Omosessualità e matrimonio di Elena Falletti

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Omosessualità e matrimonio di Elena Falletti
Omosessualità e matrimonio
di Elena Falletti
Il dibattito sul riconoscimento di pari dignità e diritti
per le persone di orientamento omosessuale mette in rilievo tutte le contraddizioni esistenti tra la società italiana e
la classe politica che dovrebbe rappresentarla1. Esso si
sviluppa su due piani distinti che a fatica riescono a comunicare: da un lato l’inerzia del legislatore, bloccato dalla
sua stessa frammentazione, e dall’altro dalla giurisprudenza che applica in materia norme nazionali e sovranazionali
facendo riferimento innanzitutto al principio di non discriminazione e al diritto allo sviluppo della personalità
individuale.
Al centro del dibattito politico e sociale, nazionale e internazionale, vi è il riconoscimento del diritto al matrimonio. Seppure quello al matrimonio sia riconosciuto come
diritto fondamentale della persona dall’art. 16.1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che si limita a
stabilire che «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto
di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione» vi è chi oppone
1
Tuttavia va osservato che le amministrazioni locali si sono poste in
una diversa prospettiva, infatti alcune di esse hanno deliberato l’istituzione di registri per le coppie conviventi more uxorio ai fini di garantire
pari accesso indipendentemente dall’orientamento sessuale ai benefici
erogati dall’ente territoriale. A titolo puramente esemplificativo esempi
ne siano il Comune di Milano, Torino, Pisa, Bologna, Firenze, Siena,
Arezzo e altri.
229
all’inclusione in tale fattispecie al matrimonio tra le persone dello stesso sesso la ragione del requisito di diversità di
sesso quale elemento «naturale», contenuto nell’art. 29
della Costituzione italiana. Da più parti ci si richiama a
tale concetto per affermare che il matrimonio tra persone
dello stesso sesso sarebbe contro natura in quanto lo scopo
del matrimonio è la procreazione e questa è possibile solo
tra due esseri umani di sesso diverso in età procreativa,
possibilmente vincolati da legittimo legame matrimoniale,
poiché solo il matrimonio validamente celebrato consentirebbe l’attribuzione certa della paternità al neonato e
quindi l’attribuzione del cognome e del patrimonio paterno al figlio. Come dimostrato dalla scienza e dall’evoluzione sociale questa affermazione non è più veritiera dal
momento che l’attribuzione della paternità può essere verificata con esami genetici, mentre sotto un profilo sociale
tanto il divorzio quanto la procreazione medicalmente assistita sono diventati un fenomeno di massa, mentre la celebrazione del rito matrimoniale ha perduto la sacralità
religiosa che la caratterizzava.
Per quanto concerne la giurisprudenza italiana in tema
di matrimonio la Corte costituzionale si è pronunciata con
la sentenza n. 138/2010 che seppur avesse dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata da
quattro tribunali italiani relativamente all’impossibilità per
le coppie di nubendi dello stesso sesso di poter formalizzare le loro pubblicazioni di matrimonio, ha comunque riconosciuto alle medesime coppie la dignità di formazioni sociali come intese dall’art. 2 della Costituzione ed entro le
quali gli individui svolgono la loro personalità. Infatti la
Corte costituzionale ha affermato che «per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o
complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo
della persona nella vita di relazione, nel contesto di una
valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è
da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come
stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui
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spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una
condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e
nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico
con i connessi diritti e doveri»2. Collegandosi esplicitamente a questa sentenza del Giudice delle leggi, la Corte
di Cassazione ha affermato che le persone omosessuali
hanno il diritto fondamentale di veder riconosciuti effetti
giuridici concreti alla loro relazione sentimentale stabile,
pertanto i giudici di legittimità3 hanno affermato che «(È)
radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità
di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così
dire «naturalistico», della stessa «esistenza» del matrimonio;
in quanto l’interpretazione dell’art. 12 della CEDU operata
dalla Corte europea ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi ed ha incluso nell’art. 12 anche il diritto al matrimonio omosessuale. Tuttavia poiché il citato art.
12 (e l’art. 9 della «Carta di Nizza» dei diritti fondamentali
dell’unione europea del 2000-2007) stabilisce che «uomini e
donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una
famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale
diritto», spetta alle leggi nazionali stabilire se consentire o
meno i matrimoni omosessuali; e non essendo tali matrimoni
riconosciuti dalla legislazione italiana l’ufficiale di stato civile
deve rifiutare la trascrizione in Italia di un matrimonio omosessuale celebrato all’estero; fermo restando il diritto delle
coppie omosessuali ad una «vita familiare» ed al riconoscimento di tale diritto negli specifici settori ove esso risulti rilevante. La sentenza 4148/2012 si distingue per l’attenta ricostruzione dell’efficacia delle fonti sovranazionali come la Dichiarazione Universale dei diritti umani, la Carta europea
per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), il Patto internazionale dei diritti civili e politici, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e
la giurisprudenza delle Corti formatasi su di esse, in partico2
3
Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138.
Cass., 15 marzo 2012, n. 4184.
231
lare la Corte europea dei diritti umani. Nello specifico è possibile ricostruire tale quadro come segue: l’art. 16 della Dichiarazione Universale, l’art. 23.2 del Patto internazionale,
l’art. 12 CEDU, l’art. 9 della Carta europea riconoscono il
matrimonio come diritto fondamentale ai singoli individui
come esseri umani e non come appartenenti ad un consesso
sociale. Tuttavia tanto l’art. 12 CEDU quanto l’art. 9 della
Carta dei diritti fondamentali della UE consentono agli Stati
nazionali di gestire la realizzazione di tale parificazione: da
un lato attraverso il parametro del «margine di apprezzamento», dall’altro affermando che tale disciplina è di competenza degli Stati nazionali. Tale situazione comporta la
coesistenza a livello europeo di esperienze che vanno dal più
ampio riconoscimento all’assoluto divieto dei matrimoni tra
persone del medesimo sesso, tuttavia non è più possibile negare dignità di vita familiare alla relazione di coppia omosessuale, esattamente negli stessi termini riconosciuti alla coppia
eterosessuale coniugata. Contestualmente la Corte di Cassazione si sono richiamati alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in particolare al caso Schalk e Kopf
contro Austria del 24 giugno 2010, secondo la quale le coppie formate da persone omosessuali non possono essere
escluse dal godimento dei diritti collegati alla nozione di «vita
familiare» nell’accezione dell’art. 8 CEDU. A questo proposito la Corte di Strasburgo afferma, e la Corte di Cassazione
condivide, che «(D)ata l’evoluzione [sociale e giuridica] la
Corte [di Strasburgo] ritiene artificiale sostenere l’opinione
che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia
omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini
dell’art. 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una
coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di
fatto, rientra nella nozione di ‘vita familiare’, proprio come vi
rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella
stessa situazione».
Da tale principio discendono degli effetti che direttamente e positivamente incidono sulla vita delle persone
omosessuali. Ad esempio: viene riconosciuto il permesso di
232
soggiorno per ricongiungimento familiare del coniuge
omosessuale uruguagio di un cittadino italiano4. La coppia
si è sposata in Spagna ai sensi della Ley 13/2005, istitutiva
del matrimonio «sexualmente indiferenciado». La loro
scelta non è stata casuale: infatti né l’Italia né l’Uruguay
prevedono soluzioni legislative che consentano a una coppia formata da persone dello stesso sesso di regolarizzare
formalmente il loro rapporto. In Spagna, l’intervento legislativo si è limitato ad una sostituzione terminologica
adattando i vocaboli propri dei ruoli nella coppia eterosessuale «marido y mujer» con i termini neutri di «cónyuge» e
di «consorte». Attraverso questa operazione il legislatore
spagnolo è intervenuto sui componenti della coppia invece
che riformare completamente l’istituto5. Questa scelta ha
avuto una duplice valenza: da un lato distaccare il concetto
di matrimonio dalla sua pretesa natura di istituto riservato
a una coppia di sesso diverso per trasformarlo in uno
strumento di realizzazione personale e affettiva in condizioni di uguaglianza; dall’altro lato adattarlo alla mutata
realtà sociale. La valenza politica della scelta terminologica
è stata illustrata come il raggiungimento dell’eguaglianza
sostanziale attraverso il formalismo dell’assenza di riferimento al genere. Anche nella disciplina comunitaria prevista dalla direttiva 2004/38/CE la scelta di neutralità terminologica, recepita fedelmente dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n.
30 (e ripresa dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea), svolge un ruolo di primo piano.
Infatti, indipendentemente dalla disciplina degli Stati nazionali in materia matrimoniale e familiare, il riferimento
neutro è intenso a includere, e non ad escludere, le coppie
formate da persone dello stesso genere. Questa scelta di
neutralità inclusiva discende direttamente da uno dei
quattro principi fondativi cardine dell’Unione Europea
4
Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012.
La costituzionalità di questa scelta antidiscriminatoria è stata confermata dal Tribunal Constitucional spagnolo con sentenza depositata il
6 novembre 2012.
5
233
cioè la libertà fondamentale di circolazione delle persone
all’interno dell’Unione Europea. Si tratta di un fulcro del
progetto europeo e tale esigenza prevale e prescinde dalla
regolamentazione nazionale dei rapporti familiari.
Per quanto concerne la fattispecie della convivenza more uxorio al momento sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza alle coppie composte da persone del medesimo
sesso il diritto al risarcimento del danno da morte, alla
sublocazione dell’immobile, alla qualifica di obbligazione
naturale alle donazioni tra conviventi omosessuali, all’astensione testimoniale, all’iscrizione del convivente omosessuale alla Cassa Mutua nazionale per il personale delle
banche di credito cooperativo.
La condizione di omosessualità assume rilevanza nel caso di concessione dello status di rifugiato ovvero di persona bisognosa di protezione internazionale (ai sensi della
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con
L. 722/1954 e modificata dal Protocollo di New York del
31 gennaio 1967, ratificato con legge 95/70 nonché ai sensi del d.lgs 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione
internazionale, nonché norme minime sul contenuto della
protezione riconosciuta) a un cittadino ghanese di orientamento omosessuale perseguitato in Ghana dove l’omosessualità è punibile a titolo di reato; pertanto in relazione
al conseguente rischio di venire sottoposto a gravi violenze, il giudice riconosce al ricorrente la protezione internazionale nella forma del rifugio6.
Appare evidente anche all’osservatore più disattento l’importanza esercitata in questo ambito dal diritto dell’Unione Europea, il quale prevede che in nome delle quattro libertà fondamentali, tra cui quella di libera circolazione, possano venire garantiti effetti diversi a situazioni che a livello
6
Trib. Milano, 16 maggio 2012.
234
nazionale potrebbero anche essere ignorate: la fattispecie del
matrimonio tra le persone del medesimo sesso ne è uno degli
esempi più evidenti. La medesima fattispecie può suggerire
al giurista curioso analoghe considerazioni per quanto concerne l’ordinamento statunitense. Pure esso, seppure a condizioni molto diverse, viaggia su un doppio binario: quello
statale, competente per la materia matrimoniale, e quello
federale che conosce il Defense of Marriage Act (DOMA). Il
DOMA è una legge entrata in vigore nel 1996 durante
l’Amministrazione Clinton allo scopo di define and protect the
institution of marriage. Esso esplicitamente prevede che il matrimonio possa essere celebrato soltanto tra un uomo e una
donna. Il DOMA è al centro di diverse dispute giudiziarie
combattute sia a livello federale sia a livello statale. Infatti, recentemente, nel febbraio del 2012 la United States District
Court for the Northern District of California, nel caso Golinski v.
United States Office of Personnel Management, ha stabilito che le
coppie coniugate dello stesso sesso non possono essere discriminate nell’erogazione dei benefici sanitari nei confronti
delle coppie sposate eterosessuali; pertanto il DOMA, che
stabilisce in via legislativa la differenza di sesso tra i nubendi
per l’accesso al matrimonio, è incostituzionale. Tuttavia, il
contenzioso più noto in materia concerne la nota «Proposition n. 8». Si ricorda che la Proposition n. 8 concerne il referendum popolare tenutosi nel novembre 2008 sull’introduzione nella Costituzione dello Stato della California della
specifica previsione che il matrimonio possa essere celebrato
solo tra un uomo e una donna. A questo proposito, la La US
Court of Appeals for the Ninth Circuit nella causa Perry v. Brown
ha stabilito con una maggioranza di due giudici a uno che il
referendum sulla c.d. Proposition n. 8 è incostituzionale perché violativo delle Due Process e dell’Equal Protection Clauses
previste dal XIV E-mendamento della Costituzione federale.
La questione non è ancora conclusa perché sono attese ulteriori impugnazioni tanto alla plenaria del Ninth Circuit
quanto alla Corte Suprema che ha già concesso il suo «writ of
certiorari» per la trattazione della causa.
235
Ordine pubblico e diritti fondamentali
di Daniela Bauduin ed Elena Falletti
I poteri dei soggetti pubblici sono delimitati dal vincolo
finalistico, dalle disposizioni che ne regolano l’esercizio e
dal rispetto dei diritti fondamentali, soprattutto quando
alla Pubblica Amministrazione è affidata la tutela dell’ordine pubblico1.
L’ordine pubblico è un concetto quanto mai complesso,
che appare per la prima volta nella nostra Costituzione
con la riforma del Titolo quinto della Parte seconda (legge
cost. n. 3 del 2001), e il cui contenuto viene ravvisato dalla
giurisprudenza costituzionale negli interessi pubblici primari su cui si fonda l’ordinata e civile convivenza dei consociati nella comunità nazionale2.
La ricostruzione operata dalla Consulta è stata poi recepita dal legislatore delegato, il quale all’art. 159, comma 2,
del decreto legislativo n. 112 del 1998 stabilisce che: «le
funzioni ed i compiti amministrativi relativi all’ordine pubblico e sicurezza pubblica [...] concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine
pubblico inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale,
1
Sulla nozione di ordine pubblico, cfr. G. Corso, Ordine pubblico (diritto
pubblico), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, 1057 ss.
2
Cfr. Corte cost., 27 marzo 1987, n. 77; Corte cost., 25 febbraio 1988,
n. 218; Corte cost., 7 aprile 1995, n. 115; Corte cost., 25 luglio 2001, n.
290.
237
nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni».
La tutela dell’ordine pubblico è affidata allo Stato, il
quale opera attraverso l’Amministrazione di pubblica sicurezza, che è sottoposta ad un ordinamento speciale, rappresentato in via principale dalla legge 1° aprile 1981, n.
121. La materia dell’ordine pubblico, tuttavia, in quanto
connessa ad interessi dell’intera collettività, richiede la
collaborazione di più livelli istituzionali.
Di particolare interesse per la sua estrema attualità è il
rapporto tra diritti fondamentali e ordinanze di necessità
ed urgenza: una particolare categoria di ordini che talune
Autorità amministrative sono autorizzate ad emanare sul
presupposto della necessità e dell’urgenza di provvedere
ed il cui contenuto non è predeterminato così da poterlo
adattare alle circostanze concrete3. È nella legge autorizzativa che si ritrova l’indicazione dei presupposti (la necessità
e l’urgenza) e dello scopo (la tutela dell’ordine pubblico).
Tra questi atti hanno un notevole rilievo le ordinanze
dell’Autorità di pubblica sicurezza di cui all’articolo 2 del
Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (di seguito,
TULPS approvato con il regio decreto 18 giugno 1931, n.
773, il quale stabilisce che i Prefetti «nel caso di urgenza o
per grave necessità pubblica hanno facoltà di adottare i
provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine
pubblico e della sicurezza pubblica».
La Corte costituzionale ha sottolineato che l’esercizio
del potere di adottare ordinanze è sottoposto ad una serie
di vincoli: primo fra tutti il rispetto della Costituzione e
delle riserve di legge in essa contenute, oltre che dei principi dell’ordinamento giuridico.
L’autorevole voce di Stefano Rodotà afferma che «l’accento posto sui diritti fondamentali corrisponde ad un bisogno profondo di legalità che, in molte aree segnate da
3
L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Diritto amministrativo, I, Bologna, 2001, 193 ss.
238
discrezionalità non più accettabili, esige un passaggio dalla
garanzia politica alla garanzia giuridica»4.
Tuttavia, nonostante prestigiosi interventi giurisprudenziali e dottrinali affermino la piena tutela dei diritti inviolabili, in una serie di ipotesi la tutela dell’ordine e della
sicurezza pubblici risulta prevalente rispetto ai diritti fondamentali della persona.
Eppure, mentre nell’ordinamento prerepubblicano alla
Pubblica Amministrazione era riconosciuta un’autonomia
tanto ampia che essa poteva fare tutto ciò che non le fosse
esplicitamente vietato, nel sistema attuale i poteri dell’Autorità amministrativa trovano un limite intrinseco nella
legge.
Il ricorso frequente all’istituto emergenziale dell’ordinanza «forza» il riparto delle competenze normative fissato
dalla Costituzione, se non rispetta i limiti stabiliti dal legislatore e chiariti dalla Corte costituzionale.
Questi strumenti rafforzano il ruolo del Governo per far
fronte a un’emergenza, che però è qualificata come tale
dallo stesso soggetto che esercita il potere straordinario e
derogatorio. Ne consegue l’ampia discrezionalità del prefetto nell’adozione di atti che dovrebbero concretarsi in
misure indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e
della sicurezza pubblica.
La Corte costituzionale5 ha affermato che il potere derogatorio della normativa primaria riconosciuto alla Pubblica Amministrazione in caso di emergenza, per non essere in contrasto con il sistema costituzionale, deve essere
eccezionale e manifestarsi in deroghe temporalmente delimitate.
Le ordinanze di cui all’art. 2 del TULPS devono allora essere giustificate da un contesto di emergenza connotato dalla
eccezionalità e provvisorietà, senza nascondere problemi
strutturali e persistenti, che «stabilizzano» l’emergenza.
4
5
S. Rodotà, Quale Stato, Roma, 1994, 81.
Corte costituzionale, 14 aprile 1995, n. 127.
239
Diversamente, si altera la stessa forma di governo democratico-parlamentare che prevede per i casi di emergenza la decretazione d’urgenza, la quale esprime il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, attraverso il
procedimento della conversione in legge.
Con il ricorso frequente all’ordinanza, il potere esecutivo assume un ruolo preminente ed esclusivo nella gestione
dell’emergenza, la cui conformità alla Costituzione meriterebbe di essere verificata.
Guardando ad una delle vicende che più interessa l’opinione pubblica da anni, si rammenta che il 22 giugno
2011 il prefetto della Provincia di Torino ha emesso
un’ordinanza in base al citato art. 2 TULPS, con cui ha disposto l’assegnazione nella disponibilità delle forze di polizia delle aree individuate per l’installazione del cantiere
della galleria propedeutica al tunnel della nuova linea ferroviaria Torino-Lione.
Va ricordato che detto articolo è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale6, nei limiti in cui esso attribuisce ai Prefetti il potere di emettere ordinanze senza il
rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.
Ed è proprio questo dei principi dell’ordinamento giuridico il punto fondamentale su cui bisogna soffermarsi.
Già nel 1956 la Consulta7 auspicò che il legislatore
provvedesse a inserire nell’art. 2 l’espressa enunciazione
dei canoni cui i provvedimenti dovessero conformarsi al
fine di porre la disposizione al riparo da ogni interpretazione contraria allo spirito della Costituzione.
Purtroppo, nel tempo trascorso da quella sentenza il testo legislativo è rimasto inalterato e molti prefetti hanno
emesso provvedimenti che sono stati spesso oggetto di
censure di legittimità.
In primo luogo, si deve osservare che i provvedimenti
prefettizi non possono mai essere in contrasto con quei
6
7
Corte costituzionale, 23 maggio 1961, n. 26.
Corte costituzionale, 20 giugno 1956, n. 8.
240
principi della Costituzione che, rappresentando gli elementi fondamentali dell’ordinamento, non consentono alcuna possibilità di deroga. È, infatti, ovvio che l’art. 2 della
legge di pubblica sicurezza non potrebbe disporre che, in
un campo in cui il precetto costituzionale è inderogabile
anche di fronte alla legge ordinaria, intervengano provvedimenti amministrativi in senso difforme.
Al provvedimento menzionato ha fatto seguito una sequenza di ordinanze, con cui è stato vietato, fra l’altro, l’ingresso e lo stanziamento nell’area, di persone, cose e mezzi estranei allo svolgimento delle attività di cantiere. Disposizione più volte prorogata per il permanere delle
«preminenti esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza
pubblica nell’area del cantiere, unitamente all’urgenza
della prosecuzione dell’attività dello stesso in ragione degli
impegni internazionali assunti».
All’analisi che si sta conducendo giova, altresì, il richiamo al ruolo fondamentale del prefetto e del questore nella
salvaguardia dell’ordine pubblico, trattandosi di compito
che la Costituzione attribuisce alla Repubblica, in quanto
determinante per garantire la pace sociale sull’intero territorio nazionale.
In particolare, l’art. 2 della Costituzione italiana, definita plasticamente da Carlo Azeglio Ciampi «Bibbia laica»,
stabilisce che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Non vi è
dubbio che tra i diritti inviolabili vada annoverato il «diritto alla sicurezza», anche e soprattutto in occasione di
manifestazioni pubbliche rischiose per l’eventuale presenza di gruppi violenti. Tuttavia tale posizione giuridica del
soggetto non può prevaricare sul diritto di manifestare liberamente il proprio dissenso nei confronti dell’opera da
parte della cittadinanza.
Ulteriormente si rileva che l’art. 3 Cost. esprime ancor
più incisivamente il compito della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limi241
tando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Al cittadino deve, dunque, essere garantita dallo Stato la
sicurezza nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, che rappresenta il presupposto per l’evoluzione della
società democratica e per lo sviluppo di ciascun individuo.
È necessario che l’Autorità di pubblica sicurezza adotti
una visione più complessa e non riduttiva degli interessi in
gioco dando rilievo anche alle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini, che siano manifestanti o meno. Basti
pensare, a titolo puramente esemplificativo, ai diritti inerenti al godimento tanto individuale quanto collettivo di
beni come l’integrità dell’ambiente, la salute, l’aria, l’acqua, il patrimonio boschivo, ovvero tutti gli elementi che
caratterizzano nella sua essenza l’identità del luogo.
A quanto detto si aggiunga che la legge di stabilità per il
2012 (legge 12 novembre 2011, n. 183) qualifica il cantiere
suddetto come «area di interesse strategico nazionale».
In particolare, l’art. 19, rubricato «Interventi per la realizzazione del corridoio Torino-Lione e del Tunnel del
Tenda», contiene una norma che prevede la classificazione
dell’area della Maddalena di Chiomonte come «area di
interesse strategico nazionale», intendendosi per tale
quell’area geografica «ove risiedono – o sono fondamentali
per il loro controllo – gli interessi vitali o strategici della
nazione»8.
In tempi non troppo lontani, ma ormai dimenticati,
Carl Schmitt teorizzava la dottrina del «decisionismo giuridico» sostenendo che la decisione politica producesse diritto indipendentemente dalla sua adesione alla regola.
Questo orientamento giustificherebbe l’indifferenza ai
contenuti decisori, limitandosi a elaborare una veste solo
formale affinché il potere sovrano possa manifestarsi con8
Ministero delle Difesa, Inserto di informazione della difesa, n. 1/2001, 25-26.
242
cretamente. Corollario di siffatta elaborazione dottrinale è
la circostanza che anche una decisione non corrispondente
alle regole crea comunque diritto e pertanto va eseguita
senza indugio.
Questo ricordo di studi universitari affiora alla mente
leggendo l’ordinanza prefettizia relativa alle aree del cantiere di Chiomonte, la settima, del 25 febbraio 2012. Con il
provvedimento in parola il prefetto di Torino ha ordinato
che, ferma restando l’interdizione relativa alla via dell’Avanà nel Comune di Chiomonte, disposta con l’ordinanza
del 16 gennaio 2012, sia interdetta, dal 27 febbraio al 4
marzo 2012, alla circolazione di persone e di mezzi la viabilità in alcune strade all’interno del Comune di Giaglione
e del Comune di Chiomonte. Inoltre, l’Autorità prefettizia
ha vietato l’accesso a tutti i sentieri e alle aree prative e silvestri facenti parte degli ultimi enti locali citati, che «comunque conducano all’area di interesse strategico nazionale, di cui all’art. 19 della legge 183/2011, così come individuata dalla delibera CIPE n. 86/2010 del 18 novembre
2010, nonché alle aree recintate retrostanti l’area del Museo Archeologico di Chiomonte, a quelle della Centrale
Idroelettrica di Chiomonte e alla cuffia paramassi, posta a
protezione del pilone del viadotto autostradale contrassegnato dal numero 2». Si aggiunga il previsto divieto all’esercizio di qualsiasi attività venatoria nei Comuni di Chiomonte, Giaglione, Venaus ed Exilles.
Nella parte motivazionale del provvedimento si richiama a proprio fondamento l’imminente avvio nelle aree di
interesse strategico in questione, degli «adempimenti preliminari alle procedure di occupazione temporanea di
particelle di terreni di proprietà privata», ostacolati, ad avviso del Questore di Torino da una «eccezionale» situazione pregiudizievole per l’ordine pubblico, che ha reso necessarie «a protezione dell’area di cantiere» ordinanze
prefettizie contenenti divieti e restrizioni alla viabilità circostante la stessa.
Le più volte evocate ragioni di urgenza e cautelari sono
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citate dal prefetto per fondare, altresì, la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari «dovendosi procedere, senza ulteriori differimenti, agli adempimenti preliminari alle procedure di occupazione temporanea e in ragione delle sottese esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica».
È opportuno ricordare che i procedimenti tesi a comprimere la proprietà privata rappresentano il punto di incontro più difficile tra autorità dello Stato e autonomia
privata, dal che deriva la necessità di garantire ai soggetti
portatori di interessi qualificati la possibilità di partecipare
ad un procedimento che deve essere affrancato dall’urgenza, in quanto collegato in modo ineludibile ad un’attività di programmazione. A tal fine occorre un’accurata
preparazione di elaborati tecnici volti a determinare in
modo preciso la conformazione del territorio, giungendo a
soluzioni razionali, economiche e condivise.
Se finora i provvedimenti amministrativi emanati dal
rappresentante periferico di Governo concernevano i diritti di circolazione e la libertà di manifestazione del pensiero, con questo atto l’Autorità pubblica incide uno dei diritti individuali che più sono stati discussi durante il percorso storico delle vicende umane in relazione al rapporto
tra Autorità costituita e consociati ad essa sottoposti, cioè
quello di proprietà. Infatti, la regolazione della disciplina
dominicale è di particolare delicatezza perché regola la
gestione di una risorsa che per sua natura è scarsa rispetto
a coloro che ne ambiscono la titolarità, ovvero nello specifico la terra.
Il TAR Piemonte9, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità delle ordinanze prefettizie cui si è fatto cenno, ha
respinto la domanda cautelare ritenendola non sorretta da
adeguati elementi di «verosimiglianza del buon diritto» e
profili concreti di pregiudizio grave e irreparabile, atteso
che la situazione presa in esame nei provvedimenti prefet9
TAR Piemonte, Sezione prima, ordinanza 31 maggio 2012, n. 346.
244
tizi evidenzia fondate esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica e integra i presupposti dei
poteri delineati dall’art. 2 del TULPS. Inoltre, gli atti impugnati non paiono esorbitare i precisi limiti imposti dall’ordinamento giuridico, in particolare quello della salvaguardia dei diritti costituzionali, così come delineati in
giurisprudenza.
Sovvengono di nuovo le memorie degli studi universitari, quando si apprendeva che secondo la visione costituzionale liberale, affinché un ordinamento politico fosse legittimamente costituito, esso dovesse preservare innanzitutto la vita, la libertà e la proprietà fondiaria. Dai tempi
di John Locke è di sicuro passata molta acqua sotto i ponti,
insieme a molta teoria e altrettanta pratica, ma non si può
non rimanere convinti che il rispetto del contraddittorio
nelle procedure ablative del diritto di proprietà sia doveroso indipendentemente dalle disposizioni previste dall’art. 19 menzionato, perché si mettono in pericolo le basi
della convivenza civile.
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