Al liceo, nelle aule, sui banchi, trovavamo manifesti di propaganda islamista. Li bruciavamo nei bagni per evitare che arrivassero alla polizia che sarebbe facilmente risalita agli autori. Non condividevamo le posizioni filoislamiche, ma non potevamo farci complici del braccio armato del governo. Ci arrivavano le notizie sulle atrocità che subivano le persone arrestate ma nessuno, per paura o silenzioso compiacimento, osava denunciare gli abusi di potere. Nel silenzio del terrore, il regime vinse la sua guerra contro gli islamisti. Forte della complicità del connivente mondo liberale e democratico che applaudiva al 50 regime di Ben Alì nella battaglia contro i fondamentalisti islamici, allo stesso tempo il regime aveva profittato di questa situazione per spazzare via tutte le opposizioni e instaurare un potere saldo basato sulla repressione: non si sarebbe accettata più alcuna voce di dissenso se non autorizzata dal potere stesso. Nell’ottobre del 1991, feci il mio ingresso all’università deciso a “far qualcosa” e a essere politicamente attivo malgrado l’aria pesante che il Paese respirava. Scoprire le condizioni dell’università fu un shock per me. La prima cosa che notai, e con me gli altri nuovi scritti, furono le due macchine piene di agenti di polizia antisommossa che sostavano tutto il giorno all’entrata dell’ateneo: erano pronti a intervenire in qualsiasi momento. L’altra cosa era il corpo di polizia universitaria che aveva la propria caserma al cancello di ingresso e che controllava gli studenti che entravano per seguire le lezioni. Ero cresciuto sentendo molte storie sulla vita all’università: un'oasi di dissidenza e di opposizione al potere e al regime, un centro di discussione, un laboratorio di idee con gruppi politici di ogni ispirazione e tendenza che si confrontavano pubblicamente. Trovavo il vuoto. Avevo l’immagine di un centro di lotta e di cultura allo stesso tempo, ma ero capitato nel momento sbagliato. Forse le cose cambieranno, pensai. Volevo l’università che avevo sognato, ma non c’era quasi niente. Una delusione che attivamente, con miei amici, dovevamo superare. Rimboccarsi le mani era d’obbligo. Durante tutto il primo anno eravamo riusciti a fare una sola manifestazione che, appena iniziata, fu però repressa. Una scena da film di terza categoria: l’università sembrava essere divenuta un teatro di guerra. Vedevo le persone che scappavano e, a un certo punto, iniziai a scappare anch’io. Dietro a noi, questi “superpoliziotti”, in divisa con manganelli e fucili, lanciavano bombe lacrimogene. Quel giorno presi le mie prime manganellate. Successivamente, i miei amici mi raccontarono che quello che avevo vissuto sarebbe stato soltanto un piccolo assaggio se avessi voluto partecipare anch’io alla vita politica dell’università. Già l’anno prima, ogni giorno era la stessa storia: i poliziotti che caricavano gli studenti, gli islamisti che contrattaccavano, gli altri studenti che assistevano passivi e impotenti a queste scene di guerriglia quotidiana per una buona fetta dell’anno 51 universitario. Ho imparato a muovermi e a capire cosa fosse rimasto di gruppi politici attivi all’interno dell’università. In realtà, al mio primo anno, della vita politica nell’università non era rimasto granché. Gli episodi dell’anno precedente avevano seminato in quasi tutti il panico, essere un attivista politico sembrava una pazzia. Nessuno poteva proclamare la propria appartenenza senza rischiare l’arresto e la possibile condanna davanti a un tribunale manipolato dal governo. L’università rischiava di essere troppo politicizzata per il potere, che doveva assolutamente sottometterla. Era una spina nel fianco del governo, con cui lo stesso avrebbe dovuto fare i conti. Si doveva abbattere l’ultimo baluardo del libero pensiero, di una reale opposizione alle politiche del potere. La guerra agli islamisti aveva offerto un'occasione d’oro per sottomettere anche l’università e spazzare via tutti i gruppi politici attivi al suo interno. Questa era l’università che mi apprestavo a frequentare. Ma rimaneva ancora un neo per il governo: la centrale sindacale61, che aveva partecipato alla lotta per l’indipendenza del Paese e che godeva di un certo prestigio e ancora di una certa indipendenza che permetteva un piccolo spazio di manovra soprattutto ai gruppi di sinistra. A quella mi rivolsi. Nel 1972, quando i gruppi di sinistra che rappresentavano la maggioranza si opposero all’egemonia del partito al potere, i lavori per la preparazione del XVIII congresso furono interrotti e le attività della centrale sindacale sospese. Si era aperta una lunga stagione di lotte politiche e sindacali clandestine e, quando la situazione lo permetteva, pubbliche. Nel 1987, l’apparente apertura democratica del nuovo potere permise di riprendere l’attività della centrale sindacale con l’inaugurazione, dopo diciotto anni dalla sua interruzione, del XVIII congresso straordinario guidato da forze di sinistra e progressisti e senza la presenza del partito al potere. Col tempo il governo iniziò però a osteggiare l’attività del sindacato e diede il 61 Si tratta dell’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT). 52 via a un’opera di repressione sottile e paziente, ma efficace poiché riuscì a corrompere una parte delle forze politiche presenti nella centrale62. L’UGET63 rimaneva praticamente l’unico spazio d’azione per delle lotte politiche e sindacali. L’altra alternativa erano l’anonimato e la clandestinità. Se mi chiedessero ancora oggi di spiegare cosa sia la paura, direi che la paura ha anche un odore, quello dell’aria che respiravo all’università della Manouba. E tanti volti quanti erano quelli dei miei colleghi, la maggior parte, che evitavano di parlare di politica pubblicamente. Ma avrebbe anche la voce di quelli, pochi, che di politica parlavamo. Di questo sparuto gruppo, una buona fetta era composta da quelli della generazione precedente alla mia, quelli che erano già all’università quando nella mia classe c’erano le lezioni del professore di francese. Abituati alle lotte e molto politicizzati, anche se non più in prima fila, c’erano. Mi hanno legato amicizie molto profonde agli studenti di questa generazione che la mia guardava con molto rispetto e ammirazione per la loro storia, la loro formazione intellettuale e il loro impegno; ci sembravano dei giganti alla cui grandezza non saremmo mai arrivati, ma quantomeno da emulare. Ci raccontavano molte storie sulla vita della facoltà che avevo scelto per studiare storia, la Manouba appunto. L’università prende il nome da una piccola cittadina agricola alla periferia di Tunisi. La prima volta che andai a conoscere la mia futura facoltà rimasi frastornato: un ateneo sperduta nel nulla. Il centro urbano più vicino distanziava 3 chilometri e attorno c’erano solo campi. Un modo, questo, per tenere gli studenti lontani dai centri abitati e far passare le loro lotte 62 Dopo il XVIII congresso, nel maggio del 1988, che ha decretato il nuovo inizio delle attività sindacali ci sono stati i congressi del 1989 (XIX), del 1991 (XX), del 1993 (XXI), del 1997 (XXII), del 2000 (XXIII), del 2003 (XXIV). Da quest’ultimo congresso il sindacato si è spaccato in diverse fazioni e non riesce a organizzarne uno nuovo anche se, per statuto, dovrebbe rinnovare il suo ufficio direzionale ogni due anni proprio tramite un congresso. 63 Union Générale des Etudiants de Tunisie. È la scuola di tutte le generazioni di sinistra che hanno lottato per la democratizzazione del Paese. Nel febbraio del 1972, durante il congresso di Korba, ci fu una specie di golpe fomentato dal partito di Bourguiba che tentò di ridurre sotto il proprio controllo il sindacato che divenne una sezione del partito. Nacque, a seguito di quest’evento, una direzione clandestina parallela che avrebbe dovuto organizzare un congresso straordinario. 53 nell’anonimato. Il resto del Paese non ne poteva essere informato. Il diktat era di vietare ogni contatto diretto con la popolazione che vedeva negli studenti la propria voce soppressa. In questo luogo dovevo trascorrere quattro anni e dovevo prendere una posizione: stare dalla parte di quelli che avevano scelto il silenzio e fare una vita tranquilla, godendomi gli spazi di libertà lontano dalla famiglia che la vita studentesca offriva, o mettermi in gioco? I primi tempi (un periodo molto breve, in realtà) ho provato a fare lo studente modello: assistevo alle lezioni, facevo i compiti, studiavo, continuavo a leggere un libro dopo l’altro, stringevo amicizie, alcune molto belle, e mi ero anche fidanzato con una bella ragazza. Ma, con il passare del tempo, andavo scoprendo che tutto questo non mi sarebbe potuto bastare. Non mi soddisfaceva, mi mancava qualcosa. Io non ero uno studente modello, avevo bisogno di agire. Di buttarmi nella mischia, anche se in quel momento non esisteva alcuna mischia. La dovevamo creare noi, io. Questi anni non potevano passare senza provarci, volevo ritrovare l’università che avevo sempre sognato. Un amico che conoscevo dai tempi del liceo, con il quale condividevo anche la stanza nel dormitorio universitario, mi invitò a partecipare a un segreto incontro politico. Non ebbi bisogno nemmeno di pensarci, diedi subito la mia disponibilità. Con mia grande sorpresa e gioia, l’incontro si sarebbe svolto proprio nella nostra stanza, quella che condividevo con questo amico, ora divenuto compagno. Non riuscivo a crederci. Mi diceva che quella sera avremmo avuto degli ospiti importanti e io avevo intuito che mi aspettavano ore davvero speciali. Il primo ad arrivare fu il compagno Habib e quando me lo vidi spuntare rimasi senza fiato. Lo conoscevo bene, Habib, era uno dei leader rimasti ancora attivi e faceva parte del sindacato; e conoscevo il suo gruppo politico che, di lì a poco, sarebbe diventato anche il mio. Era molto bravo a tenere comizi e molto preparato ideologicamente e intellettualmente. Io mi sentivo felice, e in qualche modo importante e degno di fiducia. Gli infiltrati erano ovunque e bisognava stare molto attenti prima di decidere di fidarsi di qualcuno. Malgrado chiacchierassimo su tutto, parlavamo molto di politica e di università, il mio amico, infatti, non mi aveva mai svelato prima di appartenere a un gruppo attivista. Dopo l’arrivo 54 di Habib iniziarono ad arrivare anche altri: eravamo in tutto una decina di persone e, quando fummo tutti riuniti, uno dei compagni aprì il rubinetto del piccolo lavandino che avevamo nella stanza. All’inizio non capì il senso di quella mossa, poi, l’illuminazione: il dormitorio era un prefabbricato e si riusciva a percepire il più piccolo rumore; il rubinetto aperto era un modo molto semplice per coprire le voce cosicché i vicini non potessero sentire niente. La riunione era segreta e i discorsi che dovevano essere affrontati dovevano rimanere segreti. La soluzione del rubinetto era l’unico mezzo a nostra portata, per il resto noi dovevamo stare attenti a parlare a voce bassa. Il primo a prendere la parola fu proprio Habib che iniziò a parlare dei Patriotes Démocratiques, di chi fossero, della loro storia, di quel che predicavano, di come agivano all’interno dell’università e, terminati gli studi, fuori. Spiegò che i Patriotes Démocratiques erano un movimento, una corrente di pensiero, persone legate da un'idea comune e che quasi ogni gruppo era indipendente, libero di decidere come muoversi autonomamente nella propria facoltà. La cosa che mi colpì era l’attenzione rivolta alla preparazione intellettuale e anche pratica dei compagni. Il ruolo dei Patriotes Démocratiques era preparare l’élite che avrebbe dovuto guidare la rivoluzione democratica nel Paese quando il momento sarebbe stato opportuno. Che felicità! Si parlava dunque di formazione e di impegno reale per costruire la rivoluzione nel Paese. La seduta durò molto a lungo, ma il tempo per noi si era fermato e aveva perso qualsiasi importanza: avevamo fame di sapere, di capire. Tante le domande da fare. Al momento del commiato, guardai fuori dalla finestra. Cominciava a fare giorno, l’alba era già passata. Da quella notte era iniziato il mio impegno diretto nella vita politica della mia facoltà e avevo finalmente dei compagni sui quali potevo contare, e loro su di me. Pian piano, scoprii e capii che la mia facoltà ne nascondeva al suo interno un’altra un po’ invisibile e un po’ sotterranea, una parte che non è dato a molti conoscere. Imparai a comprendere le differenze fra le diverse fazioni politiche che esistevano ancora, e quello che rimaneva di un’altra epoca cosi vicina e nello stesso tempo molto lontana. Quando si parlava di come fosse la mia facoltà e di come fosse piena di fazioni politiche attive 55 sulla piazza, avevo la sensazione che si stesse parlando di un passato lontano anni luce dalla situazione nella quale vivevo io. Adesso la polizia controllava tutto: qualsiasi cosa volessimo fare dovevamo chiedere un permesso al preside e lui, prima di dare il consenso o di negarlo, doveva chiedere l’approvazione del ministero dell’interno. Ogni iniziativa, anche la più semplice, diventava un’impresa da compiere. Anche su questo piano dovevo imparare a muovermi: come avere i permessi velocemente, come trattare con il preside, come evitare situazioni che potessero suscitare perplessità e molto altro. Potevo contare sempre sulla supervisione di Habib e l’appoggio di compagni molto più esperti, ma anche di altri che se ne erano aggiunti in seguito. Avevano imparato a muovermi in questo mondo nuovo, per me molto affascinante; in più avevo il privilegio di far parte di una realtà che molti ignorano tuttora. Altre amicizie, nuovi compagni che ho imparato ad apprezzare e con cui affrontare certi argomenti culturali e politici. Ma se io avevo imparato a conoscere le realtà sotterranee della mia università, a loro volta, l’università prima, e la polizia dopo, avevano imparato a conoscere me. E mi schedarono. La fine dell’anno cominciava ad avvicinarsi e incombevano le elezioni per il XXI64 congresso della centrale sindacale; dovevamo partecipare. Iniziarono una serie di incontri e riunioni, di giorno e di sera, i tempi erano molto stretti. La prima cosa che feci fu la campagna di iscrizione al sindacato cercando di convincere amici e conoscenti, ma non era un'impresa facile perché molti avevano paura. Superata comunque questa fase, inaugurammo la seconda: si dovevano scegliere i compagni che avrebbero dovuto rappresentarci al congresso, e iniziò un altro giro di riunioni e discussioni, anche sull’utilità stessa di essere presenti all’evento. Fui scelto fra quelli che si sarebbero dovuti presentare come candidati al congresso e, inoltre, per far parte del gruppo che doveva comporre il bureau féderale, la sezione di base del sindacato della mia facoltà. Non avevo nessuna intenzione di tirarmi indietro, non eravamo tanti ed era quello che avevo sognato da molto tempo. 64 Era l’anno1993. 56 Tuttavia, molte angosce mi assillavano giorno e notte: la paura di essere schedato immediatamente anche dal ministero dell’interno, mi faceva prospettare i vari scenari che sarebbero seguiti. Stava iniziando un'avventura per la quale non avevo garanzia alcuna se non quella di essere poi arrestato, in qualsiasi momento. Ma sarei stato capace di affrontare tutto questo? Ero pronto per una simile esperienza? Avrei avuto le capacità necessarie per portare avanti questo compito? Sarei stato un buon compagno? Avrei saputo resistere alle pressioni che avrei dovuto subire sia dal potere sia dalla mia famiglia, ma anche dai miei amici? Nessuno aveva condiviso questa mia scelta e tutti hanno provato a dissuadermi, ma senza successo. Niente da fare, avevo deciso di buttarmi, “quel che sarà, sarà” era il mio motto, certo di poter fare affidamento sempre sui miei compagni. La campagna elettorale fu estenuante: discussioni giorno e notte, dover convincere le persone a votare per la propria parte... un lavoro infinito con mezzi rudimentali: avevamo soltanto i soldi che portavamo dalle nostre famiglie per i nostri bisogni durante la settimana! Correre per tutto il giorno, parlare, discutere, scrivere testi e dichiarazioni da affiggere l’indomani nelle aule… passavamo notti in bianco e la mattina presto tappezzavamo la facoltà con i nostri manifesti. Ma per due settimane la Manouba era tornata come era una volta, quella dei miei sogni: il governo aveva lasciato spazio libero alla campagna elettorale. Discussioni infinite con le altre fazioni politiche e soprattutto con il PCOT, il Parti Comuniste des Ouvriers de Tunisie, con il quale c'erano molte discordanze ideologiche, operando anche scelte politiche differenti; PCOT che, invece di essere un alleato, ci faceva comunque opposizione. Anche questo un avversario da battere, soprattutto per arrestarne la volontà di egemonia sul sindacato al fine di renderlo una sezione del partito. Paradossalmente, in questa battaglia ci trovammo sulla stessa linea con il potere: per diversi motivi la finalità era la stessa. Combattevamo da una parte contro il governo e le sue politiche e, dall’altra, contro un partito organizzato, la lotta era ineguale su tutti i fronti. La nostra unica forza era la nostra capacità di convincere gli altri della validità delle nostre idee e delle nostre scelte e la nostra abilità a raccogliere consenso. Alla fine la spuntammo nella mia facoltà, dove riuscimmo a ottenere la 57 maggioranza; ma nelle altre facoltà era stato il PCOT a vincere. Diventai membro del bureau fédérale e anche congressista. Il congresso sarebbe stato all’inizio dell’anno successivo, ma tante erano ancora le cose da fare. Erano giorni molto intensi, che abbiamo vissuto con la massima dedizione; ci eravamo scordati di essere studenti e di avere corsi da seguire e compiti da fare (anche se, alla fine, la maggior parte di noi era riuscita lo stesso a superare gli esami). L’anno seguente si aprirono i lavori del congresso e la battaglia divenne molto dura, perché tutto dipendeva dai voti. Ce la mettemmo tutta per cercare di stemperare la brama di egemonia del PCOT ma fallimmo clamorosamente. D’altronde il PCOT aveva i voti dei militanti che erano messi lì non per dibattere e decidere insieme (per questo c’era la leadership) ma per alzare la mano e dire di sì. Una situazione che mi sembrò surreale, tanto ero abituato a discutere con i miei compagni su qualsiasi scelta dovessimo operare. Ogni nostra idea era soggetta a dibattito, anche i nostri leader facevano lo stesso. Eravamo stati abituati a un altro modo di fare e di intendere la politica. Un modo basato sulla condivisione delle scelte e delle tattiche da seguire. Ognuno di noi, dopo aver preso una decisione comune, era un carro armato pronto a dare battaglia senza aspettare le raccomandazione della propria leadership. Alla fine, alle elezioni per scegliere i membri del comitato esecutivo ci esclusero. Era la prima volta che non avevamo un membro nel comité exécutif. Ma andava bene lo stesso. Da quel momento eravamo ufficialmente l’opposizione all’interno del sindacato. Alla fine del congresso, prima di tornare alla città universitaria, venni arrestato dalla polizia politica. Era il mio primo arresto, avevo paura, ma non avevo niente da nascondere. Comunque loro sapevano già tutto quel che era successo al congresso nei minimi dettagli. Volevano ancora informazioni che, peraltro, io non possedevo. Avevo risposto di non saper nulla. E in quel preciso momento arrivò il primo schiaffo. Poi qualche altra domanda. Con chi sei? Sono con l’opposizione. Va bene puoi andare, ma sai che noi sappiamo tutto vero? Sì. Ogni tua risposta è una cosa che già sappiamo. Gli anni successivi furono più pesanti: tutta una generazione era uscita dall’università, ci trovammo noi nuovi compagni, con la nostra piccola 58 esperienza, a gestire da soli la facoltà e a portare avanti le nostre lotte senza punti di riferimento che ci rassicurassero, ci aiutassero, ci consigliassero. Temevamo di non essere pronti a sostenere il peso di tutta questa responsabilità. Ma non c’erano alternative. Eravamo soli e dovevamo andare avanti. La facoltà stessa, nel frattempo, era cambiata. La nuova generazione era più proiettata al divertimento, a condurre la propria esistenza senza scosse; non si parlava più di impegno politico, né di sindacato. Mi sembrava una generazione appena scesa da un altro pianeta, mi sentivo a disagio in mezzo a loro. Dove erano i miei compagni, i miei amici? Erano momenti di panico e di disorientamento. Se gli insegnamenti dei nostri compagni predecessori ci avevano dato una mano, il resto dovemmo impararlo da soli. E commettemmo anche tanti errori. Ogni anno che finiva dicevo a me stesso che sarebbe stato l’ultimo anno di impegno. Non ce la facevo più. Ero molto stanco e i compagni si ritiravano l'uno dopo l’altro. Non volevano più parlare di lotte e di oneri. Rimanemmo in pochi a provare ad andare avanti e a continuare a difendere i nostri ideali. Non mi arresi, ogni anno ricominciavo di nuovo, e così continuai. Fino all’inizio dei preparativi del XXII congresso. Dopo una lunghissima attesa, si era fissata la data del congresso65. Era arrivato il momento della riorganizzazione. Questa volta ero chiamato io a fare da leader, a cercare i compagni e a convincerli a partecipare al congresso. La sopravvivenza della nostra fazione politica dipendeva ora da me. Mi toccava assicurare la continuità della nostra esistenza all’interno della facoltà. L’ultimo anno alla facoltà della Manouba mi rimanevano poche materie per completare la mia laurea, avevo abbastanza tempo libero. Era un anno molto particolare per me: conoscere nuovi compagni, impegnare attivamente quelli che ero riuscito a reclutare anche se non erano molto pronti per un'esperienza del genere, come lo ero io all’inizio, d’altronde. Alla fine riuscii a formare una lista di compagni da presentare alle elezioni per il sindacato. Un’altra campagna 65 22 gennaio 1997. 59 elettorale, nella quale ero io il leader. Misi in campo tutto quello che avevo imparato nei miei anni di militanza. Era una cosa bellissima e anche molto stancante, come sempre. E, come sempre, fu una campagna elettorale all’insegna della povertà e dei sacrifici. Ma anche questa volta la spuntammo, anche perché l’ex partito PCOT si era diviso in due fazioni intente a farsi la guerra fra loro e la repressione del governo aveva fatto il resto. Ciononostante non avevamo campo libero per la nostra campagna elettorale, il governo aveva scelto di usare le maniere forti con tutti. Ormai era saldamente al potere e non accettava più compromessi con nessuno. Pur essendo un gruppo minuscolo all’interno dell’università, risultavamo molto fastidiosi per la nostra capacità di trainare gli studenti e, diciamolo, di “combinare casini”. Anche il nostro intellettualismo non era ben visto perché parlavamo di un movimento studentesco capace di dotarsi di un'autocoscienza politica e ideologica lontana dalle ragioni del potere: una coscienza alternativa comune, l’arma più difficile da combattere per qualsiasi tipo di dittatura. Cambiare gli spiriti, agire sulla mente delle persone, insegnare e imparare a riflettere autonomamente, sviluppare una coscienza critica. Questo può far molta paura. Riuscimmo di nuovo ad essere, malgrado i nostri ridicoli mezzi, una forza importante nella vita del sindacato e all’interno dell’università. Al congresso66 ero riuscito a portare un bel gruppo di giovani compagni, le discussioni erano accesissime, le forze in campo erano quasi eguali, con qualche indeciso, ma alla fine si giunse a un accordo per la rappresentanza nell’ufficio direzionale. Era passata la nostra linea: tutti dovevano essere rappresentati in proporzione alle proprie forze e al numero dei congressisti che si era riusciti a portare al congresso. Soltanto una fazione voleva avere più rappresentanti di quel che si era stabilito e, alla fine, scelse di abbandonare il congresso. Da quel momento iniziarono due anni infiniti di lotte, sia all’interno della centrale sindacale sia all’interno dell’università. 66 Dell’anno 1997. 60 La centrale sindacale. Era un altro passo che mai avrei immaginato di fare. Pensavo di chiudere con il sindacato, ma i miei compagni avevano un’altra idea: tu devi essere con noi nell’ufficio direzionale! Che emozione. Non l’avrei mai immaginato. Certo, anche la paura era tanta. Da quel momento ero sulla linea di fuoco: il minimo sbaglio e mi avrebbero messo dentro. Le porte della prigione erano più vicine di quelle di casa mia. Ogni giorno andavo all’università chiedendomi se la sera sarei ritornato a casa o sarei stato ospite della galera. Ma mi attendeva una sorpresa molto più amara della prigione. All’indomani del congresso, il segretario generale e la sua fazione, a nome di tutto il comitato esecutivo, avevano mandato un telegramma di ringraziamento al presidente Ben Alì per il suo aiuto nello svolgimento del congresso del sindacato. Un gesto che poteva sembrare banale, forse, ma per noi era un'offesa, un atto imperdonabile che metteva a rischio l’indipendenza del sindacato. Da quel momento, nel comitato esecutivo si formarono due correnti. Una più radicale, la nostra, non intendeva accettare alcun compromesso col potere: scrivemmo una petizione nella quale ci dissociavamo dal telegramma e dal messaggio, esplicito e implicito, del testo. Ovviamente, questa posizione ebbe non poche conseguenze per noi. La prigione era ormai la nostra prima casa; l’altra parte, invece, aveva scelto di essere più aperta a fare accordi con chi governava, ma non godette comunque di alcun beneficio. Per tutti quegli anni ero riuscito a tener fuori la mia famiglia. Non avevo il coraggio di dire cosa facessi all’università, non avrebbero mai accettato, né capito. Complici la lontananza e la mancanza di circolazione delle notizie, vi riuscii. Ma ero troppo stanco, e l’ultimo anno era stato troppo difficile. Era chiaro, ormai, che l’ambita specializzazione in storia moderna (nel frattempo mi ero laureato) non mi sarebbe mai stata concessa. Né avevo speranza di trovare un lavoro (le porte per me erano tutte chiuse) se non qualche piccola cosa informale che mi avrebbe permesso neanche di sopravvivere. In più, nutrivo l’ennesimo sogno che nel mio Paese mi era stato proibito, quello di fare il mio dottorato di ricerca. Finita l’università, ero stato tagliato fuori da tutto. 61 Così, alla fine del 2000 partii. Decisi che sarei andato in Italia, a Palermo, per ricominciare. Mi sorpresi nel momento in cui, passando il controllo della polizia di frontiera all’aeroporto di Cartagine, non mi fermarono, non mi dissero niente e non mi rimandarono indietro. La mia sorpresa svanì dopo quasi un mese, quando, chiamando casa mia, mi diedero la notizia che mio padre era stato condannato a due settimane di prigione, per una cosa di poco conto: aveva dato uno schiaffo all’ex marito di mia sorella che lo denunciò. Seppur mio padre avesse fatto una controdenuncia spiegando le motivazioni che l’avevano spinto a quel gesto, il giudice aveva deciso che mio padre meritava la prigione. Lui che aveva quasi settant'anni e che era sempre stato rispettato da tutti. Nessuno a casa mia riusciva a comprendere il senso di quella che sembrava una decisione folle. In quel momento, invece, per me fu tutto chiaro, lampante. Il messaggio era: non ti abbiamo detto niente, sei scappato ma sappi che possiamo fare qualsiasi cosa in ogni momento. Tieni la bocca chiusa. Cosa che io ho fatto per 10 anni. Non è stato facile, ma ci sono riuscito. Nel frattempo continuai a lavorare per dar una svolta alla mia vita. Vinsi il concorso per accedere al dottorato di ricerca in storia medioevale all’università di Palermo e, profittando della sanatoria del 2002, riuscii a ottenere l’ambito permesso di soggiorno. Ebbene sì, partecipai al concorso mostrando come documento di riconoscimento il mio passaporto ma, scaduto il mio visto turistico, ero rimasto illegalmente. Quando accaddero i primi eventi che portarono alla fine del regime di Ben Alì, non vi diedi molto peso. Pensavo che si sarebbe risolto in un tentativo di rivolta immediatamente repressa, come al solito. Sapevo che nel mio Paese la situazione era esplosiva. Mi sembrava un vulcano apparentemente dormiente ma che sarebbe potuto saltare in aria in qualsiasi momento. Con una scintilla in più. La famosa goccia che fa traboccare il vaso. Non avrei mai immaginato, però, che il suicidio di un giovane disoccupato sarebbe stata quella goccia. Ascoltavo le informazioni e le notizie che arrivavano dal mio Paese con scetticismo. Altre volte la gente era scesa per strada, altre volte aveva provato a cambiare le cose. Ma non c’era mai riuscita. Tutti i tentativi erano stati evanescenti come bolle di 62 sapone. La polizia controllava qualsiasi cosa e non permetteva che una rivolta locale potesse propagarsi in altri posti, meno che mai nella capitale. Dopo ogni repressione tutti tornavano nelle loro case a medicare le proprie ferite. Quante volte lo avevo fatto io! Stavolta, invece, tutto era andato diversamente. Gli eventi si susseguivano e si amplificavano. La rivolta toccava altre zone. La polizia sembrava impotente. La gente mostrava di non aver paura malgrado i primi morti. Continuava a scendere per strada e a manifestare la rabbia taciuta. Il potere ha tentato di contenerla, di controllarla, di reprimerla. Niente da fare, la rivolta continuava a crescere e crescere. Dopo la prima settimana, mi sono incollato davanti a internet, Facebook era diventata una finestra molto importante per seguire quel che stava accadendo nel Paese. I video e le foto dei morti, delle manifestazioni, erano a disposizione di tutti. Gli stessi tunisini si sorprendevano di se stessi e nessuno era pronto a guidare la rivolta, nessuno sospettava che questa volta le cose sarebbero andate diversamente. Cercare l’informazione e capire cosa stesse succedendo in Tunisia era diventato il mio pane quotidiano. Guardavo tutti i canali satellitari arabi, e anche quelli francesi, in cerca di conferme. È veramente la volta buona? Il Paese è davvero sulla strada giusta? La gente avrà la facoltà di resistere senza cedere? Il potere saprà infine reagire, come aveva fatto già tante volte? Erano momenti pieni di emozioni, di paura, di speranze e di malinconia e tristezza per me stesso. La rivoluzione che avevo sempre sognato la stavo guardando da lontano, la stavo vivendo come spettatore. Lontano, ma con la mente in Tunisia. Cosa succederà ora? Cosa faranno i miei compagni? Domande infinite. Chiamavo i miei familiari, mia madre mi diceva che le cose non andavano bene, ma non si sapeva molto. Confusione. Chiamavo il mio amico: “Ehi, ciao, come va? Come stai? Tutto bene? E tu? Cosa succede nel Paese? Che notizie hai?”. Momenti di silenzio. “Sai che qua non sappiamo molto, in tv non dicono niente, forse tu sei più informato di me, almeno hai più accesso di noi all’informazione. In più non mi va di parlare di certi argomenti al telefono.” 63 Sapevo che tutti i cellulari che chiamavo erano sotto controllo, anche quelli dei miei familiari. E lo stesso i telefono fissi. Ma non riuscivo a resistere. Telefonai a un altro compagno. “Ciao come va, tutto bene? Diciamo di sì. Cosa succede nel Paese? Guardo Al Jazeera e so che quasi tutto il Paese è in rivolta contro il governo.” “Noaman, stai certo che non so più di te, qua come al solito tutto va bene, nessuno parla.” La seconda settimana la situazione era diventata più chiara, quasi tutto il Paese era in rivolta, anche le grandi città costiere ormai erano coinvolte. Manifestazioni ogni giorno e molti morti che non facevano che alimentarla. I miei amici e compagni continuavano ad avere paura nel parlare liberamente con me al telefono, tutti avevano paura di quello che poteva accadere, ma anche il coraggio di continuare. La macchina repressiva del potere, pian piano, diventava impotente davanti alla rivolta popolare. Varie tattiche si susseguivano, spesso improvvisate. Il presidente parlava al “suo” popolo e discuteva di apertura, di cambiamenti. Nessun effetto. La rivolta continuava, La gente era stanca e decisa questa volta a non fermarsi davanti a niente. Telefonavo quasi ogni giorno per avere notizie e sapere come stessero i miei familiari. Mia madre era la fonte principale di informazioni sulla mia piccola città: hanno bruciato il posto di polizia e della guardia nazionale, hanno buttato fuori i rappresentanti del partito al potere dal comune, i poliziotti hanno abbandonato il Paese e non si vedono più, la gente si è organizzata per formare comitati di autodifesa. Erano giorni lunghissimi, bruciavo dalla voglia di esserci anch’io, ma tutti mi dicevano che non era il momento, era una situazione di totale confusione. La ricerca delle notizie era ormai la mia prima occupazione. Sentivo una sete incontenibile di sapere nel dettaglio cosa stesse succedendo. La rivolta, all’inizio, aveva preso un carattere soprattutto sociale: rivendicazioni, lavoro, giustizia sociale, opportunità uguali per tutti… ma pian piano ha cominciato a radicalizzarsi, la gente aveva capito che qualsiasi cambiamento sarebbe passato senz'altro dalla fine del regime e si iniziarono a urlare slogan a carattere politico : “il popolo vuole abbattere il regime.” 64 La notte del 14 gennaio vi fu l’annuncio che il presidente Ben Alì aveva lasciato il Paese. Ma era vero? Le notizie si susseguivano con una rapidità incredibile. Ero incollato davanti alla TV. Al Jazeera informava in tempo reale. Non riuscivo a crederci, ma era fatta! Era vero quello che vedevo e sentivo in TV… Eravamo rassegnati al fatto che Ben Alì fosse diventato parte integrante del panorama del Paese. Sapevamo che era vecchio e malato, che sua moglie si preparava alla successione, ma ora tutto stava cambiando. La mattina, la prima telefonata. Mi rispose mio padre: “La gente è tutta fuori per le strade a manifestare, tua mamma sta facendo la rivoluzionaria con i manifestanti, richiama fra un po’ che la cerco.” Seconda chiamata al mio amico: “Come va?” “Noaman, è una situazione di totale confusione, l’unica certezza è che il presidente ha lasciato il Paese, non farà più ritorno. La gente manifesta la sua felicità, ma c’è una aria di insicurezza e di confusione, la polizia è sparita dal Paese, la gente prova a difendersi dal caos come può… confusione dappertutto, ti giuro che non so cosa stia realmente accadendo.” La terza chiamata è diretta a un mio compagno: “Come va? Cosa succede? Ho visto che il presidente è scappato.” “Noaman, c’è una situazione irreale nel Paese, non si capisce niente. La rivolta ha colto tutti di sorpresa. Regna il caos e la gente non sa se esaltarsi per la propria vittoria o cercare il pane. C’è tutto chiuso da giorni. La gente fa ore di fila per un po’ di pane. Ho appena sentito mia sorella che sta a Sousse: l’esercito con gli altoparlanti avverte la gente di non bere l’acqua del rubinetto perché avvelenata, mentre la radio nazionale dice il contrario, il direttore della rete idrica è apparso in tv per dire che l’acqua è sana e non si corre alcun rischio, ma le persone non sanno a chi credere. Altre telefonate fra amici e compagni, tutti ripetono la stessa cosa: caos, totale confusione, anarchia. E lo stesso nei giorni seguenti. Nessuno riusciva a capire granché di quello che era successo nel Paese e il futuro era aperto a tutti gli scenari possibili e immaginabili. Tutti noi eravamo stati colti di sorpresa.” Per me è una agonia continuare a seguire quel che succede nel mio Paese da lontano, stare a guardare senza esserci, da spettatore. Continuo a chiamare i compagni per essere aggiornato sulla situazione politica. È giunto 65 il tempo delle grandi scelte e del cambiamento. Se dovesse passare questa occasione senza che riesca a mutare tutto, non saprei quando potremmo averne un’altra. L’evento per il quale mi sono preparato per tanto tempo… essere un leader per una possibile rivoluzione in Tunisia. E, invece, è successa la cosa più bella. Il popolo è stato il leader di se stesso e ha deciso di fare la sua rivoluzione senza una guida e di emanciparsi da una dittatura che lo soffocava. Non gli sono serviti i libri di Marx, né di tutti i rivoluzionari di questo mondo. Ma adesso la gente sta cercando una guida che la traghetti a un porto sicuro. So che i miei compagni sono dentro e hanno partecipato attivamente, non sono loro i leader, ma ci sono, e almeno questo mi rasserena e mi rincuora per la mia assenza. È difficile stare qua a guardare: parlo con i compagni, faccio le mie considerazioni, cerco di pensare con loro i passi da fare. Cerco di partecipare in qualche modo anch’io. Mi dico che stando lontano ho la possibilità almeno di riflettere sugli eventi con mente relativamente serena e tranquilla. La mia paura più grande, così come di tutti quelli che hanno partecipato e fatto la rivoluzione, è che quel che rimane dell’ancien régime riesca a controllare e orientare la rivoluzione. Se così avvenisse avremmo realmente perso tutti questa occasione storica. Molti sono vigili ma, poiché non c’è nessuno che guidi e orienti la rivolta, i rischi sono grandi. Fare la rivoluzione forse non è il punto d’arrivo, l’impresa più ardua è quella di proteggerla dai suoi nemici interni ed esterni. Intanto, a me manca tanto la mia rivoluzione… I doveri della rivoluzione67 …è vero che tutto è partito da uno schiaffo68. Ma per me Bouazizi non è, e non sarà mai, il nostro Che Guevara, né una personalità eroica per tutti 67 Hager Daly, autrice di questa testimonianza, ha quarantasei anni, è professoressa di italiano all’Università Manouba di Tunisi, dove abita. Scrive poesie e brevi racconti. La sua mail è [email protected] 68 È lo schiaffo con cui è stato colpito il Mohamed Bouazizi. La poliziotta che ha schiaffeggiato il ragazzo è tuttora in carcere in attesa del processo. Oggi, con più lucidità di analisi, molti testimoni oculari dicono che l’episodio non è mai avvenuto. Anche sulla personalità del ragazzo oggi si discute molto e i pareri sono contrastanti. C’è chi sostiene che non fosse assolutamente 66 i tempi a venire. Dopo il suo suicidio, che sarebbe potuto passare per un fatto di cronaca come tanti altri, tutto il popolo tunisino si è ribellato per salvare una dignità calpestata e negata per più di cinquant’anni. É stata una rivoluzione giovane e spontanea, che ha permesso a tutti i paesi Paesi arabi di trovare il coraggio di urlare l’esistenza della loro anima. I giovani tunisini si sono ribellati spontaneamente contro la corruzione e il nepotismo rampante che marcava la vita quotidiana. Non avevano alcun progetto ideologico o di ambizione politica. Riguardava puramente una questione di giustizia sociale, questione avvertita all’unanimità quasi assoluta dai differenti gruppi e individui del Paese. É una rivoluzione che ha visto nascere la sua prima scintilla a Sidi Bouzid per propagarsi poi in tutte le grandi città tunisine. Quando Ben Alì ha fatto i nomi di questi giovani martiri disarmati caduti sotto i colpi di fuoco delle milizie dei “terroristi” e ha minacciato quelli che avrebbero avuto l’audacia di ribellarsi, in quel preciso istante uomini, donne, bambini, giovani, e vecchi sono scesi nelle strade. Niente poteva ormai arrestarli. Tutti quei tunisini uniti nella paura e sotto la dittatura per ventitré lunghi anni hanno deciso, stavolta, di unirsi contro questa dittatura alla ricerca della propria dignità umana. Adesso non mi fermerei a discutere sui principi della rivoluzione, che devono essere rispettati in tutti i casi. Ma, come una cittadina tunisina responsabile, esigo soltanto il mio diritto d’essere libera e di decidere del mio essere, pronta, come tutti i miei connazionali, a morire per i miei principi. La nostra è una resurrezione collettiva, welcome to life! La nostra rivoluzione non è stata programmata o inquadrata da leader di una precisa dottrina. Queste parole, queste paure, queste grida soffocate sono la nostra rivoluzione. Questa solidarietà, questa fraternità, i suoi slogan, quest'ottimismo nascosto, questo pessimismo dichiarato, questo odio, questo rancore che ci rode mischiato a questo amore per il nostro intenzione del ragazzo darsi fuoco, ma che si fosse cosparso di benzina per fare un’azione dimostrativa e che poi, scordandosene, si fosse acceso una sigaretta. Molti, inoltre, sostengono che fosse un tipo arrogante. Ciononostante, questi tentativi di dissacrazione della figura del ragazzo nulla tolgono a due fatti certi: tutto ha avuto inizio dopo il suo suicidio, volontario o meno che sia stato, e per la maggior parte della gente è diventato un eroe nazionale. 67 Paese e i nostri fratelli martiri è la nostra rivoluzione. Unica come tutte le rivoluzioni; e per questo nessuno può appropriarsene. È ormai la nostra storia, la storia di noi tunisini. E la storia di tutti noi è la Tunisia. E come la nostra rivoluzione è stata un atto spontaneo, il principio della ricostruzione del nostro Paese lo sarà anche. Non ho mai visto tante persone impegnate contemporaneamente per la propria terra. Alcuni manifestano, altri analizzano, altri ancora fotografano i manifestanti, altri commentano le fotografie, altri passano le informazioni senza filtrarle. Altri verificano le fonti, altri contestano le fonti. Alcuni scrivono delle petizioni, altri le firmano, altri riscrivono la Costituzione, altri ancora cercano il marciume. Tutti difendono le proprie idee con le parole, gli insulti, i proverbi, i link, gli iPhone. Alcuni medici sostengono i manifestanti, altri vanno alla frontiera per aiutare i rifugiati. Gli avvocati costituiscono commissioni per controllare altre commissioni e, nel frattempo, la vita lentamente ricomincia: i fornai impastano il pane, i professori vanno a insegnare, chi ha qualcosa da vendere la mette sul ciglio del marciapiede; anche i controrivoluzionari ricominciano. Sempre senza abbassare la guardia, e non si stancano mai, anche adesso che sembrano predicare nel deserto. Se noi continuiamo così, non solo riusciremo a costruire la democrazia, ma ricostruiremo il nostro Paese dalle fondamenta. Oggi siamo in piena ebollizione, quello che stiamo chiedendo in questo momento è ciò che in Europa è già un fatto consolidato ma che a noi è stato negato costringendoci al silenzio con l’oppressione. Oggi questo silenzio che si è rotto fa emergere la realtà. La storia non si potrà misurare mai attraverso una vittoria o una sconfitta. La storia è la storia e basta. E noi l’abbiamo fatta. “Popolo, io vi amo” disse Farhat Hached69 con la stessa spontaneità che oggi questo grande piccolo popolo possiede e che la aiuterà a 69 Fondatore e segretario generale dell’UGTT, Union Générales des Travailleurs Tunisien, figura carismatica e punto di riferimento della lotta per l’indipendenza della Tunisia, fu ucciso dalla Main rouge francese il 5 dicembre 1952 a Radès. Probabilmente la decisione di eliminare il sindacalista originario delle isole Kerkennah era strategicamente connessa alla volontà francese di appoggiare l’ascesa di Bourguiba che al tempo godeva di un prestigio popolare inferiore a quello di Hached che, invece, godeva di meno appoggio da parte dei francesi. 68 preservare per sempre la formidabile chiarezza della propria visione politica malgrado qualsiasi complotto possibile e a prescindere da ogni difficoltà. Il mio popolo è grande, la mia rivoluzione anche. 17 dicembre: all’inizio avevo la sensazione che fosse sicuramente un atto di grandezza, ma isolato. Sapevo bene che le forze presenti sarebbero state capaci di sedare questa manifestazione e di ammazzarci tutti con il loro arsenale repressivo. É alla vista della propagazione degli scontri che ho iniziato a cambiare opinione e dentro la mia anima è nato un sommovimento molto particolare che non conoscerà inversione di marcia. Questo movimento mi imponeva questioni sulle quali riflettere. La più importante delle quali è che nessuna istituzione o formazione politica e sindacale era l’istigatrice di questa rivoluzione né, tantomeno, era preparata all’eventualità di prendersela in carico. Avevo anche immaginato la peggiore delle paure, e cioè che i fondamentalisti o gli islamisti radicali, che erano i più preparati, potessero profittare di questa intifāda per imporre il loro elaborato e sempre aggiornato programma politico. Ma, a prescindere dai miei timori, il popolo tunisino ha potuto e ha saputo farsi carico del proprio destino senza tener conto di nessuna istanza esterna. La particolarità è che tutto il mondo, pur conoscendo la situazione della Tunisia, non è mai intervenuto: il popolo tunisino ha vinto da solo la sua battaglia. Sicuramente alcuni dirigenti, in Tunisia o all’estero, hanno profittato di questa opportunità per far sentire le loro voci come dissonanti dalla maggior parte della classe reggente, tentando così di accaparrarsi i meriti della rivolta e sperando di non essere deposti. Ma il popolo tunisino ha cavalcato l’onda della contestazione dimostrando di avere una coscienza politica e si è imposto su chi aveva tentato di mantenere la propria poltrona fino a cacciare tutti, primo ministro in testa. Ma i tunisini devono continuare a vigilare e ad andare avanti nella loro volontà riformatrice. Con manifestazioni, articoli, interventi pubblici, sit-in, scioperi e quant’altro finalmente in nostro possesso, dobbiamo mantenere alto il livello delle nostre aspettative. Per far questo dobbiamo altresì costituirci in squadre di sorveglianza e vigilanza nei confronti dei partiti politici esistenti imponendo loro il nostro punto di vista per una più efficace difesa degli 69 interessi della collettività. Dobbiamo, inoltre, smantellare l’attuale sindacato UGTT che non gioca più bene il suo ruolo, né porta avanti strategie valide per la difesa delle conquiste sociali dei lavoratori, attraverso l’organizzazione di un congresso straordinario che deve avere come obiettivo la formazione di nuovi quadri dirigenziali validi. Senza scordare non soltanto di pretendere le dimissioni di Jrad70 ma anche, e soprattutto, di denunciarlo per i reati di malversazione e abuso. Dobbiamo fare in modo che l’economia del Paese venga fuori da questa crisi senza precedenti riprendendo a lavorare con ordine e disciplina. I responsabili politici devono avere come compito di chiedere agli organismi internazionali, finanziari in particolare, di aiutare la nostra economia approvando un protocollo che garantisca la gestione chiara e trasparente del denaro pubblico, tenendo a mente che le ricchezze accumulate dai vecchi dirigenti e dalle loro famiglie devono essere restituite integralmente alla Tunisia. In quanto lavoratori non dobbiamo avanzare richieste di aumento dei salari in attesa del decollo della nostra economia. Questo atto sarà considerato come una forma di militanza suprema. Non dobbiamo mai scordarci che c’è chi ancora trama nell’ombra e dobbiamo rimanere vigili nei confronti di chi potrebbe rendersi fautore di azioni che potrebbero scuotere le buone prassi delle nostre istituzioni: restano ancora dei casseurs che vorrebbero in ogni modo far fallire le azioni costruttive e denigrare quanto portato avanti dalla popolazione. Inoltre, dobbiamo pretendere che il nostro Paese si mantenga laico. E pretendere che burocrazia e giustizia siano estranee alla logica dei favori. Potrei continuare a lungo con a elencare “i doveri che abbiamo il diritto di portare avanti”, ma tutti si possono riassumere in uno: la rivoluzione, quella della mente che rompe gli opprimenti schematismi imposti dal potere costituito, non deve interrompersi mai. 70 Si tratta dell’attuale segretario generale dell’UGTT. 70 E ho pianto71 Io non sono stata fra quelle che hanno fatto la rivoluzione. Non sono scesa in piazza, non sono andata alla Kasba72 né alla Kobba73. Non ho fatto nulla per la liberazione del mio Paese. Però oggi vivo anch’io nella Tunisia liberata. E considero questa rivoluzione, questa nuova libertà, un dono che mi è stato offerto dal mio popolo. E, come fosse il più prezioso dei regali, intendo difenderlo. Perché anche se non ho partecipato alla rivoluzione ne beneficio. Assaporo una libertà mai conosciuta prima. Libertà d’espressione e d’azione. Il gusto della libertà non è lo stesso quando l’assapori altrove, in uno dei cosiddetti Paesi liberi. Questo è il gusto della libertà del nostro Paese, della nostra terra. Evidentemente possiamo distinguere un “prima” e un “dopo” 14 gennaio 2011. Ognuno l’ha vissuto alla propria maniera, ciascuno ha dato una sua lettura degli avvenimenti e degli atti. Quando mi hanno chiesto di scrivere un commento su come ho vissuto la rivoluzione, non ho esitato a dire di sì. Questo mi permette di fare il punto della situazione. Ne avevo bisogno ma esitavo, certamente per stanchezza. Allora eccoci. Nel momento in cui tutto è iniziato, io ero arrivata al capolinea di una lunga lotta contro uno stato di letargo. Anche se interrotto, di tanto in tanto, da qualche episodio di rivolta contro una realtà che vedevo e trovavo troppo meschina nei confronti delle mie aspirazioni. Cercavo di tenere sotto controllo il mio desiderio di annichilimento come potevo, con lo sport e la pittura e soprattutto con la lettura. In quei giorni stavo leggendo Lire Lolita à Téhéran74, una testimonianza pungente e toccante di una donna iraniana esiliata negli Stati Uniti d’America. Finito il libro, ho pianto per tutte le 71 Nidal Khefi, autrice di questa testimonianza ha trentacinque anni, vive a Tunisi ed è una manager. La sua mail è: [email protected] 72 La kasba è la piazza dove sorge il primo ministero. 73 Palazzetto dello sport situato nel quartiere el Menzah. 74 Romanzo del 2004 tradotto in italiano per i tipi dell’Adelphi con il titolo Leggere Lolita a Teheran. 71 donne che si sono battute nel mondo per la difesa dei loro diritti elementari; ma anche per la mia Tunisia, per la quale avevo paura. Il solo mezzo che avevo trovato per resistere in questo Paese che non riuscivo a lasciare era un ritmo di vita che non mi desse la possibilità di confrontarmi con tutto il mio contesto. La sola dimensione alla quale non potevo fuggire era quella lavorativa. Inoltre avevo pochi amici e, soprattutto, non prendevo l’iniziativa in nulla per evitare non tanto di essere delusa, quanto di trovarmi vittima di qualsiasi tipo di aberrazione o di dovermi confrontare con l’ingiustizia o la corruzione. L’espressione della mia cittadinanza si limitava a una condotta “corretta” e tentando di non partecipare al deterioramento della situazione, cercando di inquadrare bene i miei collaboratori per far di loro degli ottimi dirigenti-cittadini. In questo guscio che mi ero creata non c’era posto per la vita pseudo politica del Paese né per quella che si conduceva al di fuori della sfera strettamente culturale che però era di breve respiro, troppo spesso ripiegata in se stessa. Molte persone non riuscivano a credere che io, sino al 14 gennaio, non conoscevo il nome del primo ministro né di nessun altro al di fuori di quelli che, a causa del mio lavoro, ero tenuta a conoscere, quali il ministro delle finanze e quello dell’industria. Eccezion fatta per quella economica, nessun’altra attualità del Paese mi interessava. Mi domandavo se ci fosse veramente un’attualità degna di questo nome. Il mio ambiente mi era completamente sconosciuto da tutti i punti di vista, non mi riconoscevo né nella società né nei mass media che riflettevano un’estrema ignoranza, pessimo gusto e decadenza intellettuale. Anche i discorsi che sentivo qua e là per caso mi davano la sensazione di nuotare in una sorta di mediocrità dell’ambiente. Mi sentivo straniera nel mio Paese e, però, non riuscivo mai a lasciarlo. Mi legavano il profumo dell’aria, il colore della terra, del cielo, del mare. Non riuscivo a immaginarmi lontano da questa natura come se, al di fuori della mia Tunisia, potessero cambiare i colori e gli odori. Quando mi parlavano di emigrazione verso il Canada, la mia replica era anche questa: non avrei potuto vivere sotto un altro cielo per quanto potesse essere bello. Non potevo vivere in un Paese dove sarei stata 72 per sempre una cittadina di serie B. Preferivo essere una suddita nel mio Paese. E, dunque, nel momento in cui “l’affaire Bouazizi” si è scatenato mi è bastato essere un piccolo soggetto insignificante che camminava per la propria strada evitando il più possibile le buche e accontentarmi di una vita piccolo borghese fatta di lavoro, di piccoli piaceri semplici e solitari o in compagnia dei pochi amici che apprezzavo. Un picnic in campagna di qua, una visita a un sito archeologico di là, una cena vista mare, un viaggio all’estero di tanto in tanto per “respirare”. Una vita monotona fatta di piccoli riti rassicuranti. Una vita nella quale non accadeva quasi nulla all’infuori della morte di un parente, il matrimonio di una cugina, una nuova nascita... niente spazi di incontri, nessuna possibilità di eventi straordinari che potessero scombussolarmi. Tutte le mie emozioni erano focalizzate sull’arte, non perdevo nessun festival, fosse il Musiquât75 o il festival della Medina76 dove lasciavo libero corso alle mie emozioni ascoltando un verso di un monologo, o una rima irlandese che mi trafiggesse e mi trasportasse lontano, o una rappresentazione teatrale quando c’era. Altrimenti, come dice Felleg77, “il grande vuoto”. Quando Bouazizi si è immolato, sono rimasta molto scossa: non osavo immaginare quale disperazione potesse animare un atto del genere. Era un suicidio disperato, ma non l’unico che avevamo conosciuto; non un atto spettacolare, sorprendente. In nessun momento ho supposto che questa morte potesse diventare un simbolo né, tanto meno, l’incipit di una rivoluzione. Niente, invece, ha potuto arrestare la rabbia popolare che da sud a nord attraversava il Paese. Avevo l’impressione d’aver perso un episodio, quello in cui tutto era iniziato. Da molti mesi in realtà percepivo in me, ma anche attorno a me, un’angoscia latente ma in crescita, una di quelle che ti 75 Festival annuale di musiche che si tiene ogni anno in primavera a Tunisi. 76 Festival che si tiene ogni anno a Tunisi durante il ramadan 77 Umorista algerino che vive in Francia. 73 prende lo stomaco quando non hai più alcuna visibilità, quando non sai più cosa ti aspetta domani, quando senti che tutto può cambiare da un giorno all’altro senza capirne il perché. Questa sensazione di incertezza, di instabilità ormai mi era compagna anche in quei momenti in cui tutto poteva sembrare tranquillo. Una volta mi trovai a dire che la paura che provavo assomigliava, stranamente, a quella che avevo durante gli ultimi anni del “regno” di Bourguiba, anche se all’epoca ero molto giovane. Ricordo quel periodo come un momento terribile e pauroso, molto pauroso; ma il vuoto politico che questo regime ha creato lo è molto di più. Quasi tutti i rappresentanti di qualsiasi tendenza politica che avevano osato uscire dall’anonimato avevano avuto lo stesso destino: l’esilio e, dunque, la perdita della quotidianità del Paese con i suoi drammi e i suoi controsensi, oppure la prigione con le sue torture, o, ancora, la morte. Quelli che erano rimasti, non erano affidabili. Avevano fatto un patto con il diavolo, in buona o in cattiva fede. Le prime settimane non riuscivo a credere, tutto mi sembrava effimero, mi dicevo che anche questo si sarebbe concluso come “l’affaire Rdaief” nel 200878. Credo di aver iniziato a capire che questa volta si stesse trattando di una cosa seria quando, dopo l’annuncio dei primi morti negli scontri, l’informazione esplose su Facebook. Non credevo ai miei occhi. I commenti, i video, gli slogan risuonavano da una bacheca all’altra. Si deve dire anche che tutto questo tam tam è partito dai tunisini che vivevano all’estero. Potevamo pensare che un po’ se ne fregassero delle conseguenze di far circolare tutti questi commenti ma, allo stesso tempo, ci dicevamo che avrebbero dovuto comunque temere per i familiari rimasti in Tunisia poiché il regime ha l’abitudine di non risparmiare nessuno, di distruggere intere famiglie quando uno dei loro membri osa tenergli testa. Ma subito i tunisini residenti in Tunisia iniziarono a scatenarsi. Commenti su commenti. In quel 78 Rdaief si trova nel bacino minerario della provincia di Gafsa, teatro degli scontri del 2008. 74 momento compresi che più nulla sarebbe stato come prima, con o senza regime. Questo fino al 13 gennaio. Non sospettavo che il 14 sarebbe stata la data della fine e dell’inizio. Andai a lavorare il pomeriggio del 13 sapendo che l’indomani ci sarebbe stato lo sciopero generale ma mai avrei sospettato che quel giorno avrebbe decretato la fine di Ben Alì e l’inizio della fine di tutto un regime. Per tutto questo tempo, l’unico contatto con quel che stava accadendo era Facebook, e lì constatavo di avere una lista di amici molto eterogenea: controrivoluzionari, dirigenti, super ribelli, soprattutto dall’estero, ma anche indifferenti. Ne avevo di tutte le categorie. Era molto interessante osservare i cambiamenti di discorsi e di posizione lungo gli eventi e la loro evoluzione. E continuano a cambiare sino a oggi. Penso che se davvero Facebook abbia giocato un ruolo in questa rivoluzione, il ruolo sia stato quello di aver legato la rivolta del sud e di mobilitare una parte della popolazione, quella che non avrebbe sentito il bisogno di urlare dégage il 14 gennaio se non avesse avuto l’occasione di vedere le atrocità del regime, se non avesse potuto vedere la paura e il disorientamento del popolo nel resto del Paese. Facebook non ha fatto la rivoluzione ma sicuramente è stato un fattore decisivo. Grazie alla possibilità della comunicazione istantanea, questa rivoluzione è stata straordinaria per la solidarietà che è sorta nel popolo tunisino. Il 14 gennaio 2011 non c’era una sola classe sociale o una comunità o una regione che manifestava. C’era tutta la Tunisia con tutti i suoi figli: disoccupati, dirigenti, operai, imprenditori, donne, uomini, vecchi, giovani… Quando la televisione ha annunciato che un comunicato importante sarebbe stato diffuso da lì a poco, mi aspettavo l’annuncio delle dimissioni di Ben Alì, o al limite della sua morte o che fosse caduto in coma profondo. Mai avrei immaginato che sarebbe stato annunciata la sua fuga con l’applicazione del famoso articolo 56 della Costituzione. Senza essere una specialista o contraddizione un’esperta aberrante di che diritto costituzionale, d’altronde 75 non è trovavo fosse una stata indifferente ai facebookers, i quali hanno reagito ancor prima che il primo ministro finisse il suo intervento. Questo annuncio ha avuto in me un effetto contraddittorio nella misura in cui il sollievo si mescolava allo scetticismo. Era evidente che il presidente fosse caduto, ma non il suo regime. Era anche evidente che tutti quelli i cui interessi erano minacciati, non avrebbero lasciato le cose scorrere senza intervenire. Per me i momenti intensi, quelli dopo i quali mi sono attivata, sono iniziati a partire dal 14 gennaio. Da questa data la rivolta diventa una rivoluzione e inizia un lungo e convulso processo. È stato affascinante vedere l’organizzazione spontanea del popolo in comitati di quartiere per proteggersi dalle milizie controrivoluzionarie. La solidarietà con il sit-in Kasba 1 e Kasba 279, lo spontaneo assembramento al Kobba del quale possiamo dire qualsiasi cosa si voglia tranne che sia stato l’espressione di una lotta di classe… tutto era piuttosto la manifestazione della solidarietà inespugnabile del popolo che ha fatto cadere il dittatore e che porterà avanti questa rivoluzione. Questa rivoluzione ha imperversato, scombussolato, rivoltato le nostre vite. Ha rimesso in moto le lancette di un orologio che da troppo tempo segnava l’ora della nostra morte. Quello che sembra paradossalmente un grande disordine per qualcuno, ha mostrato una faccia insospettabile del popolo tunisino. Vergognati di aver subito il diktat di Ben Alì in silenzio, adesso ci sentiamo orgogliosi di essere tunisini. Quello che ho temuto di più, come accade in tutte le rivoluzioni, sono stati gli eccessi. C’è stata sicuramente una specie di vendetta popolare e di caccia alla streghe, ci sono state rivendicazioni in momenti sbagliati, delle occupazioni illecite di beni privati e pubblici, ma sono state contenute molto velocemente grazie a una coscienza collettiva più forte delle estremizzazioni di alcuni gruppi. 79 È il nome dato ai due sit-in. Il primo inizia nei giorni successivi alla caduta del governo e si conclude il 28 di gennaio; il secondo inizia il 20 di febbraio e prosegue fino al 5 di marzo. 76 Non ho sicuramente apprezzato che alcune fazioni si siano accaparrate la rivoluzione del popolo pretendendo di gestirla in sua vece. E neanche il ruolo che hanno giocato i mass media in questa rivoluzione, a mio avviso il più maldestro, brutto, cattivo, sporco dopo quello dei controrivoluzionari. Non mi sono piaciuti, qualche volta, neanche gli eccessi e le esaltazioni dei giovani studenti all’estero che gettavano benzina sul fuoco formulando richieste eccessive e infondate, senza preoccuparsi di quelli che erano in prima linea nel Paese, delle loro esigenze e dei loro bisogni, e che subivano i rovesci di tutti gli estremismi. Mi sembrava denotassero l’assenza di una cultura politica, ma anche di strutture fondamentali. Ancora più sgradevole era vedere alcuni partiti estremisti e anticostituzionali profittare della rivoluzione per ottenere legittimità. Ma, in fondo, quale rivoluzione non ha avuto i suoi eccessi? Io spererei soltanto che la rivoluzione della dignità resti tale sino alla fine. Sono stata anche affascinata e stupita dalla grandezze del mio popolo e soprattutto dalla maniera con la quale ha gestito la crisi sulla frontiera libica prima ancora che il governo transitorio e la comunità internazionale reagissero. La storia scriverà per sempre della nostra capacità straordinaria di organizzarci o di auto-organizzarci, della nostra disponibilità a dare del nostro ai profughi provenienti dalla Libia nel momento stesso in cui vivevano una situazione tanto complessa. Ma il più grande acquisto personale, grazie a questa rivoluzione, è il potere di esercitare appieno la mia cittadinanza. Inoltre, una grande emozione è riscoprire i miei concittadini, molti dei quali come me erano ripiegati su se stessi, nei loro gusci o all’estero! Il cittadino tunisino è nato il 14 gennaio ed è stata, e continua a essere, una gioia insperata quella di incontrare della gente che non pensavo più di rivedere nella mia Tunisia, persone piene di talento, di generosità e di genialità. Grazie al processo rivoluzionario sto vivendo delle esperienze inedite, vivo a un altro ritmo. Non mi alzo più la mattina sapendo già di cosa sarà fatta la mia giornata. Sono nell’attesa, nel senso più bello del termine. Di recente ho vissuto un’emozione forte durante un incontro in cui il dibattito 77 era di una qualità tale che per un momento ho avuto l’impressione di essere in Europa, dove spesso mi sono rifugiata per dilettarmi di discussioni a pranzo, dibattiti a cena… dovevo pur saziare la mia sete di incontri e di apprendimento! Mai avrei creduto di poterla saziare un giorno nel mio Paese. Per tutta la giornata dell’incontro ho bevuto le parole di relatori, filosofi e ricercatori. Infatti, l’ancien régime mi aveva privato di questo dono/diritto. Avevo molto bisogno dei maestri di pensiero in (e di) questo Paese, di tutto il sapere che potevano trasmettere, del senso della storia. Quello che avevo cercato a partire dalla mia adolescenza e non speravo più di trovare… la più bella conquista di questa rivoluzione: incontrare uomini grandi come Youssef Seddik80, Stéphane Hessel81 e tanti altri, e bere le loro parole. Avevo tanta sete! In occasione di una delle manifestazioni ho incontrato uno dei partecipanti al sit-in di Kasba 1, un giovane ventenne di Meknessi82, in buona salute, pieno d’energia che, però, a diciott’anni aveva smesso di studiare, perché incapace di sognare il proprio futuro. Quale ambizione poteva avere? Quest'incontro mi ha fatto comprendere che il più grave crimine dell’ancien régime non è stato quello di aver rubato tutti quei miliardi di dinari, ma quello di aver privato i giovani della possibilità di sognare e di aver paralizzato quello che di più attivo abbiamo nella nostra società, la sua principale ricchezza. E ho pianto. Oggi faccio parte di quelli che restano apolitici ma che contano, allo stesso tempo, di esercitare pienamente la loro cittadinanza come società civile. Certo, non ho il privilegio di aver “fatto” questa rivoluzione, ma intendo preservare le sue conquiste in memoria di tutti quelli che hanno pagato con la loro vita perché oggi io potessi respirare a pieni polmoni 80 Filosofo e scrittore si è trasferito a Parigi nel 1988 dove ha continuato la sua attività accademica. È autore di diversi testi su islam e modernismo. 81 Ex ambasciatore francese, studioso del mondo arabo mediterraneo e mediorientale. 82 Meknessi si trova nella Tunisia centrale, vicino Sidi Bouzid. 78 un’aria di libertà tunisina. Oggi ho il diritto di sognare, tutto è possibile ormai. Finalmente giornalista! 83 La Tunisia ha conosciuto nella sua storia moderna due presidenti: il primo, Bourguiba, quello che ha lottato contro la colonizzazione e ha portato il Paese all’indipendenza; il secondo, Ben Alì, quello che ha destituito il vecchio Bourguiba orami incapace di continuare il proprio mandato. Sotto questi due presidenti hanno vissuto undici milioni di persone per sessantacinque anni. Chi è stato qui in vacanza ha avuto modo di conoscere persone pacifiche e tranquille che vivevano nella pace assoluta. In realtà era solo una pace superficiale, lucida come una bella vetrina. La verità era tetra. Bisognava guardare questo popolo con la lente giusta. I tunisini vivevano nella truffa, nell'ingiustizia, nella repressione e nella pressione, nella violazione dei diritti umani... con tutte le umiliazioni possibili, all’interno di un silenzio forzato e di una repressione imposta, i tunisini hanno trascorso gli anni a tentar di nascondere il fuoco dell’opposizione e del malcontento. Qualsiasi voce che avesse tentato di esprimersi diversamente è stata zittita. Non c’era scelta: o con il partito RCD o non esisti! 14 gennaio 2011. Una data storica. Il giorno in cui una voce ha squarciato il silenzio e le idee hanno preso il volo. La vera indipendenza tunisina. Da oggi potrò essere sul serio una giornalista, una di quelle figure che da ventitré anni non erano (non eravamo) altro che fantocci. Siamo stati gli altoparlanti di un sistema corrotto. Tutto era falsificato: le storie che raccontavamo, le emittenti, le nostre trasmissioni… c'era un solo obiettivo: le persone al potere volevano e dovevano mantenere la loro posizione. Contravvenire all’ordine significava pagare un prezzo troppo alto. Ho anche pensato di farlo, però non ne ho mai avuto il coraggio. Ma il 14 gennaio le 83 Nabila Abid, autrice di questa testimonianza giornalista della radio nazionale tunisina, ha trentatre anni ed è nata e lavora a Tunisi. È la prima giornalista tunisina che, dopo la caduta del regime, è stata a Lampedusa a intervistare, in diretta radiofonica, i migranti. La sua mail è: [email protected] 79 nostre voci sono state liberate e i nostri microfoni hanno lasciato per la prima volta la sede della radio per andare in strada incontro alla gente. Prima tappa è stata l’Avenue Habib Bourguiba84. Confluiscono lì persone provenienti da dovunque, di tutte le età, di tutti gli i livelli sociali. Tutti con bandiere e striscioni che inneggiano alla Tunisia libera: “Il popolo vuole la fine del regime”, “Libertà per la Tunisia”, “L’occupazione è un diritto: clan di ladri”. Il viale principale della capitale della Tunisia è colorato di bianco e rosso. Le bandiere sono dappertutto. Bandiera e inno nazionale si sono riappropriati dei propri valori. È toccante, emozionante, eccitante, impressionante. Che giorno! Tutti vogliono parlare, raccontare la propria esperienza, quello che hanno sofferto. Possono farlo liberamente, senza un poliziotto accanto pronto a denunciarli o a picchiarli insieme al giornalista che sta svolgendo il proprio lavoro. Tutti a dire che la Tunisia ha sofferto abbastanza, che ogni cosa andava alla rovescia, che la dittatura era insopportabile. Hanno svuotato le nostre case, derubato il nostro Paese, violato la nostra dignità, ci hanno impedito di respirare. Oggi siamo liberi. Un giovane, il viso pallido e stanco, mi dice che per la prima volta si sente tunisino ed è fiero di esserlo: “Zaba85 ha dichiarato che il 2010 era l’anno mondiale della gioventù. Ecco, davvero lo è stato. Ha preso un giovane, l’ha represso, strangolato. Non siamo stupidi come pensava. Siamo educati, colti e molto consapevoli di quello che avrebbe voluto fare di noi. La maggior parte dei laureati è disoccupata. Nel nome della globalizzazione abbiamo aperto locali e discoteche che sono nelle mani della sua bella famiglia, che ci ha allontanato dalla politica. I giovani tunisini oggi non ti vogliono più. Zaba, non ti vogliamo più. Non ci fai più paura. Sei come un vecchio clown che non fa ridere nessuno.” Gli fa eco un vecchio che, con franchezza e orgoglio, dice: “I giovani tunisini che a lungo abbiamo 84 Si tratta della strada principale della capitale. 85 É l'acronimo di “Zine El-Abidine Ben Alì”. 80 sottovalutato hanno realizzato il nostro sogno. Quei giovani che trovavamo egoisti, superficiali, ignoranti e ingenui hanno liberato la Tunisia e ce l’hanno restituita dalle mani del suo tiranno. I nostri ragazzi hanno fatto ciò che noi non abbiamo saputo fare. Oggi li ringrazio tutti, questi giovani che hanno combattuto, sofferto, urlato insieme “libertà!”. Non potrò dimenticare quanti giovani in questi giorni hanno versato il proprio sangue e dato la propria vita per la Tunisia”. Piange il vecchio dicendo queste parole, come un bambino non riesce a trattenere le lacrime. E il giovane accanto a lui gliele asciuga, lo carezza e gli bacia la fronte. Non è retorico dire che la nostra rivoluzione è anche la nostra rinascita. Abbiamo scoperto aspetti nascosti l’uno dell’altro e, soprattutto, abbiamo scoperto di amare questo Paese. Gli adolescenti che sognavano di emigrare in Europa hanno trascorso la notte nelle strade, per pattugliare i quartieri cercando di individuare per tempo le truppe e i complici dell’ancien régime. Da quando tutto è iniziato, siamo stati uniti e abbiamo difeso con forza e perseveranza la nostra bandiera ma soprattutto la nostra dignità. Certo, abbiamo perso molto tempo, troppi anni, prima di riuscire a gridare ad alta voce dégage.Ma oggi, finalmente, ci siamo riusciti e niente ci potrà fermare. Per quel che mi riguarda, sia dal punto di vista personale sia come giornalista, non sono mai stata così bene come oggi. Non ho mai apprezzato tanto il mio lavoro. È importante sentirsi liberi, in grado di poter testimoniare quel che accade, di poter criticare chiunque non si preoccupi delle disgrazie del proprio popolo. La Tunisia della dittatura usava slogan falsi, apertura, solidarietà, diritti. Ma dove? Oggi noi ci riprendiamo questi slogan non per finta propaganda, ma per riempirli di senso e dare le basi al nostro Paese verde, sviluppato, democratico, laico, musulmano… libero! I giovani della capitale, i primi giorni della rivoluzione, hanno composto canzoni che raccontavano di tutto ciò che hanno sperimentato. Tutti molto attivi sui social network, hanno creato blog e discusso di tutto, si 81 sono formati gruppi virtuali che hanno fatto analisi politica e hanno messo in rete video e documenti di denuncia verso chiunque fosse implicato nel sistema. A due settimane dal 14 gennaio hanno organizzato la carovana della gratitudine, un’iniziativa di solidarietà e sostegno di tutti i tunisini. Ogni cosa è stato organizzata attraverso Facebook. Un giovane ha lanciato l’idea e gli altri hanno risposto registrandosi. La prima carovana è partita all’inizio di febbraio. Destinazione Sidi Bouzid, il paese in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, un giovane di ventisei anni, si è ucciso davanti all’ufficio del governatore per protestare contro i poliziotti che gli avevano sequestrato la bancarella di frutta e verdura perché sprovvisto di licenza, ma con la quale dava sostentamento a tutta la sua famiglia. Scopo: ringraziare la gente di Sidi Bouzid. Orario dell’appuntamento: 6.00 del mattino. Tre autobus e centottanta macchine a noleggio. Fiori e bandiere ornano l’intera carovana. Durante il percorso canti e lacrime di gioia. Ci sono anch’io per scrivere dell’evento. Molte persone, a Sidi Bouzid, ci dicono di non sentirsi più sole grazie al nostro arrivo. Di aver sofferto la fame e la miseria, di essersi sentiti dimenticati, trascurati, ai margini dello sviluppo. L’ingiustizia del regionalismo creato dalla cricca del presidente ha profondamente ferito persone generose e accoglienti. Un gruppo di persone ci dice di non aver festeggiato fino ad adesso per rispetto dei martiri ma che oggi, con noi, è giunto il momento della gioia: “nessun funzionario giunto qui è stato accolto così, voi siete i nostri fratelli nel coraggio e nella dignità e vogliamo dividere con voi il nostro couscous”. Qualcuno ha sgozzato le pecore, qualcun altro ha preparato il couscous, altri ancora hanno intonato canti. Tutta una rete di solidarietà 82 senza la presenza di nessun potere costituito. Solidarietà senza i fondi 262686. A Sidi Bouzid, “Place 7 novembre” è già diventata “Place Mohamed Bouazizi” e i locali dell’ex RCD La maison du peuple dove tutti i senza tetto possono trascorrere la notte. Alla fine della giornata gli uomini, ci accompagnano alla periferia della città scusandosi perché ci saremmo meritati un’accoglienza più lussuosa. Un giovane dice: “Spero che tutti possano capire che non è la fame ad averci spinto a ribellarci. Non stiamo morendo di fame. Abbiamo ancora pecore e couscous. Avevamo un altro tipo di fame: fame di riconoscimento e di libertà”. A Tunisi, nel frattempo, c’è un altro importante appuntamento sempre organizzato da giovani e sempre tramite la rete: ci si deve incontrare per mettere ordine e pulire i luoghi in cui sono avvenuti gli scontri. Ovunque, danze di uomini e donne che ripuliscono raccogliendo resti di vetrine, di pannelli e di quant’altro ingombri la strada. Per una Tunisia elegante e pulita come non lo è mai stata. Anche se molti stranieri hanno lasciato di corsa la Tunisia, c’è anche chi ha scelto di rimanere. Roberto, un italiano alla soglia dei sessant’anni, mi dice: “Ciò che mi ha colpito innanzitutto é stata la maniera in cui un popolo, che consideravo mite e ormai ridotto in schiavitù, sia riuscito a imporsi in tempi brevissimi su un collaudato sistema poliziesco che è durato per più di trent'anni. In seguito é stato molto bello vedere i tunisini acquisire sicurezza e godere della libertà di espressione che era prima completamente negata; devo darne atto, anche con molta sobrietà e dignità. Ci si sarebbe aspettato l’inizio di una caccia alle streghe, che invece non é avvenuta. Sono stati capaci di espellere dalla gestione dell’apparato governativo tutti i residui del vecchio sistema: con tutti intendo dire a tutti i livelli, dai ministri, ai 86 Fondi di solidarietà finanziati in gran parte dai cittadini. Si tratta di una cassa per cui ogni anno, l’8 dicembre, i cittadini hanno trattenuto una percentuale del proprio salario. 83 direttori fino ai sottoposti che avevano servito il vecchio presidente. E stata in fondo una rivoluzione elegante, misurata ed estremamente efficace. Anche il dopo rivoluzione non ha dato via a estremismi o rivendicazioni estreme. Qualche sciopero o manifestazione tesa a riappropriarsi della dignità negata; ora velocemente il Paese sta tornando alla normalità. Contrariamente a ciò che si sente dire all’estero, é stata una rivoluzione di tunisini contro tunisini. In nessun momento ho avuto l’impressione che, come straniero, potessi essere strumentalizzato o marginalizzato; al contrario, erano tutti felici di mostrarmi la loro civilissima forza con la quale hanno potuto abbattere un regime dittatoriale che, per un motivo o un altro, era ben visto dalle nazioni occidentali. Insomma, dopo aver vissuto molte rivolte e rivoluzioni in mezzo mondo, sono contento di aver potuto assistere al riappropriarsi del loro Paese da parte dei tunisini”. Il 14 febbraio, a un mese dalla caduta del presidente, i tunisini festeggiano San Valentino in modo speciale: gli uomini regalano rose alle donne che le offrono ai soldati. Le famiglie comprano rose per la Tunisia tutta: per i soldati che giorno e notte li hanno protetti, per i martiri, per decorare il centro città… l’espressione più nobile dell’amore. Un adolescente mi racconta: “Sono qui con i miei genitori. Mi hanno detto che San Valentino non fa parte della nostra tradizione, ma oggi è un giorno speciale. È trascorso un mese dalla rivoluzione e noi dobbiamo offrire rose alla nostra cara Tunisia in segno d’amore e fedeltà. Io spero che questo gesto diventi un’abitudine. Noi siamo innamorati del nostro Paese”. Dal 14 gennaio ormai giro per la Tunisia per le mie interviste. Voglio raccontare la nuova quotidianità del popolo. A Gafsa incontro i minatori che lavorano nelle miniere di fosfato. Hanno sofferto enormemente sia durante la presidenza Bourguiba sia durante il regime Ben Alì. A nome di tutti parla Adnen, un sindacalista: “La rivoluzione da noi è iniziata nel 2008 ma è stata repressa. Ben Alì ha ucciso i nostri figli, ha impedito ai giornalisti di avvicinarsi, ha fatto imprigionare più di trecento persone che sono state rilasciate dopo il 14 gennaio. È difficile pensare alla Tunisia di domani. Sicuramente stiamo facendo la storia e i nostri figli e nipoti ne saranno fieri. 84 È vero che la Tunisia è il Paese dei gelsomini, ma questa non è la rivoluzione del gelsomino. Questa è la rivoluzione della nostra dignità e della nostra libertà”. Per capire i nostri sentimenti odierni, bisogna immaginare un uccello rimasto chiuso in una gabbia. Appena ne avrà la possibilità, vorrà volare in alto il più possibile. Questa è l’unica immagine che mi sovviene pensando ai tunisini di questi giorni. Non si può negare che ci siano disordini in tutti i settori, ma penso sia normale per un popolo represso per decenni. La democrazia non è solo un concetto e ci vuole formazione, pratica e tempo per realizzarla. Ed è questo il tempo per insegnare ai nostri figli più piccoli cosa significhi essere liberi e democratici. Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo. Come siamo riusciti a scacciare il tiranno, così ricostruiremo il nostro bel Paese con solide fondamenta. Io però delle preoccupazioni le nutro. Da questo governo di transizione sono stati legittimati cinquanta partiti. Da dove vengono? I loro leader non saranno il sistema di proiezione di Ben Alì? Non staranno tentando di accaparrarsi i benefici della rivoluzione? Lo chiedo spesso ai giovani per strada: “Non potrà succedere, la rivoluzione non terminerà finché non avremo la certezza che davvero il presente e il futuro di questo Paese sono nelle mani di tutti”. La rivoluzione a distanza87 Dicembre 2010. Tutta la famiglia è impaziente per l’imminente viaggio a Saint Augustine, Florida. Ambita meta dopo mesi di intenso lavoro per grandi e piccoli. Finalmente tutti insieme a godere un periodo di ferie. 87 Di Hamza Dridi e Hela Gaieb. Hamza Dridi ha trentanove anni, è ingegnere e vive in America dove lavora come manager in una società di telecomunicazioni. La sua mail è: [email protected]. Hela Gaieb, trentasette anni, è manager in una società di commercio, la sua mail è: [email protected]. Hamza ed Hela sono sposati, hanno tre figli e da undici anni vivono nel North Caroline. 85 Non avremmo mai immaginato che i giorni di Saint Augustine si sarebbero trasformati nelle molte ore in cui noi due, ma talvolta anche i bambini, saremmo stati nella hall dell'hotel a fissare il nostro laptop, sempre connessi a Facebook per capire di più dell'ultima reazione a Sidi Bouzid o dell’andamento della rivolta a Kasserine. Per la prima volta sentiamo scorrere nelle nostre vene il sangue tunisino che ci riscalda menti e cuori nelle notti buie e ventose. Siamo confusi come quando avvennero i fatti di Mtalaoui e Om Laarayes88. I ricordi di quegli episodi iniziano a smorzare il nostro entusiasmo… sarà questo un altro movimento nato morto, che il regime soffocherà direttamente nel grembo dei suoi fautori insieme alle loro vite? Beh, qualcosa ci dice che questa volta è diverso… Abbiamo capito subito che Facebook sarebbe stata la svolta! A differenza degli eventi della miniera nel 2008, abbiamo una diretta continua su ciò che succede! E se questa diretta ha fatto vibrare il nostro corpo, e bollire il nostro sangue, in un modo talmente travolgente a migliaia di chilometri di distanza, di sicuro sposterà anche le pietre là, in Tunisia! Torniamo a casa a Raleigh, nel North Carolina, per festeggiare il capodanno. Gli animi sempre con i nostri compatrioti, il cuore batte più intensamente non appena arriva un aggiornamento su Facebook. I tunisini continuano a sfidare il regime in molti luoghi della Tunisia. Il 2010 è stato piuttosto brutto, abbiamo pensato, ma questi eventi ispirano speranza per il 2011. Non ne avevamo più speranze per la nostra patria. Erano tutte annegate nel nulla tunisino degli ultimi due decenni. Il nostro rientro in Tunisia nel 1997, e i 3 anni che seguirono, furono una grande delusione. Avevamo risolto definitivamente andando esuli nel 2000. Il nostro primo esilio in Francia era stato diverso: questo secondo era stato più un esilio 88 Si riferiscono sempre ai fatti avvenuti nel 2008 nella regione di Gafsa. Metlaoui e Om Laarayes sono altri due paesi che furono coinvolti nella rivolta. 86 "intellettuale", un esilio di dignità e di amarezza quando giungemmo alla conclusione che la Tunisia di Ben Alì non era la nostra. Impotenti, anno dopo anno, vedevamo il sistema di Ben Alì che sistematicamente lavorava per cambiare il volto del Paese corrompendo l'anima e l’identità tunisina. Le persone avevano perso ogni senso di appartenenza o di cittadinanza. I valori fondamentali che avevano definito la Tunisia per centinaia di anni erano stati barattati per la mediocrità, l'avidità, la disattenzione, la resilienza. La confusione e la paura della gente era diventata la piattaforma che il regime utilizzava per occupare il Paese e saccheggiarlo. Ma la gioventù della Tunisia, uscendo da un lungo silenzio, ha urlato la propria rabbia e la propria frustrazione per esprimere il rifiuto di un degradante e insultante status quo. Ha deciso che non si possono più permettere ingiustizie, mediocrità e insulti. Bisogna eliminarli per riprendere il Paese e recuperare orgoglio, dignità e diritti. Insieme, come un unico corpo, in un movimento pacifico senza precedenti, hanno affrontato coraggiosamente il pericolo della repressione e dell'oppressione delle forze di sicurezza dello stato spietato e infame. La Tunisia ha iniziato a far notizia nei media americani. Giornalisti, analisti ed esperti di notizie sono alla scoperta di un fenomeno nuovo e incalzante per il quale non hanno il tempo per la comprensione totale. La loro analisi è a volte molto approssimativa e spesso goffa. Ma chi se ne frega! Lo capiamo e siamo ugualmente felici! La Radio NPR89, ben nota per i suoi ottimi notiziari e le brillanti analisi, è l'eccezione nel panorama dei media U.S.A. e informa sulla Tunisia in modo puntuale. La prima cosa che facciamo è contattare Dish Network90 e ripristinare immediatamente i canali di TV araba che avevamo sospeso per qualche 89 Acronimo per National Public Radio. 87 tempo. Abbiamo bisogno di Al Jazeera per comprendere pienamente cosa avvenga in Tunisia e iniziare a dar senso agli eventi. Amici e colleghi fanno capannello attorno a noi alla ricerca di informazioni, cercando di capire cosa stia succedendo in Tunisia. Ci hanno sentito, nel corso degli anni, affermare loro quanto preconcette e approssimative siano le notizie che trattano realtà quali il Medio Oriente. Siamo diventati la loro fonte di notizie affidabili su qualunque cosa accada nel mondo arabo-musulmano. Abbiamo potuto vedere, negli occhi del nostro pubblico, l'ammirazione per la Tunisia e per i suoi cittadini, per il loro coraggio e la loro bravura. “Siamo tutti Bouazizi”, questo è lo slogan che inizia a risonare nella nostra testa dal mattino alla sera. Anche qui, negli Stati Uniti, siamo Bouazizi noi tanto quanto chiunque altro in Tunisia. La distanza non ha più alcun significato; il sangue tunisino non conosce confini. Quell'immagine di Bouazizi nel letto d'ospedale a fissare Ben Alì, che è andato in visita nel suo ultimo gesto disperato, riassume tutta la storia: stiamo assistendo a una vera scena di transizione di potere sotto gli occhi di tutti. L’uomo potente, in piedi, sa che sta perdendo tutto perché il popolo si è ribellato. Il popolo incarnato in questo ragazzo mezzo morto ma incredibilmente vivo. Non ci sono stati più dubbi per noi: Ben Alì sta cedendo! La prima settimana di gennaio è stata particolarmente frustrante. La nostra vita è qui, non possiamo andare via, ci sono il lavoro, la scuola dei figli… ma quanto avremmo voluto essere con amici e parenti, con tutti i nostri compatrioti, in Tunisia, per prendere parte a questo evento storico, fare la nostra parte nella rivoluzione. Sì! Diciamo le cose come stanno, questa non è più una protesta o una rivolta, questa è ora una vera rivoluzione. Di qualsiasi norma: sociale, politica o storica. 90 È il più grande pay tv provider degli Stati Uniti.. 88 Così sia! Facebook è qui e noi saremo dei cyber rivoluzionari! Detto fatto. Il salotto è rapidamente trasformato in “camera operativa della rivoluzione”: Al Jazeera trasmette da un angolo della stanza, i computer portatili sono impostati sulla scrivania nell'angolo opposto sintonizzati su Facebook e altri siti di informazione. Tutta la casa è in stato di emergenza, non c’è tempo per la cucina o per la pulizia! I bambini dovranno accontentarsi: panini, uova, cereali, qualsiasi cosa è abbastanza buona per il pranzo o la cena! Dai computer arrivano in diretta nel nostro salotto gli eventi. Vediamo il dispiegarsi dell’orrore! Giovani che muoiono come nelle esecuzioni, gli ospedali sono in estremo stato di caos e scene di violenza urbana degne dei tempi più bui di Gaza o Beirut si vedono in ogni dove. I commenti su Facebook indicano chiaramente che l'oppressione del governo sta alimentando la resistenza e la determinazione. Il popolo della Tunisia ha deciso che onorerà i loro martiri continuando e diffondendo il movimento in tutto il Paese. Questo è il punto di non ritorno, qualsiasi cosa accada non si tornerà più indietro. Quale ruolo abbiamo noi, dal nostro salotto, in tutto questo? Naturalmente dobbiamo spiegare alla gente intorno a noi, negli Stati Uniti, gli eventi della Tunisia. La gente qui è libera e, una volta abbracciata una causa, la porta avanti, con il proprio pensiero può influenzare la politica negli Stati Uniti. Ma questo non è sufficiente, abbiamo bisogno di contribuire sul campo alla nostra rivoluzione. Facebook è il nostro strumento di battaglia e tramite il social network possiamo fare qualcosa. Moltiplicare i contatti cui inviare notizie, permettere al nostro mondo di vedere la rivoluzione tunisina, commentare, e poi ancora incoraggiare, spingere, fare arrivare la voce ai giovani sul campo che noi siamo con loro in ogni minuto della loro lotta. E con noi le persone che ci circondano. Il sistema oppressivo di Ben Alì ha tentato ridicolmente, con la solita propaganda attraverso i mezzi di supporto disponibili, di screditare i manifestanti chiamandoli delinquenti e terroristi e ha provato a ricondurre il movimento a presunte radici economiche. No. non si tratta di fame o di 89 lavoro, questa è una rivoluzione della dignità e della libertà … e siamo pronti a morire per esse! Ben Alì appare in TV due volte. Brutale, arrogante, minaccioso … per chi? Solo per se stesso, talmente è disconnesso dalla realtà della gente e dagli eventi. Il popolo non ha più paura di Ben Alì e del suo regime, ogni tentativo è inutile, il processo è irreversibile! Dopo questi interventi, abbiamo chiaro che il regime di che Ben Alì sta soffocando e probabilmente la fine si sta avvicinando. Incredibile vedere su Facebook ogni giorno sempre più tunisini prendere coraggio e commentare liberamente. Certo, alcuni hanno esitato più a lungo: il clima di terrore di Ben Alì ha lavorato duramente per più due decenni per soffocare qualsiasi alternativa politica… e ci parlava di lotta al fondamentalismo! Noi iniziamo la nostra opera di divulgazione la seconda settimana di gennaio. La pressione ormai è al massimo e non riusciamo a concentrarci in nulla. Ci siamo accampati nella nostra war room e iniziamo a dare il nostro piccolo contributo. Anche i bambini si interessano sempre più attivamente interrogandoci sulle ultime notizie e chiedendoci aggiornamenti ogni qual volta ci vedano gesticolare ai computer. Tutte le città, i villaggi intorno, tutto il Paese ora ha una sola voce: dégage! Ben Alì è ancora una volta in TV, e questa volta trema! Ha paura adesso! Il suo tono di riconciliazione e la sua lista di promesse meritano solo una sola risposta: troppo tardi, fuori! Al suo discorso disperato fa immediatamente seguito una grottesca orchestrazione di festa popolare prontamente divulgata dai media nazionali. Un altro classico inganno di un regime dispotico. Ma Facebook reagisce all'intervento di Ben Alì e alla falsa celebrazione che ne segue. Chiaramente un certo effetto su alcuni cittadini questo intervento l’ha sortito, diffondendo confusione e dubbi. L’ansia che questi 90 dubbi possano moltiplicarsi c’è… Salutiamo così quella notte: “Non sottovalutiamo la nostra intelligenza e la nostra determinazione. Ben Alì stasera ha dato spettacolo di un altro momento grottesco della sua presidenza. Un altro insulto al suo popolo. La sua dichiarazione del 7 novembre 1987 era molto più interessante ma ha condotto a 23 anni di dittatura. Ha solo bisogno di uscire in silenzio!” Nelle ore successive i dubbi si dipanano. Facebook inizia a raccogliere nuove adesioni con nostra grande soddisfazione. Altre registrazioni arrivano a dimostrare l'orchestrazione della rivolta popolare. Ulteriori registrazioni testimoniano che gli omicidi continuavano appena dopo il discorso del presidente. L'anima della rivoluzione è ancora più infiammata! Venerdì 14 gennaio sembra concludere la settimana surrealista della rivoluzione. I video illustrano il raduno epico di migliaia di persone all’Avenue Habib Bourguiba. Migliaia di persone riunite in una sola voce: dégage! Guardando la grandezza di questa scena le lacrime cominciano a inondare i nostri occhi. Siamo in qualche modo gelosi di non essere lì. Il saluto della sera è “la fine è così vicina!” e abbiamo pregato. Poi la notizia. Ben Alì è andato! Il Paese può respirare la libertà! I tunisini hanno fatto la storia! E, per lo stesso motivo, hanno dato una grande lezione al mondo intero. Il mondo ha scoperto che una nazione araba è in grado di cambiare il corso della storia in un modo mai sospettato prima: proteste pacifiche, civili, proteste durante le quali le persone che lottano contro la risposta oppressiva del regime proteggono anche i beni pubblici! Le immagini dei giovani intenti a spazzare i luoghi pubblici o quelli dei gruppi di autosorveglianza per la custodia dell’incolumità risuonano in tutta l'opinione pubblica qui, negli Stati Uniti. Alcuni si chiedono se qui sarebbe mai stata possibile una cosa del genere… I tunisini hanno posto la questione sui mezzi di comunicazione negli Stati Uniti e politica: il grande dilemma della politica U.S.A. è ora parte del dibattito. È ovvio che la politica mediorientale sta per essere rinnovata per ospitare la nuova realtà, che è il crescente libero mondo arabo. 91 Finora li si conosceva attraverso i propri dirigenti ed è probabilmente la ragione per cui non hanno mai goduto di rispetto. Ma i tunisini adesso stanno mostrando chi sono e stanno guadagnandosi il rispetto di tutti. Stanno ispirando i loro compagni arabi, i quali iniziano a seguirli. La rivoluzione non finisce con la caduta del dittatore tunisino, questo è solo un inizio! Sì, tunisini. Ci avete reso così orgogliosi di appartenere a voi! Tunisini, avete dato finalmente senso alla nostra cittadinanza! Grazie! 92 Eppur si parte91 Alla luce di quanto detto sinora, può sembrare incredibile, e per molti aspetti lo è, quanto sta avvenendo a Lampedusa in questi mesi. Eppure il dato di fatto è che si sta assistendo a un vero e proprio esodo dalla Tunisia. Centosessantasette chilometri d'acqua separano Lampedusa dal porto più vicino della Tunisia, duecentocinque da quello più vicino della Sicilia. La profondità massima che il mare raggiunge nella rotta praticata in questi ultimi mesi dai trafficanti d’uomini è di settanta metri. Pochi. D’altronde i fari degli avamposti d’Europa, se la notte è quieta e il cielo limpido, si riescono a intravedere dalle coste tunisine. E aiutano a sognare l’Eldorado. L’incipit di Partire, il romanzo di Tahar Ben Jelloun, è l’incipit che ha spinto un abnorme numero di tunisini, dal 15 gennaio a oggi, a tentare la fortuna: “A Tangeri, d'inverno, il Caffè Hafa si trasforma in un osservatorio dei sogni e delle loro conseguenze”. Cambiano i nomi del luogo ma le conseguenze di questi sogni diventano i peggiori incubi tanto per i personaggi del romanzo quanto per i tunisini a Lampedusa. Almeno per quelli che a Lampedusa sono sbarcati. Molte imbarcazioni sono affondate a pochi chilometri dalla Tunisia, altre sono disperse nel tratto di mare che divide i porti di partenza da quello d’approdo, altre ancora sono arrivate con meno passeggeri. Chi non ce l’ha fatta è stato gettato in mare. Che ancora una volta è diventato il cimitero di troppi sogni infranti. Il 14 gennaio si dimette il presidente-dittatore della Tunisia. C’è la rivoluzione. Non sono più pattugliate le coste. Si può partire. I trafficanti sono già pronti. I più fortunati pagano 800 euro, i meno 2.000. La maggior parte 1.500. Alcuni hanno fatto la colletta, altri avevano già messo i soldi da parte attendendo di concretizzare il proprio sogno, altri ancora li hanno rubati nei giorni della confusione per la rivolta. Mi racconta un ragazzo di Ben Arous (zona limitrofa a Tunisi): “io ero in carcere […] mi hanno preso davanti casa, per droga. […] la pena era di vent’anni […] Siamo scappati tutti quando hanno dato fuoco […] ho rubato alla Jaguar di Tunisi 91 Di Daria Settinieri. Lampedusa marzo/aprile 2011. 93 […] con me c’erano altre persone, anche poliziotti […] quando siamo usciti i poliziotti volevano una parte dei soldi altrimenti mi avrebbero arrestato […] è normale questo. Prima rubano con noi poi vogliono una parte per non lasciarci liberi […] a me sono rimasti 1.500 dinari che ho usato per imbarcarmi a Sfax […]”. Arrivano da tutte le parti della Tunisia, dalla capitale alle città più a sud. Ognuno ha una storia diversa da raccontare. Molti sono fuggiti perché, essendo stati scagnozzi di Ben Alì, temono adesso per la loro incolumità. Altri sono scappati dalla fame, per la voglia di lavorare, dalla paura di una nuova dittatura, per la non comprensione dell’entità di quanto avvenuto nei giorni della rivoluzione, per i familiari uccisi dai cecchini incaricati da Ben Alì e dalla moglie di mettere a ferro e fuoco la Tunisia. E ancora carcerati, donne e uomini desiderosi di riscatto sociale, bambini diventati grandi anzitempo. Tutti convinti che Lampedusa fosse la porta d'accesso per una nuova vita in Europa. Pochi vogliono restare in Italia. Alcuni hanno parenti o amici a Brescia o a Catania, ma la maggior parte vuole raggiungere la Francia. La mattina del 30 marzo, camminando tra tende improvvisate con sacchetti e cartoni, mi imbatto in un uomo avvolto nel bournouss (mantello di lana) che mi sembra di conoscere. Anche lui ha la stessa sensazione. Gli chiedo da dove provenga. Lì la rivelazione: eravamo stati vicini di casa per un periodo, nell’estate 2003, a Mednine. I quattro baci, un abbraccio. Riesco ad avere notizie dei miei amici che non ero riuscita a rintracciare. Nessuno di loro è morto durante i giorni della rivoluzione. Sono commossa. Khaled (a un certo punto riesco a ricordare anche il suo nome) mi dice di aver voluto provare anche lui a giocare la carta dell’Europa. Ha un caro amico italiano, di Brescia, che ha conosciuto ai tempi in cui lavorava in un albergo a Djerba. Lo vuole raggiungere. Mi dice, però, che se avesse immaginato quel che lo avrebbe atteso a Lampedusa, non sarebbe mai partito. “Per fortuna che sono furbo e che sapevo quanto freddo c’era in mare e in Italia e mi sono portato il mio bournouss”. Con altri due o tre ragazzi che hanno assisto alla scena improvvisiamo, in piedi, mani al cielo, un preghiera di ringraziamento. Terminata la preghiera, continuano le chiacchiere. Qualcuno dice che è disposto a pagare per sposarsi: non sa che dal 2009 per contrarre 94 matrimonio in Italia bisogna avere il permesso di soggiorno. Tutti chiedono, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente del consiglio in visita giorno 29, quale sarà la loro sorte. “Tunisie lé”, Tunisia no, è il motivo di diversi cori improvvisati. Qualcuno minaccia di fare come Bouazizi, il giovane che il 17 dicembre si è dato fuoco dando inizio alle rivolte: “tornare in Tunisia o morire è la stessa cosa, io mi do fuoco. Qua o sulla nave…benzina o gasolio, io mi do fuoco, inizierà una nuova rivoluzione”. L’ennesimo sbarco della mattina del 29 è ritardato, forse per attendere il presidente del consiglio e dargli la possibilità di assistere alla scena. Una carretta con un’ottantina di persone è bloccata a pochi metri dalla costa. Stipati da ventiquattro ore uno addosso all’altro senza potersi muovere per non cadere in acqua, tra i loro stessi escrementi, senza poter né mangiare né bere, attendono le operazioni di sbarco che vengono eseguite con insolita lentezza. La dignità e il dolore di alcuni uomini evidentemente vale meno di uno scoop mediatico. Che, per fortuna, non avviene. A un certo punto, l’imbarcazione viene condotta al porto prima dell’arrivo delle autorità. Altre ottanta persone cercano uno spazio dove accamparsi, un po’ d’ombra sotto una macchina o dentro lo scafo di una barca rovesciata. Bisogna allontanarsi dalle postazioni delle forze dell’ordine. Un poliziotto dice a un gruppo: “da qui vi dovete allontanare: io sono costretto a stare qua a piantonare, voi vi potete allontanare, perché non posso resistere a questo puzzo”. I tunisini invece sì. Loro possono resistere dormendo, mangiando, vivendo accanto alle loro deiezioni. Senza poter lavarsi o cambiare le mutande. Proprio loro che, durante le abluzioni, sono obbligati a lavarsi le mani fino ai polsi dopo aver urinato, a lavarsi, dopo aver dormito, per eliminare qualsiasi impurità. Gli abitanti di Lampedusa sono stanchi. I tunisini chiedono continuamente di poter fare una doccia a casa delle persone e alcuni ci riescono, di poter caricare i telefonini nei bar e molti lo fanno, di andar alla posta insieme per ritirare con MoneyGram i soldi che i parenti in Europa possono inviare. Ad alcuni sono stati rubati i jeans stesi, in casa di qualcun altro sono entrati senza permesso per utilizzare il bagno e mangiare. Nessuno ha fatto denunzie, eppure il governatore della regione Sicilia, 95 durante il comizio di giorno 29, prima di passare la parola al presidente del consiglio, afferma: “Le madri di Lampedusa hanno paura per loro stesse e per le loro figlie, perché cinque o seimila uomini che girano per le strade sicuramente non le rassicurano. Questo signore (indicando un uomo) è stato aggredito l’altra sera a casa sua, gli hanno portato via i beni più preziosi, minacciavano di fargli del male”. Gli fa eco il presidente: “sgombero e liberazione dai migranti […]. Con il governo tunisino misure, diciamo così, imprenditoriali che, ve ne dico una variopinta, cioè che stiamo comprando dei pescherecci che così non possono più essere usati. Vorrà dire che quando mi ritirerò dalla politica li prenderò io e metterò su un’industria per il pesce fresco”. Una misura variopinta come soluzione alla tragedia di migliaia di persone provenienti da una nazione delle cui emittenti televisive è in parte socio. I commenti che da questi brevi stralci si potrebbero ricavare sono molteplici: da una parte si potrebbero osservare quali siano, in Tunisia, le nuove reti che i trafficanti di uomini hanno adottato in questi mesi, quali i nuovi percorsi migratori e perché siano nati, quali le storie di vita che conducono i tunisini alla scelta di scappare. Dall’altra, si potrebbero analizzare le strategie praticate dagli abitanti dell’isola, quali ambiguità nascondano, quali discrasie vi siano tra le retoriche con cui si rappresentano e quali le loro azioni, quali disagi abbiano avuto e quali guadagni considerando l’afflusso di gente (tra cooperanti, forze dell’ordine, giornalisti) arrivata in questi mesi. Da un altro lato ancora, quali siano le strategie del terrore e della paura messe in atto dall’amministrazione pubblica e dalla politica e quali le soluzioni, quali diritti vengano calpestati e quali giochi politici internazionali si stiano muovendo mentre migliaia di uomini attendono di sapere se potranno ricominciare a sognare o se il loro incubo continuerà. Qualche osservazione Sin dai primi giorni della rivoluzione in Tunisia, Italia e Francia hanno mantenuto un atteggiamento ambiguo. Anche i mass media, in più occasioni, non hanno affrontato la questione come ci si sarebbe potuto 96 aspettare. I governi dei due Paesi certamente hanno cercato di rimandare il più possibile una presa di posizione netta rispetto agli eventi nel tentativo, talvolta goffo, di guadagnare tempo per comprendere quale sarebbe stata l’evoluzione dei fatti. Una diplomazia apparentemente incomprensibile, ma facilmente riconducibile ai coinvolgimenti che entrambi i Paesi hanno avuto nelle faccende interne della Tunisia, rendendosi complici di un regime dittatoriale. Michele Alliot Marie, già ministro degli affari esteri al momento della rivoluzione tunisina, ha dichiarato di aver proposto al governo di Tunisi il savoir faire francese per la repressione delle manifestazioni, che, tradotto, non può non rimandare al concetto di foucoultiano di “sorveglianza” atta a rendere i corpi docili utilizzando violenze strutturali più raffinate di quelle becere utilizzate in Tunisia. La diplomazia italiana, invece, è rimasta come sopita fino all’”emergenza sbarchi”, peraltro prevedibilissima, ed è poi intervenuta quasi esclusivamente per affrontare, in toni spesso apocalittici, temi legati all’immigrazione, eludendo così il problema delle responsabilità politiche per quanto nel frattempo stava succedendo a sud di Lampedusa. Il peso dei legami con l’ex dittatore, il silenzio sotto cui si sono fatte passare tante aberrazioni e ancora gli interessi economici immediati certamente hanno contribuito a determinare questa strategia. Credo sia di estrema importanza quanto afferma Edgar Morin analizzando la vera ragione per la quale l’Italia, la Francia e l’Europa in generale, abbiano mancato l’appuntamento con “la primavera araba”. Secondo il filosofo, infatti, la “Primavera democratica araba è avvenuta in un periodo in cui le democrazie europee sono in devitalizzazione, in un momento di rischio di regressione. L’Europa, avendo più o meno tardivamente lodato la primavera degli arabi, si è trovata inadempiente, divisa. Il solo timore di fallimento democratico paralizza invece di incoraggiare ad agire per evitare il dissesto. L’azione di sostegno non può essere la continuazione della colonizzazione economica, essa deve elaborare un piano Marshall di stile nuovo, superare l'idea di sviluppo in una concessione simbiotica dove ogni cultura araba conserverebbe le sue virtù e il meglio di se stessa e integrerebbe il meglio dell'occidente, tra cui i diritti umani e i diritti delle donne.” E concludendo su questo argomento Edgar Morin afferma che “La 97 paura dell'emigrazione, la paura di una marea islamista può essere superata solo supportando pienamente l'avventura democratica.92” D’altronde le dichiarazioni sancite nella conferenza di Barcellona del 1995, e ribadite in tutti gli incontri che ne sono seguiti, ancora non hanno mai trovato applicazione alcuna93. Scrive Tahar Ben Jelloun, sollecitato da Michele Capasso94, a proposito di “mediterraneo”: “Oggi in molti congressi si parla tanto di Mediterraneo, ma questo è per certi versi un fatto preoccupante: da una parte vediamo che la parola Mediterraneo con le sue sfumature di passione e di impegno ha qualche cosa di magico; ma dall'altra se ci si preoccupa molto per il Mediterraneo è perché è malato: malato soprattutto della sua storia, delle sue complessità, delle sue differenze, delle sue passioni mal digerite. Questo lago di pace è, in realtà, un'ironia, perché è stato anche un lago di sangue: si ha 1'impressione che quando la guerra civile è finita in Spagna sia iniziata in Grecia, quindi in Libano, poi in Algeria. In questo secolo il Mediterraneo è diventato un vero e proprio cimitero di tutti i valori per i quali combattono i popoli95”. 92 In le monde 25 aprile 2011. 93 È la conferenza che aveva visto partecipare quindici ministri degli Esteri degli allora Stati membri dell’Ue e quelli di Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità palestinese che aveva condotto alla dichiarazione finale di: “istituire un partenariato globale euromediterraneo al fine di trasformare il Mediterraneo in uno spazio comune di pace, di stabilità e di prosperità attraverso il rafforzamento del dialogo politico”. 94 Presidente della Fondazione Laboratorio Mediterraneo. 95 In AA. VV. , 1997, Voci del Mediterraneo, atti del convegno internazionale, Genova 16-17 febbraio 1996, Edizioni Magma. 98 E ora?96 Ben Alì è rimasto isolato, impotente di fronte a questo popolo che non chiede altro che vivere degnamente, vittima di una schizofrenia politica che gli ha impedito di vedere come stessero realmente le cose, di sentire il desiderio della sua gente, di capire quali fossero le sue esigenze. Il suicidio di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre, e la repressione che ne è seguita, hanno spinto i tunisini in piazza. Né i gas lacrimogeni, né l’acqua calda, né le pallottole sono bastate a fermare i manifestanti giovani e meno giovani che si sono riversati nello spazio pubblico per chiedere il loro diritto alla dignità, ricordando a chi li ha governati per ventitre anni, che la Tunisia non appartiene a lui né al suo clan. Questo piccolo Paese con meno di undici milioni di abitanti privo di risorse naturali e che ha scelto di investire su quelle umane sin dai primi anni dell’indipendenza, generalizzando l'istruzione e dando alla donna il posto che le spetta, è pronto ad andare oltre. Le nuove generazioni di laureati, privi di opportunità in un'economia essenzialmente creatrice di lavori scarsamente qualificati (agroalimentare, turismo, subfornitura), sono state in prima linea nella sfida (con la notevole presenza delle donne) sia manifestando in piazza, sia utilizzando internet e i social network per comunicare tra di essi e con il mondo esterno. La rete è stata determinante in termine di mobilitazione contro il regime, mentre la gioventù, considerata da tutti come priva di qualsiasi coscienza politica, si è fatta carico della responsabilità di condurre una rivoluzione vera con slogan chiari e obiettivi da sogno lontani da ogni schema tradizionale proprio di partiti, sindacati o altre organizzazioni. Ma il successo della rivolta tunisina è dovuto anche alla singolarità di un esercito tunisino formato nelle migliori scuole repubblicane, fedele alla patria e al popolo in ogni momento, qualunque siano le sue scelte. 96 Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri. 99 Non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione del popolo tunisino non è stata organizzata né prevista. È stata una miscela di spontaneità, di rabbia, di determinazione e di coraggio a rovesciare il regime e a scacciare più di vent’anni anni di dispotismo. È normale, dunque, che ci si risvegli il giorno dopo stupiti di se stessi e di quel che è successo. Si ha apprensione per quel che avverrà. È molto probabile che il terribile episodio dei cecchini dislocati in tutto il Paese con il compito di uccidere e le bande armate che hanno fatto di tutto per creare una situazione di terrore e di panico sull'intero territorio, siano all’origine di una coesione ritrovata di un popolo, di una volontà di invalidare lo stratagemma previsto per far fallire una rivoluzione storica. Passato il momento delle incertezze, la Tunisia è tornata a lavorare e i tunisini a sognare un futuro migliore, pur coscienti che non sarà tutto facile. La necessità di ricominciare a costruire è presente nella coscienza della maggior parte della popolazione; ricominciare partendo dallo slogan della rivoluzione: Lavoro, Libertà, Dignità. Non sarà facile. La Tunisia ha una lunga lista di sfide per gestire una rivoluzione giovanile e una nascente democrazia: un'economia fragile, lo spettro del partito tentacolare di Ben Alì, la questione delicata degli islamisti, l’elezione di un'assemblea costituente. Sono tutti problemi con cui bisogna fare i conti in un'atmosfera non sempre costruttiva, in cui il numero dei partiti politici autorizzati cresce di giorno in giorno e ognuno di questi soggetti nuovi pensa di più al proprio percorso anziché alla costruzione. Il che fa dire a Jean Daniel, cofondatore del settimanale francese Le nouvel Observateur, nonché attento analista della situazione della Tunisia, in occasione di una sua visita a Tunisi: “Tutti quelli che hanno studiato la storia delle rivoluzioni sanno che non sempre succede la cosa peggiore, ma niente impedisce a essa di arrivare per la disgrazia di tutti.” E continua: “È necessario che i rivoluzionari di oggi tornino più verso personaggi come Lech Walesa e Nelson Mandela. Insomma a tutte le rivoluzioni di velluto piuttosto che ai violenti scontri di terrore rivoluzionario 100 del 1793 in Francia e del 1921 in Russia. Evitate le convulsioni, la vendetta e la partizione tra eredi, come è accaduto in tutto il mondo arabo.” 97 Parlando del periodo Ben Alì, Daniel afferma: “Mi sentivo infelice vedendo giornalisti umiliati e un'élite che si lasciava addomesticare da un despota la cui famiglia si è comportata in modo oppressivo in nome della lotta contro l'islamismo. Le grandi voci sono mancate o sono state soffocate, ma la gente che è scesa in strada ha ridato dignità a un’élite.”98. Parole dure, che riflettono la preoccupazione di ogni osservatore attento e che ha a cuore il successo di una transizione storica in una terra il cui popolo, come ogni altro, merita di vivere liberamente e degnamente. Scuotere un'intera nazione con una rivoluzione pacifica non è dato a qualsiasi Paese, eppure la Tunisia l’ha fatto. La nuova Tunisia è solo all'inizio: “La rivoluzione non è democrazia – ripete il primo ministro Beji Caied Essbsi – questa è la prima porta, dobbiamo faticare per arrivarci”. Chiaramente c'è il rischio di abuso e gli "incidenti di percorso" non sono da escludere: con i suoi due milioni di membri, il partito di Ben Alì potrebbe costituire un ostacolo sulla strada verso la democrazia, e lo stesso si può dire dei partiti islamici. Ma siamo in un Paese arabo-musulmano pioniere del diritto delle donne, e sappiamo dalla nostra esperienza che queste correnti possono essere combattute solo da un movimento di idee. Nonostante la crescita "quasi zero", è noto che il futuro democratico del Paese si gioca, in gran parte, sulla sua capacità di rispondere alle esigenze di milioni di persone che versano nella disperazione sociale. "Intanto la Tunisia ha ripreso il lavoro e le nostre esportazioni sono aumentate del 5% durante il periodo della rivoluzione", affermava il primo ministro incentivando la gente a continuare il proprio impegno civile per la crescita del Paese99. 97 http://tempsreel.nouvelobs.com/actualite/opinion/20110115.OBS6287/nous-sommestous-des-tunisiens-l-appel-de-jean-daniel.html 98 Ibidem. 99 Conference de presse, Carthage 04 mars 2011. In realtà non si è ancora in possesso di dati certi. 101 L’Egitto come la Tunisia? Saranno queste le caratteristiche delle rivoluzioni di questo secolo? La non violenza, la determinazione, la chiarezza, la spontaneità e l’assenza di ogni organizzazione saranno gli ingredienti vincenti di questa nuova era di libertà? L’era delle masse in piazza è iniziata a Tunisi prima di raggiungere l’Egitto e prossimamente altre terre, dove, forse, i popoli riusciranno a costruire un futuro diverso lontano dagli attuali referenti ideologici o spirituali. Questo è l’annuncio partito da Tunisi. Ma sarebbe interessante fare un parallelo tra la Tunisia e l’Egitto, che ha seguito l’esempio tunisino entrando in pieno in una nuova era. Preme, innanzitutto, segnalare che, pur sembrando apparentemente due situazioni molto simili, le differenze sono notevoli e possono avere delle conseguenze non indifferenti sul futuro di ciascuna nazione. Mentre la Tunisia ha scelto la via costituzionale dando il potere provvisoriamente al presidente della camera dei deputati come prevede l’articolo 57 della Costituzione, l’Egitto ha adottato una strategia molto diversa scegliendo di attribuire il potere a una giunta militare incaricata di assicurare la transizione democratica del potere. Entrambe le scelte stanno avendo delle conseguenze notevoli: mentre in Tunisia si sono formati, in tre mesi, tre governi provvisori e si sono create tre commissioni ad hoc nel tentativo di dare delle risposte alla gente affamata di verità e manipolata da politici che non sempre hanno cercato di misurare la portata di alcuni fatti, dichiarazioni e gesti, e la stesura di una carta costituzionale è rimandata al dopo-elezioni, in Egitto l’esercito ha cercato la via breve affidando il compito di riscrivere la Costituzione a una comitato di specialisti che ha portato a termine l’opera, e il testo proposto ha già ottenuto il consenso popolare attraverso un referendum. E questo è, senza alcun dubbio, un passo decisivo verso il nuovo regime democratico e pluralista tanto voluto dagli egiziani. Altro punto focale è che, mentre la Tunisia ha fatto la scelta di autorizzare il partito integralista vietato dagli anni Ottanta e colpevole di atti terroristici e di violenze sulle persone, l’Egitto ha interdetto la formazione di partiti aventi qualsiasi connotazione religiosa, chiudendo così le porte alla formazione integralista storica e più famosa del mondo arabo, i fratelli musulmani. E anche se le conseguenze di tale scelta non son 102 misurabili nell'immediato, è ovvio che il potere provvisorio in Egitto ha sciolto un nodo essenziale per il futuro del Paese, mentre in Tunisia si confida in un'ipotetica affermazione di una forza democratica interna al partito integralista, capace di pesare sulle scelte future di una formazione politica che, se salisse al potere con la stessa configurazione di oggi, porterebbe sicuramente verso una dittatura religiosa con conseguenze drammatiche non solo sulle popolazioni locali ma anche su tutti i Paesi limitrofi e mediterranei. E gli altri Paesi nordafricani? Non si può ovviamente far a meno di accennare alla situazione di altri Paesi arabi toccati dall’ondata rivoluzionaria. Anche qui ritorniamo ad affidarci allo studioso Edgar Morin, il quale sostiene che “la rapida caduta del dispotismo in Tunisia e in Egitto ha spinto le altre dittature a prevenire o reprimere l'ondata di libertà che poteva attraversare le loro nazioni. Sono state prese misure per soffocare i moti in Algeria, annunci di concessioni di governo a fronte di una repressione omicida in Yemen e Siria, l'intervento repressivo dell'Arabia Saudita in Bahrain. Allo stesso tempo l'ondata, allontanandosi dal suo epicentro, ha potuto includere una componente etnico-religiosa come nel Bahrain, pur conservando il suo carattere prevalentemente libertario ovunque.” In Algeria si può parlare di un popolo stanco di una situazione bellica che ha vissuto più di dieci anni di lotta contro i gruppi fanatici religiosi; situazione dalla quale sta uscendo poco a poco, ragion per cui pare stia preferendo dare al proprio governo un'altra chance anziché entrare di nuovo in una lotta il cui esito rimarrebbe incerto a causa di un esercito forte e implicato nella gestione del Paese. In Libia la situazione è più che mai delicata sia sul piano strettamente militare che diplomatico e politico. “Il caso della Libia – scrive Edgar Morin100 100 In le monde 25 aprile 2011. 103 – costituisce un complesso di paradossi, di contraddizioni e d’incertezze. Il primo paradosso è rappresentato non solo dal passaggio dall’estrema cooperazione tra il presidente francese e il despota libico al conflitto dichiarato ma anche quello dell’intervento di ex potenze coloniali per aiutare una rivolta popolare.” Comunque sia, l’intervento militare in Libia continua a dividere l’opinione pubblica nel mondo arabo: accanto a chi pensa che la soluzione adottata dalle Nazioni Unite costituisca la risposta più adatta alla violenza della repressione, vi è chi continua a pensare che l’obiettivo dell’Occidente sia solo quello di proteggere per poi sfruttare le risorse naturali enormi di questo Paese, e chi contesta il fatto che siano stati adoperati due pesi e due misure di fronte alle repressioni violente nello Yemen e in Siria, per citar soltanto questi due Paesi. Le incertezze sono quindi grandi e il “carattere di salvataggio” di popolazioni inermi potrebbe diventare catastrofico a meno che le iniziative diplomatiche messe in atto proprio in questo momento vengano accolte da entrambi le parti. Il Marocco, per finire, presenta notevoli differenze con altre nazioni arabe. La prima fra tutte è che la monarchia assume un carattere sacro poiché discendente diretta dal Profeta Mohamed ed è radicata nella storia della nazione. D’altro canto, il suo sovrano ha realizzato delle riforme democratiche e liberali volte a stemperare il peso della monarchia assoluta e sta manifestando di nuovo la volontà di riformare ancora il sistema politico dando più spazio e libertà alla gente e alle organizzazioni della società civile. Sul piano socio culturale c’è da notare che in Marocco il carattere multietnico e multiculturale della nazione è stato pienamente riconosciuto. Rimane presente, invece, il problema della disuguaglianza estrema fra classi sociali e della corruzione. E non possiamo concludere questo capitolo dedicato alla geopolitica senza citare ancora una volta Morin il quale afferma che “questa enorme ondata democratica non deve nulla alle democrazie occidentali che, al contrario, hanno dato sostegno a un dispotismo che hanno voluto perpetuare. Ma deve tutto alle idee democratiche nate in Occidente. Nel cogliere le idee riguardo il ‘diritto dei popoli’ nate nell'Europa che li opprimeva, gli arabi colonizzati hanno operato la loro decolonizzazione 104 politica. Nel cogliere le idee di libertà, gli arabi hanno operato la loro decolonizzazione mentale. Rimane la decolonizzazione economica... ancora tutta da fare”101. 101 In le monde 25 aprile 2011. 105 Metà marzo 2011, considerazioni parte prima: rompere con il passato, investire nella democrazia102 Ammetto che tentare un bilancio sia azzardato, ma la tentazione è proprio grande nonostante la distanza dagli avvenimenti sia molto breve. La prima considerazione importante riguarda la sicurezza, fattore indispensabile per ricominciare a vivere e per rilanciare l’attività economica. In questo campo bisogna riconoscere che la Tunisia ha raggiunto risultati ammirevoli in poco tempo grazie agli sforzi dei servizi di sicurezza interna e la coordinazione perfetta tra esercito e polizia, i quali hanno saputo coinvolgere positivamente la popolazione chiamata a collaborare. Questo clima ha ridato fiducia alla gente e agli operatori turistici, che si stanno interessando di nuovo al prodotto “Tunisia”. Sul piano economico, la situazione in Libia sta avendo effetti negativi su un quadro già preoccupante, ma tuttavia normale per un Paese che sta uscendo da più di cinque mesi di tensione continua. In ogni caso, gli esperti concordano nell’affermare che il governo stia lavorando in modo efficace sul dossier della disoccupazione e si prevede che risultati tangibili si vedranno in tempi ragionevoli. Sarà invece più complicato, per quanto riguarda il deficit di gettito fiscale dello stato, il declino dell’attività delle imprese che influisce sulla tesoreria, nonché sul problema della povertà. E qui gli economisti suggeriscono percorsi che passano attraverso misure fiscali e sociali per le aziende, esenzioni e carichi di differimento o il rimborso dell'imposta crediti alle imprese. A livello macroeconomico, la rinegoziazione del debito, o addirittura la cancellazione di una sua parte, è diventata una richiesta popolare, senza perdere di vista l'appello ai donatori per sostenere l'economia tunisina. Allo stesso tempo, uno sforzo immediato va dedicato a ristabilire un equilibrio regionale, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro, 102 Di Abderrazek Dridi. 106 investimenti sull’infrastruttura di base, sviluppando i governatorati dell’hinterland e aumentando la loro attrattiva al fine di promuovere gli investimenti futuri. Politicamente, la libertà di espressione e di organizzazione è il dato fondamentale di questo post-rivoluzione anche se la piazza chiede di più, in particolare la revoca di alcuni responsabili dell’amministrazione pubblica colpevoli di essere stati complici del regime che altri considerano, invece, semplici esecutori della politica di Ben Alì. In ogni caso, la rivendicazione principale rimane quella di rompere con il passato in una maniera radicale per costruire una repubblica nuova. E per realizzare questa rottura è importante che le tre commissioni riescano a lavorare e a produrre risultati in tempi brevi. Ed è fondamentale che anche il governo dia segnali positivi nell'attuazione delle riforme e nella preparazione del futuro di questa nuova repubblica e faccia più sforzi in materia di comunicazione perché la gente ha sete di sapere e il silenzio dall'alto può risultare poco rassicurante. Il governo provvisorio e le tre commissioni non devono perdere di vista l’obiettivo importante di ridare fiducia alla politica e credibilità al governo, condizione necessaria perché risulti efficace la fase di elezione della costituente, tornata elettorale che deve assicurare un reale pluralismo nelle votazioni promuovendo le candidature individuali, al fine di chiudere la porta alle liste che favorirebbero i vecchi partiti più presenti sul territorio. Ed ecco che produrre una legge elettorale permettendo una rappresentazione effettiva diventa un compito rivoluzionario di primo ordine. Infine, la classe politica, che sta dando di sé un'immagine di immaturità frutto di tanti anni di frustrazione, non deve mai perdere di vista il fatto che la rivoluzione tunisina non l’hanno condotta i partiti, né i sindacati, né alcuna organizzazione, né tantomeno gli intellettuali. Anzi, tutti debbono essere riconoscenti ai giovani scesi nelle piazze che hanno pagato con la propria vita la dignità di popolo, e contribuire a questa fase costruttiva pensando al bene generale e non a quello individualista di corto respiro. Soprattutto, siamo entrati in una fase dove dobbiamo investire in 107 democrazia sapendo che abbiamo pagato un prezzo di sangue, e la morte di ognuno di questi ragazzi è stata una morte di troppo, che ci sarà un prezzo economico da pagare molto alto cui nessuno potrà sfuggire. Concludo con questo messaggio inviatomi da un amico tunisino che vive da più di trentacinque anni in Francia, in omaggio a tutti i tunisini che vivono all’estero e che hanno vissuto il periodo rivoluzionario nell’ansia e nell’orgoglio: “Quasi 2 mesi sono passati dal giorno benedetto della fuga del dittatoreladro e l'emozione rimane la stessa. Se devo descrivere il sentimento mio, che in definitiva è quello di tanti altri, direi che è la sensazione di una forte e intensa comunione con la gente e con un Paese; mia gente! E mio Paese! Sì. Rivendico questa comunione, e la grido forte, tanto l’attesa è stata lunga e disperata per ritrovare finalmente la mia identità tunisina, che avevo perso un certo 24 dicembre 1974 imbarcandomi sulla nave che lasciò La Goulette verso la Francia; avevo 18 anni quando sono partito alla ricerca di un mondo di libertà e di progresso. Sì, io sono tunisino e ora sono finalmente orgoglioso di esserlo. Questa straordinaria rivoluzione innescata dai nostri giovani valorosi e magnifici, seguendo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, ha aperto i cuori e le menti per costruire, finalmente, un destino comune di una bella ed esemplare Tunisia di tolleranza, libertà e progresso. Tutte queste parole che mi sembravano senza significato perché la nostra Tunisia ne era orfana. Grazie per avermi dato l'opportunità di esprimere i miei sentimenti di gratitudine a tutti coloro che hanno perso la vita: finalmente possiamo essere orgogliosi di appartenere a questo bellissimo Paese e alla sua bella gente. Hichem Azaiez” 108 Ultimi giorni di aprile 2011, considerazioni parte seconda: Sviluppi prevedibili?103 Gli sviluppi delle ultime settimane fanno temere, anche ai più ottimisti, tempi duri per la democrazia nascente. Che lo scioglimento del partito RCD avvenisse senza conseguenze dirette sugli equilibri politici non era immaginabile. La Tunisia ha vissuto sin dall’indipendenza nell’ombra di un partito unico la cui presenza effettiva veniva spesso e volentieri confusa con quella dello stato. Sciolto questo con una forzatura giuridica presentata come una traduzione della volontà popolare, ci si è trovati in presenza di un partito, quale Ennadha, molto forte, radicato sul territorio e, come non bastasse, in grado di disporre di risorse finanziarie non indifferenti grazie ad aiuti esteri provenienti soprattutto da Paesi islamici interessati a una presa di potere da parte di un partito integralista in questa parte del mondo, anche per “vendicare” il fallimento dell’esperienza algerina. Ed ecco che partiti di sinistra che hanno sostenuto Ennadha ai tempi di Ben Alì (PDP e PCOT) o che si sono alleati con lui in occasione dei sit-in post rivoluzione (PCOT e il Mouvement des Nationalistes Démocrates, Al-Watad), per citare le circostanze più conosciute, si sentono minacciati da un super-partito che non esita a utilizzare le moschee per far propaganda politica o ad aiutare i meno abbienti donando ingenti somme di denaro per mere ragioni clientelari; il che si traduce in una vera e propria compravendita di appartenenza politica e, quindi, di voti. È proprio di questi ultimi giorni il chiarimento di Nejib Chebbi: durante l’intervento davanti all'associazione dei giovani imprenditori, il leader del Parti Démocrate Progressiste, partito di sinistra laica ma alleato di Ennadha nella lotta contro Ben Alì, ha messo in guardia contro i pericoli di una strumentalizzazione delle moschee al servizio di 103 Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri. 109 disegni politici mirati “a esasperare i sentimenti religiosi” e “a favorire una nuova forma di clientelismo politico in ambienti sociali vulnerabili”104. “Siamo tutti i musulmani”, afferma ancora il leader, “e la religione dovrebbe stare fuori dalla sfera politica”, alludendo chiaramente allo sfruttamento, nel dibattito politico, della religione da parte dei sostenitori di Ennadha. “In questo periodo di transizione, Ennadha cerca di prendere il controllo dello stato, attraverso l'esasperazione del sentimento religioso e la strumentalizzazione delle moschee”. In ogni caso, le posizioni si vanno delineando man mano che cresce la coscienza dell’esistenza del pericolo di una dittatura religiosa simile a quella avvenuta in Iran dopo la rivoluzione del 1979, e si sta delineando un accordo su come contrastare questo rischio. Le forze di sinistra, i centristi e i laici in genere, infatti, propongono a tutti i partiti politici, alle associazioni e altre organizzazioni della società civile, di trovare un accordo e di firmare quello che viene chiamato “il patto repubblicano”, una piattaforma in cui vengano annunciati i principi di base di una convivenza politica pacifica e costruttiva. Questa viene considerata come una scelta ideale per evitare possibili errori e garantire la realizzazione delle aspirazioni del popolo tunisino alla modernità, alla democrazia, alla libertà e al pluralismo. Il problema consiste nel fatto che l'adesione al principio della proclamazione di una carta o di un patto repubblicano non ottiene l’unanimità sopratutto per quanto riguarda il carattere che dovrebbe assumere il documento: questo patto dovrebbe avere carattere cogente e quindi una valenza giuridica? O invece dovrebbe limitarsi a una dimensione morale ed etica? La prima ipotesi viene difesa dalla maggioranza dei partiti rappresentati nell'alta istanza per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, la riforma politica e la transizione democratica e anche da coloro 104 Tutte le dichiarazioni di questo paragrafo, se non esplicitato diversamente, hanno come fonte l' agenzia TAP (Tunis Afrique Presse) in data 25 aprile 2011. 110 che non sono rappresentati. Il primo segretario del movimento Ettajdid, Ahmed Brahim, sostiene che la Tunisia abbia bisogno, nella fase attuale, di un patto civile, repubblicano e democratico, che rafforzi l'esercizio della democrazia, salvaguardi la componente modernista del popolo tunisino e difenda il processo di transizione democratica. Questo patto, ha detto, consentirebbe inoltre di creare una sana concorrenza politica tra i partiti, garantendo il diritto alla differenza e il principio dell'alternanza pacifica al potere. Per lui la “dichiarazione di principi” deve avere un carattere giuridico che impegni tutti i partiti. Questa opinione è condivisa dal rappresentante del Mouvement des patriotes démocrates, Chokri Belaid, per il quale il “patto repubblicano di base” deve affermare l’identità nazionale, assicurare la supremazia dei principî della repubblica, proteggere il carattere modernista e civile della società, garantire la separazione tra sfera religiosa e politica, la neutralità delle moschee e il pluralismo. Il movimento Baâth, nazionalista unionista, sostiene di essere stato tra i primi partiti a proporre l'idea del patto repubblicano, ma di averlo definito “la dichiarazione della rivoluzione tunisina”. Il segretario generale del movimento, Othman Belhaj, ha sostenuto che questo patto deve avere una dimensione giuridica vincolante, che dovrebbe essere approvato dall'assemblea nazionale costituente nella prima riunione e incluso nella Costituzione. L’Union Générales des Travailleurs Tunisien (UGTT) difende l’idea di un patto repubblicano il cui contenuto venga approvato da tutte le sensibilità politiche e poi inserito nella nuova Costituzione. Per Abdelmajid Charfi, noto studioso dell’islam, la rivoluzione tunisina contro la dittatura e l'ambizione del popolo a un futuro migliore, richiedono la proclamazione di una “dichiarazione tunisina di principî cittadini” che definisca i fondamenti della cittadinanza e che impegni tutte le parti politiche. 111 Sulla linea opposta, il movimento Ennadha è il primo fra i partiti contrari al carattere vincolante del patto repubblicano e sostiene che l'impegno morale sia sufficiente per rispondere alle preoccupazioni di alcuni partiti. Noureddine Behiri, membro fondatore del movimento, ha indicato che il patto voluto dal suo partito deve essere “morale impegnando solo i firmatari e nessun altro […] e non deve imporre la volontà di una minoranza a scapito di altre sensibilità politiche, strutture della società civile e persone”. “In linea di principio, e vista l'oppressione di cui è stato vittima sia popolo tunisino sia il nostro movimento per anni, Ennadha si rifiuta di parlare a nome dei partiti, associazioni e organizzazioni non rappresentate nel comitato dell'alta istanza per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione o di quello del popolo tunisino che esprimerà la propria volontà nelle elezioni di luglio”, ha detto il responsabile alla TAP, agenzia di stampa ufficiale, spiegando che il suo movimento non si oppone all’elaborazione, in seno alla commissione dell'alta istanza, di un patto repubblicano su una base conciliante, che renda ai tunisini la fiducia persa e porti il Paese “a buon porto”. Il Congrès pour la république (CPR) si oppone anch’esso alla natura giuridica vincolante del patto, motivando questa posizione con la mancata legittimità costituzionale del comitato dell'alta istanza. “Le linee guida del patto, che definirà il Comitato, impegnano solo i firmatari”, ha avvertito Samir Ben Amor, membro del partito. “Un organo consultivo (l'alta istanza) non può avere il diritto di vincolare il lavoro di un'istanza eletta (assemblea costituente) con un documento firmato da partiti che non rappresentano tutte le sensibilità politiche del Paese e non riflette le aspettative della gente”, ha ancora sottolineato. Da parte sua, Noura Borsali (indipendente) insiste sul problema giuridico che genererebbe il carattere obbligatorio e vincolante del patto repubblicano proposto prima dell'elezione dell’assemblea costituente e dichiara che “l'unica via d’uscita sarebbe l'organizzazione di un referendum sul Patto prima delle elezioni il 24 luglio”. 112 Molti analisti attribuiscono le divergenze tra le parti sul carattere obbligatorio e vincolante del patto a differenze ideologiche e a obiettivi politici dichiarati, e non, dai protagonisti della scena politica tunisina. Si fa notare che simili divergenze, che intervengono in una fase in cui il peso elettorale di ciascun gruppo non è ancora chiaro, vengono utilizzate solo come manovra politica per influenzare una parte dell'opinione pubblica, tra cui le parti non rappresentate al comitato dell'alta istanza per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione. A tre mesi dalle prime elezioni post-rivoluzionarie, siamo in una situazione più che mai confusa per quando riguarda le intenzioni delle parti in campo. Certamente, però, il rischio di una deriva dittatoriale è ancora presente. Si riuscirà a mantenere la lucidità e ad ascoltare i consigli di due illustri personaggi, Abu Al Hassen Bani Sadr, già primo ministro della repubblica iraniana dopo la rivoluzione, in esilio dopo la presa di potere degli ayatollah, e Chirine Abadi, avvocato e premio nobel, anch’essa vittima della repressione del potere in Iran, oppure ci si lascerà sedurre dalla forza economica di chi possiede più potere contrattuale? 113 Suggerimenti per un approfondimento Suggerimenti per un approfondimento Interessanti riflessioni sono state fatte sugli avvenimenti di questi mesi da politologi, economisti e sociologi. Oltre che nei testi citati nel corso del libro, chi volesse potrebbe trovare interessanti spunti di riflessione sui numeri 2596 (10/16 ottobre 2010) e 2612 (30 gennaio/5 febbraio 2011) di Jeune Afrique; sul numero 3218 (20/26 gennaio 2011) di “Paris Macht”; sul numero 2412 (27 gennaio/ 2 febbraio 2011) di “Le nuovel observateur”; sui numeri 3108 (26 gennaio/1febbraio 2001) e 3113 (2 marzo/ 8 marzo 2011) dell’ “Express International”. È interessante consultare anche Ben Alì le ripou di Béchir Turk. Quest’ultimo testo, ancora inedito, è girato clandestinamente prima della caduta di Ben Ali. Cruciali per comprendere alcuni aspetti economici della Tunisia, oltre ai riferimenti dati nel corso del testo, sono i siti: www.webmamagercenter.com www.investirentunisie.com www.businessnews.com. 114 Abderrazek Dridi (Kairouan1957) vive a Tunisi dove è interprete, consigliere della Federazione Tunisina di Solidarietà Sociale, direttore del settimanale culturale bilingue (arabo francese) El Akd. Membro attivo dell’opposizione studentesca al regime post coloniale, nel 1978 viene arrestato e privato del passaporto. Ottenuto di nuovo il passaporto nel 1980, si trasferisce in Francia dove completa i suoi studi in sociologia e poi in Italia, a Reggio Calabria, dove studia sociologia della comunicazione fino al 1988, quando inizia a lavorare al consolato tunisino di Palermo come responsabile degli affari sociali e culturali. Nel 1993 fa ritorno a Tunisi. Daria Settineri è dottoranda in antropologia della contemporaneità all’Università Milano Bicocca. Ha vissuto alcuni anni in Tunisia dove si è occupata di riti matrimoniali in contesti di emigrazione (in Sellerio 2006 e AAM - Archivio Antropologico Mediterraneo 2007/08) e di migrazioni dalla Sicilia al nord Africa contribuendo al progetto Funduq finanziato dalla Fondazione Anna Lindh. Attualmente si occupa delle reti di immigrati dall’Africa sub sahariana a Ballarò (Palermo) .