2002 - Pontifical Academy for Life

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2002 - Pontifical Academy for Life
NATURA E DIGNITA DELLA PERSONA UMANA
A FONDAMENTO DEL DIRITTO ALLA VITA.
LE SFIDE DEL CONTESTO CULTURALE CONTEMPORANEO
ATTI DELLA OTTAVA ASSEMBLEA
DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA
Città del Vaticano, 25-27 Febbraio 2002
A cura di :
JUAN DE DJOS VIAL CORREA
ELIO SGRECCIA
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
2003
Presentazione (Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA E ELIO SGRECCIA)
DOCUMENTI CORRELATI
Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II
Comunicato Finale
CONTRIBUTI DELLA TASK-FORCE
S.E.R. Mons. JULIÁN HERRANZ, La dignità della persona umana e il diritto.
Rev. Prof. ANDRZEJ SZOSTEK, La questione antropologica: esiste la verità assoluta sull' uomo?
Prof. WOLFGANG WALDSTEIN, La capacità della mente umana di conoscere il diritto naturale.
Prof. SERGIO BELARDINELLI, "Natura " in senso cosmologico, biologico, antropologico ed
ecologico.
Prof. JOHN FINNIS, Natura e legge naturale nel dibattito filosofico e teologico contemporaneo:
alcune osservazioni.
Rev. Prof. CHARLES MOREROD, Natura e legge naturale nel cattolicesimo e nel protestantesimo.
1 Rev. MARTIN RHONHEIMER, La legge morale naturale: conoscenza morale e conscienza.La
struttura cognitiva della legge naturale e la verità della soggettività.
Prof. FRANCESCO VIOLA, Il diritto naturale: stabilita ed evoluzione dei suoi contenuti.
Prof. FRANCESCO D'AGOSTINO, Il diritto naturale, il diritto positivo e le nuove provocazioni della
bioetica.
Prof. JOSEPH SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana.
Prof. MARIA DOLORES VILA- CORO, I diritti umani e il diritto alla vita.
S.E.R. Mons. CARLO CAFFARRA, Legge naturale: matrimonio e procreazione.
2 JUAN DE DIOS VIAL CORREA, ELIO SGRECCIA PRESENTAZIONE Il tema dell'esistenza della legge naturale e della sua definizione nell'uomo con la necessaria connessione con il suo fondamento, nella natura umana, e i conseguenti riflessi sul diritto naturale è argomento che s'impone in modo sempre più pressante. Anzitutto, perché tutti i problemi che si dibattono oggi nell'ambito della bioetica e del biodiritto chiedono, per una loro valida soluzione che si chiarisca questa preliminare domanda: se esiste o no un'istanza inerente all'uomo in quanto tale, sulla quale si possa fondare il giudizio di liceità o illiceità dell'intervento scientifico-­‐sperimentale sull'uomo. Le discussioni sull'aborto, sull'eutanasia, sul diritto alle cure, sulla sperimentazione sull'uomo -­‐a partire dalla fase embrionale-­‐ e, più recentemente sull'impiego delle cellule staminali embrionali e sulla clonazione, riproduttiva e terapeutica, ripropongono la definizione dell'inizio della vita umana, della sua fine e, quindi dell'interrogativo ultimo: che cosa definisce l'uomo e la sua natura e su che cosa si fonda il suo diritto. Nella stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e in tutti i documenti che fanno appello al concetto dei "diritti dell'uomo" quelli cioè che ineriscono all'uomo in quanto uomo, è soggiacente la stessa domanda L'evoluzionismo, come teoria interpretativa della storia dell'universo, e la sensibilità storica e sociologica consentono ancora di parlare di una natura umana che, comunque, definisce l'uomo come anima et corpore unus, unus per l'anima spirituale che lo struttura e lo vivifica? La questione antropologica condiziona e fonda anche la domanda etica su ogni intervento sull'uomo: qual è il bene vero dell'uomo e quale azione compiuta dall'individuo umano o a carico dell'individuo umano, è conforme alla sua istanza connaturale? Ugualmente ci s'interroga sul piano giuridico: quale legge può conseguire il bene comune nel rispetto del bene di ognuno? Per rispondere a questa domanda occorre definire la natura umana, la sua "oggettività" e "conoscibilità". D'altro canto lo stesso dialogo tra le diversi correnti culturali non può essere condotto se non sulla base di una ricerca di un fondamento comune, il bene vero dell'uomo, la verità dell'uomo. Se si parla dal contrattualismo e dall'utilitarismo non esiste terreno comune o valori oggettivi, ma soltanto i compromessi sulla logica degli interessi e ogni decisione finisce di sottostare all'interesse del più forte. Pertanto il discorso sulla legge morale naturale e sul diritto naturale diventa un discorso di libertà e di giustizia. Smarrire, occultare, questo discorso pone la premessa per ogni prevaricazione dà corso alla logica della guerra del più forte contro i più deboli specialmente nel settore della biomedicina, ove l'essere umano è oggetto di distruzione, di sperimentazione e di commercio. Togliere i fondamenti del pensiero intorno alle questioni della verità, del bene della giustizia e del diritto vuol dire esporre al crollo tutto l'edificio sociale. La sensibilità per questo fondamento, legge morale naturale-­‐diritto naturale, sta per altro riemergendo dopo il crollo delle ideologie, e dopo l'inondazione del pensiero debole e del relativismo morale. Un grande aiuto per questa riflessione è venuto dal Concilio Ecumenico Vaticano II, (in particolare nella Gaudium et Spes) dalle Encicliche Veritatis Splendor(6.8.1997) e Fides et Ratio(14.9.1998). Di quest'ultima Enciclica ci piace ricordare la condanna del nihilismo, che riassume in sé gli esiti anche di altre visioni relativiste come l'utilitarismo e il contrattualismo: "il nihilismo" prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell'umanità e della sua stessa identità. Non si può 3 dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine. Una volta che si è tolta la verità dell'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero" (Fides et Ratio, n. 90). Il Santo Padre a conclusione dell'Assemblea Generale di cui riportiamo gli Atti ha voluto richiamare -­‐citando la Gaudium et Spes e l'Enciclica Veritatis Splendor-­‐ l'istanza imprescindibile di "fare sempre riferimento alla natura propria e originale dell'uomo, alla natura della persona umana, che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al proseguimento del suo fine" (Discorso ai partecipanti alla VIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, L'Osservatore Romano, 1 marzo 2002, p.5). In questo stesso Discorso il S.Padre, dopo aver criticato il presunto conflitto fra legge naturale e libertà, chiarisce e respinge l'accusa di "fissismo" ed "essenzialismo fissista" che spesso viene pronunciato riguardo alla legge naturale a motivo di una profonda incomprensione della sua stessa nozione: compiere il bene ed evitare il male vuol dire mettere in atto una dinamica perfettiva che coinvolge tutto l'uomo e tutti gli uomini, vuol dire proporre compiti storici in avanti e in alto all'umanità dietro la luce sapienzale della legge morale. Un'erronea analogia con il concetto di natura proprio delle realtà fisiche ha ingenerato forse l'accusa di "fissismo", vocabolo usato come utile strumento da chi insegue concetti evoluzionisti e il relativismo della morale. Il diritto alla vita che è al centro dell'insegnamento dell'Evangelium Vitae (1995) non potrebbe avere slancio né sostegno, se non fosse ancorato sul fondamento della verità dell'uomo e della legge naturale. Il S.Padre nel Discorso citato, dopo aver ricordato che "i diritti dell'uomo debbono essere riferiti a ciò che l'uomo è per natura e in forza della propria dignità, e non già alle espressioni delle scelte soggettive proprie di coloro che godono del potere di partecipare alla vita sociale o che ottengono il consenso della maggioranza" ricorda che: "Tra i diritti dell'uomo la Chiesa cattolica rivendica per ogni essere umano il diritto alla vita come diritto primario. Lo fa in nome della verità dell'uomo e a tutela della sua libertà, che non può consistere se non nel rispetto alla vita (E.V., n.6)". Il volume che presentiamo porta, oltre al prezioso Discorso del S.Padre, una serie di contributi che si compattano in una trattazione integrata che comprende tre momenti di riflessione. La riflessione parte dal riferimento alla dignità della persona umana e per approfondire il discorso antropologico inteso come verità essenziale sull'uomo e la capacità dell'uomo a conoscere il diritto naturale. In un secondo momento il volume riporta gli approfondimenti indispensabili relativi al significato di "natura" in senso cosmologico, biologico, antropologico ed ecologico; seguono i capitoli sulla natura e diritto naturale nel dibattito filosofico e teologico attuale, sul rapporto tra legge morale naturale, conoscenza morale e coscienza; su diritto naturale e diritto positivo; sulla concezione protestante e la concezione cattolica e la concezione protestante della natura e della legge naturale. Infine si affronta il tema del "diritto alla vita" in rapporto alla dignità della persona, in relazione ai diritti dell'uomo e nelle conseguenze che si prospettano in ordine alla famiglia e alla procreazione. Siamo convinti di aver raccolto e predisposto un contributo valido e stimolante per una riflessione seria in ambito morale, giuridico e più ampiamente culturale. 4 GIOVANNI PAOLO II DISCORSO Ancora una volta si rinnova il nostro incontro, cari e illustri membri della Pontificia Accademia per la Vita, un incontro che sempre costituisce per me motivo di gioia e di speranza. Il mio saluto giunga con viva cordialità a ciascuno di voi personalmente. Ringrazio in particolare il Presidente, Professor Juan de Dios Vial Correa, per la amabili parole con cui ha voluto farsi interprete dei vostri sentimenti. Uno speciale pensiero rivolgo anche al Vice-­‐Presidente, Mons. Elio Sgreccia, animatore solerte dell'attività della Pontificia Accademia. State celebrando in questi giorni la vostra ottava Assemblea Generale e a questo scopo siete qui convenuti numerosi dai rispettivi Paesi, per confrontarvi su una tematica cruciale nell'ambito della più generale riflessione sulla dignità della vita umana: "Natura e dignità della persona umana a fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo". Avete scelto di trattare uno dei punti nodali che stanno a fondamento di ogni ulteriore riflessione, sia essa di tipo etico-­‐applicativo nel campo della bioetica, o di tipo socio-­‐culturale per la promozione di una nuova mentalità a favore della vita. Per molti pensatori contemporanei i concetti di "natura" e di "legge naturale" appaiono applicabili al solo mondo fisico e biologico o, in quanto espressione dell'ordine del cosmo, alla ricerca scientifica e all'ecologia. Purtroppo, in tale prospettiva, riesce difficile cogliere il significato della natura umana in senso metafisico, come pure quello di legge naturale nell'ordine morale. A rendere più arduo questo passaggio verso la profondità del reale, ha certamente contribuito l'aver smarrito quasi del tutto il concetto di creazione, concetto riferibile a tutta la realtà cosmica, ma che riveste un particolare significato in rapporto all'uomo. Ha avuto in ciò un suo peso anche l'indebolimento della fiducia nella ragione, che caratterizza gran parte della filosofia contemporanea, come ho rilevato nell'Enciclica Fides et ratio (cfr n. 61). Occorre pertanto un rinnovato sforzo conoscitivo per tornare a cogliere alle radici, ed in tutto il suo spessore, il significato antropologico ed etico della legge naturale e del connesso concetto di diritto naturale. Si tratta, infatti, di dimostrare se e come sia possibile "riconoscere" i tratti propri di ogni essere umano, in termini di natura e dignità, quale fondamento del diritto alla vita, nelle sue molteplici formulazioni storiche. Soltanto su questa base è possibile un vero dialogo ed un'autentica collaborazione fra credenti e non credenti. L'esperienza quotidiana evidenzia l'esistenza di una realtà di fondo comune a tutti gli esseri umani, grazie alla quale essi possono ri-­‐conoscersi come tali. E' necessario fare sempre riferimento "alla natura propria e originale dell'uomo, alla "natura della persona umana" che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine" (Veritatis splendor, 50; cfr anche Gaudium et spes, 14). Questa natura peculiare fonda i diritti di ogni individuo umano, che ha dignità di persona fin dal momento del suo concepimento. Questa dignità oggettiva, che ha la sua origine in Dio Creatore, è fondata nella spiritualità che è propria dell'anima, ma si estende anche alla sua corporeità, che ne è componente essenziale. Nessuno può toglierla, tutti anzi la devono rispettare in sé e negli altri. E' dignità uguale in tutti e che permane intera in ogni stadio della vita umana individuale. Il riconoscimento di tale naturale dignità è la base dell'ordine sociale, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: "Benché tra gli uomini vi siano giuste diversità, l'uguale dignità delle persone richiede che si giunga ad una condizione più umana e giusta della vita" (Gaudium et spes, 29). 5 La persona umana, con la sua ragione, è capace di ri-­‐conoscere sia questa dignità profonda ed oggettiva del proprio essere, sia le esigenze etiche che ne derivano. L'uomo può, in altre parole, leggere in sé il valore e le esigenze morali della propria dignità. Ed è lettura che costituisce una scoperta sempre perfettibile, secondo le coordinate della "storicità" tipiche della conoscenza umana. E' quanto ho rilevato nell'Enciclica Veritatis splendor, a proposito della legge morale naturale, la quale, secondo le parole di san Tommaso d'Aquino, "altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione" (n. 40; cfr anche Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1954-­‐1955). E' importante aiutare i nostri contemporanei a comprendere il valore positivo e umanizzante della legge morale naturale, chiarendo una serie di malintesi e di interpretazioni fallaci. Il primo equivoco che occorre eliminare è "il presunto conflitto tra la libertà e la natura", che "si ripercuote anche sull'interpretazione di alcuni aspetti scientifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità" (Veritatis splendor, 51). Infatti anche la libertà appartiene alla natura razionale dell'uomo e dalla ragione può e deve essere guidata: "Proprio grazie a questa verità, la legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella natura razionale della persona, s'impone ad ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia" (ibid.). Un altro punto che deve essere chiarito è il presunto carattere statico e fissista attribuito alla nozione di legge morale naturale, suggerito forse per una erronea analogia con il concetto di natura proprio delle realtà fisiche. In verità, il carattere di universalità e obbligatorietà morale stimola e urge la crescita della persona. "Per perfezionarsi nel suo ordine specifico la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza" (San Tommaso, Summa Theologica, I-­‐II, q. 94, a. 2; cfr CCC, 51). Di fatto, il Magistero della Chiesa si richiama all'universalità e al carattere dinamico e perfettivo della legge naturale in riferimento alla trasmissione della vita, sia per mantenere nell'atto procreativo la pienezza dell'unione sponsale, sia per conservare nell'amore coniugale l'apertura alla vita (cfr Humanae vitae, 10; Istruzione Donum vitae, II, 1-­‐8). Analogo richiamo il Magistero fa in tema di rispetto della vita umana innocente: qui il pensiero va all'aborto, all'eutanasia, alla soppressione e sperimentazione distruttiva degli embrioni e dei feti umani (cfr Evangelium vitae, 52-­‐67). La legge naturale, in quanto regola le relazioni interumane, si qualifica come "diritto naturale" e, come tale, esige il rispetto integrale della dignità dei singoli individui nella ricerca del bene comune. Un'autentica concezione del diritto naturale, inteso come tutela dell'eminente e inalienabile dignità di ogni essere umano, è garanzia di uguaglianza e dà contenuto vero a quei "diritti dell'uomo" che sono stati posti a fondamento delle Dichiarazioni internazionali. I diritti dell'uomo, infatti, debbono essere riferiti a ciò che l'uomo è per natura e in forza della propria dignità, e non già alle espressioni delle scelte soggettive proprie di coloro che godono del potere di partecipare alla vita sociale o di coloro che ottengono il consenso della maggioranza. Nell'Enciclica Evangelium vitae ho denunciato il pericolo grave che questa falsa interpretazione dei diritti dell'uomo, come di diritti della soggettività individuale o collettiva, sganciata dal riferimento alla verità della natura umana, possa portare anche i regimi democratici a trasformarsi in un sostanziale totalitarismo (cfr nn. 19-­‐20). In particolare, tra i diritti fondamentali dell'uomo, la Chiesa cattolica rivendica per ogni essere umano il diritto alla vita come diritto primario. Lo fa in nome della verità dell'uomo e a tutela della sua libertà, che non può sussistere se non nel rispetto della vita. La Chiesa afferma il diritto 6 alla vita di ogni essere umano innocente ed in ogni momento della sua esistenza. La distinzione che talora viene suggerita in alcuni documenti internazionali tra "essere umano" e "persona umana", per poi riconoscere il diritto alla vita e all'integrità fisica soltanto alla persona già nata, è una distinzione artificiale senza fondamento né scientifico né filosofico: ogni essere umano, fin dal suo concepimento e fino alla sua morte naturale, possiede l'inviolabile diritto alla vita e merita tutto il rispetto dovuto alla persona umana (cfr Donum vitae, 1). Carissimi, in conclusione desidero incoraggiare la vostra riflessione sulla legge morale naturale e sul diritto naturale, con l'augurio che da questa possa scaturire un nuovo, sorgivo slancio di instaurazione del vero bene dell'uomo e di un ordine sociale giusto e pacifico. E' sempre ritornando alle radici profonde della dignità umana e del suo vero bene, è poggiando sul fondamento di ciò che esiste di intramontabile ed essenziale nell'uomo, che si può avviare un dialogo fecondo con gli uomini di ogni cultura in vista di una società ispirata ai valori della giustizia e della fraternità. Ringraziandovi ancora per la vostra collaborazione, affido le attività della Pontificia Accademia per la Vita alla Madre di Gesù, Verbo fatto carne nel suo grembo verginale, perché vi accompagni nell'impegno che la Chiesa vi ha affidato per la difesa e la promozione del dono della vita e della dignità di ogni essere umano. Con questo auspicio imparto a voi ed ai vostri cari la mia affettuosa Benedizione. (Da L'Osservatore Romano, venerdì 1 marzo 2002, p.5) 7 COMUNICATO FINALE Si è svolta, dal 25 al 27 di febbraio, la VIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, presso l'Aula Vecchia del Sinodo in Vaticano. Per l'occasione, come di consuetudine, sono convenuti dai loro diversi Paesi di appartenenza i membri dell'Accademia, per condividere la loro esperienza di testimoni della vita, attraverso una pluridisciplinarità di competenze, a servizio della Chiesa e dell'intera comunità umana. Nell'ambito delle finalità specifiche dell'Accademia per la Vita, vale a dire studiare, formare ed informare circa le tematiche della vita, quest'anno si è scelto di dedicare l'Assemblea Generale allo studio del tema "Natura e dignità della persona umana a fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo". A nessuno sfugge come nel contesto culturale odierno siano presenti diverse correnti di pensiero che tendono, più o meno esplicitamente, a negare l'esistenza stessa di una natura umana o della capacità di conoscerla, con la conseguenza di non ammettere che la dignità della persona abbia un valore incondizionato e indisponibile, specialmente all'inizio e alla fine della vita umana, quando essa necessita maggiormente di cura e protezione. Infatti -­‐come ha ricordato il Papa nel discorso ai partecipanti all'Assemblea-­‐ "per molti pensatori contemporanei i concetti di natura e di legge naturale, appaiono applicabili al solo mondo fisico e biologico o, in quanto espressione dell'ordine del cosmo, alla ricerca scientifica e all'ecologia. Purtroppo, in tale prospettiva, riesce difficile cogliere il significato della natura umana in senso metafisico, come pure quello di legge naturale nell'ordine morale"(n.2). Di fronte a tali paradigmi culturali, l'Accademia per la Vita ha sentito l'esigenza di confrontarsi con queste nuove istanze, alla ricerca di una continuità con gli imprescindibili contenuti della plurisecolare Tradizione della Chiesa, e più in generale del pensiero filosofico classico, nello sforzo di individuare possibili novità di linguaggio, per favorire il dialogo col mondo contemporaneo, così come ha auspicato il Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes, n.3). Inoltre, tale tematica si presenta oggi di fondamentale rilevanza per indagare il rapporto che intercorre tra l'elaborazione dei vari codici legislativi, ai diversi livelli, e i valori umani a cui essi dovrebbero fare riferimento. A tal fine, l'Assemblea Generale ha seguito un itinerario articolato in tre aree tematiche: la questione antropologica; il tema della legge morale naturale sotto il profilo della sua esistenza e conoscibilità; la tematica del diritto, con particolare riferimento al diritto alla vita. Riguardo la questione antropologica, riprendendo l'insegnamento della Gaudium et Spes (n.14), l'assemblea ha voluto riaffermare una visione unitaria dell'uomo, "corpore et anima unus", rifiutando ogni dualismo o riduzionismo, sia di stampo spiritualista che materialista. L'autentico rispetto di ogni soggetto umano, infatti, trova il suo fondamento in tale identità corporeo-­‐
spirituale, dove la dimensione della corporeità è parte costitutiva della persona, che attraverso di essa si manifesta e si esprime (cf. Donum Vitae, n.3), così come lo è la dimensione spirituale, nella quale l'uomo si apre a Dio, trovando in Lui il fondamento ultimo della sua dignità. Un aspetto problematico riguarda il riconoscimento dell'esistenza di una natura umana universale dalla quale derivare la legge morale naturale. A tal proposito, le relazioni succedutesi hanno rilevato come, nella cultura contemporanea, alcune correnti di pensiero, insistendo esclusivamente sulla dimensione storico-­‐evolutiva dell'uomo, giungano a negare l'esistenza di una natura umana universale. Tuttavia essa, intesa come "natura razionale" è apparsa agli Accademici -­‐ in continuità con l'insegnamento della Chiesa -­‐ come un principio irrinunciabile per comprendere pienamente la legge morale naturale. Infatti, che cosa può fondare la dignità della persona umana se non le sue dimensioni ed esigenze essenziali, vale a dire la sua natura? Il Papa stesso ha voluto ribadire ai membri dell'Accademia che "la persona umana, con la sua ragione, è capace di ri-­‐conoscere sia la dignità profonda ed oggettiva del proprio essere, sia le 8 esigenze etiche che ne derivano. L'uomo può, in altre parole, leggere in sé il valore e le esigenze morali della propria dignità. Ed è lettura che costituisce una scoperta sempre perfettibile, secondo le coordinate della "storicità" tipiche della conoscenza umana" (GIOVANNI PAOLO II,Discorso ai partecipanti..., n.3). Sulla base di questa visione antropologica, la riflessione degli Accademici si è quindi incentrata sul tema della legge morale naturale. Essa "altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione." (Veritatis Splendor, nn.12; 40). Dunque, la sua esistenza è diretta conseguenza dell'esistenza della natura umana. Più in particolare, richiamando la dottrina di S. Tommaso d'Aquino sulla legge morale naturale, si è voluto sottolineare il fatto che ogni uomo è naturalmente capace di conoscere con chiarezza i dettami fondamentali (principi primi) di tale legge, che risuonano nel suo cuore chiamandolo sempre a fare il bene e ad evitare il male (cf. Gaudium et Spes, n.16). Appartiene alla natura dell'uomo la capacità di conoscere anche le norme morali derivate -­‐ tali sono le norme etiche che riguardano la tutela della vita umana -­‐, anche se la loro determinazione, in qualche caso, appare più difficoltosa a causa degli inevitabili condizionamenti culturali e personali che segnano la storia di ogni individuo. Per ciò, sia in ordine alla conoscenza che all'agire, di grande aiuto risulta la pratica delle virtù morali, intese come l'abitudine acquisita a compiere un determinato bene, mentre i vizi, al contrario, rappresentano un ostacolo ulteriore al compimento del bene. Le esigenze che appartengono alla legge morale naturale, come dimostra chiaramente la storia dei popoli, richiedono anche di essere riconosciute e tutelate nella vita sociale attraverso il diritto. In questo senso, si può parlare di "diritto naturale", con le conseguenti codificazioni legislative, i cui fondamenti non risiedono in un mero atto di volontà umana, bensì nella stessa natura e dignità della persona. È per questa ragione che, nella storia del diritto, quasi costantemente fino alla fine del diciottesimo secolo, i diritti fondamentali dell'uomo sono stati considerati come inviolabili e non-­‐
negoziabili, sottratti quindi all'arbitrarietà di ogni patto sociale o del consenso della maggioranza. Successivamente, al contrario, si assiste ad un progressivo cambiamento, contrassegnato da una esasperazione della rivendicazione del diritto alla libertà individuale, per cui molte forme di attentati alla vita nascente e terminale, "presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di delitto e ad assumere paradossalmente quello di diritto" (Evangelium Vitae, n.11). Una parte dell'opinione pubblica, partendo da un tale presupposto, ritiene addirittura che lo Stato debba non soltanto rinunciare a punire tali atti, ma debba anzi garantirne la libera pratica, anche attraverso il supporto delle sue strutture. Di fronte a tali mutamenti, tra tutti i diritti fondamentali dell'uomo, "la Chiesa cattolica rivendica per ogni essere umano il diritto alla vita come diritto primario. Lo fa in nome della verità dell'uomo e a tutela della sua libertà, che non può sussistere se non nel rispetto della vita. La Chiesa afferma il diritto alla vita di ogni essere umano innocente ed in ogni momento della sua esistenza. La distinzione che talora viene suggerita in alcuni documenti internazionali tra essere umano e persona umana, per poi riconoscere il diritto alla vita e all'integrità fisica soltanto alla persona già nata, è una distinzione artificiale senza fondamento né scientifico né filosofico: ogni essere umano, fin dal suo concepimento e fino alla sua morte naturale, possiede l'inviolabile diritto alla vita e merita tutto il rispetto dovuto alla persona umana"(cf.Donum Vitae, n.1; GIOVANNIPAOLO II, Discorso ai partecipanti..., n.6). 9 Pertanto, l'assemblea degli Accademici si appella ai legislatori di ogni Paese, perché si sforzino di elaborare norme giuridiche coerenti con l'autentica verità dell'uomo, soprattutto riguardo al primario diritto alla vita. In conclusione, questo documento finale vuole fare proprio l'auspicio del Santo Padre, che ha incoraggiato l'Assemblea a continuare la sua "riflessione sulla legge morale naturale e sul diritto naturale, con l'augurio che da questa possa scaturire un nuovo, sorgivo slancio di instaurazione del vero bene dell'uomo e di un ordine sociale giusto e pacifico. E' sempre ritornando alle radici profonde della dignità umana e del suo vero bene, è poggiando sul fondamento di ciò che esiste di intramontabile ed essenziale nell'uomo, che si può avviare un dialogo fecondo con gli uomini di ogni cultura in vista di una società ispirata ai valori della giustizia e della fraternità" (GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti..., n.7). (Da L'Osservatore Romano, mercoledì 6 marzo 2002, p.6) 10 JULIÁN HERRANZ LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA E IL DIRITTO I DIRITTI FONDAMENTALI NELLA CULTURA CLASSICA L'essenzialità dei diritti fondamentali della persona umana, e tra questi il diritto primario alla vita, ha consistito sempre nel fatto che essi non possono essere né concessi né derogati da alcun potere umano: perché questi diritti hanno il loro fondamento non in un atto di umana volontà ma nella stessa natura e dignità dell'uomo. Già prima della grande tradizione dottrinale e giurisprudenziale romana sul diritto naturale, l'esistenza di una legge non scritta, fondamento dei diritti naturali dell'uomo, compare nel pensiero di molti filosofi e scrittori della cultura greca, come Eraclito, il quale parla di una legge universale fondata sul logos divino, o come Sofocle, per il quale gli agrapta nomina, cioè le leggi non scritte ma presenti nello spirito umano per opera degli Dei, sono l'ultimo baluardo contro la tirannide (Antigone, vv. 454-­‐460); o come Epiteto, che parla (cfr. Diatribai I, 3, 1) della comune e alta dignità morale e giuridica dell'uomo in quanto creatura di Dio . Anzi il problema attuale, ma in realtà antichissimo, sulla differenza fra un ordinamento statale legittimo ed uno snaturato -­‐ anche in regime democratico -­‐, fu trattato da Polibio nella sua Storia di Roma seguendo i risultati a cui erano pervenuti prima Platone ed Aristotele. Da notare che per quanto riguarda la democrazia, Polibio afferma anzitutto che non può chiamarsi democratico uno stato in cui una qualsiasi massa di cittadini -­‐ anche maggioritaria -­‐ è padrona di fare ciò che le piace (cfr. Pol. 6, 4, 4-­‐5). "Certamente -­‐ insegnava Cicerone -­‐ esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere e i suoi divieti trattengono dell'errore (...) È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente" (De re publica, 3, 22, 33). Fin dai tempi dell'antichità precristiana era chiaro, perciò, che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell'ordinamento sociale, tra cui i principi del diritto o etica naturale e i diritti umani inviolabili che in esso hanno il loro fondamento . Quanto al diritto alla vita, concretamente, è anche da considerarsi una pietra angolare nella civiltà giuridica il fatto che il diritto romano considerava come un essere o individuo umano il concepito ancora non nato (il nasciturus) e, come tale, era soggetto di diritti, potendo perfino essere destinatario di beni testamentari. Così nei Digesta di Giustiniano viene riconosciuta al nascituro la condizione giuridica di essere umano ("Qui in utero sunt ... intelliguntur in rerum natura esse": D.1.5.26); e, perciò, esso è da considerarsi titolare di diritti, come se fosse nato ("Nasciturus pro iam nato habetur": D.1.5.7), quando si tratti del suo vantaggio (commodum). Questo principio, introdotto dalla giurisprudenza romana nel sistema dello ius civile , operò un mutamento qualitativo nelle strutture del pensiero sociale e giuridico non solo romano ma dell'intera civiltà giuridica. Infatti, il principio di considerare giuridicamente essere umano -­‐ anche quando non lo si qualifica come persona -­‐ il concepito non nato -­‐ che va protetto -­‐ è stato raccolto lungo i secoli posteriori in molti codici costituzionali e civili di aree geografiche e culturali assai lontane: non soltanto del mondo latino, romano e iberico (Italia, Spagna, Argentina, Brasile, Uruguay, Peru, Cile, ecc.), ma anche nel diritto germanico (cfr. per esempio la relativa sentenza della Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, del 28 maggio 1993) e perfino nel codice civile del Giappone (cfr. art. 721). 11 Tutta questa grande tradizione giuridica è stata possibile per quasi trenta secoli -­‐ fino al moltiplicarsi nella seconda metà del secolo XX delle legislazioni permissive dell'aborto -­‐, perché il rispetto di ogni vita umana innocente, in ogni momento del suo sviluppo, si era andato solidamente formando, anche se non sempre tutelato, sulla base della ontologia dell'essere umano, della persona -­‐ della sua singolare dignità e superiorità nei confronti degli altri esseri o creature -­‐, e non delle semplici considerazioni accidentali di ordine politico, pragmatico o psicologico. L'avvento poi del Cristianesimo e la sua diffusione nel mondo non soltanto ha rispettato tutte queste acquisizioni della "recta ratio" nella filosofia morale e nella scienza giuridica della grande cultura greco-­‐romana, ma le ha confermate ed arricchite ulteriormente. Per il Cristianesimo -­‐ e in qualche modo anche per le altre religioni monoteistiche -­‐ l'essere umano, la persona, non è soltanto l'essere più alto nella scala degli esseri a ragione dell'intelligenza e della libertà di cui gode, ma è anche l'unica creatura che Dio abbia creato per se stessa . Ogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio. In ogni essere umano, anche se debole, malato o handicappato, c'è un riflesso divino, una vita che tende all'eternità. Infatti, "la ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio" . Perciò ha proclamato Giovanni Paolo II nell'Evangelium Vitae: "In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza «dal principio», ossia dalla creazione stessa" . I DIRITTI INVIOLABILI NELLE LEGISLAZIONI MODERNE L'ordinamento civile democratico, affermatosi progressivamente a partire delle rivoluzioni borghesi della fine del secolo XVIII -­‐ prima in America e poi in Europa -­‐, si basa su due principi imprescindibili: il principio democratico, che assicura la partecipazione di tutti i cittadini nella formazione delle leggi e delle relative decisioni politiche, e il principio costituzionale che limita giuridicamente il potere politico nel nome dei diritti soggettivi fondamentali, considerati come preesistenti o anteriori ad ogni istituzione politica o potere sociale. È classica la "Dichiarazione dei Diritti" dello Stato di Virginia, del 12 giugno 1776, che affermò nell'art. 1º: "tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e possiedono certi diritti innati dei quali, all'atto di costituirsi in società, non possono privare se stessi né la propria posterità; e tali diritti sono il fondamento della vita e della libertà, con i mezzi di acquistare e possedere beni in proprietà e la ricerca e il conseguimento della felicità e della sicurezza". Gli stessi concetti si ritrovano, con termini più o meno simili, nelle Dichiarazioni di Diritti della Pennsylvania (art. 1), del Massachusetts (art. 1), ecc., che affondavano le loro radici storiche nei movimenti politico-­‐religiosi dell'Inghilterra dei secoli XVI e XVII ed alla sua autentica tradizione del diritto consuetudinario o comune (common Law). È stato rilevato dai costituzionalisti che la valenza dei diritti fondamentali della persona umana è stata interpretata in chiave diversa in queste Dichiarazioni dei diritti anglo-­‐americane e nei successivi sistemi costituzionali europei-­‐continentali. Nel primo caso l'anteriorità e la conseguente inviolabilità dei diritti fondamentali rispetto ad ogni potere statale positivo, compreso quello costituzionale, ha sempre rappresentato la pietra miliare su cui è stato costruito l'intero edificio costituzionale. Invece, negli ordinamenti giuridici dell'Europa continentale, a cominciare della Rivoluzione francese, l'anteriorità e l'inviolabilità dei diritti fondamentali, pur affermate in linea di principio, sono state frequentemente relativizzate sul piano del diritto positivo e dell'attività politica. 12 Nel caso dei primi sistemi costituzionali il concetto di "diritti soggettivi" introdotto nella dogmatica giuridica liberale, pur evidenziando un cambio di impostazione dottrinale riguardo al "realismo giuridico" (il "suum quique tribuere", la res iusta ) proprio della cultura giuridica classica, non ha rappresentato una "rottura" con il passato. Infatti, i due grandi movimenti ideali -­‐ il giusnaturalismo e il contrattualismo -­‐ coincidevano nel riconoscere due cose: 1º) che l'inviolabilità dei diritti soggettivi fondamentali risiede nel loro carattere di diritti innati, radicati cioè nella stessa natura umana; 2º) che tali diritti innati e inviolabili sono per principio beni nonnegoziabili, quindi non sottoponibili ai patti sociali che stabiliscono le regole della convivenza e, tanto meno, ai poteri politici costituiti in base ai medesimi patti. Nei sistemi giuridici invece successivi alla Rivoluzione francese, la chiamata "volontà generale del popolo" (o, nella versione tedesca, il concetto di Stato-­‐persona o ente politico sovrano) l'inviolabilità dei diritti fondamentali è stata alquanto relativizzata, se non a livello di legge costituzionale, sì mediante leggi ordinarie tendenti a regolare e talvolta a limitare e perfino sospendere l'esercizio di tali diritti. Questo fenomeno, conseguenza nel secolo XIX del positivismo giuridico e della sua concezione relativista della razionalità delle leggi, si è ulteriormente aggravato nel secolo XX, per i due ben noti motivi: le aberrazioni giuridiche contro la dignità della persona umana proprie dei regimi politici totalitari e, nei regimi democratici, il crescente influsso di ideologie filosofiche e politiche improntate al relativismo morale e al permissivismo libertario . Così è avvenuto riguardo concretamente al diritto alla vita. LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO ALLA VITA Nell'anno 1948, quando dalle rovine materiali e morali della 2ª Guerra mondiale emergeva il bisogno di riaffermare la dignità della persona umana e i suoi diritti inalienabili fu solennemente approvata dall'ONU la "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo". È ben saputo che in essa, all'Art. 3º, si legge: "ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza". Alcuni anni dopo, nel 1959, la "Dichiarazione dei diritti del bambino", sempre delle Nazioni Unite, stabiliva nel suo preambolo che: "il bambino ha bisogno di una protezione speciale, e concretamente giuridica, tanto prima della nascita che dopo". Dal canto suo l'Assemblea Medica Internazionale, del 1948, rielaborando il giuramento d'Ippocrate, faceva promettere a tutti i medici: "Io osserverò il rispetto assoluto della vita umana dal momento stesso della concezione". Da queste ed altre solenni dichiarazioni ed accordi internazionali, nonché dall'esame dei diritti costituzionali e civili delle nazioni più progredite, è stato giustamente dedotto che fino alla metà del secolo XX c'era nel mondo una rilevante omogeneità legislativa di fronte alla tutela della vita umana, anche del concepito non ancora nato: sia nella sfera del diritto romano-­‐germanico che nel sistema della common law delle legislazioni anglosassoni, l'aborto e l'eutanasia erano valutati e proibiti come delitti. "Jusqu'alors, aussi bien dans la sphère du droit romain germanique que de la common law les législations européennes et américaines interdisaient l'avortement, sauf en cas de danger pour la mère, ainsi que l'euthanasie. La premier grande rupture avait été produite en 1920 par l'URSS de Lénine, suivie de la parenthèse du régime nazi, avec ses lois eugéniques et le génocide" . A questa prima grande negazione in Russia del carattere inalienabile del diritto alla vita seguirono, negli anni '50, le legislazioni abortiste delle altre nazioni dell'est europeo sottomesse al comunismo. Nel mondo occidentale invece, dove l'influsso del materialismo pratico non ha avuto l'impeto rivoluzionario del materialismo dialettico come dottrina filosofica dello Stato, la legislazione permissiva dell'aborto arrivò solo 47 anni dopo l'Unione Sovietica, con l'Abortion act inglese del 1967. Successivamente tale legislazione si è andata diffondendo a poco a poco in altre 13 nazioni, non senza trovare forti opposizioni dottrinali e popolari: nel 1973 negli USA, Germania e Danimarca; nel 1974 in Svezia; nel 1975 in Francia; nel 1978 in Italia, Lussemburgo e Grecia; nel 1984 in Portogallo; nel 1985 in Spagna; nel 1990 in Belgio, ecc. Vale a dire: nella seconda metà del secolo XX si è consumato il più grande capovolgimento immaginabile -­‐ giuridico ma anche etico -­‐ del diritto alla vita: la perdita -­‐almeno nella prassi legislativa di molti Stati talvolta in sorprendente contrasto con le loro Costituzioni -­‐ del suo carattere di diritto inalienabile. Anzi, nell'Enciclica Evangelium vitae ha fatto notare Giovanni Paolo II che gli attentati contro la vita nascente e terminale "presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di 'delitto' e ad assumere paradossalmente quello del 'diritto', al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato" . Ma: quali sono state, in concreto, le cause di questo capovolgimento giuridico che sta portando le legislazioni di molti Stati alla legalizzazione dell'aborto e, successivamente, anche dell'eutanasia e di altri attentati contro la dignità della persona umana? Si sa che la legalizzazione dell'aborto in Russia, nel 1920, ubbidì ad una ragione totalitaria di natura socio-­‐politica: facilitare l'inserimento della donna nel lavoro extra-­‐domestico, a beneficio dell'economia socialista. La sentenza della Corte Suprema degli USA ("Roe v. Wade") che nel 1973 aprì le porte in quella Nazione all'aborto legale lo fece, invece, sotto una apparente ragione democratica di difesa della libertà personale della donna: "la Corte -­‐ si legge nell'opinione maggioritaria dei giudici -­‐ non deve risolvere la difficile questione di quando la vita comincia" (need not resolve the difficult question of when life begins) e, pertanto, fu permesso alla donna di abortire e negato conseguentemente all'embrione e al feto il relativo diritto alla vita. La ragione data in Russia -­‐ in uno stato comunista -­‐ e la ragione data negli USA -­‐ in uno stato democratico -­‐ furono motivazioni apparentemente diverse, ma in realtà ubbidiscono ambedue alla medesima concezione agnostica del diritto, quella cioè dello stretto positivismo giuridico, basato sulla negazione della legge naturale e sul conseguente divorzio morale tra libertà e verità. Si potrebbe dire che l'intero Magistero sociale della Chiesa nel secolo scorso è stato guidato soprattutto dalla necessità di difendere le coscienze dei cristiani e la stessa dignità della persona umana contro due grandi utopie ideologiche diventate anche sistemi politici a scala mondiale: l'utopia totalitaria della giustizia senza libertà e l'utopia libertaria della libertà senza verità. Ha detto, infatti, il Papa: "Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo" . La prima utopia e con essa i sistemi politici che in varie forme l'avevano incarnata in Europa e in altri continenti è ormai in via di declino e di estinzione, ma non senza aver lasciato dietro di sé un immenso cumulo di rovine spirituali e sociali. La seconda utopia, invece, quella della libertà senza verità, è purtroppo in fase di crescente espansione. Essa, maturata nell'habitat filosofico dell'illuminismo e del relativismo agnostico, ha trovato il suo grande strumento legislativo (e quindi, sociale e politico) nello stretto positivismo giuridico. Infatti, per questo sistema che esplicitamente o implicitamente nega i postulati della legge naturale non è la verità oggettiva che assicura la razionalità giuridica e la legalità morale della norma o delle sentenze, ma soltanto la verità relativa o convenzionale, frutto pragmatico del compromesso statistico o politico. Non a caso il massimo esponente del positivismo giuridico, Hans Kelsen, commentando la domanda evangelica di Pilato a Gesù: «Cos'è la verità?» (Giov. 18, 38), scriveva che in realtà questa domanda del pragmatico uomo politico conteneva in se stessa la risposta: la verità è irraggiungibile; perciò Pilato, senza attendere la risposta di Gesù si indirizza alla folla e domanda: «Volete che liberi il re dei giudei?». Agendo così conclude Kelsen Pilato si comporta da perfetto democratico: affida cioè il problema di stabilire il vero e il giusto all'opinione della maggioranza, nonostante che egli fosse convinto della completa innocenza del Nazareno . 14 LA DIGNITÀ UMANA VALORE UNIVERSALE Mary Ann Glendon, investigando l'origine e l'elaborazione della "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo" ha illustrato bene la chiarezza di pensiero che guidò i lavori di Charles Malik, relatore di questa Magna Carta presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Malik, cristiano libanese di confessione greco-­‐ortodossa, seguì dal principio sino alla fine l'intero iter di preparazione del documento: prima come estensore e successivamente come relatore del primo progetto sui diritti umani, e dopo come presidente del Comitato per gli Affari sociali. Cosciente dei molti problemi di ordine politico e culturale che implicava l'elaborazione di una Carta di diritti umani che potessero essere universalmente accettati come inviolabili e inalienabili, Malik prospettò sin dal principio ai suoi colleghi della Commissione una questione previa e pregiudiziale. Quando si tratta di diritti umani -­‐ disse loro -­‐ si pone "l'interrogativo fondamentale: cos'è l'uomo?" . Da qui, dall'attenta considerazione storica, filosofica, sociologica e ética della natura della persona umana e della dignità che le è propria -­‐ comunemente riconosciuta dalle diverse culture umane degne di tale nome -­‐, scaturirono e furono tecnicamente formulati i diritti fondamentali di questa Dichiarazione Universale, una delle più alte espressioni della coscienza e della cultura giuridica del nostro tempo. Si legge, infatti, nel Preambolo della Dichiarazione: "Il riconoscimento della dignità personale e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana costituiscono il fondamento della libertà e della pace nel mondo". Giovanni Paolo II, nel messaggio indirizzato al Segretario Generale delle Nazioni Unite nel XXXº anniversario della stessa Dichiarazione scrisse sul fondamento dei diritti umani fondamentali: "Indiscutibilmente questa base è la dignità della persona umana. Papa Giovanni XXIII lo spiegava nella Pacem in terris: « In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona [...]; e quindi è soggetto di diritti e doveri, che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili » (n. 158)" . In questi diritti inalienabili se riflettono le esigenze obiettive e i valori imprescindibili di una legge morale universale, i cui primi principi e conclusioni immediate non ammettono frontiere geografiche o condizionamenti riduttivi di ordine culturale, politico o ideologico. "Questi diritti ci ricordano anche -­‐ ha detto Giovanni Paolo II all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite -­‐ che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo (...) La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di «grammatica» che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro" . Però fu ed è molto significativo che il Papa abbia voluto aggiungere immediatamente dinnanzi alle massime Autorità civili del mondo ivi riunite: "Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti". Nel dire questo non sfuggiva a Giovanni Paolo II -­‐ anzi, lo riconobbe -­‐ che culture differenti ed esperienze storiche particolari danno origine a forme istituzionali e giuridiche diverse, ma aggiunse: "una cosa è affermare un legittimo pluralismo di «forme di libertà», ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana" . Con queste parole il Papa ha certamente voluto mettere in evidenza il pericolo che la "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani" -­‐ non legge internazionale, ma sì "ideale comune per la cui realizzazione tutti i popoli e nazioni devono sforzarsi" -­‐ venga progressivamente svuotata di autorità morale e di forza vincolante, a causa 15 della crescente diffusione del pensiero filosofico e politico di individualismo libertario. Con un falso concetto di libertà disgiunta dalla verità, tale individualismo libertario non riconosce alcun limite etico obiettivo alla condotta personale e sociale e, in ultima analisi, nemmeno ammette l'esistenza di valori obiettivi e universali moralmente e giuridicamente vincolanti. Quest'aberrazione ideologica, che nega il carattere univoco e universale della natura e dignità umana e dei suoi conseguenti diritti inviolabili, ci obbliga a considerare che ciò che qui viene messo in giuoco non è solo il Magistero della Chiesa al servizio della dignità umana e sopranaturale dell'uomo -­‐ ciò che potrebbe interessare ai soli cristiani -­‐, bensì è in causa -­‐ e ciò riguarda tutti -­‐ la stessa legittimità morale del Diritto. LA CENTRALITÀ DELLA PERSONA NEL DIRITTO Non c'è alcun dubbio che il fenomeno più positivo della moderna scienza giuridica e delle costituzioni democratiche è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell'uomo, ciò che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista: la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà. Infatti, il Diritto in quanto ordinamento è rappresentato dall'insieme di norme e di rapporti che organizzano gli uomini in comunità sociale. Si è però avuta una progressiva presa di coscienza che tale ordinamento si deve strutturare e continuamente perfezionare tenendo presente che è proprio la persona umana il fondamento e il fine della vita sociale. Questo è stato l'alveo in cui si è sviluppato il diritto contemporaneo, a dispetto delle deviazioni -­‐ quando no aberrazioni legislative -­‐ dei vari regimi totalitari e la mancanza di onestà intellettuale con cui non pochi fautori del positivismo giuridico hanno ceduto alla pressione sociale di queste ideologie politiche. Ciononostante, parallelamente allo sviluppo della centralità della persona nel diritto, dell'antropologia giuridica -­‐ chiamiamola così -­‐, se è prodotto un altro fenomeno che preoccupa seriamente non solo il Magistero ecclesiastico, ma anche i sociologi e i filosofi del diritto, nonché semplice cittadino. Mi riferisco al progressivo impoverimento etico delle leggi civili -­‐ disprezzo dell'indissolubilità del vincolo matrimoniale e perfino del concetto stesso di famiglia come istituzione naturale; liberalizzazione dell'aborto, dell'eutanasia, della droga; insufficiente tutela dell'obiezione di coscienza e del diritto alla libertà religiosa, ecc. -­‐ e, pertanto, all'impoverimento anche del valore pedagogico di queste stesse leggi, e perfino alla perdita della sua legittimità morale. Purtroppo, l'etica cosiddetta laica, fondamento del diritto agnostico o libertario, non ammette questi concetti di "amoralità" o di "immoralità" in base a valori e verità oggettivi che siano al di sopra delle leggi positive. Perciò, essa propugna la separazione tra "morale privata" ed "etica pubblica" nell'ambito del cosiddetto «pluralismo etico». La morale privata si fonderebbe sui principi filosofici o le convinzioni religiose dell'individuo e, perciò, essa è da circoscrivere all'ambito ed al giudizio della sola coscienza personale di ciascun cittadino; l'etica pubblica, invece, sarebbe quella che viene determinata esclusivamente dal consenso maggioritario della comunità, cioè da quella verità convenzionale che viene concretizzata nella legge. Ovviamente si moltiplicano le leggi "permissive" ("antiproibizioniste") anche in materie e istituzioni che per un motivo od un altro sono importanti per il bene comune e l'ordine pubblico, come sono il diritto di famiglia, l'educazione, la moralità pubblica, ecc. "I problemi della vita, della procreazione ivi compresi quelli dell'aborto e dell'eutanasia vengono affidati alla coscienza privata e la legge dovrebbe soltanto garantire in merito la libertà di coscienza e di comportamento, la scelta individuale. Si tratta dunque oggi non soltanto di meglio definire e fondare il rapporto tra bioetica e biodiritto, ma anche di rivendicare la legittimità di un discorso etico in ambito sociale e 16 la sua rilevanza in ambito giuridico" . "Oggi -­‐ ha detto Giovanni Paolo II -­‐ in non poche società non è raro assistere a una specie de «regresso de civiltà», frutto di (...) una concezione soggettivistica della libertà, svincolata della legge morale" . Bisogna, perciò, dire chiaramente e con forza -­‐ per difendere il diritto inalienabile alla vita, ma anche per prevenire le intelligenze oneste contro i sofismi dei falsi democratici -­‐ che questa riduzione meramente soggettivista e agnostica della libertà e del diritto è contraria non soltanto alla dottrina sociale cristiana ma anche al concetto tradizionale e sano di Diritto e di Democrazia. A questo punto del nostro discorso qualcuno potrebbe obiettare, valutando le precedenti affermazioni in chiave moralista e perfino fondamentalista: ma non ci si accorge che parlando così si confondono pericolosamente la Morale e il Diritto? Non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell'uomo? Non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale, traspare una certa nostalgia dello Stato confessionale cristiano, opposto alla libertà religiosa? Non ci lasciamo impressionare dal subdolo sofisma nascosto sotto queste domande. A prescindere del fatto -­‐ già ricordato -­‐ che prima del Cristianesimo la preminenza della legge naturale, della recta ratio, sulla legislazione positiva, era patrimonio giuridico della cultura giuridica classica ed anche del costituzionalismo moderno, è anche l'attuale concezione personalistica della sociologia e della scienza del Diritto quella che richiede che tutti gli ordinamenti giuridici rispettino i postulati del diritto naturale . Infatti, è vero che la Morale e il Diritto sono due scienze diverse, che riguardano l'uomo da prospettive e con finalità differenti. La Morale si occupa primariamente dell'ordine dell'uomo come persona: riguarda cioè l'insieme di esigenze emananti dalla struttura ontologica dell'uomo in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità e finalità. Il Diritto, invece, si occupa primariamente dell'ordine sociale: riguarda cioè -­‐ stiamo parlando del Diritto come ordinamento -­‐ l'insieme di strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del Diritto nel secolo XX è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, l'uomo, fondamento e fine della società, è ovvio che il Diritto di una sana democrazia -­‐ nell'ordinare le proprie strutture sociali -­‐ deve tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Qualora si negasse questa verità universale sulla natura e la dignità della persona umana -­‐ una verità che non può essere convenzionale né dipendere dalla opinione della maggioranza -­‐, non solo si indebolirebbe pericolosamente il concetto di libertà religiosa -­‐ e degli altri diritti fondamentali dell'uomo -­‐, ma ci si troverebbe dinanzi ad un diritto antinaturale essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario, anche se lo si volesse chiamare democratico. QUANDO SI HA LA DIGNITÀ DI PERSONA? Si sa che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo non appare con precisione giuridica chi è il soggetto a cui va attribuita la titolarità dei diritti umani. Nel Preambolo viene designato come tale ogni "membro della famiglia umana" e si adopera anche il termine "persona umana". Invece all'Art. 1 si dice che: "tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti", mentre agli Artt. 2 e 3 si parla rispettivamente di "persona" (come soggetto di diritti in genere) e di "individuo" (come soggetto concretamente del diritto alla vita). La Dichiarazione non ha chiarito il dubbio -­‐ posto anche nell'ambito filosofico e biologico -­‐ su quando si può adoperare la 17 categoria giuridica di "persona" (con conseguente "dignità personale") per applicarla all'essere umano come soggetto dei suoi diritti fondamentali. Si tratta di una questione terminologica problematica -­‐ presente in non pochi codici civili e costituzioni -­‐ che riflette l'altra questione di fondo prima accennata: quale sia la verità sull'uomo. Mi sembra doveroso, a chiusura di questa mia relazione fare qualche modesta considerazione in merito, lasciando ad altri più specifici e qualificati interventi gli ulteriori approfondimenti sul problema. Non c'è dubbio, infatti, che nell'attuale crocevia della storia ha acquistato una particolare importanza ed urgenza la necessità di mettere ben in chiaro quale sia la natura della persona umana, radicalmente diversa da tutti gli altri esseri esistenti. Perché questa questione ha le più gravi e decisive conseguenze per il futuro dell'umanità: sia nel campo della scienza e specialmente della biologia e della genetica, che in quello del diritto, della sociologia e della politica. Per i credenti la "verità sull'uomo" non è una questione problematica ma una verità pienamente acquisita, rivelata. "Qual è dunque l'essere che deve venire all'esistenza circondato da una tale considerazione?" domandava San Giovanni Crisostomo considerando la grandezza di questo essere singolare creato da Dio "a sua immagine" (Gen. 1,27) e, perciò, intelligente e libero, cosciente e responsabile; redento dal peccato e dalla morte mediante il sacrificio dello stesso Dio fatto uomo; elevato alla condizione di figlio adottivo di Dio e chiamato a condividere, nella conoscenza e nell'amore, la vita del suo Creatore. E rispondeva lo stesso San Giovanni Crisostomo: "È l'uomo, grande e meravigliosa figura vivente, più prezioso agli occhi di Dio dell'intera creazione; è l'uomo, è per lui che esistono il cielo e la terra e il mare e la totalità della creazione" . Glossando questa nozione biblica dell'uomo, l'antropologia cristiana spiega: "Essendo ad immagine di Dio, l'individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno" . Perciò : l'essere umano "va rispettato e trattato come persona fin dal suo concepimento" . Infatti, ormai non c'è dubbio anche per le scienze positive che l'embrione non è solo un individuo ben definito della specie umana, ma abbraccia anche tutte le potenzialità biologiche, psicologiche, culturali, spirituali, ecc. che l'uomo svilupperà nel corso della sua esistenza. Perciò, ha ribadito Giovanni Paolo II a conclusione del Simposio internazionale "Evangelium vitae e Diritto": "Non possiamo non assumere come punto di partenza lo statuto biologico dell'embrione che è un individuo umano, avente la qualità e la dignità propria della persona. L'embrione umano ha dei diritti fondamentali, cioè è titolare di costitutivi indispensabili perché l'attività connaturale ad un essere possa svolgersi secondo un proprio principio vitale. L'esistenza del diritto alla vita quale costitutivo intrinsecamente presente nello statuto biologico dell'individuo umano fin dalla fecondazione costituisce, pertanto, il punto fermo della natura anche per la definizione dello statuto etico e giuridico del nascituro" . Per avere, infatti, « la qualità e la dignità propria della persona » non si richiede che questa abbia già sviluppato in maggior o minor grado le sue potenzialità. Ma: qual è per i non credenti, per le intelligenze non illuminate ancora dalla fede, la "verità sull'uomo"? La risposta a questa pressante domanda -­‐ da parte della filosofia e delle scienze biologiche -­‐ comporta gravi e decisive conseguenze per il futuro, non solo del diritto e della democrazia ma dell'intera umanità. Perciò, è proprio su questa primaria questione dove sembra che sia più urgente -­‐ come Giovanni Paolo II auspica nella Fides et Ratio -­‐ il dialogo sereno e costruttivo tra la filosofia e la Rivelazione, tra Atene e Gerusalemme, tra la ragione e la fede . In questo orizzonte della "circolarità tra fede e filosofia", del loro dialogo cioè nella ricerca umana della verità, si colloca certamente la primaria questione giuridica -­‐ ma non solo -­‐ della "verità sull'uomo", cioè sulla dignità della persona umana. Lo ha ricordato espressamente Giovanni Paolo II: "Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare originalità 18 della fede: l'annuncio cristiano della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto" . Pensando alla necessità di sviluppare ulteriormente questa riflessione filosofica -­‐ metafisica -­‐ in dialogo costruttivo con il messaggio biblico sulla dignità dell'essere persona, ma anche in ascolto delle scoperte apportate dalle scienze biologiche e genetiche sull'origine e lo sviluppo dell'essere umano, mi sembra che si ponga in modo pregiudiziale una sfida: quella di superare appunto i pregiudizi. Senza questo primario requisito metodologico, il dialogo "circolare" e costruttivo tra fede, filosofia e biologia non sarebbe possibile. Eppure deve essere possibile. Perché -­‐ giova ripeterlo -­‐ la nozione di persona umana, la "verità sull'uomo" non è una questione meramente accademica ma un acuto problema esistenziale, senza la cui soluzione -­‐ sul piano della ragione -­‐ non sarebbe possibile ricuperare il senso ed il valore dell'etica e del diritto. Nel passato -­‐ al tempo delle eresie e delle controversie sui dogmi della Trinità e dell'Incarnazione del Verbo -­‐ il dialogo in proposito tra teologia e filosofia è stato particolarmente intenso, attesa la necessità di precisare il significato e i relativi rapporti fra i termini "natura", "sostanza", "ipostasi" e "persona" (anche perché la nozione filosofica di "persona", introdotta nella nota definizione di Boezio non esisteva nella filosofia greca). E si sa bene che questo dialogo è continuato dopo, specie nell'epoca moderna, a proposito tra l'altro della distinzione o meno -­‐ funzionale solo oppure ontologica -­‐ tra i termini "individuo" e "persona" (Hegel, Kierkegaard, Feuerbach, M. Bubber, Mounier, ecc.). Dal canto suo, Giovanni Paolo II, nella stessa enciclica Fides et Ratio incoraggia i filosofi ad approfondire il concetto di persona prestando maggiore attenzione all'antropologia relazionale della Bibbia . Comunque dove l'auspicato dialogo "circolare" sembra che dovrà essere intrapreso con maggiore dedizione e pazienza è nei rapporti della teologia e della filosofia del diritto con le scienze biologiche. Questo dialogo costruttivo -­‐ di mutuo arricchimento -­‐ forse appare oggi più difficile che nel passato, attesa la notoria tendenza di una buona parte del pensiero moderno a rifiutare la metafisica, ad emarginare l'essere. A ragione è stato detto che nel progetto culturale moderno "l'uomo è visto sdoppiato: c'è un livello in cui lo si considera soggetto inalienabile (la persona interpretata come titolare di diritti), e un altro livello nel quale è oggetto, cioè parte della natura fisico-­‐biologica, sulla quale mette le sue mani la scienza" . Ovviamente questo livello, puramente empirico, delle scienze biologiche la dignità della persona come soggetto inalienabile diventa molto problematico. Pertanto, forse sarà consigliabile che il primo approccio al dialogo della filosofia del diritto con le scienze biologiche -­‐ e più concretamente con la biogenetica umana -­‐ non lo si faccia con "postulati" personalisti introdotti "ex abrupto". "Si dovrebbe piuttosto iniziare -­‐ suggerisce un filosofo -­‐ con l'analisi e l'osservazione ontologica della realtà -­‐ la vita e l'essere dell'uomo -­‐, a partire dalla quale verrà alla luce l'originalità ed il carattere specifico del suo essere persona" . Allo stesso tempo, da parte della biologia si dovrebbe evitare di usare impropriamente il termine "persona", che viene infatti adoperato da alcuni non più come un confine trascendente tra l'universo umano e quello non umano, ma soltanto all'interno dell'universo umano per operare una arbitraria discriminazione tra una fase e l'altra del suo sviluppo: "persona" sarebbe, secondo loro, soltanto il bambino nato ma non il feto né l'embrione. In questo modo, e contrariamente alla visione teologica e filosofica, la persona non viene definita per quello che è ma per quello che è in grado di fare o di apparire, con le conseguenze normative -­‐ sul piano etico e giuridico -­‐ che di questa discriminazione si deducono: chi non è ancora "persona" -­‐ ma soltanto una realtà o cosa "potenzialmente umana" -­‐ non può avere "personalità giuridica", non può essere cioè titolare di veri diritti, come il diritto alla vita . Ed è questa una chiusura intellettuale che né la fede né la scienza possono ammettere. 19 (1) Cfr., tra gli altri, A. BAUSOLA, £Il fondamento del diritto alla vita": in TARANTINO A. (a cura di), Per una Dichiarazione dei diritti del nascituro, Milano 1996, pp. 113-­‐114. (2) Cfr. J. HERVADA, Escritos de Derecho Natural, Pamplona 1986, pp. 420-­‐443; W. WALDSTEIN, Diritto naturale, Diritti umani e Democrazia, comunicazione presentata al XI Colloquio Internazionale Romanistica-­‐Canonistico (Roma, 22-­‐25.V.1996), promosso dalla Pontificia Università Lateranense. (3) Basta considerare che la giurisprudenza romana cercò sempre di proteggere il nascituro. Per esempio: l’esecuzione della pena capitale contro una donna incinta va differita a dopo il parto; una donna incinta non può essere sottoposta a interrogatorio con tortura (ULPIANO, D.1.5.18; 48.19.3; PAUL. Sent. 1.12.4) ecc. Cfr. CATA-­‐LANO P., « Vigenza dei principi del Diritto Romano riguardo ai £Diritti dei nascituri" »: in TARANTINO (a cura di), Per una dichiarazione dei nascituri, o.c., pp.134-­‐135. (4) Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 24. (5) Cost. past. Gaudium et spes, n. 19. (6) GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium vitae (25.III.1995), n. 29; cfr. Cost. past. Gaudium et spes, n. 16; Dich. Dignitatis humanae, n. 3. (7) Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili: in Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. XI, Roma 1989, pp. 1-­‐7. (8) Cfr. Ulpiano (Regularum in Digesto, lib. I, 10, 1); Giustiniano (Institutiones, Lib. I, tit. I, 1), S. Tomma-­‐so (S. Th., II-­‐II, q. 57, a. 1). (9) Cfr. J. HERRANZ, « L'agonia del Diritto agnostico »: in Studi Cattolici, aprile 1994, pp. 166-­‐171. (10) R. MINNERATH, « Le rôle des traditions juridiques dans les débats internationaux sur les droits à la vie »: in A. LOPEZ TRUJILLO, J. HERRANZ, E. SGRECCIA (a cura di), Evangelium vitae e Diritto, Città del Vaticano 1997, p. 269. (11) GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae, n. 11. (12) GIOVANNI PAOLO II, «Discorso al mondo della cultura nell’Università di Vilnius», 5.IX.1993: in L’Osservatore Romano, 6.IX.1993, p. 1. (13) Cfr. V. POSSENTI, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 345 e ss. (14) Cfr. M. A. GLENDON, « Il laico nell’agone pubblico »: in Studi Cattolici, 465, novembre de 1999, pp. 741-­‐748. (15) GIOVANNI PAOLO II, Messaggio « The signal occasion » a S. E. il Dr. Kurt Waldheim, Segretario Ge-­‐nerale delle Nazioni Unite, 2.XII.1978: aas, 71 (1979), pp. 122-­‐123. Cfr. W. KASPER, « The theological Foundation of Human Rights »: in Jurist, 50, 1/90, pp. 146 ss. (16) GIOVANNI PAOLO II, « Discorso alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione del 50º an-­‐niversario della fondazione dell’ONU », 5.X.1995, n. 3: in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, v. XVIII/2, Città del Vaticano 1998, p. 732. (17) Ibidem. (18) NAZIONI UNITE, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Preambolo. (19) E. SGRECCIA, « Le legislazioni sulla corporeità. Il saluto della Pontificia Accademia per la Vita »: in A. LÓPEZ TRUJILLO, J. HERRANZ, E. SGRECCIA (a cura di) £Evangelium vitae e Diritto", o.c., pp. 28-­‐29. Cfr. anche R. NAVARRO VALS, « Ley civil y ley moral: la responsabilidad de los legisladores »: in La Causa della Vita, Città del Vaticano 1995, pp. 84-­‐104. (20) GIOVANNI PAOLO II, « Discorso al Simposio Internazionale £Evangelium vitae e Diritto" », n. 3: aas, 88 (1996) 940. (21) Da diverse prospettive e con varie sfumature coincidono in questa idea di fondo, tra gli altri: J. MARITAIN, L’homme et l’Etat, Paris 1953, pp. 69 ss.; A. DEL NOCE, I caratteri generali del 20 pensiero politico contempora-­‐neo, Milano 1972; V. POSSENTI, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 281-­‐314; J. HERVADA, £Derecho natural, democracia y cultura": in Persona y Derecho, 6 (1979), pp. 200 ss.; S. COTTA, « Diritto naturale: ideale o vigente? »: in Iustitia, 1982 (2), pp. 119 ss.; J. FORNÉS, « Pluralismo y fundamentación ontológica del derecho »: in Persona y Derecho, 9 (1982), pp. 109 ss.; M. NOVAK, « Dignité humaine et liberté de les personnes »: in Liberté Politique, mayo 1998, pp. 155-­‐166; M. SCHOOYANS, « Démo-­‐cratie et Droits de l’homme »: in Liberté Politique, ottobre 1998, pp. 57-­‐66; A. M. ROUCO VARELA, Los fun-­‐damentos de los derechos humanos: una cuestión urgente, Madrid 2001, pp. 20-­‐61. (22) S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sermones in Genesim, 2,1: PG 54, 587D–588A. (23) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 357. (24) GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 70; cfr. Istruzione della (25) Congregazione per la Dottrina della Fede Donum vitae, I.1. Communicationes 28 (1996) 16. (26) Cfr.GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Fides et ratio, n. 76. (27) Ibidem, n. 76. (28) Persona est rationalis naturae individua substantia (BOEZIO, De duobus naturis, cap. 3: PL 64,1343). (29) GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio, n. 80. (30) V. POSSENTI, Sobre el estatuto ontológico del embrión humano : in El derecho a la vida, AA.VV., Pamplona 1998, p. 117. (31) Ibidem, p. 118. (32) Si tratta, ovviamente, di una tesi che il Magistero ecclesiastico non ammette. Ma anche la bioetica la con-­‐sidera sprovvista di valore scientifico, atteso che £è ormai biologicamente e geneticamente certo che appena avvenuta la fusione dei gameti inizia l’esistenza di un nuovo soggetto umano il quale, sotto il controllo del pro-­‐gramma iscritto nel proprio genoma, esegue autonomamente e teleologicamente, in una rigorosa unità funzio-­‐nale, il proprio piano di sviluppo in modo coordinato, continuo e, per legge generale, graduale": E. SGRECCIA, « Identità e statuto dell’embrione umano »: in Per una dichiarazione dei diritti del nascituro, Milano 1996, pp 24-­‐25. 21 ANDRZEJ SZOSTEK
LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ESISTE LA VERITÀ ASSOLUTA SULL' UOMO?
La questione antropologica, a cui si fa riferimento nel titolo della mia relazione, ha chiaramente la sua rilevanza etica. Per come la vedo, riguarda la questione se siamo capaci di riconoscere tale verità in relazione ad ogni singolo Uomo, la cognizione ed il riconoscimento della quale comporta profonde implicazioni etiche; e se queste davvero esistono, quali sono? Si farà riferimento a tale questione nel contesto delle sfide poste dalla cultura contemporanea. A mio parere, è particolarmente utile considerare queste attuali tendenze di pensiero che o mettono in dubbio l'esistenza di tali verità in relazione all'essere umano o ne riducono drasticamente il numero. Tra le tante possibili posizioni, suggerisco di concentrasi sull'evoluzionismo ed il liberalismo, a cui si fa riferimento non solo come punti di vista strettamente filosofici, ma piuttosto come influenti tendenze contemporanee di pensiero. La loro presentazione critica renderà possibile, almeno in un caso, mettere in evidenza la possibilità di raggiungere cognitivamente tale verità sull'Uomo che costituisce il fondamento di obblighi morali concretamente definiti ed assoluti (ovverosia sempre vincolanti). L'EVOLUZIONISMO Non mi riferisco all'evoluzionismo come sinonimo di etica evolutiva, i cui sostenitori, da H. Spencer in poi, tentano di derivare l'essenza e la forza vincolante delle norme morali dai modi della natura e dal comportamento istintivo degli animali. L'etica evolutiva è piuttosto una conseguenza dell'evoluzionismo, che considero una visione ispirata dalla teoria dell'evoluzione o, in misura più vasta, dai progressi della moderna astrofisica, secondo la quale l'Universo è fondamentalmente un'unità omogenea e correlata, che evolve dinamicamente in conformità con le sue specifiche leggi, dal momento del 'Big Bang' di circa 15 miliardi di anni fa fino al giorno d'oggi. Un evoluzionista, in questo senso, sostiene che sia l'inizio della vita sulla Terra, sia la comparsa di un essere cosciente siano elementi del processo evolutivo del mondo, e non c'è nulla che indichi che la vita e la coscienza esistano solo sul nostro pianeta, né, cosa che appare avere una più grande importanza per noi, che il processo evolutivo si sia fermato con l'Uomo. Ovviamente, è difficile per noi immaginare altri esseri, più complessi ed intelligenti (come è difficile anche per un animale 'immaginare' l'Uomo come essere superiore) ma ciò non significa automaticamente che il processo evolutivo debba fermarsi con l'Uomo. Considerare l'Uomo il culmine di tutti gli esseri è un errore, tipico dell'antropocentrismo, che è tanto ingiustificato quanto lo era il geocentrismo che in passato era di gran voga. "Una cosa è certa -­‐ come scrive Hoimar von Ditfurth -­‐ uno dei più noti divulgatori e fautori della teoria dell'evoluzione -­‐ che se qualcuno (mai) può essere il compimento e lo scopo dell'evoluzione, sicuramente non siamo noi. L'Universo sarebbe sopravvissuto senza di noi e certamente dovrà farlo senza di noi ad un certo punto nel futuro; per giunta, a causa di ciò, la storia dell'Universo non perderà il suo significato, se mai una cosa del genere esiste".(1) L'evoluzionismo così inteso, ha almeno tre importanti conseguenze, da un punto di vista etico. Innanzitutto, mette in discussione l'invariabilità della natura umana, come anche, in effetti, l'invariabilità di altre forme di vita, dal momento che tutte costituiscono fasi transitorie dell'Universo nel suo complesso. Di conseguenza, l'evoluzionismo mette in discussione, ovviamente, qualunque norma morale che trovi la sua giustificazione nella immutabile e materialmente definita natura umana. 22 In secondo luogo, l'evoluzionismo livella un importante differenza tra gli esseri umani ed il resto dell'Universo, e nel fare ciò mette in dubbio la legittimità di attribuire all'Uomo una dignità particolare, dal momento che l'Uomo è un elemento di quella totalità che è l'evoluzione dell'Universo. Inoltre, poiché ogni essere umano è legato in vari modi agli altri ed all'intero Universo, non ci sono motivi in base ai quali si dovrebbe considerare qualunque essere umano come 'quello' particolarmente meritevole di rispetto e tutela della sua vita. Per di più, l'immensità dell'Universo, la summenzionata predisposizione a formare strutture sempre più complesse (processo già osservabile al livello della materia inanimata), e la relativa giovane età del sistema solare (quasi 5 miliardi di anni) hanno spinto molti sostenitori della teoria dell'evoluzione a supporre che l'Universo sia 'popolato' di esseri coscienti simili all'uomo o ancor più progrediti. A causa di motivi tecnici ed al 'carattere locale' dei sentieri presi dall'evoluzione, che sono adeguati alle condizioni di un determinato luogo nell'Universo, un incontro tra le civiltà terrestre ed extraterrestri forse non avverrà mai, tuttavia ciò non vuol dire che queste ultime non esistano. Il summenzionato Ditfurth ci mette in guardia contro una frettolosa identificazione tra intelligenza e cervello (ancora un altro esempio di antropocentrismo). Secondo Ditfurth, molte sbalorditive meraviglie della natura conducono piuttosto a presumere che già nel nostro mondo ed ancor di più in altre parti dell'Universo esista qualche tipo di intelligenza, diversa dal cervello, che è piuttosto situata in qualche sorta di 'struttura specie-­‐specifica' (2) . Difatti, nell'intero Universo noi siamo solo i 'bambini dell'Universo', che stiamo accumulando solo una piccola parte della sua ricchezza, solo la parte relativa alla sua intelligenza. Infine, la terza conseguenza dell'evoluzionismo, più strettamente legata all'etica evoluzionistica, è il relativismo naturalistico che trova espressione nella convinzione che le norme morali siano, in realtà, le varianti delle regole con cui gli organismi di classe inferiore -­‐ animali e piante -­‐ vengono governati, come anche l'intero Universo. Viene considerato un relativismo in quanto rende il contenuto e la forza vincolante di tutte le norme dipendenti da elementi variabili che determinano una specifica fase di sviluppo della società e della 'natura' umana. E' il cosiddetto relativismo naturalisticoper il modo in cui riduce il senso delle norme morali a regole che governano il mondo degli animali (un tale approccio, che viene chiamato paralogismo naturalistico, sarà più avanti materia per le nostre riflessioni). Un tale modo di interpretare le norme morali spinge a presumere che sebbene i cambiamenti nelle strutture della vita e dei comportamenti sociali possano avere un andamento alterno, l'evoluzione dell'umanità fondamentalmente segue la via del progresso, perché l'umanità, al livello che le compete, mira a raggiungere il suo 'avanzamento biologico', che include anche il miglioramento delle forme di vita sociale. Società diverse possono seguire strade diverse, tanto indipendenti l'una dall'altra da portare alla formazione di differenti gruppi di valori tra loro incompatibili ed incomunicabili. Vale la pena di mettere in evidenza che benché l'origine del postmodernismo non abbia molto in comune con la teoria dell'evoluzione, la critica al razionalismo ed il trattamento di vari gruppi di valori come fossero uguali l'uno con l'altro, entrambi caratteristici del postmodernismo, guadagnano del terreno anche con l'evoluzionismo. Naturalmente, una tale visione del mondo, ispirata dalla teoria dell'evoluzione, si ripercuote in modo significativo non solo sulla scienza, ma anche sulla riflessione teologica. Secondo alcuni teologi dovremmo di conseguenza staccarci da una tradizionale visione del mondo: una visione statica, che enfatizza l'importanza della sostanza immutabile, ed allo stesso tempo mette in ombra gli elementi variabili, come ad esempio, il tempo e la storia. Al contrario, occorre adottare una visione storica del mondo, in cui l'Universo e l'essere umano siano trattati come realtà dinamiche ed in cui la storia sia di fondamentale importanza. Queste due visioni del mondo richiedono differenti metodologie: quella classica opta per l'astrazione, l'apriorismo e la deduzione, mentre quello storico è caratterizzato dalla concretezza, l'aposteriorismo e 23 l'induzione empirica. Per quanto attiene all'etica, ciò vuol dire che non bisogna più cercare di comprendere le norme morali immutabili a favore della formazione di norme approssimative, il cui contenuto e la cui forza vincolante possono essere determinate solo dal dialogo con le scienze; occorre anche essere favorevoli alla necessità di mettersi al corrente dei molti elementi mutevoli della vita sociale. (3) Dunque, l'evoluzionismo sembra implicare che non esistano verità assolute e moralmente significative sull'Uomo. Peraltro, comunque, gli stessi autori che si oppongono con così tanto vigore a qualunque forma di ingiustificato antropocentrismo, spesso ammettono che l'apparizione dell'Uomo sia un punto di svolta nell'evoluzione. Finora, il mondo intero è stato del tutto sottomesso alla teoria dell'evoluzione, governato dalle leggi di natura in qualche modo 'dal di fuori'. L'Uomo, a sua volta, è capace di comprendere il mondo e le leggi che lo governano; è inoltre in grado di distanziarsi come soggetto sia da se stesso che dal mondo esterno. La sua intelligenza gli permette di influenzare sia il destino del mondo sia quello proprio, e per di più, gli permette di farlo di sua propria volontà. Lo possiamo notare oggigiorno su scala mondiale: è nei poteri dell'Uomo o preservare l'equilibrio ecologico del mondo oppure turbarlo con disastroso detrimento per sé e per gli altri esseri viventi. Una tale possibilità di pilotare liberamente il destino della terra non è e non può essere detenuta da esseri viventi privi di libertà razionale. Gli astrofisici, riflettendo sul destino dell'umanità e del mondo, si inoltrano su un sentiero a metà strada tra scienza e fantasia nel tentativo di trovare risposte su come e se l'umanità possa prolungare l'esistenza della propria specie o anche influenzare il cammino delle stelle. (4) Il sopracitato H. von Ditfurth sottolinea che il nostro compito è di garantire che lo sviluppo del mondo non termini con la nostra epoca ed a causa nostra, mentre il futuro dell'Uomo e del mondo dipendono dall'unione con il solo, potente, super-­‐organismo galattico, fornito di coscienza. Per Ditfurth, questa coscienza onnicomprensiva fissa il punto supremo dello sviluppo dell'Universo -­‐ punto supremo che l'Uomo, malgrado la relativa giovane età della terra e dell'intera galassia, ha apparentemente già raggiunto.(5) Comunque, una seducente ipotesi che suppone l'esistenza dell'intelligenza in altre parti dell'Universo, ad un più attento esame, incappa in problemi piuttosto considerevoli. S.W. Hawking, che per inciso è considerato un ateo, concorda con il cosiddetto debole principio antropico, in base al quale la comparsa dell'intelligenza umana richiede il soddisfacimento di alcune specifiche condizioni, nella cui creazione l'Universo ha impiegato circa 15 miliardi di anni. (6) Il credito innegabile della tendenza evoluzionista deriva dal prestare una particolare attenzione ai legami tra l'Uomo e l'ambiente, legami che ora sono considerati in qualche modo essere più stretti di quanto si pensasse prima. Questi legami pervadono la dimensione biologica dell'essere umano; pertanto, l'evoluzionismo aiuta a mostrare più completamente il carattere specifico di tale sfera (sorprendentemente simile geneticamente all'intero mondo degli esseri viventi, come è stato dimostrato dalle più recenti ricerche in questo campo). Più di tutto, questa tendenza ci ha resi sensibili al fatto che l'Uomo appartiene al mondo, che è soggetto al profondo processo dell'evoluzione. Così, è necessario comprendere il significato della storia del mondo e quello dell'Uomo in essa, e fare attenzione alla tentazione di considerare frettolosamente come immutabile ciò che appare essere transitorio su scala cosmica. Peraltro, comunque, si deve fare attenzione ad una comprensione troppo primitiva dell'evoluzione, che metta sullo stesso piano in modo alquanto dogmatico l'Uomo ed il resto dell'Universo. La riflessione sull'importanza dell'intelligenza, di cui l'Uomo è fornito, induce molti sostenitori della teoria dell'evoluzione ad ammettere che l'Uomo in effetti giochi un ruolo rilevante nel processo evolutivo. Per di più, qualunque sia l'ulteriore storia della specie 'homo sapiens', non perderà mai la sua specificità e superiorità sul mondo. B. Pascal non aveva cognizione dell'evoluzione dell'Universo, eppure colse, straordinariamente bene, la differenza tra l'Uomo e l'Universo e le caratteristiche grazie 24 alle quali l'Uomo si distingue: 'Il mondo mi abbraccia nel suo spazio e mi assorbe come un punto, io lo abbraccio con il pensiero'(7). Fisici e biologi non sono competenti nel parlare del valore (dignità) dell'essere umano, ma ciononostante le loro teorie non sono esenti da congetture assiologiche. Una superficiale fascinazione per la teoria dell'evoluzione fa sì che alcuni dei suoi divulgatori appianino la specificità dell'essere umano e considerino l'Uomo una rotella in un Universo che si evolve in modo dinamico. Comunque, gravando l'umanità di responsabilità per il proprio futuro e per il futuro del mondo, come anche incoraggiandola ad agire in un modo da garantire questo futuro, questi scienziati cedono il passo alla basilare intuizione assiologica, che suggerisce come il mondo stesso sia prezioso, degno di esistere, ed ancor di più è l'Uomo degno di attenzione in questo mondo. In tal senso, essi accordano, sebbene indirettamente, una posizione speciale all'Uomo, che deriva dalla sua inalienabile razionalità. IL LIBERALISMO Una tale posizione è certamente accordata all'Uomo dal liberalismo, che considero non come una dottrina economica, ma come una concezione che reputa la libertà come il principale attributo della grandezza dell'Uomo e come una condizione e l'unico modo per raggiungere la completa felicità. Una tale descrizione del liberalismo non è esauriente; tuttavia è impossibile racchiuderlo in una definizione concisa perché intendiamo usare il termine liberalismo per includere una ricca e variegata tendenza del pensiero, presente in molte teorie filosofiche, teologiche, politiche ed economiche. Tra i principali rappresentanti del liberalismo, gli esistenzialisti sono sicuramente degni di essere citati, specialmente i discepoli di J.P. Sartre, la cui comprensione e difesa della libertà non consente di accettare né la natura immutabile dell'uomo, né le norme morali. Ricordiamoci che l'esistenzialismo deve il suo nome ad una tesi, in base alla quale nell'Uomo, diversamente dal circostante mondo degli esseri privi della libertà, l'esistenza precede l'essenza, al punto che la vita (esistenza) di altri esseri viene determinata dalla loro natura (essenza). L'Uomo dovrebbe solo iniziare a definire la sua natura: creare da solo la propria identità (esistenza), 'definire' la sua essenza. Per Sartre soggiacere a qualunque norma è sinonimo di malafede; significa tradire se stessi e la propria libertà, che merita di essere chiamata libertà solo quando è del tutto priva di restrizioni.(8) Il fascino della libertà considerata una dimensione strettamente morale che distingue l'Uomo, per mezzo della quale l'Uomo realizza se stesso nella sua natura umana, trova la sua espressione non solo nella filosofia esistenzialista. Si potrebbe anzi sostenere che la filosofia tenti di comprendere e di sottoporre a riflessione questa esperienza e 'sapore di libertà', che è divenuta parte dell'umanità, specialmente nelle nazioni euro-­‐atlantiche, a cominciare dalla Rivoluzione Francese, dalla nascita degli Stati Uniti d'America, per passare attraverso la Rivoluzione del 1848 (La marea delle nazioni), fino alle esperienze delle due guerre mondiali e alla decolonizzazione, ed infine ha dato origine alla diffusione della libertà in filosofia e in letteratura; ciò ha anche permesso alla democrazia (con una stampa libera dalla censura) ed all'economia del libero mercato di conquistare uno stabile punto d'appoggio. Non sorprende che le tendenze liberali abbiano avuto anche un riflesso in teologia, che per secoli ha difeso la verità circa la libertà dell'Uomo ed ha indicato il suo significato nella natura dell'essere umano da una prospettiva teologica. Tra i teologi che pongono una particolare enfasi sulla libertà, intesa come ciò che differenzia la dimensione personale dell'esistenza dell'Uomo, c'è certamente K. Rahner. E' sua opinione che, "sulla base della dualità spirituale-­‐materiale dell'Uomo, occorre distinguere tra Uomo come persona dotata di intelligenza e Uomo come natura. Una persona è ritenuta un Uomo, in quanto è capace di controllare liberamente se 25 stesso (come natura) ed in effetti lo fa. La natura è intesa come tutto ciò che condiziona la possibilità delle libere azioni dell'Uomo (come persona), ed allo stesso tempo costituisce una norma che limita l'autonoma indipendenza della libertà".(9) Nello stesso spirito, Rahner prosegue sottolineando che il valore morale di un'azione deve essere valutato, non solo dal criterio oggettivo della sua giustezza, ma ancor di più se e fino a che punto questo valore morale esprime e rafforza la libertà di un soggetto. (10) Per di più, nello spirito del liberalismo, alcuni teologi tendono a sminuire l'importanza di tipici atti di scelta, mirati al raggiungimento di un certo fine -­‐ e pertanto tematici -­‐ a favore della cosiddetta sottostante opzione fondamentale, che differisce da loro per la sua profondità e per il suo carattere unico ed atematico, che rende difficile la sua valutazione morale.(11) Inoltre, questi teologi tenderanno a negare l'esistenza delle cosiddette assolute (ovverosia, sempre valide) ed operative (cioè, definite dal loro contenuto) norme morali.(12) Tali norme si riferiscono ad una natura umana immutabile e moralmente vincolante che appare meno immutabile di quanto si pensasse.(13) Certamente, il carattere unico ed il dinamismo della natura umana, nel modo in cui K. Rahner la intende, non dovrebbe essere ignorata, ma questa natura non stabilisce nessuna rigida norma priva di eccezioni. "Esiste la necessità", come scrive J. Fuchs, "'di abbandonare il tentativo di distinguere con precisione tra ciò che è variabile e ciò che non lo è. Anche i costituenti dell'essenza dell'umanità, e pertanto immutabili, in quanto appartengono alla natura umana ed alle sue strutture immutabili, fondamentalmente sono sottoposti a cambiamenti. La variabilità è parte dell'invariabilità della natura umana. La sola realtà immutabile (tautologia!) è che l'Uomo è l'Uomo".(14) Invece di cercare una natura umana immutabile, si dovrebbe ammettere un sempre nuovo modo di intenderla e comprenderla, un sempre nuovo senso di legame sociale, sessualità, ecc. Il loro significato dipende da come l'Uomo comprende tali elementi, quale senso intende assegnare loro all'interno di un 'progetto di vita' individuale, 'autocomprensivo', che 'si inserisce nella sua natura in modo determinante'.(15) Pertanto, la ragione stessa è dotata di prerogative creative ed in quanto schöpferische Vernuft, non riconosce passivamente una norma morale oggettiva, ma la stabilisce nello spirito della libera autodeterminazione .(16) In un modo simile a quello con cui l'evoluzionismo ha contribuito ad una più profonda comprensione della dimensione biologica dell'Uomo e delle sue dinamiche, il liberalismo ha contribuito alla percezione della libertà ed alla sua importanza per la piena realizzazione personale. L'analisi della libertà, mostrando la sua profonda dimensione personale, aiuta a percepire la dignità dell'essere umano, che lo distingue dagli altri esseri proprio a motivo della libertà stessa. Tuttavia, si dovrebbe ricordare che è una libertà razionale, che i liberisti non insidiano direttamente, ma di cui non sempre notano le conseguenze. La libertà razionale è la libertà guidata da una verità di cui si viene a conoscenza, e l'Uomo in quanto essere razionale dovrebbe rispettare, nei suoi atti di libero arbitrio, questa dipendenza della libertà dalla verità. E' perfino Sartre che sembra enfatizzare l'importanza morale di questa regola, sebbene il modo che propone di intendere i termini filosofici classici offuschi leggermente la comprensione di questo argomento. Egli deriva il postulato guida -­‐ che l'Uomo dovrebbe formare la sua identità (essenza) grazie ad un atto di libera scelta -­‐ dalla libertà, che lo identifica e lo distingue da altri esseri. Col pretesto di rispettare questa verità, egli ha condannato l'atteggiamento di ubbidienza a qualunque norma imposta come manifestazione di mala fede (un'altra questione è se la sua comprensione della libertà sia corretta). L'obiezione di mala fede sollevata contro altri esseri (che non sono liberi) non ha senso. Comunque, ciò che identifica l'individuo nella filosofia di San Tommaso viene indicato come la sua essenza (natura). In questo modo si potrebbe dire che l'etica di Sartre, malgrado la sua retorica iconoclasta, è parte della tradizione classica in quanto richiede il rispetto della regola: agere sequitur esse. Similmente, I. 26 Kant, che vide nella volontà di legiferare, identificata con la ragion pratica, la sola fonte della legge morale (17), deriva la seconda formula dell'imperativo categorico (18) dal credo che "la natura razionale esiste come fine a se stessa" (19) . Di nuovo, la norma morale di base deve essere in relazione a ciò che l'essere umano è come soggetto e oggetto (destinatario) di un'azione, è la verità su di lui e sulla sua più profonda natura (nel significato tradizionale di questo termine). Kant è stato un pioniere della tendenza trascendentalista in filosofia, la cui influenza è percettibile nella teologia moderna. Un importante elemento di questa filosofia è l'offuscamento della differenza tra l'attività della ragione e quella della volontà, specialmente una tendenza a concedere prerogative creative alla ragione, mentre la ragione è caratterizzata da una trascendenza ricettiva, ma non spontanea, come è nell'atto di volontà .(20) La conoscenza è il solo modo della propria trascendenza purché in un atto intenzionalmente mirato ad un oggetto, il soggetto "accetti" questo oggetto come esso è nella realtà. In questo senso, il soggetto afferra la verità nell'atto della cognizione intenzionale. I limiti che derivano dalla aspettabilità* e dall'imperfezione della nostra percezione non negano la ricettività di base della conoscenza. Difatti, eliminarla significa chiudere il soggetto nel suo io interiore e rendere la sua reale trascendenza cognitiva impossibile. Con la positiva valutazione della libertà nella vita e nella piena realizzazione dell'Uomo (anche nella sfera della conoscenza), questa differenza non deve essere ignorata. E casomai -­‐ se la conoscenza così intesa, costituisce la base per formulare norme morali -­‐ queste norme, in particolare la loro importanza e il loro ambito, non possono essere rese dipendenti solo da una opzione"atematica" di base, cognitivamente elusiva e dunque ambigua. ESISTONO VERITA' MORALMENTE VINCOLANTI SULL'UOMO CHE SONO INDUBITABILI? In questo modo torniamo alla domanda presente nel titolo della mia relazione: esistono verità sull'Uomo che siano sicuramente indubitabili e che possono essere rese in norme morali concrete e sempre vincolanti (assolute); e se esistono, quali sono? L'argomentazione svolta fino ad ora sembra andare verso una risposta affermativa. Anche punti di vista o tendenze di pensiero quali il naturalismo ed il liberalismo, che chiaramente non favoriscono il riconoscimento di tali verità, sembrano confermare -­‐ per opposita -­‐ la distintiva razionalità dell'Uomo e la sua dignità basata su tale razionalità. Essa deve essere rispettata per il modo in cui ogni essere umano dovrebbe essere trattato come il fine di tutte le azioni, e mai come un semplice mezzo per il raggiungimento degli scopi dello stesso soggetto.(21) Il fondamento di una norma personalistica , così intesa, si trova nella razionalità dell'essere umano. Ad esse ha fatto riferimento il summenzionato I. Kant, ed ancora prima la sua natura fu più dettagliatamente espressa da San Tommaso d'Aquino, per il quale persona est perfectissimum in tota natura, scilicet in rationali creatura,(22) in quanto la razionalità determina che le persone habent dominium sui actus (23) sono la ragione causativa dei loro atti intenzionali, e che alla fine portano a Dio stesso. Si deve sottolineare che l'Uomo è in grado di esperire questa dignità umana (in se stesso e negli altri) come moralmente vincolante, e questa straordinaria cognizione è la fonte dell'intera serie di doveri morali. Questi doveri non devono essere considerati solamente come istinti animali lievemente modificati (come viene sostenuto dai fautori dell'etica evoluzionistica) o come particolarizzazione fondamentale -­‐ caratteristica di ogni persona umana -­‐ nella ricerca per la felicità (come è sostenuto dagli eudemonisti). (24) Entrambi i casi recano il cosiddetto paralogismo naturalistico, che consiste nel trarre ingiustificate conclusioni normative da premesse descrittive, contro cui ha ammonito D. Hume.(25) La conseguenza del paralogismo naturalistico è l'assunto che il giudizio e le norme morali siano descrizioni di obiettivi e di comportamenti umani celati dietro una facciata normativa, e che l'etica si riduca alla psico-­‐
27 sociologia della morale.(26) L'unicità della cognizione morale è un'altra difficile questione; una soluzione più semplice a questo problema, tuttavia, conduce all'abbandono del carattere razionale e normativo dell'etica stessa. Dalla norma personalista di base derivano molte dettagliate deduzioni. Comunque, c'è soprattutto l'obbligo di rispettare la vita umana. L'Uomo è un essere imperfetto e fragile; dunque, la vita umana non è un valore 'equivalente ad' altri valori, come l'istruzione, il benessere, o il potere, ma è un valore fondamentale, la cui salvaguardia e tutela è una condizione per l'attuazione di qualunque altro valore, compresi anche quelli che sono attribuiti specificatamente alla persona umana. Per l'Uomo 'vivere' semplicemente vuol dire 'esistere'. Perciò, San Tommaso ci ha messo in guardia consigliando di non trattare la vita come una categoria dell'azione (operatio), perché vivere nihil aliud est, quam esse in tali natura, quindi il termine 'vita' è solo una versione astratta di questo esse degli esseri viventi, come 'una corsa' è la versione astratta dell'azione del correre. (27) Pertanto, se la norma personalista non deve restare un termine vuoto, si deve ammettere che l'obbligo a rispettare la vita umana è la sua prima, concretamente definita ed assolutamente valida conclusione. Conseguentemente, è impossibile giustificare atti legati alla diretta uccisione di un essere umano, specialmente se innocente. Un tale atto priva la vittima, oltre che della sua vita di qualunque altro valore e possibilità di piena realizzazione. Quindi, non ci dovremmo sorprendere per le condanne straordinariamente ferme, quasi dogmatiche, di atti quali l'aborto e l'eutanasia formulate nell'Enciclica Evangelium vitae. (28) Ne consegue che anche il Papa inequivocabilmente incoraggia l'abbandono della pena di morte. (29) Quindi, questo è un esempio di verità su se stesso che l'Uomo può apprendere (L'Uomo è un essere razionale che merita un trattamento disinteressato) e può 'tradurre' in norma morale ('Non ucciderai mai un innocente'). Non è la sola conclusione etico-­‐antropologica della cognizione dell'Uomo (la sua natura). Se l'unicità e la dignità dell'essere umano è determinata dalla sua spiritualità, qualunque caso di assoggettamento della mente dovrebbe essere giudicato come moralmente sbagliato, ovverosia, lo sono quelle azioni che rendono difficile o impossibile compiere atti razionali ed autonomi. L'esame di tali problemi, come anche del significato della sessualità dell'Uomo, darebbe inizio ad un nuovo dibattito su questioni etico-­‐antropologiche. Per rispondere alla domanda presente nel titolo, comunque, è sufficiente indicare almeno una di queste verità, che l'Uomo è capace di apprenderne e di mostrarne le conseguenze etiche concretamente determinate. Per questo ci siamo concentrati solo sulla verità circa la razionalità e la dignità dell'Uomo come anche sul comandamento: "Non uccidere". Questo solo esempio è sufficiente a manifestare la immutabilità di base della natura umana, la sua capacità normativa ed una possibilità di derivare da essa conseguenze normative chiaramente e concretamente definite e sempre vincolanti. L'etica non può, ovviamente, essere limitata a tali elementari norme e verità; tuttavia, non le può neanche ignorare . In particolare, non può ignorare il suo significato metafisico ed epistemologico. 28 [1] DITFURTH H. von , Wir sind nicht nur von dieser Welt. Naturwissenschaft, Religion und die Zukunft des Menschen, Hamburg, Hoffmann und Campe Verlag, 1981: "Die Entdeckung der Evolution schliesst die Einsicht mit absoluter Sicherheit nicht das Ende (oder gar das Ziel) der Entwicklung sein kann", p. 20. Sebbene non ci sia spazio per approfondire la teoria dell'evoluzione, è utile menzionare alcuni dei suoi fondamenti, in particolare quelli relativi all'evoluzione in senso stretto -­‐ l'evoluzione degli esseri viventi -­‐ perché essi riflettono i mezzi per comprendere l'Uomo e la moralità anche dalla prospettiva teologica. Ne consegue che tutte le forme viventi sono caratterizzate da un'espansione bidimensionale: estensiva (che si manifesta nella predisposizione propria delle forme viventi ad espandere il proprio habitat ed a occupare l'intero ambiente circostante disponibile) ed intensivo (evidenziato da una propensione al rinnovamento -­‐ mediante l'adattamento all'ambiente e una specifica 'risposta' a tutte le sfide -­‐ di tutte le capacità di sviluppo interne, tipiche di una data forma vivente). Entrambi i tipi di espansione hanno luogo durante il processo di sostituzione delle generazioni: le generazioni successive di una determinata specie occupano un territorio perfino più vasto ed evolvono internamente, adattandosi ancor più efficacemente all'ambiente. Queste propensioni sono il segno di una più fondamentale caratteristica, tipica della vita e della sua dinamicità in tutte le varietà, vale a dire il bisogno naturale di un progresso biologico. Questo bisogno naturale costituisce il requisito necessario ad una determinata specie per sopravvivere (a dispetto dell'esistente minaccia proveniente dal mondo esterno, che comprende anche la competizione con altri esseri viventi), generando quindi lo sviluppo di una determinata specie (o in una prospettiva più ampia: uno sviluppo tra più specie). Ho fatto riferimento a questi fondamenti della teoria dell'evoluzione, perché sebbene suggeriscano che sia difficile stabilire un parallelo tra evoluzione e progresso, i meccanismi dell'evoluzione fanno ritenere che ciò che è nuovo sia anche migliore. Vedi: BRÖKER W., Aspekte der Evolution, "Concilium. Internationale Zeitschrift für Theologie" 6-­‐7 (1967) p. 433-­‐441. [2] Vedi: DITHURTH H. von, Im Anfang war der Wasserstoff, Hamburg, Hoffmann und Campe Verlag, 1972. ID., Kinder des Weltalls, Hamburg, Hoffmann und Campe Verlag, 1970. [3] Vedi: tra gli altri, GRÜNDEL J., Wandelbares und Unwandelbares in der Moraltheologie. Erwägungen zur Moraltheologie an Hand des Axioms 'agere sequitur esse', Düsseldorf 1967; CURRAN C., Themes in Fundamental Moral Theology, Notre Dame 1977. Ho molto approfondito questo tema nel mio studio: Natur -­‐ Vernnuft -­‐ Freiheit. Philosophische Analyse der Konzeption "Schöpferische Vernunft" in der zeitgenössischen Moraltheologie, Frankfurt am Main-­‐Bern-­‐New York-­‐Paris, Peter Verlag 1992, pp.50-­‐60. [4] Vedi: DAVIES P., The Last Three Minutes. Conjunctures about the Ultimate Fate of the Universe, London 1994. [5] Vedi: DITFURTH H., Im Anfang... [6] Vedi: HAWKING S.W., A Brief History of Time. From the Big Bang to Black Holes, London, 1988. [7] PASCAL B., Pensées, Parigi, Latour-­‐Maurbourg, a cura di Francis Kaplan, 1982, [302], p.212; vedi: [301], p.212. [8] Per un breve profilo della concezione sartriana di libertà, vedi per esempio: GAŁKOWSKI J., Z historii pojęcia wolności [La storia del concetto di libertà: Duns Scoto, Kant, Sartre], "Roczniki Filozoficzne KUL" v. 19 (1971), n. 2, p. 59-­‐101. [9] RAHNER K., Die Gliedschaft in der Kirche nach der Lehre der Encyklika Pius XII 'Mystici Corporis', K. Rahner Schriften zur Theologie, Bd II, Einsiedeln 1955, p.86 (trad. di T.K.). Vedi anche: le voci: 'Natur' (p. 294), 'Natürliche Sittengesetz' (pp.295-­‐296), 'Person' (pp.325-­‐328) in RAHNER K., VORGRIMLER H., Kleines Theolgisches Wörterbuch, Freiburg im Breisgau, Verlag Herder 1980. 29 [10] Vedi: RAHNER K., Würde und Freiheit des Menschen, in: ID. Schriften zur Theologie, Bd. II, Einsiedeln 1958, pp. 261-­‐267. [11] Per le caratteristiche della 'opzione fondamentale' vedi: SZOSTEK A. Szostek: Natur -­‐ Vernnuft -­‐ Freihei..., pp. 83-­‐109. Vale la pena ricordare che il concetto di opzione fondamentale è stato anche formulato da D. von Hildebrand e J. Maritain, ma quest'ultimi non le hanno attribuito l'interpretazione trascendentalista, come invece fanno K. Rahner e J. Fuchs. [12] Ibid., pp.164-­‐197. [13] Qui i teologi citano con entusiasmo i raggiungimenti delle scienze e il carattere evolutivo dell'intero mondo, incluso l'essere umano. [14] FUCHS J., Absolutheitscharakter sittlicher Handlungsnormen, in Für eine menschliche Moral. Grundfragen der theologischen Ethik, Bd. I., Freiburg i.Ue/ Freiburg i.Br. 1988, pp. 219-­‐257 (trad. di T.K.). Vedi: RAHNER K., VORGRIMLER H., alla voce: 'Natürliche Sittengesetz' in Kleines Theolgisches..., pp. 295-­‐296. [15] PIANA G., O hermeneutykę decyzji etycznej [Sull'ermeneutica della decisione etica], "Communio. Międzynarodowy Przegląd Teologiczny" 1(1981) no. 3, p. 24. [16] Una profonda preoccupazione circa le tendenze liberali della contemporanea teologia morale è stata espressa da Papa Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, cap. II, p. 28-­‐83. [17] KANT I., Foundations of the Methaphysics of Morals and What is Enlightenment? , Indianapolis-­‐New York, The Bobbs-­‐Merrill Company, Inc., 1959, p. 36, 71. [18] "Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona o in quella di un altro, sempre come un fine e mai solo come un mezzo", p. 47. [19] Ibid. [20] SEIFERT J., Erkenntnis objektiver Wahrheit. Die Transzendenz des Menschen in der Erkenntnis, Salzburg-­‐ München 19762, p. 83-­‐88. [21] WOJTYLA K. (PAPA GIOVANNI PAOLO II), Love and Responsibility, London 1981, p. 41. [22] San Tommaso d'Aquino, S. th. I q. 29, a. 3. [23] Ibid. I q. 29, a. 1. [24] Una dettagliata e critica esposizione delle caratteristiche dell'eudemonismo è presente in: STYCZEŃ T., Etyka niezależna? [Etica indipendente?], Lublin 1980, p. 15-­‐32. [25] HUME D., A Treatise on Human Nature, vol. 2, London, Dent, 1911. [26] STYCZEŃ T., Problem możliwości etyki jako empirycznie uprawomocnionej i ogólnie ważnej teorii moralności.Studium metaetyczne [Il problema delle prospettive dell'etica come teoria della morale empiricamente giustificata e sempre pertinente. Uno studio metaetico], Lublin 1972, pp. 63-­‐78. [27] SAN TOMMASO D'AQUINO, S. th. I q. 18, a. 2. [28] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Evangelium vitae, no. 58-­‐67. [29] Ibid., no. 56. 30 WOLFGANG WALDSTEIN
LA CAPACITÀ DELLA MENTE UMANA DI CONOSCERE IL DIRITTO NATURALE È un fatto curioso che fin dall'antichità esistevano delle teorie filosofiche che finivano per negare la capacità della mente umana di riconoscere alcunché come vero. Questo scetticismo radicale ignora però il fatto che la suddetta affermazione è distrutta da se stessa. Se per l'appunto la mente umana non è capace di riconoscere alcunché come vero anche la conoscenza di questa presupposizione sarebbe impossibile (1) . In ogni caso è del tutto arbitrario restringere le possibilità della conoscenza umana a certi postulati come lo scetticismo o il relativismo, che sono in se stessi contradittori. Allo stesso tempo la capacità umana di conoscere la verità venne affermata dai più grandi filosofi da Socrate a Platone, Aristotele e gli Stoici in una maniera che si è tuttora in grado di percepire la verità delle loro scoperte. Aristotele non solo dice che "la filosofia è giustamente chiamata la conoscenza della verità" (2) ma dimostra anche con una logica stringente che le idee scettiche e relativistiche sono in sé contradittorie e insostenibili (3). Da allora sono state confutate molte volte in modo convincente. Per l'antichità menzionerei ancora soltanto Cicerone (4). Innumerevoli filosofi hanno recepito le scoperte del vero contenute nella vera filosofia come per esempio Cicerone ed il giurista romano Ulpiano la chiamano(5). È ovviamente impossibile menzionarli soltanto. I più importanti fra di loro sono Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino. Il Papa Giovanni Paolo II ne cita nella sua enciclica Fides et ratio in aggiunta a questi nomi molti altri come John Henry Newman, Antonio Rosmini e Edith Stein. Io vorrei aggiungere a questi nomi Dietrich von Hildebrand, la cui filosofia è molto vicina alla scuola di Lublino promossa da Karol Wojtyła. Papa Giovanni Paolo II stesso rifiuta gli errori dello scetticismo, del relativismo, del positivismo dello scienticismo e di altre dottrine sopratutto nelle encicliche Evangelium Vitae(6) e Fides et Ratio(7). Nonostante il fatto che queste teorie sono state dimostrate come infondate rimangono tutt'ora molto diffuse e di fatto adirittura dominanti. Risultano uno dei principali ostacoli per la conoscenza del diritto naturale. Per questo motivo appare a me necessario discutere inanzitutto i principali argomenti contro il diritto naturale per dimostrare che sono sbagliati e perciò non possono affatto essere considerati argomenti validi. In secondo luogo cercherò dimostrare nei limiti ristretti impostimi dal tempo che il diritto naturale infatti è stato conosciuto fin dall'antichità. E non era stato conosciuto solo in maniera teorica come prodotto o proiezione della mente umana, ma era stato conosciuto come una realtà esistente e riconoscibile, che ciascuno è costretto a conoscere per poter essere giusto(8). Attraverso il lavoro della giurisprudenza romana ha creato l'ordinamento giuridico che ha governato l'Europa fino alle così chiamate codificazioni giusnaturalistiche nei secoli 18 e 19(9). In Austria la codificazione del 1811 è ancora in vigore anche se molte parti sono state cambiate per i più svariati motivi, alcuni di questi anche di ordine politico. Ma due paragrafi che si rifanno espressamente al diritto naturale hanno mantenuto la loro vigenza. Ritornerò ad uno di essi più tardi. Prima di trattare i dettagli mi pare necessario menzionare il fatto che secondo una opinione di vasta diffusione Immanuel Kant è stato riconosciuto come padre dell'ideale moderno della scienza. In questa prospettiva tutto ciò che è stato conosciuto dall'antichità fino a Kant dovrebbe essere giudicato come delle visioni già da lungo superate ed antiquate. Questo è stato espresso da Wolfgang Fikentscher colle parole: "Si potrebbe giustamente dividere tutto lo sviluppo della metodica del diritto in un periodo prekantiano ed un altro postkantiano"(10). Anche nel pensiero teologico contemporaneo tali opinioni sono ampiamente diffuse. È stato affermato che non esiste una via per ritornare ai tempi anteriori a Kant. 31 È chiaro che tutto ciò che io stesso sto dicendo caderebbe su questi giudici se siano vere. Per questa ragione penso di avere il obbligo di citare un paragrafo della enciclica Fides et ratio che è decisivo per la mia posizione. La parte più importante per quello che sto dicendo dalla Fides et ratio 72 dice così: "Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell'India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchiamento del pensiero cristiano. Per questa opera di discernimento(11), che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate, essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è quello dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-­‐latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani". Io penso che non è solo permesso, ma è anche un obbligo prendere questi chiarimenti sul serio. Oltreciò questo non è solo vero per la Chiesa, ma anche per ogni onesta ricerca scientifica, perché ogni verità scoperta una volta rimane vera per sempre. E, come Aristotele dice nell'Etica Nicomachea, "Infatti le cose reali concordano in tutto con la verità, mentre il falso tosto avverte la sua discordanza"(12). Per questa ragione la "opera di discernimento" fra verità ed errore è nel nostro contesto culturale indubbiamente una delle più grandi sfide. John Finnis nel suo contributo ha mostrato quanto sono, per esempio, insostenibili le tesi dell'opera "post-­‐Vatican II" di Lonergan. Nonostante questo fatto "*il testo italiano dovrebbe essere inserito qui*"(13). ALCUNI DEI PRINCIPALI ARGOMENTI CONTRO IL DIRITTO NATURALE Una delle forme più influenti dello scetticismo e dell'agnosticismo è stata sviluppata fra altri da Christian Thomasius (1655-­‐1728). Esso è partito come uno degli specialisti del diritto naturale del secolo dei lumi, ma voleva allontanarlo da ogni dipendenza teologica per fondarlo su una ragione umana autonoma. Come Stefan Buchholz in un'analisi magistrale ha dimostrato la ragione umana resa autonoma conduce all'autodistruzione. La premessa fondamentale: "voluntas semper movet intellectum" conduce nelle sue conseguenze l'"animal rationale" al "servus passionum suarum"(14). L'intelletto umano e la libera volontà vengono negati. Come conseguenza di questa premessa la conoscenza umana diventa un prodotto di costrizioni e per questo fatto si autocancella. Secondo Christian Thomasius le passioni forgiano la volontà e la volontà impone i suoi pregiudizi sulla ragione ("voluntas praeiiudicium facit intellectui")(15). In questo modo la conoscenza individuale è del tutto esclusa. Da questo segue che tutti gli uomini sono degli stolti(16). Possono essere guidati soltanto dal diritto positivo, che ai suoi tempi viene creato dal "princeps absolutus" ("exinde necessitas iuris positivi"). Il soggetto che in quanto stolto è ritenuto essere perennemente minorenne deve accettare i commandamenti della legge senza aver a disposizione i criteri per giudicare la giustezza e la giustizia di una legge. Sottomettendosi giova allo scopo unificante dello stato(17). Ma proprio dai tempi di regimi tirannici come il nazionalsocialismo in Germania o il comunismo la sottomissione dell'individuo allo scopo unificante dello stato è apparsa in tutta la sua utopicità. Per quel che riguarda il principio "voluntas praeiudicium facit intellectui" non ci può essere alcun dubbio che il fenomeno effetivamente esiste. Ma ugualmente non ci può essere alcun dubbio che le conseguenze dedotte da Thomasius da questo fatto non corrispondono perfettamente alla verità. La completa negazione della ragione umana e della libera volontà è in vista di tutte le 32 conoscenze umane fin dall'antichità semplicemente assurda. È la conseguenza di un concetto aberrante della natura umana. Thomasius dimentica soltanto di spiegare perché ed in che modo lui stesso non fa parte della schiera degli stolti. Lui si arroga però la facoltà di identificare come stolti tutti coloro che osano contradirlo(18). Un argomento all'apparenza più scientifico si basa sull supposto dualismo tra "essere" e "dover essere" con la conseguenza che da un "essere" non può risultare un "dover essere". Secondo questo argomento ogni tentativo di derivare un diritto naturale dalla natura come un' "essere" è stato marcato come "fallacia naturalistica" o, come dice Rhonheimer nel suo contributo, "fallacia dualista"(19). Questo argomento che trova le sue origini in David Hume è stato sviluppato nel campo della teoria del diritto sopratutto da Hans Kelsen nella sua teoria pura del diritto. In più l'esperto di logica del diritto tedesco Ulrich Klug, ha cercato dio confermare la posizione di Kelsen con i mezzi della logica formale. Io stesso ho analizzato questi argomenti molte volte dettagliatamente(20). Klug pensa che le parole "logica formale" bastano per provare l'uso di un metodo scientifico che garantisce risultati inconfutabili e definitivi. In breve: L'unico risultato che gli argomenti di Klug potevano effettivamente raggiungere è la logica cosa ovvia che da un presupposto che riguarda un "essere" che non contiene un elemento normativo, una conclusione che contiene un elemento normativo non può essere dedotta. Ma ciò che esso non ha mai provato con questo argomento né sarebbe mai capace di provare è la presupposizione tacita che le norme non esistono realmente come un "essere" da cui può derivare un "dover essere". Semplicemente presuppone che il concetto positivista di realtà è l'unico possibile. Ma se ciò fosse vero nessuna legge potrebbe esistere, e neanche il diritto positivo. Se fosse vero che nessuna norma possa appartenere al regno del "essere" l'idea di aver diritti di qualsiasi genere in ogni significato possibile dovrebbe essere abbandonata. Ma lo stesso Kelsen afferma che le norme esistono. La loro forma di esistenza è la loro vigenza(21). Nella prima edizione della sua "Reine Rechtslehre" ha addirittura detto: "Non si può negare che il diritto in quanto norma è una realtà spirituale e non naturale (materiale)"(22). Nel 1965 ha rielaborato la sua opinione originale rispetto a questo aspetto in modo rimarchevole con una chiarificazione della relazione fra diritto e logica. In questo importante contributo è giunto alla seguente affermazione: "Il vero ed il non-­‐vero sono attributi di una affermazione, il fatto della vigenza non è al contrario un attributo della norma ma della sua esistenza, della sua esistenza ideale. Che una norma è in vigore significa che esiste"(23). Se una norma esiste si tratta senza dubbio di un "essere" con un contenuto normativo. E da un "essere" con un contenuto normativo può derivare senza dubbio un "dover essere". Questa scoperta ha distrutto del tutto gli argomenti di Ulrich Klug. E Kelsen stesso non poteva basarsi più sull'argomento contro il diritto naturale, che prima aveva ritenuto assolutamente inconfutabile e cioè che da un "essere" non può derivare un "dover essere". Se questo "essere" è una norma allora da questo "essere" può derivare senza dubbio un "dover essere". Per mantenere la sua negazione del diritto naturale doveva rifugiarsi ad altri argomenti. Secondo la teoria di Kelsen le norme positive sono create da un atto di volontà. Ammette che le norme non devono essere necessariamente risultati della volontà umana, ma che non possono esistere norme che non sono state create da un atto di volontà. Solleva in un momento successivo la domanda decisiva che si basa sul concetto positivista della natura: "Da dove una tale volontà può entrare nella natura, la quale da un punto di vista della conoscenza empirico-­‐razionale è una aggregazione di esseri fattivi legati fra di loro da causa ed effetto?"(24). La risposta di Kelsen è che questa volontà può essere "soltanto la volontà di una divinità giusta la cui volontà non è solo trascendente riguardo la natura creata da essa, ma anche immanente". Per questo egli pensa che il diritto naturale può essere accettato soltanto sulla premessa della fede in una tale divinità. 33 Siccome lui stesso non crede, è capace di accettare questo presupposto, neanche può accettare le conseguenze e soprattutto il diritto naturale. In più egli pensa che una discussione razionale riguardo la questione della verità di questa credenza è senza speranza(25). Non è evidentemente possibile discutere qui tutti i dettagli degli argomenti di Kelsen, che derivano dai suoi presupposti positivistici. Posso menzionare qui soltanto la chiara conoscenza che già Aristotele era capace di raggiungere. Egli dice che su una base di questo genere "il conseguimento della verità sarà come cacciare gli uccelli in aria". E poi continua: "Ma la ragione per cui questi uomini hanno quest'opinione è che benché abbiano studiato la verità relativa alla realtà presumono che la realtà è confinata alle cose percepibili attraverso i sensi... Per questo motivo le loro affermazioni anche se plausibili non sono vere"(26). Dimostra inoltre che ogni essere contingente comporta per via di una necessità logica ad una prima causa non contingente, senza la quale nessuna conoscenza sarebbe possibile(27). A questo punto devo aggiungere al mio testo originale che sono molto lieto di poter esprimere il mio pieno consenso colle affermazioni di prof. Rhonheimer concernente il vero carattere del diritto naturale, che, secondo un "testo leonino" "è lastessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione"(28). Esattamente questo fu anche la comprensione del diritto naturale di Cicerone e dei giuristi romani. Per mostrare questo devo citare di nuovo un testo di Cicerone che ho citato interamente già quattro anni fa(29), ed anche un testo proveniente dai giuristi romani. Il testo di Cicerone si legge così: "È propriamente la vera legge la retta ragione(30), in armonia con la natura, estesa a tutti, costante, sempiterna, (...). Questa legge sarebbe empio mutarla con altra, né sarebbe lecito derogarvi in alcuna sua parte, né potrebbe in tutto abrogarsi, né d'altronde, o dal senato o dal popolo, potremmo essere sciolti da questa legge, e non è necessario a esegeta o interprete (qualcuno fuori di noi, nel testo riferimento è fatto al giurista Sesto Elio); né sarà una legge a Roma, altra ad Atene, una ora, altra in avvenire, ma un'unica legge e sempiterna e immutabile vincolerà e tutte le genti e in ogni tempo, e Dio sarà l'unico maestro, per dir cosi, universale e imperatore di tutti: lui l'inventore di questa legge, lui il giudice, lui il proponente (in questo contesto lator significa il legislatore): al quale, chi non obbedirà, ricuserà sé stesso, e per aver ripudiato la natura dell'uomo, sconterà per ciò stesso le piú gravi pene, ancorché abbia sfuggito tutti quegli altri che si reputano castighi"(31). L'altro testo, secondo ricerche recenti "stato ripreso da un brano classico" e tramandato nelle istituzioni di Giustiniano 1, 2, 11, dice semplicemente: "Le leggi naturali, che presso tutte le nazioni sono egualmente osservate, stabilite dalla divina provvidenza, restano sempre ferme ed immutabili"(32). Ambedue i testi rendono evidente che il diritto naturale non è stato compreso come qualcosa derivata da una natura non normativa e fattuale, come Kelsen pensava, ma è inteso di essere introdotto dal dio stesso o dalla divina provvidenza. Questa comprensione fu comune alla intera giurisprudenza romana. In questo la opinione di Kelsen ha ragione che in diritto naturale non ptrebbe essere altro che "la volontà di Dio nella natura da Lui creata". Ma la asserzione che un diritto naturale potrebbero essere ammesso soltanto in base al presupposto della fede "in una divinità giusta" non è vera. Infine neanche è vero che la discussione razionale sull'esitenza di Dio sarebbe senza speranza come afferma Kelsen. Sin dai tempi dell'antichità sono state trovate delle risposte ben fondate relative alla questione in merito. Non devo dimostrare tutto ciò qui in dettaglio. Vorrei però citare un solo passo dal de legibus di Cicerone. Avendo sostenuto "che la mente divina è la suprema legge" continua il discorso: "Infatti cosa è più giusta del fatto che nessuno potrà essere così arrogante da credere che benché la ragione e l'intelletto esistano in noi stessi non esistono nel cielo e nel universo o che tutte le cose che possono essere capite difficilmente dal più acuto intelletto umano siano dirette da nessuna ragione"(33). Se quest'affermazione è vera come 34 innumerevoli altre sull'esistenza di Dio nei millenni, allora l'ultimo argomento di Kelsen contro il diritto naturale e soprattutto che possa essere accettato solo col presupposto della fede in Dio non può essere vero in base alla legge della contradizione. Dio come anche il diritto naturale erano e sono conoscibili come realtà indipendenti da ogni presupposto della fede(34). Questo è anche affermato giustamente da Rhonheimer, quando dice nella sua relazione: "L'idea non è che per conoscere il bene la ragione umana abbia bisogno di essere istruita da Dio nel senso di una rivelazione che si aggiungesse a ciò che la ragione umana è capace di conoscere"(35). COME IL DIRITTO NATURALE È STATO CONOSCIUTO SIN DALL'ANTICHITÀ Nel mio contributo alla sesta assemblea due anni fa relativo al diritto naturale e alla difesa della vita in Evangelium vitaeero già costretto a dire qualcosa sulla "Realtà storica e giuridica del diritto naturale"(36). Non ripeterò ciò che avevo detto allora. Per dimostrare la capacità della mente umana di conoscere il diritto naturale dovrò concentrarmi sulla questione come in effetti venne conosciuto. Ho discusso la questione più accuratamente nel mio libro sulla teoria generale del diritto(37). Qui posso dare solo un breve sommario di quel che ero riuscito a dimostrare in quella sede. Nonostante fossero circondati da teorie scettiche e relativiste tutti i grandi filosofi sono d'accordo sul fatto che la mente umana è capace di conoscere la verità. Proprio all'inizio dell'Etica Nicomachea Aristotele dimostra che esistono diversi metodi per conoscere delle realtà diverse. Ammonisce che "la stessa precisione non deve essere richiesta in tutti i campi della filosofia in egual misura"(38). Poco più avanti dice: "corrisponde ad una mente erudita richiedere la misura di precisione riguardo la natura del soggetto particolare"(39). Quanto ai diversi metodi per giungere alla conoscenza per gli adepti della verità afferma: "I principi vengono studiati alcuni per induzione, altri per percezione (sensazione), altri per via di certe forme di abitudine, ed altri per altre vie ancora"(40). Qui iniziano le difficoltà della traduzione. Per "studiati" il testo greco è Jewrou=ntai. Qewre/w significa in greco fra altre cose di riflettere su una realtà spirituale in un modo spirituale. Per questo Qew/rhma è qualcosa che è stato visto. Per percezione il testo greco ha ai)sJh/sei. Viene tradotto nella versione tedesca da Dirlmeier correttamente con intuizione, parola la quale nel originale significato latino significa una visione immediata e spirituale di una realtà spirituale. Tutto ciò diventa ancora molto più chiaro quando Aristotele indica il parallelismo fra ai)/sJhsij e nou=j. Il testo più importante è tradotto alla seguente maniera: "Anche l'intelligenza ha per oggetto i termini ultimi, in entrambi i sensi -­‐ infatti sia i termini primi che i termini ultimi costituiscono il dominio dell'intelligenza e non del ragionamento -­‐ vi è infatti un'intelligenza che, per le dimostrazioni, apprende i termini immobili e primi ed un'intelligenza che nelle dimostrazioni di ordine pratico apprende il termine ultimo e contingente, vale a dire la seconda premessa. Infatti queste premesse sono principi del fine a cui tendere. È infatti dai particolari che si perviene agli universali. Di questi particolari si deve dunque avere una percezione (ai)/sJhsij), ed essa è l'intelligenza" (nou=j)(41). Nella Metafisica dimostra per esempio che la legge della contraddizione può essere riconosciuta solo attraverso la percezione immediata o l'intelligenza. Continua: "Alcuni infatti esigono che la legge venga provata, ma questo dipende dal fatto che manca loro l'erudizione, dimostra la mancanza d'erudizione non sapere quali cose hanno bisogno di essere provate e quali non ne richiedono questa esigenza"(42). Questa affermazione è estremamente importante perché oggi come oggi si ragiona spesso che solo ciò che può essere provato con i mezzi della logica può essere accettato come conoscenza scientifica(43). Per questo motivo quanto alla capacità generale di conoscere devo menzionare come ultimo aspetto che Aristotele ha anche dimostrato che le leggi della logica 35 stesse non possono essere provate per deduzione logica -­‐ come si potrebbe fare senza conoscerle prima -­‐ ma che possono essere percepite soltanto attraverso l'intelligenza (nou=j)(44). Con questo sottofondo dobbiamo prendere in esame adesso il problema come il diritto naturale è stato in effetti conosciuto sin dall'antichità. Da innumerebvoli fonti può essere dimostrato che il diritto naturale è stato fin dai tempi più remoti da quando disponiamo di fonti scritte ovviamente evidente alla ragione come il § 16 dell'ABGB austriaco afferma. Questo fatto è in particolar modo importante per lo sviluppo dell'antico diritto romano e per il successivo sviluppo della cultura giuridica europea fino ai nostri tempi. La giurisprudenza romana non ha esposto teorie sul diritto naturale, ma i giuristi lo applicavano quando dovevano risolvere i casi pratici. Perciò si può capire dalle fonti attraverso quali metodi acquistarono la conoscenza di questo diritto. Uno dei massimi studiosi di diritto romano, Max Kaser, ha dedicato una ricerca al metodo dei giuristi romani relativo alla conoscenza del diritto(45). Sulla base di intensi studi sulle fonti del diritto romano condotti per tutta una vita ha potuto formulare i seguenti risultati: "Se si esaminano i modi grazie ai quali i giuristi romani nella loro casuistica giunsero al loro diritto non si trova in primo luogo il metodo razionale dell'induzione o della deduzione. Seguendo le impressioni che la tradizione giuridica offre in maniera inconfutabile troviamo al primo posto l'intuizione, vale a dire di trovare la giusta soluzione attraverso la percezione immediata, che non richiede un ragionamento razionale"(46). Kaser stesso per propria ammissione non era un esperto dell'antica filosofia greca. Descrive solo ciò che empiricamente ha trovato nelle fonti. Ma non ci possono essere dubbi che la percezione immediata, l'intuizione che egli descrive è in principio ciò che abbiamo visto in Aristotele. I pregiudizi delle teorie moderne della scienza non accettano l'intuizione come un modo razionale di conoscenza senza una prova scientifica addizionale che si aspetta dalla deduzione logica. Ma, come abbiamo visto, la logica stessa può essere conosciuto solo attraverso la percezione diretta come ha dimostrato Aristotele. Perciò la percezione immediata non è in contrasto con un ragionamento razionale, ma il suo presupposto. Aggiunge riguardo la percezione immediata della legge della contraddizione: "Alcuni infatti esigono che questa legge venga provata, ma questo per mancanza di erudizione, perché è prova di mancanza di erudizione non sapere dove bisogna esigere una prova e dove non lo si deve fare".(47). Questo è di estrema importanza per capire il metodo ed i risultati delle opere dei giuristi romani. Horak ammette che l'intuizione gioca un ruolo importante nel processo scientifico della scoperta ma non può fornire alcuna prova scientifica. Dice: "Grande che possa essere l'importanza dell'intuizione nel processo della scoperta non ha niente a che fare col procedimento del ragionamento e della prova. Chiunque affirmi che non solo ha trovato la sua conoscenza per intuizione ma può provare questa conoscenza solo con l'intuizione stessa, non verrà ascoltato dal foro della scienza."(48). Horak ovviamente non si rende conto del fatto che per esempio Hans Kelsen che è ritenuto da Horak come uno a cui il foro della scienza presta ascolto, può fondare tutta la teoria della teoria pura del diritto sulla conoscenza trovata attraverso la percezione immediata. Dice espressamente: "La differenza fra essere e dover essere non può essere spiegata ulteriormente. È data immediatamente alla nostra conoscenza."(49). Kaser stesso giustamente ha difeso i propri risultati anche dopo le critiche all'intuizione proposte da Horak sulla base della moderna teoria della scienza. Nonostante abbia chiamato il lavoro di Horak fondamentale nella sua parte relativa a ragionamento e topica(50), Kaser continua ad affermare: "I giuristi trovano il loro diritto per via deduttiva da leggi esistenti e altre fonti del sapere, ma allo stesso tempo per via dell'intuizione percettiva dei problemi del caso avendo preparato questa intuizione con lo studio attento di soluzioni precedenti in altri casi"(51). Già all'inizio della sua magistrale opera sul Diritto privato romano Kaser afferma che i giuristi romani trovano la strada della conoscenza giusta del diritto per via della loro geniale intuizione grazie alla loro sicura filosofia della vita(52). Perciò uno dei più grandi giuristi romani, Ulpiano, può 36 affermare nel primo frammento del digesto che i giuristi nel loro travaglio di realizzare la giustizia lottano per la vera filosofia e non per una filosofia fittizia (veram nisi fallor filosofiam, non simulatam affectantes)(53). Kaser aggiunge alla sua affermazione riportata qui pocanzi relativa alla intuizione(54) che questa percezione spontanea ha due fondamenta strettamente collegati fra di loro e cioè un forte e raffinato senso per le realtà giuridiche ed una grande esperienza acquistata grazie ad un lavoro meticoloso. Questo mi ricorda un passo di Aristotele, dove in continuazione di un testo già citato(55) dice: "Di conseguenza, anche se non sono dimostrate, occorre tenere in considerazione le parole e le opinioni delle persone d'esperienza e dei vecchi o dei saggi, non meno delle dimostrazioni. Essi infatti dall'esperienza hanno occhi che permettono loro di vedere correttamente."(56). È un fatto innegabile che nel loro travaglio per trovare delle soluzioni giuste per i casi concreti i giuristi romani hanno percepito il diritto naturale. Citerò qui un passo scritto da Fritz Schulz nel 1936 che ho riportato anche due anni fa. Avendo descritto diversi problemi del diritto privato romano dice: "In tutte queste vicende può essere osservato che gli autori giuridici non sono soddisfatti di descrivere il diritto positivo dei Romani in vigore ai loro tempi, ma che con grande impegno cercano di sviluppare un diritto naturale. Questo è la ragione determinante per il modo così peculiare in cui la scienza giuridica viene presentata; non cerca infatti di provare le regole messe in evidenza, ma le fa derivare direttamente dalla ratio iuris"(57). Non è possibile qui discuterec la questione relativa al significato di ratio iuris in Schulz, ma è evidente che in ultima analisi si rifa al diritto naturale. Per mostrare come il diritto naturale opera nella prassi posso fornire soltanto un esempio da un materiale immenso. Ulpiano riferisce che uno schiavo era stato affrancato nel testamento sotto la condizione di pagare 10 all'erede. In un aggiunta al testamento era stato manomesso senza alcuna condizione. Non sapendo questa novità pagò 10 all'erede. Una volta che l'errore era stato scoperto fu sollevata la questione se poteva pretendere la restituzione di 10. Il padre del famoso P. Giuvenzio Celso negò la possibilità in base ad una interpretazione severa del diritto formale. Quanto alla decisione di Celso figlio Ulpiano dice: sed ipse Celsus naturali aequitate motus putat repeti posse. Aggiunge lo stesso Ulpiano: quae sententia verior est. Qui possiamo intravedere chiaramente che Celso figlio che aveva definito il diritto come ars boni et aequi, la scienza del bene e del giusto(58), non contempla il formalismo dello ius civile, ma si rifa all'equità naturale ciò che significa al diritto naturale decidendo il caso di conseguenza. Questo è il diritto naturale di cui il giurista romano Paulo disse in D. 1, 1, 11 che è sempre aequum ac bonum, equo e buono. Cicerone ha potuto dire: "Pertanto la stessa legge naturale (...) conserva e implica il vantaggio generale dell'umanità". Utilitatem hominum nel testo latino non significa semplicemente "vantaggio" in un senso ristretto o materiale, ma il vero bene del uomo(59). Anche il fondamento dello stesso diritto civile è stato riconosciuto nel diritto naturale, che nel processo di creare diritto civile è stato modificato in casi specifici(60). Queste modificazioni nel formalismo del vecchio e rigoroso ius civile, come nel esempio citato, sono progressivamente stati riconosciuti di essere ingiusti. I giuristi romani hanno cercato di correggere queste ingiustizie ed arrivare a decisioni giuste(61) Questo lavoro dei giuristi romani è stato sviluppato per quasi 500 anni. Il risultato di tutto ciò venne codificato nel 533 dall'imperatore Giustiniano nel suo digesto. Nella costituzione introduttiva al digesto Giustiniano chiama la compilazioneiustitiae Romanae templum(62). Come ho sottolineato già due anni fa esattamente la riscoperta della compilazione nel medioevo ed il suo studio alla scuola delle arti a Bologna in un primo momento ha portato al mutamento della summenzionata scuola nel senso della prima vera università e poi aprì la strada a tutto lo sviluppo della cultura giuridica europea. Su queste basi il codice civile austriaco (ABGB) può affermare nel suo § 16: "Ogni uomo ha dei diritti innati percepibili attraverso la ragione"(63). 37 Perciò la conoscenza del diritto naturale non è soltanto una quastione riguardante delle teorie filosofiche più o meno certe, ma una realtà per la cultura giuridica non solo europea ma di tutto il mondo. Solo su queste basi le dichiarazioni e le convenzioni sui diritti umani possono acquistare un significato sostanziale. CONCLUSIONI Sin dall'antichità il uomo è stato capace di conoscere il diritto naturale. Con questa capacità è stata sviluppata una cultura giuridica che per più di 2000 anni ha forgiato l'Europa avendo una grande importanza per il mondo intero in quanto ha reso possibile cose come la dichiarazine generale dei diritti umani nel 1948 e molt'altro. Il fatto che questa capacità viene messa in discussione continuamente sotto l'influenza di idee scettiche, relativiste, positiviste e scientiste non può avere alcuna influenza sull'esistenza del diritto naturale in quanto tale né può cancellare in linea di principio la capacità della mente umana di conoscerlo. Nonostante tutti questi fatti evidenti uno scienziato moderno era capace di affermare "che non abbiamo mai avuto una conoscenza, ma solo un'illusione di conoscenza del diritto naturale"(64). Ma questo rivela sotto il pretesto del sapere scientifico un'ignoranza totale della realtà dello sviluppo giuridico. Gli argomenti di questo presunto scienziato devono essere ritenuti delle sciocchezze. Ma è una vera tragedia che argomenti di questo genere siano potuti entrare nella teologia morale cattolica.(65) Questo è un esempio tragico nell'ambito dell'affermazione di Thomasius "voluntas praeiudicium facit intellectui", che avevo riportato prima(66). Se l'umanità cerca onestamente di liberarsi da ogni specie di pregiudizio, in particolar modo della volontà e delle teorie scientifiche all'apparenza moderne, allora la capacità di conoscere il diritto naturale le permetterà anche oggi di conoscerlo nella realtà. Posso aggiungere con grande gratitudine che il Papa Giovanni Paolo II nel suo discorso del mercoledì, 27 febbraio 2002, ai partecipanti all'Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita ha incorraggiato "un rinnovato sforzo conoscitivo per tornare a cogliere alle redici, ed in tutto suo spessore, il significato antropologico ed etico della legge naturale e del connesso concetto di diritto naturale"(67). Con riferimento alle "natura della persona umana" il Papa dice: "Questa natura peculiare fonda i diritti di ogni individuo umano, che ha dignità di persona fin dal momento del suo concepimento." Dopo altre affermazioni importante dice il Papa: "La persona umana, con la sua ragione, è capace di riconoscere sia questa dignità profonda ed oggettiva del proprio essere, sia le esigenze etiche che ne derivano. L'uomo può, in altre parole, leggere in sé il valore e le esigenze morali della propria dignità." La "legge morale naturale" è riconoscibile con la "luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio"(68). Come mostra la storia fin dall'antichità, questa "luce dell'intelligenza" era presente anche in quelli che non ancora hanno avuto la luce della rivelazione cristiana. (1) V. Hossenfelder M., Die Philosophie der Antike 3, Stoa, Epikureismus und Skepsis, in: Geschichte der Philosophie, hrsg. von RÖD W., Bd. III, München: C. H. Beck, 1985: 157 e 195 -­‐ 200. (2) Aristot. metaph. 2, 1; 993 b 19 -­‐ 20. (3) V. Waldstein W., Teoria generale del diritto, Dall'antichità ad oggi (STUDIA ET DOCUMENTA, Sectio Iuris Romani et Historiae Iuris -­‐ 6, Direttore G. L. Falchi), Roma: Pontificia Università Lateranense, 2001: 31 -­‐ 38. (4) V. Waldstein, Teoria ... p. 38 -­‐ 45. (5) V. Cic. Tusc. 4, 6; Ulp. D. 1, 1, 1, 1; see Waldstein, Teoria ... 99 -­‐ 100. (6) V. Evangelium vitae 70. 38 (7) V. Fides et ratio 22 -­‐ 35 e 80 -­‐ 90. Si può dire che quest' Enciclica ristabilisce in contrapposizione ad ogni specie di errore moderno nella sua plenitudine la capacità umana di conoscere la verità. (8) V. Cic. rep. 3, 33: ..., sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit, unusque erit communis quasi magister et imperator omnium deus, ille legis huius inventor, disceptator, lator;cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas poenas, ...; 5, 5: summi iuris peritissimus, sine quo iustus esse nemo possit; and leg. 1, 42: est enim unum ius, quo devincta est hominum societas, et quod lex constituit una; ... quam qui ignorat, is est iniustus, sive est illa scripta uspiam sive nusquam. (9) V. Wieacker F., Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, Göttingen: Vandenhoeck & Rupprecht, 21967: 322 -­‐ 347; Klippel D., Legitimation, Kritik und Reform. Naturrecht und Staat in Deutschland im 18. und 19. Jahrhundert. In: Zeitschrift für neuere Rechtsgeschichte 22 (2000) 3 -­‐ 10 con ulteriori riferimenti (10) Fikentscher W., Methoden des Rechts, Tübingen: J. C. B. Mohr, vol. I, 1975: 32. Il testo originale dice: "Einen Angelpunkt allen Rechtsverständnisses in historischer Entwicklung stellt die bei Hume und Kant begründete These dar, aus einem Sein könne kein Sollen folgen. Diese Aussage ist so wichtig, daß man mit Fug die gesamte Entwicklung der Rechtsmethodik in eine vor-­‐kantische Periode und in eine nach-­‐kantische einteilen kann". (11) Messo in rilievo da me. (12) Aristot. eth. Nic. 1, 8; 1098 b 11 -­‐ 12; trad. di Plebe A., Aristotele, Etica Nicomachea, Roma-­‐
Bari: Editori Laterza, 1993: 16. (13) Finnis J. M., Nature and Natural Law in Contemporary Philosophical and Theological Debates: Some Observations, draft-­‐text esp. p. 19 -­‐ 23 con molti ulteriori riferimenti; il testo citato dalla p. 19. In questo vol. p.88-­‐111. (14) V. Buchholz St., Recht, Religion und Ehe, Orientierungswandel und gelehrte Kontroversen im Übergang vom 17. zum 18. Jahrhundert, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, 1988: 36 -­‐ 37. (15) V. Buchholz, Recht ... 159. (16) V. Buchholz, Recht ... 161. (17) V. Buchholz, Recht ... 181 -­‐ 182. (18) V. Buchholz, Recht ... 161. (19) Rhonheimer M., La legge morale naturale: conoscenza naturale e coscienza, testo della sua conferenza p. 2. V. a ciò Waldstein, Teoria ... p. 21 -­‐ 27: "Che cosa è la fallacia naturalistica?" (20) V. Waldstein, Teoria ... p. 118 -­‐ 136 con ulteriori riferimenti. (21) Kelsen H., Reine Rechtslehre, Wien: Franz Deuticke, 21960, Unv. Nachdruck 1967, 9. (22) Reine Rechtslehre 11934, 12. (23) Kelsen H., Recht und Logik, in: Klecatsky H., Marcic R., Schambeck H., Die Wiener rechtstheoretische Schule, Wien et al.: Europa Verlag, Salzburg-­‐München: Universitätsverlag A. Pustet, 1968: vol. 2 p. 1472. (24) Kelsen, Recht ... p. 1474. Il testo originale tedesco dice: "Nun kann man vielleicht zugeben, daß Normen nicht notwendig der Sinn menschlicher Willensakte sein müssen. Keinesfalls kann man aber zugeben, daß es Normen gibt, die nicht der Sinn eines Willensaktes, wenn auch nicht gerade eines menschlichen Willensaktes, sind. Einer Natur, der Normen immanent sind, muß auch ein Wille immanent sein, dessen Sinn diese Normen sind. Woher kann aber ein solcher Wille in die Natur kommen, die, vom Standpunkt empirisch-­‐rationaler Erkenntnis, ein Aggregat von als Ursache und Wirkung miteinander verbundenen Seinstatsachen ist?" (25) Kelsen H., Die Grundlage der Naturrechtslehre, in: Das Naturrecht in der politischen Theorie, Hrsg. Schmölz F.-­‐M., Wien: Springer, 1963: p. 1. 39 (26) Aristot. metaph. 4, 5; 1009 b 38 -­‐ 1010 a 5. English translation by Tredennick H., Aristotle The Metaphysics I -­‐ IX, The Loeb Classical Library, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, London: Heinemann, 1980: 189. (27) V. per esempio Aristot. metaph. 2, 2; 994 b 16 -­‐ 31. Molti altri testi dovrebbero essere aggiunti. (28) Rhonheimer, La legge ... p. 7. In questo vol. p.125-­‐158. (29) Nel mio contributo alla Quarta Assemblea Generale, v. Human Genome, Human Person and the Society of the Future, Proceedings of the Fourth Assembly of the Pontifical Academy for Life, Ed. by Vial Correa J. de D. and Sgreccia E., Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1999: 398. (30) La ampia nota 22, con cui Cancelli nella sua traduzione (Ed. del Centro di Studi Ciceroniani, Firenze 1979, p. 408) esplica questa espressione, rende ciaro, che "ragione" in questo contesto significa infatti "la legge eterna divina (...), fondamento inconcutibile (così) dell'etica" con ulteriori riferimenti. A ciò anche Waldstein, Teoria ... p. 95. (31) Trad. di Cancelli F., v. n. precedente. (32) V. Waldstein, Teoria ... p. 107 con ulteriori riferimenti. (33) Cic. leg. 2, 11 and 2, 16. English translation by Keyes C. W., Cicero De re publica, De legibus, The Loeb Classical Library, London: Heinemann, 1966: 383 e 389. (34) La Costituzione dogmatica sulla rivelazione divina del Vaticano II conferma la definizione del primo Concilio Vaticano che all' articolo 6 recita: "Questo sacro sinodo afferma: »Dio principio e fine di tutte le cose può essere conosciuto con certezza dalla realtà creata grazie alla luce della ragione umana«, ma il sinodo insegna che è attraverso la sua rivelazione »che le verità religiose che sono per la loro natura accessibili alla ragione umana possono essere conosciute da tutti gli uomini con facilità, con solida certezza e senza traccia di errore anche allo stato attuale del genere umano«". (35) Rhonheimer, La legge ... p. 7. In questo vol. p.125-­‐158. (36) Evangelium Vitae, Five Years of Confrontation with the Society. Proceedings of the Sixth Assembly of the Pontifical Academy for Life, Ed. by Vial Correa J. de D. and Sgreccia E., Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2001: 225 -­‐ 230. (37) Waldstein , Teoria ... 31 -­‐ 52. (38) Aristot. eth. Nic. 1, 1; 1094 b 12 -­‐ 13. English translation by Rackham H., Aristotle, The Nicomachean Ethics, The Loeb Classical Library, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, London: Heinemann, 1975: 7. (39) Aristot. eth. Nic. 1, 1; 1094 b 23 -­‐ 25. (40) Aristot. eth. Nic. 1, 7; 1098 b 3 -­‐ 4. (41) Aristot. eth. Nic. 6, 12; 1143 a 35 -­‐ b 5. (42) Aristot. metaph. 4, 3 -­‐ 4; 1005 b 5 -­‐ 1006 a 11. Nella continuazione del testo dice: "Perché è assai impossibile che tutto possa avere una prova, il procedimento andrebbe fino all'infinito di modo che anche così non ci sarebbe una prova. Tutto il testo seguente dovrebbe essere letto anche." (43) Così per esempio Horak F., Rationes decidendi, Entscheidungsbegründungen bei den älteren römischen Juristen bis Labeo I, Aalen: Scientia, 1969: 20. (44) Aristot. an. post. 2, 19; 100 b 12 -­‐ 15. Per dettagli v. Waldstein, Teoria ... p. 132 -­‐ 133 e 199. (45) Kaser M., Zur Methode der römischen Rechtsfindung, Nachr. d. Akad. d. Wiss. Göttingen, Phil.-­‐
hist. Kl. Nr. 2, Göttingen: Vandenhoeck & Rupprecht, 21969: 47 -­‐ 78. (46) Kaser, Zur Methode ... p. 54. Il testo tedesco di difficile traduzione recita: "Fragt man sich nun nach den Wegen, auf denen die Römer in dieser kasuistischen Manier ihr Recht gefunden haben, so wird man entgegen den Erwartungen, die etwa Cicero erwecken könnte, nicht sogleich auf die 40 rationalen Methoden der Induktion oder Deduktion verwiesen. Nach den Eindrücken, die die juristische Überlieferung zuverlässig vermittelt, steht vielmehr im Vordergrund die Intuition, also die Gewinnung der richtigen Entscheidung durch ein unmittelbares Erfassen, das des rationalen Argumentierens nicht bedarf." Per ulteriori dettagli vedi Waldstein, Teoria ... p. 45 -­‐ 52. (47) Aristot. metaph. 4, 3 -­‐ 4; 1005 b 5 -­‐ 1006 a 11. Vedi alla nota 42. (48) Horak, Rationes ... p. 20. (49) Kelsen, Reine Rechtslehre p. 5. (50) Horak, Rationes ... p. 45 -­‐ 64. V. Kaser M., Das römische Privatrecht I, München: C. H. Beck, 21971: 212 nota 17. (51) Kaser, Privatrecht ... p. 212. (52) Kaser, Privatrecht ... p. 3. (53) Ulp. D. 1, 1, 1, 1. (54) V. alla nota 46. (55) V. alla nota 41. (56) Aristot. eth. Nic. 6, 12; 1143 b 11 -­‐ 14. (57) Schulz F., Principles of Roman Law, Oxford: Clarendon, 1936: 35 -­‐ 36. V. anche Evangelium vitae ... (sopra nota 36) p. 229. (58) Ulp. D. 1, 1, 1 pr.: Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. V. Waldstein, Teoria ... p. 17 e specialmente p. 249. (59) V. Cic. off. 3, 31; a ciò Waldstein, Teoria ... p. 88. (60) V. Ulp. D. 1, 1, 6 pr.: Ius civile est, quod neque in totum a naturali vel gentium recedit nec per omnia ei servit: itaque cum aliquid addimus vel detrahimus iuri communi, ius proprium, id est civile efficimus. (61) Il testo Ovidio, Metamorphoses 10, 329 ss., citato dal prof. D'Agostino F. nel suo contributo alla n. 1, potrebbe forse in questa prospettiva essere letto anche in un senso diverso. Ma se significherebbe veramente eludere leggi che in realtà sono buone, non avrebbe a che fare con il concetto romano del diritto naturale. (62) Const. Tanta 20. (63) Per la importanza attuale di questo § v. Klecatsky H., Unvergeßbare Erinnerungen an § 16 ABGB, in: Pro iustitia et scientia, Festgabe zum 80. Geburtstag von K. Kohlegger, hrsg. von Ebert K., Wien: Verlag Österreich, 2001: 275 -­‐ 300. (64) Leinweber A., Gibt es ein Naturrecht? Beiträge zur Grundlagenforschung der Rechtsphilosophie, Hamburg: Cram, de Gruyter & Co., 31972: 285. (65) V. Böckle F., Das Naturrecht im Disput. Drei Vorträge beim Kongreß der deutschsprachigen Moraltheologen 1965 in Bensberg, Düsseldorf: Patmos Verlag, 1966, e la recensione al libro di Messner J., Ethik und Gesellschaft, Aufsätze 1965 -­‐ 1974, Köln: Bachem, 1975: 324 -­‐ 335. (66) Sopra alla nota 15. (67) GIOVANNI PAOLO II, Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II, (27.2.2002), in questo volume alle pp. 11-­‐14. (68) Ibid., con citazione di San Tommaso d'Aquino. 41 SERGIO BELARDINELLI
"NATURA" IN SENSO COSMOLOGICO, BIOLOGICO, ANTROPOLOGICO ED ECOLOGICO La differenziazione del concetto di natura, il fatto che si possa parlare di natura in senso cosmologico, biologico, antropologico ed ecologico vanno ricondotti principalmente allo sviluppo della scienza moderna. Mi sembra tuttavia che oggi, per motivi che cercherò di spiegare, questa differenziazione stia diventando sempre più problematica. Da un lato, infatti, un certo culturalismo esasperato sta letteralmente dissolvendo la natura in cultura, facendo della natura il semplice risultato dei diversi modi di guardarla; dall'altro, soprattutto in ambito strettamente scientifico, stiamo assistendo a una sorta di radicale riconduzione ad unum, secondo un modello che definirei di tipo evoluzionistico-­‐bio-­‐cosmologico, il quale tanto più si avvicina alle cose (dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo, dall'origine dell'universo al mistero della nascita della vita) e tanto più tende a risolvere tutto in una stessa natura, sottoposta alle medesime leggi. Un po' come nelle antiche civiltà arcaiche, tutto sembra fondersi di nuovo con tutto: le stelle, gli alberi, gli animali e -­‐perché no?-­‐ anche l'uomo e il suo mondo socio-­‐
culturale(1). Tutto ciò rende quanto mai urgente una riflessione, la quale sappia ripristinare nella loro specificità e, al tempo stesso, riconciliare quelli che costituiscono, pressoché da sempre, i termini privilegiati del discorso filosofico: la natura e la ragione. Ma non soltanto questi. Accanto e intrecciati con la natura e la ragione ce ne sono infatti anche altri: ad esempio, la fede, la libertà, la storia. Non si può scindere la libertà dalle sue condizioni naturali o storico-­‐sociali; allo stesso modo non si può immaginare un approccio alla natura che non trovi nella ragione, nella libertà, nella storia, quindi anche nella fede (concretamente unite, ma anche irriducibili l'una all'altra e quindi analiticamente separabili) il tramite, attraverso il quale la natura stessa, diciamo così, ci si schiude. Se vogliamo evitare le secche del riduzionismo "culturalista" o di quello "naturalista", non abbiamo scelta: dobbiamo salvaguardare e riconciliare tutti i corni del dilemma(2). Per dirla con le parole del grande poeta Giacomo Leopardi, che vorrei assumere come una sorta di sfondo ideale del discorso che andrò facendo, "la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata"(3). Ma anche la ragione vuol essere illuminata dalla natura; anche la libertà e la fede illuminano e vogliono essere a loro volta illuminate dalla ragione e dalla natura. Nessuno di questi termini -­‐fede, libertà, ragione, natura, storia-­‐, pur avendo ciascuno una sua irriducibile specificità, si trova insomma allo stato "puro". Fatta questa premessa, veniamo al nostro tema. Che cosa pensiamo di preciso quando pensiamo alla natura del cosmo? Come è noto, cosmo è parola che indica il "mondo", una realtà dentro la quale l'uomo si sente inserito, ma anche l' "ordine" che regna su questa realtà. Cosmos, almeno nel mondo greco, è pertanto il contrario del caos; è il risultato dell'opera di un demiurgo che mette ordine in quello che Hoelderlin chiamerebbe "il groviglio originario"(4), un ordine imperscutabile che abbraccia sia il moto degli astri e dei cieli, sia la volontà degli uomini e degli stessi dei. Moira, ananche e tyche, sono i nomi di questo ordine. I grandi poemi omerici, la grande tragedia e la grande filosofia greca non sarebbero quello che sono senza il senso di questo "ordine", di questo "destino" che regna su tutte le cose. Un ordine che si presenta tragico, ma anche come fonte di "armonia" e di giustizia(5), dentro il quale l'uomo si sente inserito e al quale cerca in ultimo di conformare la propria vita, la vita della polis. Per dirla con le parole del Timeo platonico, "si incomincia col parlare dell'origine del mondo per finire alla natura degli uomini"(6); con le parole di Arnold Gehlen si potrebbe anche dire che 42 l'uomo "interpreta il mondo secondo la sua immagine, e viceversa se stesso secondo immagini del mondo"(7). Ma, e ritorno alla domanda da cui sono partito, che cosa pensiamo noi abitanti del XXI secolo quando pensiamo alla natura del cosmo? In primo luogo direi che il cosmo ci fa pensare oggi più al caos che all'ordine. Se Platone pensava che "questo mondo è davvero un essere vivente fornito d'anima e d'intelligenza, creato dalla provvidenza divina"(8); per una parte dominante della nostra cultura non c'è più alcun Dio, quindi alcun principio razionale, all'origine di tutto. C'è piuttosto il caso (si pensi a Monod) oppure il caos. Per usare una nota immagine weberiana, il mondo tende a configurarsi ormai come una "infinità priva di senso"(9). "The more the universe seems comprehensible, the more it also seems pointless": così si esprime il cosmologo Steven Weinberg in un suo famoso libro(10). Che vi sia un nesso di senso tra il moto dei pianeti e la nostra vita di uomini, che entrambi rientrino ad esempio in uno stesso progetto (razionale e d'amore), che Dio nella sua imperscrutabile onnipotenza e onniscienza ha deciso di mettere in opera, è un pensiero che sembra interessare poco perfino noi cristiani. Oggi amiamo molto parlare di solidarietà, giustizia e cose simili, ma la stessa passione non la mettiamo certo nello spiegare ai nostri figli che il mondo, l'universo sono stati creati da Dio ed è Dio che li mantiene nell'essere. Sembra che certi nessi unificanti, capaci di dare un senso "razionale" a tutto ciò che è, interessino ormai (in modo irrazionale!) soltanto l'astrologia e magari certa religione di marca new age. Quanto alla cosmologia, direi che essa conserva certo l'idea di un "ordine" (e non è poco), ma questo ordine viene interpretato, per un verso, in modo talmente "necessario" da far impallidire persino l'antica idea greca di "ananche", e, per un altro verso, come se si trattasse, mi si passi l'espressione, di una "necessità casuale", priva di una qualsiasi ragione. Prendiamo come esempio Stephen Hawking, uno dei più autorevoli e suggestivi cosmologi contemporanei. Convinto che "l'universo non sia arbitrario, ma sia governato da leggi ben precise", questi mira a costruire niente meno che una "teoria quantistica della gravità", capace di mettere insieme teoria della relatività e meccanica quantistica e di offrire così una "teoria unificata completa" in grado di descrivere "ogni cosa dell'universo" e "presumibilmente di determinare anche le nostre azioni"(11). Soprattutto tale teoria dovrebbe dimostrare l'"autosufficienza" dell'universo; vanificare cioè l'idea stessa che l'universo possa avere avuto un principio e che possa avere una fine. Se infatti supponiamo che l'universo abbia avuto un "inizio", noi possiamo sempre supporre, secondo Hawking, che esso abbia avuto un "creatore". Se invece riusciamo a dimostrare che lo spazio e il tempo formano "una superficie chiusa senza confini", allora non c'è più bisogno di Dio. Teoria della relatività e meccanica quantistica diventano sufficienti a spiegare non soltanto l'espansione e la contrazione dell'universo, ma anche la "formazione di galassie, di stelle, e infine persino di creature insignificanti come noi stessi"(12). Senza nulla togliere al fascino che indubbiamente suscita l'idea di una "teoria quantistica della gravità", colpisce invero la pretesa che con essa si possa finalmente dimostrare scientificamente l'inesistenza di Dio. Anche posto, infatti, che il nostro universo faccia parte di una catena infinita di universi che si espandono e si contraggono, che nascono e muoiono, non mi sembra che il senso vertiginoso di questa infinità spazio-­‐temporale sia da confondere col senso in cui diciamo la "trascendenza" di Dio, il suo essere infinitamente, anzi, assolutamente, "altro" rispetto alla sempre più manifesta contingenza dell'universo o degli universi. In altre parole, l'idea di Hawking di vanificare quello che potremmo definire il problema dell'inizio non è detto che sia poi tanto ostile, come egli crede, all'idea di Dio. Semmai, stando almeno ai continui spostamenti all'indietro cui ci costringono i cosmologi e i teorici dell'evoluzione -­‐siamo ormai arrivati a collocare l'inizio a quindici miliardi di anni fa-­‐, colpisce che una tale idea venga ancora presa tanto sul serio. In fondo Tommaso D'Aquino ci aveva già messi in guardia: "che il mondo abbia avuto inizio è 43 oggetto di fede, ma non oggetto di dimostrazione o di scienza"(13). E come più tardi puntualizzerà Agostino(14), la creazione di Dio riguarda non soltanto il mondo, ma anche il tempo. Vano è dunque cercare l'inizio della creazione "nel" tempo, rallegrandosi magari all'idea delBig Bang, interpretata come una sorta di conferma scientifica dell'intervento divino. Ma altrettanto vano è supporre che l'eventuale "chiusura" dell'orizzonte spazio-­‐temporale possa liquidare l'idea stessa di creazione. "In principio era il Verbo": ecco quello che il Cardinale Ratzinger definisce il "resoconto della creazione" alla luce di una "forza portatrice di senso"(15). In fondo si potrebbe anche dire che ciò che la fede vuole soprattutto indicare tramite l'idea di creazione, non è tanto l'"inizio" del mondo, quanto la sua "bontà", la sua sensatezza e l'assoluta onnipotenza del suo Creatore. Ritornando alla teoria di Hawking, per certi versi essa sembra rappresentare una sorta di radicalizzazione dell'"ordine" che regnava nel cosmo greco. Ma ciò di cui precisamente non c'è più traccia è l'idea che questo ordine possa essere considerato una cosa "buona", nel senso in cui ne parla, non soltanto il libro della Genesi, ma anche il Timeo platonico; l'idea cioè che il telos, la conformità a uno scopo, a una legge, possa rappresentare un fondamento razionale per l'esistenza del cosmo stesso. Ci troviamo di fronte a un "ordine" che non ha ragione, non ha senso. "L'universo -­‐scrive Hawking-­‐ dev'essere cominciato esattamente col minimo di disuniformità consentito dal principio di indeterminazione"(16). In questo modo la "teleologia" che regnava sul cosmo greco tende a diventare "teleonomia", quasi che, come direbbe Aristotele, la conformità a uno scopo di tutto ciò che è si sia prodotta "per caso"(17). Questa tendenza "teleonomica" mi sembra ancora più marcata se guardiamo al modo in cui viene considerata la natura in senso biologico. Il celebre libro di Monod, Il caso e la necessità, ne è la prova più lampante. Con la parola "teleonomia" Monod esprime "una delle proprietà fondamentali (l'altra è "l'invarianza riproduttiva") caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni"(18). Ma riguardo al "progetto" di una data specie, poniamo l'uomo, o della vita in generale, per Monod si tratta semplicemente di "un numero uscito alla roulette"(19). Come si può vedere siamo di fronte a una conformità a un progetto che però, fatta salva l'autoconservazione, non ha a sua volta un fine. Dello stesso parere sembra essere un altro "Premio Nobel", l'italiano Renato Dulbecco. "La vita -­‐
egli dice-­‐ è l'attuazione di istruzioni codificate nei geni"(20); di qui "il progetto della vita". Ma guai a parlare di un progetto che è tale perché in quel modo è stato progettato. Ciò potrebbe condurre infatti all'idea di un "creatore" e la cosa sarebbe quanto meno disdicevole, visto che "il creazionismo può essere sostenuto solo se si accettano molte assurdità"(21). C'è solo un modello dentro il quale il "progetto della vita" può trovare la sua spiegazione adeguata: quello evoluzionistico. Se qualche dubbio può sorgere in proposito, ciò è da imputare, secondo Dulbecco, al fatto che "i modelli attuali per l'evoluzione sono approssimati". Ma "chiunque sappia che cosa è un processo scientifico, dà per scontato che questa approssimazione non invalida il concetto base dell'evoluzione. Nella scienza, nessuna teoria è mai definitiva, ma continua a evolversi a mano a mano, che nuovi dati si rendono disponibili e nuovi perfezionamenti sono possibili"(22). Già. Ma un epistemologo come Thomas Kuhn direbbe, ad esempio, che sono i cambiamenti di "paradigma", non i "perfezionamenti" di una medesima teoria, che portano avanti la conoscenza scientifica. A insistere troppo su una medesima teoria c'è infatti il rischio di fare un po' come Tolomeo con la sua cosmologia geocentrica, che, come è noto, ad ogni scoperta di un nuovo astro, si limitava ad aggiungere un cielo. La cosa andò avanti per un certo periodo di tempo, finché finalmente qualcuno disse: "è la teoria generale che non va; la terra non è il centro dell'universo". 44 E si cambiò strada. Qualcosa del genere sta avvenendo, avverrà sicuramente anche per la teoria evoluzionistica, almeno per quanto riguarda certe sue pretese riduzionistiche(23). A questo proposito vorrei presentare molto schematicamente la critica che del funzionalismo evoluzionistico è stata data da un biologo del secolo XX, il quale cercava in ultimo di combinare evoluzionismo e creazionismo: Adolf Portmann (1897-­‐1982). In uno dei suoi libri più affascinanti, intitolato Aufbruch der Lebensforschung (1965), tradotto in italiano col titolo Le forme viventi, egli scrive: "Per vistose che siano presso certi esseri viventi le strutture che servono alla conservazione della vita, esse sono sempre parti di un tutto, che non può venir inteso come somma di queste strutture e delle loro funzioni"(24). La forma, le innumerevoli forme dei viventi, il loro essere fatti per apparire alla luce, secondo Portmann, non possono essere ricondotti a semplici ragioni funzionali di utilità o di vantaggio selettivo. Il senso delle innumerevoli forme di vita "non è in primo e più alto luogo la conservazione individuale e della specie, come si legge in certe definizioni della vita, ma l'autopresentazione, l'apparire alla luce"(25). Finora la biologia, questa la tesi di Portmann, ha trascurato i caratteri vitali che non si lasciano ricondurre immediatamente all'autoconservazione della specie o al metabolismo dell'individuo; ha guardato alla vita e agli esseri viventi facendosi guidare "troppo esclusivamente da premesse metodologiche e non dalla natura dell'oggetto"(26); ma converrà che essa "ponga rimedio a questa trascuranza per far prevalere un'idea più comprensiva del vivente"(27), "evitando di tirare in ballo il caso ogni volta che un certo dato di fatto ci appare incomprensibile"(28). Da questa biologia delle forme esce un'immagine della natura che certamente è molto più ricca di quanto l'evoluzionismo funzionalista vorrebbe far credere. I colori dei fiori o delle farfalle, le loro forme non sono riconducibili in toto alla loro funzione evolutiva; hanno una sorta di valore in sé; rispondono a un impulso speciale, l'autopresentazione; fanno della natura e del mondo una realtà bella. Ecco un punto che nel nostro contesto mi sembra piuttosto importante. La natura che esce da una considerazione rigorosamente evoluzionista è infatti una pura materia, una sorta di natura naturans priva di scopo, al limite, un gigantesco processo, una lotta per l'autoconservazione, dove in realtà domina lamors immortalis di cui parlava Lucrezio; gli esseri viventi non sono altro che macchine costituite di atomi. Mi sembra dunque di grande significato che nell'ambito della biologia si faccia posto anche alla bellezza della natura; una bellezza che non appare semplicemente come effetto accidentale di una funzione evolutiva, ma come caratteristica della natura in quanto tale. Non siamo ancora al "buono", ma non è di poco conto il fatto che si riscopra quanto meno il "bello". Una concezione riduttivistica di tipo biologico-­‐funzionale a sfondo evoluzionista sembra dominare anche l'idea che la nostra epoca si va facendo della natura umana e conseguentemente della società. A questo proposito trovo piuttosto significative le cosiddette posizioni "sistemiche", alla Humberto Maturana o alla Niklas Luhmann, per intenderci. "Che cosa sono gli esseri viventi?" -­‐domanda Maturana. Ecco la risposta: " Gli esseri viventi, uomini compresi, sono sistemi strutturalmente determinati"(29); "sistemi autopoietici", ossia sistemi alla "continua riproduzione di se stessi attraverso la continua riproduzione e il continuo scambio dei propri elementi costitutivi"(30); sistemi chiusi l'uno rispetto all'altro, i quali si costituiscono esclusivamente rispetto ad un "ambiente". In questa prospettiva tutto diventa descrivibile come un sistema: dal batterio, all'uomo, alla società. In ultimo si tratta sempre e soltanto di un "sistema" che, in virtù di un particolare "medium" (ad esempio, il DNA per un organismo, il linguaggio per l'uomo e per la società) si costituisce rispetto al proprio "ambiente", in vista di una ben precisa istanza funzionale. In una società differenziata come la nostra -­‐questa, ad esempio, la tesi di Luhmann-­‐ i diversi sistemi sociali (la scienza, la tecnica, la politica o l'economia) funzionano ormai ciascuno secondo un proprio codice funzionale che li rende sistemi 45 chiusi l'uno rispetto all'altro -­‐"sistemi autopoietici", appunto-­‐, all'interno dei quali l'uomo non è altro se non un "destinatario del processo di comunicazione"(31). L'uomo è ciò che rende possibile il gioco comunicativo in cui consistono i diversi sistemi sociali, ma ciò che qualifica questi ultimi è soltanto il loro codice funzionale, il loro modo di selezionare le informazioni provenienti dall'"ambiente" e di costituirsi in questo modo come un sistema particolare. Il sistema politico non è altro che il risultato di una selezione della complessità ambientale secondo il codice della politica; il sistema religioso non è altro che il risultato di una selezione della complessità ambientale secondo il codice della religione, e via di seguito. L'uomo, in quanto "polo della comunicazione", è necessario al costituirsi di tutti i diversi sistemi sociali, ma, in quanto uomo, non appartiene a nessuno di essi; appartiene piuttosto al loro "ambiente". Di conseguenza non c'è nulla di più obsoleto che cercare di far valere all'interno di un qualsiasi sistema sociale determinate istanze "umane". Di fronte ai problemi sollevati, poniamo, dalle cosiddette tecnologie della riproduzione, il monito di Luhmann è, non a caso, quello di "far lavorare in pace chi è molto occupato", ossia gli scienziati, senza "disturbarli" con discorsi sull'uomo, la sua natura o la sua dignità, i quali, nella migliore delle ipotesi, appartengono a un altro "sistema" (l'etica) e sono quindi tra loro incommensurabili(32). Per farla breve, "l'uomo non è più il metro di misura della società"(33). In quanto uomo, egli è a sua volta un "sistema", un "sistema psichico", funzionante e chiuso come tutti gli altri sistemi e il cui "ambiente" è rappresentato dalla società. Se ho fatto questi brevi riferimenti al riduzionismo "sistemico" è perché, per alcuni versi, lo ritengo uno degli esiti più sofisticati e radicali del nichilismo contemporaneo, dove uomo e società non hanno altra "misura" se non quella della loro evoluzione biologico-­‐sociale. In ultimo si tratta sempre e soltanto di reagire "autopoieticamente" a una determinata "complessità ambientale"; per l'uomo e per la società, al pari di una cellula, il problema principale è l'autoconservazione in quanto "sistemi". Niente di strano, dunque, se oggi la cosiddetta "biosociologia" incontra tanto successo. Su questa strada ci si è spinti in effetti molto avanti. Non ci si limita più a concepire la società in analogia con un organismo vivente, secondo l'organicismo aristotelico o quello di Durkheim, tanto per fare qualche esempio; la società stessa, le forme socio-­‐culturali vengono interpretate come esito ultimo di un processo di evoluzione biologica, dove il "gene" è stato affiancato da un motore evolutivo di tipo socio-­‐culturale: il "meme". Come scrive ad esempio Freeman Dyson, "Quasi tutti i fenomeni dell'evoluzione genetica e della speciazione hanno i loro analoghi nella storia della cultura con il meme che assume la funzione del gene. Il meme è un'unità di comportamento che si autoreplica come il gene. Il meme e il gene sono parimenti egoisti"(34). Tuttavia i "duplicatori genetici" sono soltanto una componente dell'evoluzione; l'altra è rappresentata dall' "omeostasi", ossia dalla capacità di reagire e adattarsi alla complessità. La storia della vita diventa da questo punto di vista, sono sempre parole di Dyson, "un contrappunto musicale, un'invenzione di due parti con due voci, la voce dei duplicatori che tentano di imporre i loro scopi egoistici all'intero sistema, e la voce dell'omeostasi che tende a massimizzare la diversità delle strutture e la versatilità delle funzioni"(35). Tutto ciò mitigava ieri la "tirannia dei geni", durata tre miliardi di anni, e mitiga oggi quella dei "memi", affermatasi negli ultimi centomila anni, grazie all'homo sapiens e al suo linguaggio simbolico. Come dice Dyson, "i nostri modelli di comportamento sono ora in gran parte prodotti culturalmente, anziché essere determinati geneticamente"(36). La cultura non è altro che l'ultimo stadio, lo stadio più elevato dell'evoluzione biologica. Questo schema biologico-­‐funzionalista, entro il quale possono stare posizioni variamente articolate, ma accomunate dalla tendenza a risolvere in "natura" la dimensione culturale dell'uomo, non esaurisce comunque lo scenario del nichilismo contemporaneo. Esiste infatti anche uno schema opposto, che definirei radical-­‐culturalista, tendente invece a dissolvere il 46 discorso sulla "natura" in un discorso sulla "cultura". La natura è una "categoria sociale" diceva il filosofo marxista Gyorgy Lukacs (1885-­‐1971); più che i naturali bisogni dell'uomo conta il modo con cui egli li soddisfa. Il discorso sulla natura dell'uomo, quindi sul rapporto tra natura e cultura, ha rappresentato da sempre un problema per la filosofia. In fondo anche la teleologia greca trovava nell'uomo, non soltanto l'essere più perfetto, perché dotato di ragione, ma anche una sorta di zona d'ombra. A differenza di una ghianda, il cui telos la determina a diventare una quercia, l'uomo sembra infatti non avere un telos altrettanto ben definito; stando a Platone e Aristotele, esso dovrebbe diventare un buon cittadino della polis oppure un buon filosofo, ma esiste pur sempre la consapevolezza, come avvertiva Aristotele (37), di avere a che fare con un essere che sta a mezza strada tra la divinità e le bestie. In ogni caso, anziché prendere lo spunto da questa ambivalenza per cercare di capire qualcosa di più del telos dell'uomo, gran parte della filosofia moderna, come sappiamo, ha finito per accantonarne l'idea. La natura dell'uomo consiste in ultimo nella sua gratuita libertà, alla quale si possono certo porre dei "limiti", ma non certo perché questi siano da ritenersi conformi alla "natura umana", bensì semplicemente perché ci piace, ci è utile, ci troviamo d'accordo a farlo. So di semplificare oltremodo un problema letteralmente immenso; mi sembra tuttavia che le odierne discussioni in materia di bioetica riflettano bene questo atteggiamento. L'idea che nella natura possa essere reperibile una qualche "normatività" viene rifiutata a priori come "mito" o come "bioteologia"(38); per usare un'espressione di Juergen Habermas, la nostra ragione "riconosce ormai soltanto quei limiti che sono accettati dalla volontà degli interlocutori"(39). Eppure proprio le sfide della bioetica stanno rimettendo in circolazione discorsi sull'uomo meno prometeici, meno culturalisti; discorsi che effettivamente ripropongono il tema di una natura, la quale, per il fatto di esprimersi in termini di libertà, quindi di cultura, non per questo cessa di essere "natura", quindi "limite", ma anche "fine", "telos", il cui rispetto soltanto, come direbbe Robert Spaemann, può consentire all'uomo di essere ciò che egli è "per natura"(40). A questo proposito mi sembra che qualcosa si stia movendo sia in campo sociologico, sia in campo filosofico. L'interesse per la cosiddetta "sociologia relazionale"(41), la riproposizione di un'idea di "vita buona" che ritroviamo in autori come Amartya Sen o Martha Nussbaum (42), oppure il rinnovato interesse per l'idea di "seconda natura" da parte di un autore come John McDowell(43) sono esempi che potrebbero anche indicare una possibile svolta. In fondo si tratta pur sempre di ristabilire una differenza, quella tra natura e cultura, in modo tale che, anziché opposizione o soltanto opposizione, possa esserci armonia. Con le parole di McDowell, potremmo dire che si tratta di distinguere tra "il movimento dei pianeti o il volo di un passero", espressioni della "natura", e noi stessi, un'opera d'arte o un'azione umana, espressioni della "seconda natura"(44). "Dobbiamo riappropriarci dell'idea aristotelica che un normale essere umano adulto è un animale razionale, ma senza abbandonare l'idea kantiana dell'operare libero della razionalità nella propria sfera"(45). E ancora: "Siamo alla ricerca di una concezione della nostra natura che includa la capacità di entrare in sintonia con la struttura dello spazio delle ragioni. Dal momento che ci opponiamo al crudo naturalismo, dobbiamo ampliare il concetto di natura al di là di quanto sanzionato dal naturalismo del regno della legge. Ma questa espansione è limitata dalla prima natura, per così dire, degli animali umani, e dall'evidenza dei fatti su ciò che accade agli animali umani durante la loro crescita"(46). Di qui laBildung, la "seconda natura", come il luogo privilegiato in cui l'uomo, secondo MacDowell, può veramente venire a capo della sua propria "natura". Non nego che, leggendo questo autore, qualche volta ho la sensazione che la "seconda natura" venga interpretata troppo liberamente, quasi che i "limiti" della "prima", che pure vengono 47 riconosciuti, alla fin fine siano spostabili ad libitum, e quindi tolti in quanto "limiti". Ciò ha forse a che fare con la preferenza da parte di McDowell per la "ragione kantiana". In ogni caso la sua riproposizione dell'idea aristotelica dell'uomo come "un animale il cui essere naturale è permeato di razionalità" mi sembra significativa. Occorre forse rafforzare la convinzione che "la seconda natura non galleggia indipendente dalle potenzialità che appartengono al normale organismo umano"(47). Se a questo riusciamo poi ad aggiungere che la condizione, affinché una persona venga rispettata come soggetto libero, è quella di "sacralizzare", come dice Robert Spaemann, la sfera nella quale essa appare, ossia la sua esistenza come essere naturale vivente(48), ecco che allora ci avviciniamo a una definizione ancora più adeguata della natura umana. "Ogni uomo è un pensiero di Dio", ha scritto il Cardinale Ratzinger(49). Qualcuno ha affermato di recente che "la natura umana, un tempo principio guida dell'attività umana, ora ne è diventata il progetto"(50). L'affermazione mi sembra illuminante riguardo a una posizione teorica oggi assai diffusa, ma proprio per questo il compito che abbiamo davanti è quello di tematizzare o ritematizzare il mix di "datità" e "progetto" in cui consiste la natura umana. Con linguaggio heideggeriano, si potrebbe dire che la natura dell'uomo non è come quella di un sasso, di un albero o di un uccello; è una natura che implica la realizzazione di sé, della propria esistenza, della propria libertà e dignità. Riflettendo su se stesso, l'uomo si rende conto non soltanto di essere qualcuno, unico e irripetibile, ma anche di dover essere, di dover assumere cioè la propria esistenza come un compito da realizzare. "Diventa ciò che sei", direbbe Giovanni Paolo II. Riguardo al concetto di natura in senso ecologico, vorrei prendere le mosse da un'affermazione di Vittorio Hoesle: "L'ecologia è, letteralmente, la dottrina della casa; tra le varie dimore materiali, concrete, nelle quali l'uomo vive, essa prende in considerazione la più grande, la nostra Terra, che costituisce oggi un'inscindibile unità di elementi naturali e culturali"(51). Se dunque oggi si parla molto di crisi ecologica, vuol dire che siamo di fronte a una crisi che interessa allo stesso modo sia la natura che la cultura e che pertanto va affrontata su entrambi i fronti. Non a caso lo stesso Hoesle scrive che "una filosofia della natura volta a coniugare l'autonomia dello spirito e l'assoluta dignità della natura mi sembra una delle istanze fondamentali del nostro tempo"(52). Pur senza condividere l'ispirazione di fondo del discorso di Hoesle, la sua riproposizione, per certi versi anche affascinante, dell'idealismo oggettivo, mi sembra di poter dire che egli imposti bene la nostra questione fondamentale. La moderna scienza della natura poggia in ultimo su una contrapposizione dualistica: quella tra uomo e natura, tra res cogitans e res extens, come direbbe Cartesio. Ciò ha indubbiamente facilitato il dominio tecnico sulla natura che abbiamo conosciuto dai secoli moderni fino a oggi. L'odierna "crisi ecologica" ci obbliga tuttavia a rivedere il nostro armamentario concettuale. Chi più chi meno, tutti ci rendiamo ormai conto che la nostra cultura non può continuare a considerare la natura un puro oggetto di dominio senza che questo dominio si rivolga in ultimo contro la stessa cultura, distruggendo entrambe. Parlare di natura in senso ecologico ci obbliga quindi a parlare di "ecosistema" e questo potrebbe aiutarci, tra l'altro, a tematizzare l'essere umano (dall'inizio alla fine) non soltanto nel sistema delle "relazioni sociali", e quindi dei valori culturali, ma anche in riferimento alla sua naturalità. L'ecosistema è qualcosa che riconduce l'uomo a un ambiente (naturale e culturale) che non dipende da lui, sul quale egli influisce, ma ne è anche influenzato, rappresentando in un certo senso la condizione e quindi il condizionamento della sua vita e della sua libertà. Come emerge in modo assai significativo nell'opera di Hans Jonas (53), la riflessione ecologica ripropone oggi in forma eclatante il senso della natura come "limite" della nostra libertà; un limite che ha in sé una dignità che non va calpestata. Hegelianamente potremmo dire che la cosiddetta "natura esterna" è certamente una natura "per noi", qualcosa di cui possiamo disporre per i nostri scopi; ma è anche "natura in sé", ossia qualcosa, il cui telos non si esaurisce 48 nell'essere a nostra disposizione e che quindi, proprio per questo, chiede anche di essere rispettato. La riappropriazione dell'idea di una "natura umana" come "fine in sé", ossia come qualcosa di assolutamente indisponibile, più o meno nel senso in cui Kant diceva che occorre considerare l'uomo sempre come "fine" e mai come "mezzo", passa indubbiamente attraverso l'estensione di certi margini di non disponibilità anche alla "natura esterna". Recentemente questo senso del "limite" incomincia ad essere avvertito anche all'interno della cosiddetta "teoria dell'agire comunicativo" di Juergen Habermas, il quale si sta cimentando sempre più spesso con tematiche bioetiche e di filosofia della natura(54). Come ha però indicato Spaemann già qualche anno addietro(55), è proprio la riflessione ecologica a mostrare le insormontabili difficoltà del paradigma comunicativo. Mai come oggi, di fronte alle sfide drammatiche che ci vengono poste dalla crisi ecologica, è stato tanto evidente come il criterio della verità delle nostre risposte dipenda dai fatti più che dai discorsi. 5. Un'ultima considerazione. Poiché le riflessioni fin qui sviluppate cercano in fondo di condividere la sollecitudine della Chiesa per l'uomo, mi sembra che una maggiore consapevolezza circa il posto che l'uomo occupa nel cosmo(56) si riveli oggi di fondamentale importanza proprio per l'uomo stesso. E' molto più utile, intendo più utile per l'uomo, per la sua dignità e libertà, che si riesca a riabilitare a questo livello il senso più profondo dell'antica "filosofia prima", che insistere tanto su "filosofie seconde", le quali, per quanto animate da buoni propositi, si rivelano spesso astratte e lontane proprio da quell'uomo che vorrebbero servire. Ma non sarà un'impresa facile. In questi ultimi anni, contrassegnati sul piano filosofico non a caso dalla cosiddetta "riabilitazione della filosofia pratica" -­‐"filosofia seconda", appunto-­‐, abbiamo pensato erroneamente che i discorsi sui valori, sulla morale o sull'etica potessero essere condotti guardando esclusivamente all'autonomia e alla libertà degli individui, come se la "natura umana" non esistesse o fosse in ultimo riducibile a libertà e autonomia. Nel frattempo, soprattutto sul piano delle scienze biologiche, si è andata sviluppando una concezione opposta, tendente a ridurre tutto l'umano, quindi anche l'intelligenza e la libertà, a formule biologiche. Ebbene trovo assai preoccupante e insieme curioso che, sul piano normativo, queste due opposte tendenze siano finite col produrre uno stesso esito: la mancanza di un valido criterio in grado di giustificare veramente il valore incondizionato, assoluto, della persona umana. Ritornando, per concludere, al discorso che abbozzavo all'inizio, si potrebbe dire che queste tendenze stanno ad indicare il fallimento di una ragione e di una natura che non sono più in grado di "illuminarsi" reciprocamente. Se poi aggiungiamo che siamo entrati ormai in una fase in cui anche il peso normativo delle consuetudini sociali ha preso a vacillare, ecco che lo scenario si presenta in tutta la sua inquietante problematicità. Non c'è più alcun limite; e nel frattempo continuiamo ad accrescere a tutti i livelli un potere, la cui unica "misura" sembra essere soltanto se stesso e i propri automatismi. Astrattamente separate l'una dall'altra, natura e ragione perdono il loro carattere normativo e rischiano di diventare semplicemente l'ambiente di "sistemi sociali" che operano indiscriminatamente (senza limiti) alle spalle e sulla testa degli uomini. E' per colpa di questa astratta separazione che oscilliamo tra la Scilla che ci impedisce di distinguere tra la natura dell'uomo, quella di un animale e quella di una pianta, quindi di conferire a ciascuna forma di natura il suo grado di dignità, e la Cariddi che ci impedisce di comprendere in che senso uomini, piante e animali partecipano di una medesima natura. Sia chiaro comunque che soltanto al di fuori di questa astratta separazione può avere senso parlare di "Natura" in senso cosmologico, biologico, antropologico ed ecologico. 49 (1) Significativa in proposito la posizione del fisico Freeman Dyson. Cfr. DYSON F., Infinito in ogni direzione. Le origini della vita, la scienzae il futuro dell'umanità, Milano: Rizzoli, 1988. (2) Un atteggiamento analogo mi sembra che si possa assumere anche nei riguardi del rapporto tra naturale e soprannaturale. Cfr. SCOLA A., "Naturale" e "Soprannaturale": per una visione integrata, in questo stesso volume. (3) LEOPARDI G., Zibaldone, n. 2, in LEOPARDI, Tutte le Opere, vol. II, Firenze: Sansoni, 1969: 15. (4) HOELDERLIN F., Der Rhein, in HOELDERLIN F., Poesie, Milano: Mondadori, 1971: 205. (5) Per quanto riguarda la tragicità di questo ordine, si pensi al celebre frammento di Anassimandro, dove la vita è vista come una "caduta" da pagare con la morte, grazie alla quale si torna "colà donde si è venuti", ripristinando così l'ordine. Per quanto riguarda l'ordine cosmico come armonia e giustizia, e quindi come misura dell'ordine umano, si pensi al frammento di Eraclito: "il sole non oltrepasserà le sue misure; altrimenti le erinni ministre della giustizia, lo costringeranno a rispettarlo". (6) PLATONE, Timeo, IV, 26/27. (7) GEHLEN A., L'uomo nell'era della tecnica, Milano: Sugar, 1967: 25. (8) PLATONE, Timeo, VI, 30. (9) WEBER M., L'"oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in WEBER M., Il metodo delle scienze storico-­‐sociali, Torino: Einaudi, 1958: 96. (10) WEINBERG S., The first three Minutes, New York: Basic Books, 1977: 154. (11) HAWKING S., Dal Big Bang ai buchi neri, Milano: Rizzoli, 1988: 25-­‐26. (12) Ibid., 165 (13) TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 46, a.2. (14) AGOSTINO, Confessioni, in Opere di Sant'Agostino, Roma: Città nuova, 1965: 381. (15) RATZINGER J., Dio e il Mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, Torino: San Paolo, 2001: 101. (16) HAWKING, Dal Big Bang...., 165. (17) Cfr. ARISTOTELE, Fisica, II, 198 b. (18) MONOD J, Il caso e la necessità, Milano: Mondadori, 1974: 22. (19) Ibid., 141. (20) DULBECCO R., Il progetto della vita, Milano: Mondadori, 1989: 30. (21) Ibid., 502. (22) Ibid. (23) A questo proposito trovo molto importante la critica dell'evoluzionismo elaborata sul piano filosofico come ripresa dell'antica idea teleologica da Robert Spaemann e Reinhard Loew. Cfr. SPAEMANN R, LOEW R., Die Frage Wozu. Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, Muenchen: Piper, 1981. (24) PORTMANN A., Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Milano: Adelphi, 1969: 39. (25) Ibid., 52. (26) Ibid., 37. (27) Ibid., 73. (28) Ibid., 71. (29) MATURANA H. Biologie der Sozialitaet, in SCHMIDT S.J., Der Diskurs der radikalen Konstruktivismus, Frankfurt: Suhrkamp, 1987: 288. (30) Ibid., 289. (31) LUHMANN N., Ethik als Reflexionstheorie der Moral, in LUHMANN, Gesellschaftsstruktur und Semantik, vol. III, Frankfurt: Suhrkamp, 1989: 367. 50 (32) Cfr. LUHMANN N., E' lecito tutto ciò che è possibile, in "Bollettino dell'Università degli Studi di Bologna", 1993, 2: 5-­‐7. Ho approfondito questi aspetti del pensiero di Niklas Luhmann in BELARDINELLI S., Una sociologia senza qualità. Saggi su Luhmann, Milano: Angeli, 1993. (33) LUHMANN N., Sistemi sociali, Bologna: Il Mulino, 1990: 354. (34)DYSON, Infinito in ..., 92. (35) Ibid. (36) Ibid., 91. (37) Cfr. ARISTOTELE, Politica, I, 2. (38) E' quanto fa ad esempio G. E. Rusconi; cfr. RUSCONI G.E., Come se Dio non ci fosse, Torino: Einaudi, 2000. (39) Come è noto, è questo uno dei presupposti più importanti della cosiddetta "etica del discorso", della quale Habermas è uno dei principali ispiratori. Per una critica di questa teoria etica rinvio a BELARDINELLI S., Il progetto incompiuto. Agire comunicativo e complessità sociale, Milano: Angeli, 1996. (40) Cfr. SPAEMANN, LOEW, Die Frage..., 287. (41) Cfr. DONATI P., Teoria relazionale della società, Milano: Angeli, 1991. (42) SEN A., La disuguaglianza. Un riesame critico, Bologna: Il Mulino, 1994; NUSSBAUM M. C., Human Capabilities, Female Human Beings, in NUSSBAUM M. C., GLOVER S. (a cura di), Women, Culture, and Development: A Study of Human Capabilities, Oxford: Clarendon, 1995: 61-­‐104. (43) Cfr. McDOWELL J., Mente e mondo, Torino: Einaudi, 1999. (44) Cfr. Ibid., 71-­‐92. (45) Ibid., 91. (46) Ibid., 118-­‐119. (47) Ibid., 91. (48) SPAEMANN R., Il significato del naturale nel diritto, in SPAEMANN R., Per la critica dell'utopia politica, Milano: Angeli, 1994: 196. (49) RATZINGER, Dio e Mondo..., 67. (50) Si tratta di David Roy, Direttore del "Centre de Bioétique" in Canada. Cfr. Fondazione Lanza, Vent'anni di bioetica. Idee Protagonisti Istituzioni, Padova: 1991: 101. (51) HOESLE V., Filosofia della crisi ecologica, Torino: Einaudi, 1992: 11. (52) Ibid., 10. (53) Cfr. JONAS H., Il Principio responsabilità, Torino: Einaudi, 1990; ID., Materie, Geist und Schoepfung, Frankfurt: Suhrkamp, 1988. (54) Interessante a questo proposito il testo dell'intervento presentato da Habermas nei gg. 25 ottobre e 1 novembre 2001 alle "New York University Law School", dal titolo On the way to liberal eugenics? The dispute over the ethical self-­‐understanding of the species. (55) Cfr. SPAEMANN R., Ende der Modernitaet?, in KOSLOWSKI P., SPAEMANN R., LOEW R. (a cura di), Moderne oder Postmoderne?, Weinheim: Acta humaniora, 1986: 38. (56) A questo proposito mi permetto di rinviare a due titoli ormai classici: Die Stellung des Menschen im Kosmos di Max Scheler e Der Mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt di Arnold Gehlen. 51 JOHN FINNIS
NATURA E LEGGE NATURALE NEL DIBATTITO FILOSOFICO E TEOLOGICO CONTEMPORANEO: ALCUNE OSSERVAZIONI Per gran parte del pensiero moderno "natura" significa qualcosa che accade che accada [corsivo mio, n.d.t.], qualunque sia lo schema di ricorrenza con cui avviene che ciò esista in un certo momento o periodo; "legge naturale", analogamente, significa "legge di natura", ossia schema di ricorrenza, o tendenza comune, concepita precisamente come un modello o uno schema descrivibili attraverso proposizioni che hanno caratteristiche di generalità e di predittività simili alla legge. Dunque, la "legge naturale" viene intesa in connessione con la decisione in due sensi: nel senso che la comprensione delle tendenze naturali facilita l'individuazione di mezzi efficaci per gli obiettivi a breve e lungo termine, e nel senso che il pensiero, che seguendo le proprie inclinazioni -­‐ fare ciò che ci si sente di fare -­‐ "fà ciò che viene naturalmente", funge da giustificazione, da razionalizzazione o da rifugio per il criticismo morale. Pertanto, quando Platone, Aristotele, i giuristi romani e San Paolo ai cristiani di Roma parlano di ciò che è o non è "secondo natura (kata/para physin)" o "secondo la legge naturale/diritto (jus naturale)" il loro linguaggio suona a molti contemporanei discutibile, fallace o semplicemente remoto e quasi settario. Ma questo stato di cose (di cultura) non è senza precedenti. I sofisti greci ebbero la tendenza ad usare i termini "legge naturale o diritto" e "secondo natura" più o meno come i moderni che ho descritto, o usarono questi concetti per razionalizzare -­‐ uso sempre questo termine intendendo "far sembrare razionale ciò che è motivato dal sub-­‐razionale" -­‐ l'esercizio del mero potere "del forte sul debole". Di contro a tali sofisti, Platone prese la decisione epocale di impadronirsi o re-­‐
impadronirsi dei medesimi termini per criticare ogni razionalizzazione, ogni semplice "fare ciò che viene naturalmente", ogni mero dominio (e lode) della forza ai danni della debolezza. Di fronte ad una Babele in cui tende a predominare la comprensione neosofistica dei termini "natura" e "naturale", quei partecipanti al dibattito attuale che sostengono filosoficamente la comprensione storica della Chiesa di tali termini hanno compiuto progressi, riappropriandosi e rinnovando la strategia platonica. Non si tratta qui di imparare le "tesi" di Platone da una sintesi di seconda mano, ma di partecipare nella sua magistrale esplorazione dialettica dei dati dell'esperienza umana e delle risorse della comprensione umana. La sua dialettica è al massimo della sua profondità ed utilità quando indaga le implicazioni del dibattito stesso, in quanto attività umana scelta e moralmente significativa. Avendo sostenuto una teoria della legge naturale in un ambiente universitario completamente laico per quasi trent'anni, trovo che alla base della mia fiducia in questa teoria vi siano alcuni giudizi: (i) essa rende ragione dell'attività umana chiamata dibattito, e di tutte le regole del dibattito (o del discorso) razionale e onesto; (ii) tutti gli scettici, gli utilitaristi, i kantiani o i seguaci di altre teorie simili, che comportano il rifiuto della teoria della legge naturale, sono incapaci di giustificare o anche solo di spiegare l'aderenza a quelle regole del discorso; (iii) le teorie o gli atteggiamenti dei colleghi che rifiutano la teoria della legge naturale sono auto-­‐contraddittori, ossia affetti da incoerenza auto-­‐referenziale proprio nello svolgere l'attività di affermarli e difenderli. Qualunque teoria filosofica su alcunché può essere criticata e responsabilmente affermata solo se il suo contenuto, cioè l'insieme delle proposizioni che asserisce, è coerente con l'attività umana di criticare, nonché considerare e affermare responsabilmente la teoria stessa. Platone elaborò la sua originale teoria della legge naturale precisamente elaborando quei presupposti del bene e del male umani che vengono stabiliti da chiunque partecipi in modo appropriato ad attività come un 52 dibattito o un dialogo, attività consistente nell'individuare se ci sono (e che cosa sono in linea di principio) il giusto e lo sbagliato nei modi umani di scegliere, di agire e di vivere. Infatti, nonostante la grande varietà di opinioni e di abitudini, la tesi secondo cui ci sono in realtà alcuni modelli di condotta giusta che sono veri e validi per tutti (per tutti gli esseri della nostra natura) fu articolata filosoficamente per la prima volta da Platone nel Gorgia, credo. Proprio nella dialettica con gli scettici, nel Gorgia, Platone reputa utile recuperare da loro le parole "natura" e "naturale". Gli scettici sostenevano, ovviamente, il predominio del forte e dell'egoista su coloro che sono deboli o che si indeboliscono per amore altrui, per promesse fatte o per ciò che la società presenta senza dubbio come loro responsabilità. La risposta di Platone, brillante, piena di risorse e nello stesso tempo molto pertinente, è che cercare di vivere "naturalmente" o "secondo natura" perseguendo implacabilmente propri desideri di potere e di altre soddisfazioni è autocontraddittorio, incoerente e irragionevole. Per natura un desiderio, sia dell'intelligenza (come la conoscenza o l'amicizia), sia di emozioni primarie (come un cibo gustoso, il sesso, il potere, la reputazione, ecc.), ha bisogno di essere governato e moderato secondo i criteri della ragione. Questi criteri richiedono che si metta ordine nella propria psiche, e ciò implica anche la necessità di stabilire e mantenere un ordine buono nei rapporti con il prossimo. Nonostante le apparenze (il fascino del male), la "legge di natura" degli scettici -­‐ legge del forte e dello spietato-­‐ è innaturale, proprio perché irragionevole. Il fatto che sia irragionevole non è semplicemente affermato da Platone, ma è mostrato, soprattutto nella sua riflessione sulle condizioni per ottenere la verità nel dialogo. Tali condizioni sono sinteticamente poste allorché Socrate articola la relazione formale fra verità e consenso. Afferma infatti che a determinate condizioni, del genere che oggi chiameremmo "ideali", le persone impegnate in un discorso saranno d'accordo. (1) Quali sono queste condizioni? "Conoscenza, buona volontà e sincerità" (2) -­‐ (i) una solida e ampia formazione, (ii) buona volontà verso le altre posizioni nel discorso/discussione (in realtà, la cortese considerazione che si ha verso gli amici) e (iii) la volontà di parlare sinceramente (anche quando ciò vuol dire ammetter i propri errori, le auto-­‐contraddizioni e le auto-­‐confutazioni) invece di simulare l'accordo (3) . Laddove queste condizioni non siano soddisfatte, persino l'assenso universale ad una proposizione non darebbe l'evidenza (per non parlare della garanzia) della sua verità (4) ; e quando le condizioni sono soddisfatte, la convergenza degli interlocutori non costituisce un criterio di verità, al cui modello ci si possa appellare per distinguere, all'interno dell'argomentazione, i giudizi fondati da quelli infondati. È piuttosto, un marchio di verità, una conseguenza gradita e confermativa della comune disponibilità ad occuparsi di ciò che ogni discussione in cerca della verità dovrebbe avere come suo obiettivo: ciò che "così è" (5) , "che cosa è vero e che cosa è falso riguardo agli argomenti di cui si parla -­‐ poiché è un bene per tutti che divengano manifeste le cose in se stesse" (6) . Ma ciò a cui corrispondono le proposizioni vere non è qualcosa di accessibile o intelligibile (meno ancora è adeguatamente immaginabile) se non mediante domanda-­‐risposta, il pensiero coeso e coerente con se stesso, l'attenzione a tutte le prove rilevanti e a tutte le considerazioni pertinenti. Pertanto, non ci può essere una base alternativa a questa per affermare o negare razionalmente la corrispondenza in relazione ad ogni particolare argomento-­‐materia di indagine discorsiva o riflessiva (7) . Le condizioni indispensabili perché valga la pena affrontare qualunque discussione/dibattito/dialogo/, allora, si possono ridurre al rispetto e all'interesse per i due beni umani che Socrate/Platone porta instancabilmente alla nostra attenzione nelGorgia: la verità (e la sua conoscenza) e l'amicizia (la buona volontà nei confronti delle altre persone umane). Queste condizioni sono ricche e impegnative. Tuttavia, sebbene gli interlocutori di Socrate, Polo e Callicle, siano notevolmente carenti di buona volontà, Socrate è ragionevolmente desideroso di persistere, fintantoché essi vogliano ascoltarlo, nel cercare di illustrare, mostrare e spiegare, a 53 loro come ad ogni ascoltatore di buona volontà, il valore -­‐ la desiderabilità -­‐ di un'amicizia (anche di una politica pubblica) basata sulla condivisione della conoscenza e dell'ammirazione per beni umani intrinseci come la verità e la (vera) amicizia, beni che possono rappresentare elementi di un bene comune intelligibile. Il fatto che il bene della verità -­‐ e il muoversi alla sua conoscenza per amor suo -­‐ sia uno dei principali aspetti di tale realizzazione/prosperità/benessere umana -­‐ aspetti che si possono ben ritenere comuni (koinon agathon)(8) -­‐ è una verità che Socrate afferma in un sacco di modi (9) . La sua strategia si può ricostruire come segue. Considerata come il beneficio da ottenere o da perdere in una discussione (o nel corso di una riflessione), la verità è una proprietà dei giudizi che devono emettere coloro (o colui) che sono impegnati nella comune (o solitaria) ricerca. Pertanto, esistenzialmente, si tratta del bene della comprensione e della conoscenza. La sua bontà intelligibile, il suo carattere non di semplice possibilità ma di opportunità, può essere in pratica colto da tutti, in primo luogo dai bambini, capaci di capire che la connessione fra domanda e risposta, e fra domande e risposte successive, è quella possibilità, quell'obiettivo, quel risultato generale e inesauribile che chiamiamo conoscenza. Questa comprensione di un luogo della possibilità comeluogo dell'opportunità dà origine ad un atto che appartiene a quel tipo di comprensione indeducibile (per quanto non scevra da dati!) che C.S. Peirce, in linea con la tradizione platonica, chiama insight (intuito, penetrazione, perspicacia)(10) . Cogliere le possibilità come tali è essenzialmente teoretico, mentre cogliere le possibilità come opportunità è essenzialmente pratico -­‐ è il momento originante, mai soppiantato, della comprensione e del ragionamento pratici, della deliberazione e della scelta razionale. Usando il termine "intelligibile" per indicare il contenuto dell'intuito, diciamo che questa comprensione della possibilità come opportunità è la comprensione dei beni intelligibili. Se si inizia a sostenere -­‐ discutendo in un discorso o nelle proprie riflessioni -­‐ che la verità (e la sua conoscenza) non è un bene intelligibile e intrinseco, desiderabile per se stesso così come l'evitare e il vincere l'ignoranza, la confusione e l'errore, si entra in contraddizione con se stessi(11) . Una negazione argomentativa (seriamente affermata) sarebbe incoerente dal punto di performativo; ciò che viene affermato sarebbe incoerente con ciò che viene realizzato in e attraverso l'atto di affermarlo seriamente, di discuterlo, di proporlo come accettabile (12) . Portare alla luce questa incoerenza performativa auto-­‐referenziale è uno, ma solo uno, dei tipi di confutazione (elenchos) che Socrate impiega e che vanamente Callicle lo esorta ad abbandonare (13) . Confutazioni di questo particolare tipo non sono per la verità dimostrazioni in senso stretto della verità che le affermazioni auto-­‐confutatorie negano(14) ; sono piuttosto cogenti difese di quella verità -­‐ in questo caso particolare la verità rappresentata dal fatto che la conoscenza è un bene umano fondamentale -­‐ contro ogni sua seria negazione. E si tratta di una forma di difesa particolarmente e decisamente sconvolgente per lo scettico che si auto-­‐confuta (15) , poiché ciò che confuta la sua affermazione è situato nel suo stesso atto (sia esso interiore o volto all'esterno). Non si tratta di una semplice autocontraddizione nel senso più usuale del termine, cioè un'affermazione di proposizioni contraddittorie (sarebbe una contraddizione da cui si potrebbe sfuggire semplicemente abbandonandone una o entrambe). È piuttosto l'incoerenza fra ciò che uno afferma (o nega) e i dati forniti, volenti o nolenti, dalla scelta stessa di asserirli (16) . La propria posizione diviene ridicola (17) , assurda (18) ; diviene un'evidente manifestazione di quel "disaccordo con se stessi" (19) che ogni incoerenza in qualche misura comporta, e che Callicle -­‐ dimostrando così la sua inaccettabilità -­‐ spera di evitare attraverso una brutale franchezza (20) . 54 Nel dominio logico dell'argomentazione, l'auto-­‐confutazione (sia essa autocontraddizione o incoerenza performativa) è una modalità di confutazione, un modo per essere confutati. Nel dominio esistenziale della praxis, essa è come una qualunque altra situazione di chiusura nei confronti della verità: una situazione indegna di troncamento nell'appropriazione dell'opportunità, una forma di auto-­‐mutilazione, un modo palese per lasciare se stessi "zoppicanti e curvi" nella psiche "a causa della falsità e della finzione"(21) . Il Gorgia insiste strenuamente sulla portata morale della scelta esistenziale fra la preoccupazione per la solidità dell'argomentazione -­‐ nella speranza di vincere la propria ignoranza, la propria incoerenza o la propria cecità verso ciò che è così -­‐ e la preoccupazione per il successo nelle questioni (diciamo così) erotico/politiche (22) . Invece, nel cogliere la bontà e il valore intrinseco della verità e della sua conoscenza, si comprende come essa sia un bene essenziale non solo per noi stessi ma per chiunque altro come noi, cioè come sia un bene umano fondamentale. Inoltre, la conoscenza non è l'unica possibilità umana che, per intuito dei dati emergenti dalle proprie inclinazioni e capacità, si identifica come opportunità e come bene intrinseco, valido per se stesso. L'amicizia, la condivisione dei beni con un altro o con altri per amor loro(23) , sono altri beni di quel tipo. Per queste ragioni, non si può ragionevolmente cercare una realizzazione che sia solo propria. E per il fatto che c'è più di un bene intrinseco, nonché per il fatto che la ricerca di un bene fondamentale è minacciata da desideri, antipatie e inerzia "licenziosità" (24) subrazionali più o meno caotici, si ha bisogno di stabilire e confermare l'ordine nella propria anima: si ha cioè bisogno di una volontà e di un carattere temperati(e ciò include il coraggio) (25) . Dal momento che la ricerca della propria realizzazione sarebbe irragionevole e auto-­‐mutilante se fosse indifferente all'amicizia e al valore della instillazione dei beni umani nella vita di altre persone, si ha bisogno di mettere ordine nelle relazioni con gli altri e con la comunità. Il nome di questo ordine, nonché della costante preoccupazione per esso, è giustizia. Il riconoscimento dell'uguaglianza umana che (come chiarisce Platone/Socrate) è il nucleo della volontà giusta non è altro che il riconoscimento del fatto che i beni umani fondamentali sono realizzabili tanto nella vita di altri esseri umani quanto nella propria. Rifiutare questo riconoscimento significa sprofondare nella falsità. Nessuno che sia così schiavo dell'errore potrebbe intelligentemente ritenersi felice; pensare in tal modo vorrebbe dire sprofondare in una falsità più profonda, cioè la falsità riguardo al significato della propria realizzazione. Se ben comprese (razionalmente), la conoscenza, l'amicizia, la realizzazione e la giustizia si definiscono reciprocamente. (Questa, in senso astratto, è l'essenza della risposta platonica a Callicle, ed ugualmente alla provocazione di Glaucone, che non ha nulla a che vedere con la domanda se qualche principio o norma della giustizia possa valere senza eccezioni). Di conseguenza, non si può avere ordine nella propria anima (volontà) senza prevedere e compiere ciò che ragionevolmente è possibile per promuovere e rispettare un ordine di giustizia e di uguaglianza nella società, nella relazione o nella comunione con il prossimo. Sarebbe folle aspettarsi che la giustizia e l'amicizia esistessero in una società i cui membri non si preoccupano di promuovere e conservare tale ordine razionale nelle loro anime (volontà), un ordine che incorpori i desideri. Inoltre, così come nessuno potrebbe intelligentemente chiamare buona una società in cui i membri si trattano l'un l'altro come i ladri trattano le loro vittime, nessuno potrebbe intelligentemente chiamare buona la vita di un individuo che è schiavo dei suoi desideri subrazionali di gratificazione, e che per questo si taglia anche fuori dalla realtà dell'amicizia, limitandosi a spurie imitazioni. In ognuno di questi casi -­‐ nel caso dell'individuo e in quello della società -­‐ l'ordine in questione è buono perché è intelligente e ragionevole, e le forme corrispondenti di disordine sono tanto più irragionevoli e cattive. Questa convenienza del buon ordine nell'individuo e nella società non è qualcosa che inventiamo; piuttosto, è qualcosa che ci 55 diventa chiaro attraverso l'esperienza, l'esercizio del pensiero, la discussione, il giudizio razionale. Pertanto, sia perché la sua desiderabilità è più da scoprire più che costruire, sia perché l'essere ragionevoli è fondamentale per ciò che ci troviamo ad essere (in potentia) e vogliamo comprensibilmente diventare e restare (in atto), possiamo chiamare questo ordine ragionevole nell'anima e nella società "naturale", cioè qualcosa di naturalmente buono. E poiché in ognuno dei due casi l'ordine buono, ragionevole e perciò naturale può e deve essere colto nella forma delle proposizioni normative, che dirigono verso scelte individuali e sociali di promozione e di rispetto del buon ordine, le proposizioni direttive rilevanti sono opportunamente chiamate leggi. (Dal momento che qualunque legislazione governa precisamente attraverso direttive nell'ambito delle decisioni dei soggetti). Questo è in sostanza il modo in cui Socrate/Platone trasforma l'opposizione di Callicle fra natura (physis) e legge/convenzione (nomos) nel riconoscimento di una legge naturale, cioè di un insieme di proposizioni che colgono (i) i beni da perseguire (come la conoscenza e l'amicizia) (28) e (ii) i principi di ragionevolezza nella realizzazione dei beni nella vita propria e in quella altrui -­‐ la giustizia e le altre virtù (29). Come il dialogo si prefigge di chiarire, la proposta callichea/nietzschiana (30) di considerare naturale e perciò degna di scelta (giusta per natura) (31) la regola del più forte, facendo ciò che viene spontaneo (naturale) -­‐ secondo l'inesorabile sequela dei desideri che accade di provare (32) -­‐ , finisce inevitabilmente nell'incoerenza e nell'auto-­‐confutazione. Infatti i deboli, presi insieme, sono naturalmente più forti dei forti e li piegano alle loro leggi e alla saggezza convenzionale della giustizia basata sul criterio dell'uguaglianza (33). Ma la loro forza naturale li autorizza a comandare? Autorizza qualcuno? Platone si aspetta che noi capiamo senza difficoltà che qualunque tentativo di inferenza dall' "essere" al "dover essere" è fallace. Di nuovo, il "principio" secondo cui una vita degna consiste nella libertà dalla sottomissione ad altri si dimostra incoerente dal punto di vista performativo e auto-­‐referenziale, poiché (come Callicle viene condotto a riconoscere) suggerisce implicitamente di vivere attraverso la lusinga e la demagogia, il che significa conformarsi in maniera più o meno servile (anche solo per sicurezza personale) ai desideri dei più(34). Analogamente, il "principio" secondo cui la contentezza della vita emancipata consiste nella ricerca della soddisfazione di tutti i propri desideri priva Callicle di qualunque base per giudicare quanto sia indegna la patetica schiavitù ai desideri (35). Inoltre, l'incompatibilità di questo "principio" con le condizioni di un discorso (discussione) ragionevole si rende evidente ad un'attenta lettura del dialogo platonico, attraverso vari elementi: la costruzione del discorso, la scontrosità, l'abdicazione accigliata dalle altalenante (gli "avanti e indietro") del dibattito, l'avvertimento non troppo velato che, al di fuori della discussione e dopo un processo basato sulla retorica e non sulla verità, la proprietà di Socrate potrebbe facilmente essere confiscata e lui stesso sterminato. Il lettore sa che di fronte a simili minacce Socrate fu degno della verità secondo cui è meglio soffrire un'ingiustizia che commetterla: come Socrate raccontò al suo processo, i Trenta Tiranni chiamarono lui e altri quattro a partecipare all'assassinio di Leone di Salamina, "e quando ce ne andammo dal palazzo del governo, gli altri quattro si recarono a Salamina e portarono Leone, mentre io me ne andai a casa" -­‐ sapendo che l'oligarchia lo avrebbe probabilmente ucciso per questo. (Ma egli sfuggì al suo destino, in quell'occasione, perché l'oligarchia crollò). Forse i quattro che andarono a prendere Leone perché fosse eliminato razionalizzarono la loro complicità all'omicidio attraverso un'etica "della situazione" o della "proporzionalità"(36). O forse attraverso il gusto dell'assassinio proprio di Polo; o semplicemente attraverso una più nobile alzata di spalle alla Callicle. Forse, invece, erano gente onesta che si vergognava di quel che stava facendo, che si rendeva conto fra sé e sé (sebbene non nei "discorsi" con altri) 56 dell'ingiustizia, della falsità, del male insiti nella loro scelta -­‐ questa condizione di consapevolezza è parte di ciò a cui si riferisce San Paolo con la metafora della legge naturale che è scritta nei nostri cuori. E poiché le conseguenze della scelta socratica di andare a casa persistono, in modo abbastanza forte, fino ad oggi (attraverso il cuore dei lettori di tante epoche), possiamo giudicare quanto sia irragionevole cercare di condurre il giudizio morale (etico) sostenendo "un bilanciamento generale finale" delle conseguenze pre-­‐morali buone e cattive, conseguenze "promesse" da ciascuna delle opzioni disponibili nella "situazione" -­‐ una situazione che in realtà include la nostra situazione, pur così distante e così tanti secoli dopo. Un'etica della "legge naturale" (dei principi razionali) non può abbracciare alcuna metodologia morale del tipo di quelle proposte dall'utilitarismo/consequenzialismo/proporzionalismo o dall'"etica situazionale". Platone, nel Gorgia e altrove, dice molto di quel che intende rivelare sulla dignità della persona e sulle perfezioni più significative dell'individuo, come pure sui fallimenti come persona, quando parla dell'anima e dei relativi ordine e disordine. Ciò è in continuità, almeno in larga parte, con quell'unità personale di anima e corpo che Aristotele, e più risolutamente Tommaso portarono esplicitamente alla luce (anche Platone lo fece certamente, anche se in modo non esplicito) attraverso la riflessione sull'esperienza, sull'interiorità-­‐esteriorità dell'essere in azione. Nell'atto di parlare al mio interlocutore nel discorso, comprendo le mie espressioni come un portare avanti una scelta che ho fatto, e con il medesimo atto sono consapevole dell'udibilità delle mie espressioni, vedo che gli ascoltatori le registrano e capiscono, percepisco sicurezza o ansia, ricordo un'incomprensione passata e spero che la mia argomentazione mi dia ragione. Questa esperienza di unità (inclusa la continuità) del mio essere -­‐ intesa come sentire, volere, osservare, ricordare, capire, che è fisicamente attiva e che è motore effettivo o causa di effetti fisici, come pure destinataria di tali effetti -­‐ è un dato che l'indagine filosofica della realtà umana e di altre realtà naturali può adeguatamente giustificare solo a fatica e con molte cadute. Tuttavia, prima di qualunque sua spiegazione, questa presenza intelligibile a me stesso del mio io agente con le sue numerose sfaccettature è un dato di comprensione; lo stesso io -­‐ questo essere umano -­‐ che sente, che capisce, che sceglie, che porta avanti le sue scelte, ecc. è una realtà che comprendo già veramente, benché ancora non pienamente (in maniera esplicativa, con l'elaborazione). (Invero, solo allorché è data questa prima comprensione del proprio capire, del proprio volere, e così via, si può dare, e tipicamente si dà, valore a tali comprensione, libertà, volontà, unità dell'essere, ecc.). Così, come Aristotele e soprattutto) Tommaso più o meno esplicitamente sostengono(37), ogni ricostruzione che si proponga di spiegare queste realtà deve essere coerente non solo con i dati complessi che cerca di spiegare, ma anche con l'esecuzione, interiore ed esteriore, di colui che la propone e nell'atto di proporla. L'unica spiegazione che soddisfa tali condizioni sarà quella conforme a quanto essi sostengono: l'autentica forma, l'atto (attualità) che dura tutta la vita e di cui è costituita la materia della mia costituzione corporea, il soggetto unificato e attivo (io stesso) è un fattore, una realtà, che Aristotele (dopo Platone) chiama psiche e Tommaso anima (anima). Nell'animale umano -­‐ proprio lo stesso animale i cui interessi, nell'etica platonica, vanno tenuti ugualmente in considerazione nei casi specifici -­‐ dal sorgere stesso dell'esistenza in quanto uomini, è questo fattore essenziale e immutabile, unico in ogni individuo, che spiega 1) l'unità e la complessità delle attività dell'individuo, (2) l'unità dinamica nella complessità -­‐ in una parola, il programma -­‐ dello sviluppo individuale come embrione, feto, neonato, bambino... e adulto, (3) la comprensione individuale piuttosto matura degli oggetti immateriali universali (generici) del pensiero (classi, vero e falso, fondatezza/infondatezza del ragionamento) e 4) l'unità generica di questo individuo unico con ogni altro membro della specie. Nei membri della nostra specie il fattore unificante e attivante della realtà vitale di ogni individuo è allo stesso tempo vegetativo, 57 animale (senziente e dotato di movimento autonomo) e intellettivo (la comprensione, l'auto-­‐
comprensione e, anche nel pensiero, l'autodeterminazione attraverso il giudizio e la scelta). Sebbene le varie attivazioni di queste potenze corporee e razionali dipendano dalla maturità fisica e dalla salute degli individui, sembra che l'essenza e le potenze dell'anima siano date in modo completo ad ogni individuo (come capacità radicali che non sono soggette a sviluppo) all'inizio dell'esistenza in quanto tale. Questa è la radice della dignità che tutti abbiamo come esseri umani. Senza di essa le rivendicazioni di uguaglianza dei diritti sarebbero indifendibili a fronte dei molti modi in cui le persone sono fra loro diverse. Questa metafisica dell'attività del dibattito o discorso è ciò che abilita una teoria della legge naturale a consolidare e chiarire la comprensione non deduttiva, da parte della ragione pratica, di principi primi aventi forme come "la conoscenza [l'amicizia, ecc.] è un bene per me e per ciascuno (ciascun essere come me)". La stessa metafisica è la base indispensabile per affermare razionalmente il secondo elemento che caratterizza ogni teoria della legge naturale, e cioè la considerazione dei diritti. Infatti tale considerazione, ordinata in modo esplicativo, inizia con il principio fondamentale dell'etica per cui le scelte e gli altri atti e disposizioni della volontà devono essere sempre aperti alla realizzazione umana integrale, ovvero alla realizzazione di tutte le persone e le comunità umane. Mi soffermo dunque sull'etica e sulla metafisica del dibattito, nonché sul Gorgia in quanto rappresenta un'esplorazione, un'articolazione e un'affermazione filosoficamente critica e responsabile ancora attuale di quell'etica e, in certa misura, di quella metafisica. Il dialogo, all'origine della "teorizzazione della legge naturale", illustra che cosa significa per una teoria della legge naturale essere viva, non morta. La teoria è viva se può aiutare qualcuno a impadronirsi o re-­‐impadronirsi di quelle intuizioni delle possibilità conosciute che Tommaso chiama conoscenze pratiche -­‐ atti di intuito, intellectus -­‐ con cui si aggiunge alla conoscenza della possibilità l'intuizione dell'opportunità, del bene, dello strumento di perfezionamento per sé e in linea di principio per tutti. Una teoria della legge naturale non può essere viva se non è assolutamente pratica, cioè se non pensa ai beni come a facienda et prosequenda, oggetti da perseguire e da fare, degni di essere perseguiti e di essere scelti, nel senso che il pensiero "questo è buono da perseguire e fare" è direttivo, cioè normativo. Siamo qui alle radici di ogni normatività morale, cioè di ogni normatività (incluso il dovere morale nei suoi vari tipi e forze), esattamente per la sua attinenza con le scelte su come spendere una porzione della propria vita, scelte su ciò che Tommaso chiama "la vita come un tutto". La teoria di Tommaso sulla legge naturale, nelle sue linee essenziali, è viva, perché riconosce e afferma risolutamente che quelli che egli chiama in modo interscambiabile i principi primi della legge naturale e i principi primi della ragione pratica sono principi che balzano agli occhi e ci dirigono verso le fonti primarie del bene umano -­‐ beni primari come la vita stessa, la conoscenza, l'amicizia, il matrimonio, la stessa ragionevolezza pratica (il bonum rationis). Questi principi sono verità. Sono, come egli dice spesso, indimostrabili, cioè autoevidenti, per se nota -­‐ naturalmente non intuizioni (intuitions) senza dati, ma intuizioni (insights) dell'esperienza del desiderare (curiosità) e della conoscenza delle possibilità (domande a cui si può rispondere e risposte che possono essere coerenti in quanto conoscenze della verità e della realtà). In quanto intuizioni isolate la loro direttività non è ancora morale, ma diventa morale quando, guidate dal principio secondo cui la stessa ragionevolezza pratica è un bene da perseguire e da fare, si considera che cosa scegliere alla luce della direttivitàcombinata di tutti i principi che riguardano sia il proprio bene individuale che il bene di ciascun altro. (Infatti occorre ricordare che l'intuizione non è un bene, come la vita o la conoscenza o l'amicizia, che sono beni-­‐solo-­‐per-­‐me, ma è buona, intelligibile come un bene, per tutti). Il contenuto proposizionale della direttività combinata di tutti i principi primi si può esprimere -­‐ lo hanno fatto i nuovi teoremi classici dai primi anni 58 Ottanta -­‐ come un principio, che si può considerare quello fondamentale della moralità, cioè il principio per cui si dovrebbe scegliere e volere quelle e solo quelle possibilità la cui volontà è compatibile con la volontà della realizzazione umana integrale. La realizzazione umana integrale, va ripetuto -­‐ perché qui la storia della tradizione ha creato un tenace covo di fraintendimenti e di rifiuti di interpretazione -­‐ , è il bene di tutte le persone e le comunità umane. La teoria della legge naturale, qui, rompe decisamente con l'equivoco, letteralmente vergognoso, che è così comune nei filosofi neoscolastici, e cioè che la mia realizzazione (la mia Felicità) è per me il telos o l'ultimus finis, il criterio supremo della ragionevolezza pratica nel mio pratico ragionare. In Tommaso, questo principio centrale della moralità si dispiega in ciò che egli chiama un "primo precetto comune della legge della natura", cioè che si dovrebbe -­‐ si deve -­‐ "amare il prossimo come se stessi"; si tratta di un principio autoevidente da cui tutti (altri) principi morali e norme possono (date ulteriori premesse) essere inferiti implicitamente o come conclusioni. Nonostante tutte le deformazioni operate dalla concezione kantiana senza vigore della ragione pratica, il vero principio fondamentale ha in essa un confuso appoggio, e precisamente nella concezione del Regno dei Fini, intendendo i Fini come persone umane, come suggerisce una delle formulazioni alternative degli Imperativi Categorici, quella che richiede di trattare l'umanità (Menschlichkeit) in se stessi e negli altri sempre come un fine e mai come un semplice mezzo. Il "Regno dei Fini" kantiano è un'eco filosofica vagamente articolata dell'ingiunzione rappresentata dalla suprema norma o principio dell'etica di Gesù Cristo, del Vangelo, dei mores cattolici: "Ricercate prima il Regno". Una trattazione viva della legge naturale deve tenere seriamente in considerazione la tesi fondamentale che Tommaso affermò ma non spiegò mai né esemplificò, e cioè che tutte le norme morali non vanno viste come autoevidenti ma comeconclusioni a partire dal principio morale fondamentale, a sua volta specificazione del principio assolutamente primo della ragione pratica per cui bisogna cercare e fare il bene. Per i presenti scopi il principio morale fondamentale, così come Tomamso lo comprende, è che si deve amare il prossimo come se stessi. Per quanto breve sia ora la via che porta alle conclusioni, occorre mostrare alcune ulteriori premesse, che Tommaso trascura di presentare in modo discernibilmente sistematico. La specificazione del principio morale fondamentale attraverso la Regola d'Oro coglie un elemento della direttività integrale di tutti i beni essenziali, cioè di ciascuno dei principi primi pratici che balzano agli occhi e ci dirigono verso quei beni. Le altre regole morali di contorno, che specificano i diritti umani e le responsabilità fondamentali, contribuiscono a fornire una direzione morale stabilendo i modi con cui tipi di scelta più o meno specifici sono mediatamente o immediatamente contrari ad alcuni beni di base. Tutto ciò equivale a mettersi attentamente al lavoro attraverso l'intuizione pratica -­‐ dei beni intelligibili della conoscenza, dell'amicizia, e di altri beni primari -­‐ che nel Gorgia viene ri-­‐attivata e rappresentata. I principali elementi si possono leggere in Tommaso d'Aquino. Ma tutto ciò suonava e suona sorprendente e nuovo per coloro che lavoravano e lavorano con teorie della legge naturale che definirei, pur con rincrescimento, più o meno morte. Alcune di queste teorie morte -­‐ cioè più o meno false e sterili -­‐ si trovano in quella che possiamo chiamare la tradizione della "moderna" teoria della legge naturale, emblematicamente rappresentata da Pufendorf e da Locke, e desunta da Grozio e da Hobbes. Altre si trovano in quella che si può chiamare la tradizione neoscolastica. Proverò ad avanzare alcune riflessioni su entrambe le tradizioni. È da Grozio che Locke e Pufendorf traggono l'idea, che suona bene ma è alquanto opaca, che la moralità e i principi essenziali della legge sono questioni di "conformità alla natura razionale". Ma questi autori non considerano mai attentamente come si conosca la natura, né perché debba essere per tutti normativa. Tali questioni fondamentali vennero affrontate e risolte da Hobbes, 59 ma le sue risposte trattarono il ragionare pratico come fosse completamente a servizio delle passioni sub-­‐razionali, come la paura della morte, il desiderio di prevalere sugli altri -­‐ motivazioni del tipo di quelle identificate dalla tradizione classica come bisognose di direzione da parte della comprensione della ragione verso fini più fondamentali e migliori, verso beni veri ed intrinseci, verso ragioni veramente intelligenti per l'azione. Hobbes proclama il suo disprezzo per la ricerca classica dei fini ultimi e delle ragioni intrinseche per l'azione. Di conseguenza, non ci può essere per lui possibilità di trovare la fonte del dovere e della legge in quel tipo di necessità che identifichiamo quando notiamo come alcuni specifici mezzi siano richiesti da un fine e per amore di un fine, che sarebbe irragionevole non giudicare desiderabile e degno di essere perseguito. Invece, il dovere e la legge sono definiti, da Hobbes e da Pufendorf, come questioni di volontà superiore. "Non c'è legge senza legislatore". Non c'è obbligo senza sottomissione alla "volontà di un potere superiore". "La definizione formale della legge è: la dichiarazione di una volontà superiore". "La regola delle azioni è la volontà di un potere superiore". Queste definizioni e assiomi vanno applicati, secondo i fondatori della teoria moderna della legge naturale, alla legge naturale, al principio stesso della moralità e alle leggi positive degli Stati. In questo modo il dovere viene ad essere apertamente "dedotto" dal fatto che un superiore ha voluto in un certo modo. A dire il vero, quando è in gioco la legge naturale (la moralità), si presume che il superiore, cioè Dio, sia saggio. Ma all'idea della saggezza divina non è dato un ruolo positivo quando si tratta dispiegare perché i comandi di Dio creano dei doveri ad una coscienza razionale. Il diritto di Dio a legiferare viene invece spiegato attraverso l'analogia con il mero potere. Dice Locke: "infatti, chi negherà che l'argilla è soggetta al volere del vasaio e che il vaso può essere distrutto dalle stesse mani che lo hanno formato?". Locke, come Hobbes, si rende conto con inquietudine, per quanto debolmente, che il "dover essere" non si può inferire dall'"essere" senza qualche altro "deve". Che è quanto dire: si rende conto con inquietudine di come il fatto che un certo comportamento sia stato voluto da un superiore, piuttosto che dalla stesura di un contratto, non spiega perché quel comportamento sia ora obbligatorio, o non lo sia mai. Allo stesso modo, pensa talora di integrare il suo nudo volontarismo (i doveri sono spiegati come atti di volontà) con la razionalità della coerenza logica: i principi morali fondamentali sono tautologici, sono norme che sarebbe autocontraddittorio negare. Hobbes tentò un'analoga spiegazione dell'obbligatorietà del suo contratto sociale fondamentale a proposito della sottomissione al sovrano. La sua importante spiegazione ufficiale fu della forma "clubs are trumps" (le carte di fiori vincono, cioè la volontà e il potere/forza del superiore). Tuttavia, a chi non fosse abbastanza colpito dalla assimilazione diretta del diritto con la possibilità e del dovere con l'essere, egli offre un'altra spiegazione: è autocontraddittorio non mantenere una promessa. La strategia di assimilare le norme della legge naturale (della moralità) con quelle della logica ha il suo massimo esponente in Kant, la cui Metafisica dei costumi (1797) rappresenta in qualche modo la più sofisticata esposizione della teoria moderna della legge naturale. Rifiutando ufficialmente ogni riduzione del dover essere all'essere della volontà, Kant sostiene che la sola ragione domina sulle decisioni e sulle azioni coscienti. La necessità razionale che risulta decisiva per questo dominio è la necessità logica della non-­‐contraddizione, e tutti gli sforzi kantiani per spiegare i tipi particolari di doveri (promissori, patrimoniali, politici, coniugali, ecc.) sono rivendicazioni del fatto che procedere da qualsiasi altra "massima d'azione" vorrebbe dire entrare in auto-­‐contraddizione. Le induzioni kantiane della razionalità morale alla logica falliscono tutte. Non poteva essere altrimenti, perché nella sua teoria manca il concetto di ragione sostanziale per l'azione -­‐ una ragione che non è né un vero giudizio sui fatti naturali né un requisito logico, e nemmeno una 60 necessità tecnica dei mezzi efficienti per definire e realizzare i fini. La sua proposta teoretica e pratica è quella di salvare il contenuto della civiltà dalla devastazione dell'utilitarismo e dello scetticismo. Egli articola con rinnovato vigore il principio radicalmente anti-­‐utilitaristico per cui si deve sempre trattare l'umanità, in se stessi e negli altri, come fine e mai come semplice mezzo. Ma la sua definizione ufficiale di "umanità" priva questo imperativo categorico della sua pregnanza. Infatti, se l'umanità è, come egli dice, la razionalità, e la razionalità non ha un contenuto direttivo tranne la coerenza, si resta senza una motivazione razionale e una direzione intelligente che possano avere un peso nella decisione. Infine, come Locke e Hume, Kant rimane inesorabilmente vittima della premessa secondo cui ciò che ci sprona verso lo scopo sono le passioni subrazionali e non altro. Manca quasi completamente di costruire gli elementi basilari di una teoria classica della legge naturale, cioè i principi primi sostanziali -­‐ le ragioni principali dell'azione -­‐ che ci dirigono verso la vita corporea e verso la salute, verso il matrimonio, l'amicizia, la conoscenza e così via, in quanto rappresentano beni umani intrinseci che forniscono le ragioni (intelligenti, non solo passionali) per l'azione, e che, come aspetti della nostra umanità di persone di carne, vanno trattati sempre come fini e mai come semplici mezzi. Non rende ragione dei doveri e delle istituzioni che pure cerca di giustificare, per non parlare di quelli che tralascia, come il dovere di giustizia che impone di impiegare la gran parte delle ricchezze per andare incontro ai bisogni degli altri. Il rifiuto ufficiale di Kant di ridurre il dover essere all'essere della volontà subisce così un capovolgimento a causa delle ambiguità, che inevitabilmente sorgono per l'assenza di ogni fine sostanziale (o ragione per l'azione) nella sua concezione di ciò che la ragione pratica comprende. Nella tradizione neoscolastica relativa ai fondamenti della moralità e della legge naturale, che è apparentemente viva ma in realtà più o meno morta -­‐ come possiamo vedere nel 1960 -­‐ ci fu un simile fallimento nel prendere sul serio -­‐ a dire il vero nella maggior parte dei casi anche nel notare -­‐ ciò che Tommaso aveva reso ragionevolmente chiaro. Alcuni neoscolastici pensavano che i principi primi della legge naturale erano già norme morali pienamente specificate, della forma "non bisogna uccidere un essere umano innocente", o "non commettere adulterio". Assunsero queste norme come autoevidenti e indimostrabili, in spregio alla chiara e corretta tesi tomista per cui esse rappresentano le conclusioni derivate da principi più alti, attraverso una forma di inferenza che questi neoscolastici lasciarono totalmente inesplorata. Altri pensavano che i principi della legge naturale si trovano ispezionando la natura umana come viene esposta in qualche ontologia o antropologia o in qualche metafisica della natura umana, rivelando così verità come quella secondo cui la conoscenza è una forma di esistenza più alta della vita, da cui si dovrebbe dedurre -­‐ chissà come -­‐ che la contemplazione è la meta finale dell'uomo, ma non (e perché no?) che la gente può essere messa a morte per amore del progresso nella conoscenza. Questi pensatori erano indifferenti alla questione del perché si dovrebbero considerare le verità presupposte dall'ontologia ecc. come portatrici di doveri morali, e invero di qualunque normatività o direttività per la ragione pratica; oppure rispondevano facendo appello ad un presunto imperativo divino della forma "Rispetta la natura", rifiutando di produrre evidenza del fatto che tale imperativo è stato emanato o rivelato, di darne giustificazione in modo da poterlo trattare come saggio, di fornire principi ragionevoli per discernere quali tipi di scelte siano da escludere, quali siano richieste e che cosa in qualche modo ci dia un orientamento fra esse. Lasciano inoltre sotto completo silenzio il principio metodologico ed epistemologico ampiamente illustrato da Tommaso, secondo cui si capisce la natura di ogni realtà dinamica attraverso la comprensione delle sue capacità, e si capiscono le sue capacità attraverso la comprensione dei suoi atti, e si capiscono gli atti attraverso la comprensione dei suoi oggetti. Chiaramente gli 61 oggetti di tutti gli atti umani, che sono espressioni della volontà (del portare avanti le scelte), sono i beni intelligibili che si identificano con i principi primi e indimostrabili della ragione pratica, e ad essi si dirigono. In questo modo, la natura umana non può essere adeguatamente conosciuta, come nella metafisica, senza prima conoscere ciò che è noto per primo (non dimostrato e non bisognoso di dimostrazione) nella comprensione pratica dei beni umani primari in quanto per noi normativi. Questi pensatori trascurarono anche l'analisi di Tommaso, che si situa precisamente all'inizio del suo Commentario sull'etica, in cui egli distingue tutte le scienze della natura, inclusa la metafisica, come diversae, e per implicazione irriducibilmente diverse, dalle scienze logiche e da quelle morali, che non trattano della realtà ordinata come essa già è, indipendentemente dal nostro pensiero, ma piuttosto con l'ordine che non è ancora realtà, e che deve essereimmesso nelle nostre decisione e azione attraverso il pensiero di ciò che si deve fare. Interrogati su come si passi dall'"essere" delle proposizioni vere nell'ontologia, nell'antropologia, nella metafisica, ecc. al "dover essere" della normatività verso la praxis, essi davano e danno risposte che sono in fondo tanto volontaristiche ed errate quanto quelle della tradizione "moderna della legge naturale": qualche genere di atto di volontà del soggetto deliberante, o qualche "scintilla di desiderio", dovrebbero trasformare la ratio speculativa in pratica. In realtà la categoria della verità pratica viene in questo modo abolita, almeno dall'ambito dei fini e da quello dei principi. Al suo posto viene messo qualcosa che, indipendentemente dal fatto che possa o meno rendere ragione della motivazione, non giustifica la normatività. Un terzo gruppo di neoscolastici cercò e in alcuni casi cerca ancora di porre a fondamento del ragionamento pratico, al posto dei principi che si dirigono ai beni intelligibili come veri, delle inclinazioni che per (loro) ipotesi vengono prima della comprensione pratica. Ma questo, di nuovo, rende la normatività subrazionale e inintelligibile, per non dire gravemente lesiva della dignità umana, assimilando i principi della libera scelta all'automatismo animale. Queste scuole di "teoria della legge naturale" mostrarono abbastanza chiaramente di essere morte anche in un altro modo, ossia quando, nel 1960 e oltre, dovettero rispondere alle domande: l'uccisione intenzionale dell'innocente è davvero sempre sbagliata? I rapporti sessuali prematrimoniali sono sbagliati? È sbagliato produrre bambini attraverso la fecondazione artificiale o la clonazione? Su questi temi i grandi nomi della tradizione neoscolastica del XX secolo non mi pare abbiano avuto nulla di interessante da dire, nessuna spiegazione e, filosoficamente parlando, nessuna risposta da offrire. Coloro che cercarono di usare l'etica neoscolastica del XX secolo come modello euristico per rileggere la tradizione del pensiero morale e teologico furono incapaci, tal fu la loro distorsione, perfino di capire, figuriamoci di valutare criticamente, tale tradizione. Ecco un eloquente esempio: il pericoloso stravolgimento nella lettura dell'etica di Tommaso su sesso e matrimonio, effettuato da John Noonan, fu seguito incautamente fino ai nostri giorni da molti che dovevano conoscere meglio la questione e che, per quanto abbia potuto vedere, hanno criticato poco o nulla, sia al momento della sua apparizione che in seguito, tale interpretazione errata di Tommaso. Oltre alla mancanza di una teoria dei veri principi pratici, e di una coerente trattazione riguardante la connessione del nostro ultimus finis con la correttezza di specifici tipi di scelta, le teorie della legge naturale dei neoscolastici del XX secolo furono notevolmente indeboliti, mi pare, da una considerazione acritica e incoerente dell'atto umano e del modo in cui i vari tipi di atto umano sono "specificati" dal (dai) loro oggetto(i). Gli atti che si riferiscono ai principi e alla norme della legge naturale sono tipi di atti che compiono scelte di proposte per l'azione, proposte forgiate nel processo di deliberazione su ciò che bisogna fare. L'enciclica Veritatis Splendor, che si presenta, non senza ragione, come "la prima occasione in cui il Magistero della Chiesa spiega dettagliatamente gli elementi fondamentali" dell'insegnamento della morale cristiana (n.115), 62 rompe decisamente con la trattazione neoscolastica della legge naturale, non solo insegnando che i principi e le norme morali principali della legge naturale ci pongono in relazione con "il bene della persona...difendendo i suoi beni" (n.13), beni che nel corso dell'enciclica vengono chiamati "beni fondamentali" (nn.48 e 50; si veda anche n.67), ma anche insegnando che per poter cogliere l'oggetto di un atto, che caratterizza l'atto moralmente, è necessario porsi nella prospettiva della persona agente. Attraverso l'oggetto di un certo atto morale, dunque, non si indica un processo o un evento di ordine meramente fisico, suscettibile di valutazione in base alla sua capacità di realizzare un determinato stato di cose nel mondo esterno. Piuttosto, l'oggetto è il fine prossimo di una decisione deliberata che determina l'atto volontario da parte della persona che agisce (n.78). Grisez, Boyle ed io abbiamo di recente esplorato alcune implicazioni insite nel comprendere l'azione dal punto di vista della deliberazione, dell'intenzione e della scelta di adottare una proposta, invece di comprenderla (l'azione) come un insieme di comportamenti intesi come eventi o cause di ordine puramente fisico. Una parola sulle virtù. Ogni teoria viva della legge naturale deve essere un'etica delle virtù, dal momento che le virtù non sono nient'altro che le disposizioni a prendere e a concretizzare decisioni giuste e ragionevoli, e ad evitare quelle sbagliate e irragionevoli. Le virtù corrispondono all'aspetto intransitivo delle nostre scelte e della nostra azione, la cui importanza non risiede solo nel fatto di plasmare transitivamente il mondo al di fuori della volontà, ma anche nel fatto di plasmare il carattere, le disposizioni e perciò l'io, dal momento che le scelte perdurano nella volontà se e fintantoché non sono rovesciate da un atto contrario della volontà (il pentimento, per quanto informale). Ma va da sé che non si può compiere alcun progresso giustificando il proprio giudizio secondo cui questa è una scelta virtuosa e quest'altra non lo è, se non si identificano i criteri, i principi e le norme che caratterizzano alcuni tipi di atti come ragionevoli e, a determinate condizioni, giusti, mentre altri tipi di atti come irragionevoli e sbagliati, in determinate circostanze o in generale. Il sogno di un'etica della(delle) virtù in opposizione ad un'etica della legge naturale e dei principi della ragionevolezza pratica è appunto un sogno, tanto sbagliato -­‐ ne sono certo -­‐ quanto pensare che esista una differenza rilevante e fondamentale, in Platone o altrove, fra una teoria del diritto naturale e una teoria della legge naturale. LA NATURA UMANA E LA STORICITA' IN ALCUNI PENSIERI TEOLOGICI RECENTI È stato detto, con qualche ragione, che "le critiche di Karl Rahner e di Bernard Lonergan hanno portato molti studiosi cattolici a rifiutare le cosiddette teorie classiche della legge naturale". Se ciò è storicamente fondato, e credo lo sia, questi studiosi hanno riposto la loro fede di teologi in una discussione filosofica e storica assai difettosa sia in quanto storica che in quanto filosofica. Rahner, acriticamente seguito in ciò da Lonergan, diede per scontato, in linea con il suo maestro Kant, che non esistono beni umani intelligibili primari o fondamentali che possano tratteggiare nelle linee essenziali l'emergere dell'umano e perciò della natura umana, e restrinse così le "strutture oggettive della natura umana" a quelle che sono "implicitamente affermate da una necessità trascendentale anche nell'atto di negarle". Sia egli che Lonergan intesero male la natura delle argomentazioni a partire dall'incoerenza auto-­‐referenziale (argomentazioni del tipo che ho mostrato precedentemente in questo lavoro). La spiegazione filosofica delle implicazioni insite nel costruire asserzioni non prevede un metodo particolare, e le verità che si possono in tal modo ottenere o sostenere non hanno una speciale necessità metafisica o "trascendentale", nemmeno se la loro difesa è particolarmente facilitata da una speciale prossimità (per così dire) dei fatti che si danno nell'azione di negarli. Conseguentemente, la concezione di Rahner della natura umana 63 (che Lonergan promuove) è fondata sulla fallace estrapolazione, a partire dal fraintendimento dell'incoerenza auto-­‐referenziale, di una divisione fra una natura umana "trascendentale" presumibilmente immutabile, che comprende solo quei tratti necessitati dal concetto stesso di pensiero e di azione (pertanto dall'atto stesso dello scetticismo) e la semplice natura "categoriale" e "concreta", che -­‐ senza dare spiegazioni, ma indubbiamente basandosi su una delle scuole neoscolastiche moribonde della "teoria della legge naturale" -­‐ Rahner trattò come la fonte della maggior parte delle norme morali. A questo aggiunse che affermazioni solidamente empiriche come quella secondo cui "oggigiorno l'uomo nella sua natura concreta" è "soggetto a rapido mutamento", invero, "nella direzione di un processo di cambiamento di grande portata". A coloro che cercano l'evidenza, ad esempio, egli non ne offre, per quel che ne so, nemmeno una. In verità, le discussioni sulla mutevolezza della natura umana non contrasterebbero con i fondamenti della moralità, della legge naturale, se non si dirigessero verso alcune classi di esseri umani per le quali non sarebbero vero che vita e salute, conoscenza della verità e bellezza, eccellenza nelle opere d'are e nella musica, armonia dell'amicizia verso altri, amicizia procreativa nel matrimonio, ecc. rappresentano motivazioni basilari per l'azione, sono forme o aspetti fondamentali della realizzazione dell'uomo che è desiderabile condividere, e senza i quali non vale in fondo la pena di perseguire alcun vantaggio o meta. Come ho accennato, Rahner non ha un metodo etico, salvo il fantasma di qualche concezione neoscolastica per cui si arriva ad una sorta di ontologia teoretica della natura umana e poi, per darle rilevanza pratica o normatività, si postula un ipotetico imperium divino "Segui la natura (o la natura umana)". Anche Lonergan non ebbe un'etica di cui valga la pena parlare. Lottò per trovare una concezione dei principi della ragione pratica nel suo Insight, ma senza risultato. Nel suoMethod and Theology, apparve chiaramente come egli avesse interamente trascurato il tipo di intuito che è trattato nei principi primi pratici di Tommaso, e che ci dirige verso i beni intelligibili che interessarono Platone e Aristotele come veri beni per ciascuno. Lonergan si volse ad una specie di aggregazione o sistematizzazione quasi-­‐utilitarista dei valori, intesi non come intelligibili, ma come oggetti di sentimento -­‐ una strana resa all'empirismo da parte di uno dei più accesi critici della metafisica e dell'epistemologia empiriste nell'ambito della ragione speculativa. Ma l'opera postconciliare di Lonergan ha avuto un impatto esteso e dannoso sui teologi cattolici non tanto per la sua idea di etica, non sviluppata e inapplicabile, ma per la sua tesi antistorica che esiste una profonda distinzione fra "coscienza storica e "visione classica del mondo", nonché per le sue allusioni e insinuazioni (talora da lui negate, ma accolte e promosse entusiasticamente come tesi incondizionate da molti teologi successivi) che molta della teologia del Concilio Vaticano II (se non tutta) è deplorabilmente classica e perciò manca di coscienza storica, con conseguente bisogno di una sostanziale sostituzione -­‐ soprattutto per quanto riguarda la natura umana e la moralità delle azioni umane. Altrove ho analizzato per esteso i lavori di Lonergan e di alcuni suoi successori in merito a tale pretesa distinzione e alle sue applicazioni alla fede e alla teologia cattoliche. Non posso riprendere qui tali analisi. Segnalerò soltanto due punti: Pio XII, nel Divino Afflante Spiritu (1943), non esagerò dicendo che molte cose, "soprattutto in ambiti che riguardano la storia, rimasero quasi del tutto inesplicate da parte dei commentatori delle epoche passate [delle Sacre Scritture], poiché trascurarono quasi tutta l'informazione che era necessaria" per un'esposizione accurata di questi argomenti (cronologia, sequenza, antecedenti, e così via). Ma ciò non significa che in tutti i campi i pensatori del passato fossero privi di ciò che era necessario ad una solida comprensione. Pensare questo significa compiere un'estrapolazione dal particolare al generale o all'universale fondamentalmente antistorica e filosoficamente vacillante. Lonergan, ad esempio, ci dice che il nome "mentalità storica" -­‐ il nome che egli preferiva per il suo pensiero -­‐ nacque dal teologo anglicano Alan Richardson. Omette di 64 rilevare che Richardson in realtà adottò l'espressione da un passaggio in cui lo storico illuminista americano Karl Becker, miscredente e laicista, spiega alla Scuola di Legge di Yale, nel 1931, il motivo per cui né lui né alcun uomo moderno possono capire la definizione tomista di legge naturale. Ora, questo fatto riguardante la storia di quell'espressione non indebolisce affatto la validità storica o filosofica della tesi di Lonergan. Ma la spiegazione di Richardson della mentalità storica, ispirata a Becker, è questa: Poiché oggi abbiamo una mentalità storica, possiamo capire un'idea o una dottrina solo quando la mettiamo in relazione con la sua storia; possiamo identificare un concetto solo considerando non come qualcosa di statico... ma come un'entità vivente, in via di sviluppo. Richardson compie qui un'estrapolazione dai particolari ad un'affermazione universale (..solo quando...solo considerando...), che è auto-­‐confutatoria: posiamo capire una dottrina solo quando la mettiamo in relazione con la sua storia, e possiamo identificare un concetto solo considerandolo in evoluzione. Se queste dottrine di Richardson e Becker (e Lonergan?) potessero essere comprese solo mettendole in relazione con la loro storia (cosa che né Richardson né Becker si sforzarono di fare), tale relazione o spiegazione storica potrebbe solo ricondurci ad altre dottrine, che invero potrebbero essere capite solo tornando indietro ad altre dottrine ancora, che potrebbero essere capite solo ... e così via: un regresso doppiamente vizioso. E se un concetto si potesse identificare solo considerandolo in evoluzione, non potremmo identificare adesso ciò che Richardson intese quando pronunciò questa affermazione trentacinque anni fa, o Becker la sua analoga affermazione altri trentacinque anni prima. E naturalmente tale affermazione è incoerente non solo rispetto alla sua pretesa di intelligibilità, ma anche rispetto a molte altre cose nella pratica della scienza e della filosofia. Per quanto riguarda il particolare esempio di Becker sull'intelligibilità del concetto tomista di legge naturale, esso risulta totalmente falso -­‐ dal momento che il concetto tomista, per quanto spesso mal compreso, può essere capito bene da chi legge la sua opera con attenzione -­‐ e anche auto-­‐confutatorio: infatti, Becker non può sapere che ogni interpretazione dall'affermazione tomista, da parte dei moderni interpreti, riguardo alla legge naturale risulta fraintesa se non si capiscono quelle affermazioni. La mia seconda osservazione sul tentativo di Lonergan di distinguere fra classicismo e mentalità storica è che essa sostanzialmente fraintende la storia della filosofia classica e della teologia cattolica. Lonergan dichiara che "i classici credevano di poter evitare la storia, di poter incapsulare la cultura nell'universale, nel normativo, nell'ideale, nell'immutabile...", e che per i classici tutta la scienza "procede da principi necessari e auto-­‐evidenti". Nella stessa pagina dice: "Ogni buon aristotelico sa che non c'è scienza dell'accidente (Aristotele, Metafisica, VI, 2, 1027 a 19 f)". Tuttavia, per Aristotele e per Tommaso, "necessità" e "scienza" sono termini analoghi, non univoci, e pertanto chi si cura di consultare la pagina della Metafisica in questione imparerà che la scienza si estende all'ut in pluribus, cosa che avviene non necessariamente (strictu sensu) ma per lo più. Dalla pagina successiva, poi, si imparerà che l'accidentale di cui non c'è scienza non è nient'altro che ciò che non ha causa, che non ha affatto spiegazione. Ma persino negli eventi unici ("concreti", "storici") c'è, secondo Aristotele (sempre nello stesso punto della Metafisica), una spiegazione che, sebbene non mostri che gli eventi siano accaduti per necessità strictu sensu, danno una genuina conoscenza attraverso le cause del perché siano accadute (o, se si riferiscono al futuro, le basi per una ben fondata previsione). Se a qualcuno, per considerare l'esempio stesso di Aristotele, avesse sete perché ha mangiato del cibo piccante, e dunque uscisse a bere qualcosa, ma andasse incontro a morte violenta perché assalito da dei ladri che erano in agguato, potremmo dare numerose valide spiegazioni in termini di cause non accidentali per la sete derivata dal cibo piccante, e potremmo spiegare il suo carattere non accidentale per se, in qualunque modo lo si intenda. Così, la scienza, la conoscenza autentica come la intendono i filosofi e i teologi classici come Aristotele e Tommaso, si estende al di là della necessità in senso 65 stretto e dell'ut in pluribus, al per se che abbraccia l'intenzione delle azioni uniche, eccezionali e intenzionali. Si può estendere cioè a fondare un'intera scientia, la teologia, principalmente su una identificazione del sensu litteralis sensu historicus, sull'insieme di proposizioni che la testimonianza della rivelazione e la sua trasmissione nella storia intendono effettivamente affermare come vere. Per Tommaso tale scienza, nonostante abbia un oggetto immutabile e a-­‐
storico, cioè Dio, riporta tutto alla relazione con Dio, e così avviene anche per la storia della salvezza: la caduta, la praeparatio evangelica, l'incarnazione e la vita di Gesù, l'istituzione dei sacramenti e la fondazione della Chiesa...sono tutte cose che implicano il cambiamento, una radicale concretezza, eventi unici, la necessità di intenzioni liberamente scelte... La grande questione che è stata eliminata dai tentativi programmatici di distinguere fra mentalità classica e mentalità storica è quella della verità. Anche se i moderni dalla mentalità storica sono consapevoli della diversità, dello sviluppo e del decadimento delle culture (qualcosa che era assai ben noto ad Erodoto, a Platone, ad Aristotele e ai loro lettori), e se l'idea classica di cultura non è "empirica" ma "normativa", la questione resta tuttavia da affrontare. Non c'è davvero alcuna classificazione delle culture, e dei loro ordini politici e giuridici? O ancora: non c'è davvero alcuna chiesa cattolica, e la Chiesa Cattolica non ha creato alcuna cultura universale, allo stesso tempo "normativa" ed "empirica", attraverso le scelte storicamente fatte da suoi fondatori (come vediamo nella preghiera del Signore, o nella Messa, in cui si offre lo stesso vero sacrificio che fu offerto un giorno sul Calvario)? Distinguendo il classicismo dalla mentalità e dalla coscienza storiche, Lonergan e altri come lui tentano di descrivere un mutamento, ma ci sollecitano anche ad unirci a loro nell'abbracciare l'ultima, migliore (e più elevata), prospettiva. La loro distinzione è contemporaneamente empirica e normativa. Ha bisogno di argomentazione, e nella sua principale esposizione di tale distinzione, Lonergan ne offre una, nella forma di un resoconto di ciò che chiama dialettica ed esperimento della storia. (Va osservata l'antistoricità delle metafore "dialettica" ed "esperimento", a cui egli sottomette la comprensione del corso storico). Ciò procede nei termini di una successione di livelli di significati umani in evoluzione, dove il primo livello riguarda il fare, il secondo (in cui si trova la nozione classica di coscienza) soprattutto il parlare e il terzo "la comprensione umana da cui si originano le evoluzioni"; questo livello supremo, che rappresenterebbe anche la coscienza storica nella sua pienezza, sembra essere precisamente raggiunto con la spiegazione, da parte dell'autore stesso, del "metodo empirico generalizzato" -­‐ il metodo annunciato nel suo libro Insight, come egli lascia intendere. Vinciamo la tentazione di aprire ora una parentesi sulla posizione autenticamente hegeliana e comtiana delle riflessioni di Lonergan riguardanti il significato storico-­‐mondiale della sua propria opera. Il punto che conviene notare è piuttosto come l'intero processo sia tale da "avere le sue origini nelle tensioni della coscienza umana adulta". Naturalmente, "la coscienza umana adulta" è una categoria quanto mai "classica", già indagata con notevole profondità dalla tradizione. Secondo la tradizione, è fondamentale per lo sviluppo individuale e sociale la tensione fra la ragione e il sentimento, fra l'intelligenza e l'emotività o affettività. La virtù, nella tradizione, non è la soppressione o il dominio dispotico della propria affettività. Ogni azione buona e intelligente deve essere sostenuta da qualche emozione, e in una persona ben ordinata anche le emozioni conflittuali e dissonanti hanno il posto loro proprio all'interno di un'armonia o di una decisione interiore. Ma l'intelligenza coglie i beni, i valori, i benefici, gli aspetti emergenti dell'uomo, che l'affettività in quanto tale non può apprendere, e questi principi appartengono ad ogni decisione razionale. Lonergan utilizzò assai poco questo tema centrale della tradizione, poiché, come ho già detto altrove, pervenne all'idea che l'apprensione dei valori debba rimanere nell'affettività, che "l'apprensione dei valori e dei disvalori non sia un compito della comprensione ma della risposta intenzionale", cioè della 66 "sensibilità" e dei "sentimenti". Potrei continuare a tratteggiare queste visioni decisamente discutibili del fondamento dell'etica e della radice del peccato, ma il mio intento qui è semplicemente quello di far vedere come la questioni pertinenti che egli solleva si ritrovino tutte perfettamente all'interno del metodo filosofico "classico", e siano trattate da Lonergan con uno stile del tutto classico, utilizzando esattamente il tipo di strumenti filosofici che egli assegnò al secondo livello della storia della dialettica. Il metodo impiegato da Lonergan o da Rahner, o dai loro molti epigoni, non mi pare più cosciente o più storicamente critico di quello impiegato da Aristotele nel tracciare i vari percorsi dello sviluppo sociale, politico e filosofico nella Politica e nella Metafisica. In realtà, per alcuni rilevanti aspetti, i metodi usati da Lonergan e da Rahner sono storicamente meno coscienti e critici di quello di Aristotele. Ad esempio, Lonergan assegna al terzo livello lo studio dello sviluppo intellettuale e del metodo, non in virtù di una conoscenza e di un ragionamento storico, ma attraverso una forma di argomentazione che è eminentemente classica, cioè l'estrapolazione, alla maniera di Rahner, dell'argomento dell'incoerenza auto-­‐referenziale -­‐ una forma di argomentazione utilizzata, come ho già ricordato, da Platone, e più tardi da Aristotele, dagli Stoici, estesamente da Agostino, e meno estesamente da Tommaso. Lonergan non studiò attentamente questa forma di argomentazione, e il suo tentativo, piuttosto maldestro, di utilizzarlo nel suo Insight rappresenta uno dei punti più deboli di un libro che contiene molto di buono. Come ho detto riguardo alle dichiarazioni di Rahner sulle interpretazioni "trascendentali", sugli aspetti "trascendentali" della natura umana, ecc., la spiegazione filosofica di ciò che implica l'atto di asserire non prevede un metodo particolare, e le verità che si possono ottenere non hanno una particolare necessità metafisica, né una necessità "trascendentale", anche se la loro discussione è particolarmente facilitata dalla speciale prossimità dei fatti che sono dati nell'atto scettico di negarli. Non esistendo così uno status metafisico peculiare per le verità che si sostengono attraverso l'argomentazione secondo cui i tentativi di negarle cadono nell'incoerenza auto-­‐referenziale, scompare non solo la possibilità di affermare una natura umana trascendentale di tipo rahneriano, ma anche la possibilità di affermare un terzo livello lonerganiano nella dialettica della storia in generale o del ruolo della storia della filosofia, o della teologia in specifico. In breve, i molti teologi che sono stati colpiti dalle idee di natura umana e di storicità di Lonergan e di Rahner sono stati comprensibilmente depistati da teologi deboli come German Grisez, credendo di potere in tal modo riappropriarsi e sviluppare autenticamente la tradizione, e di prendere seriamente in considerazione Tommaso con la sua intuizione, a lungo trascurata (I), per cui la normatività o direttività della legge naturale è interamente coincidente con la normatività e la direttività dei beni, (ii) che "la virtù umana, che rende buone sia le persone umane sia le loro opere, è in accordo con la natura umana proprio in quanto (tantum...inquantum) è in accordo con la ragione..."(85), e (iii) che la natura umana, la quale per disposizione originaria di Dio è perfettibile e perfezionata dalla realizzazione di questi beni attraverso le azioni di persone umane che colgono questi beni come prosequenda et faccenda, è una natura conoscibile in modo adeguato e critico solo con l'aiuto di alcune possibilità, ma non di altre, intese come opportunità, cioè come beni intelligentemente desiderabili. 67 (1) Platone, Gorgia, 48e 5-­‐6; 487e; 513d. Sui "tratti della verità" si veda la discussione di Wiggins in J.M. Finnis,Fundamentals of Ethics, Oxford: Oxford University Press, 1983: 63-­‐64. (2) Platone, Gorgia, 487a 2-­‐3: episteme, eunoia, parresia. (3) Ibid., 487a-­‐e; si veda anche 473a-­‐e, 492a, 500b-­‐c, 521a. (4) Si veda ibid., 472 a, 475e. Si deve aggiungere un aspetto che spesso non è stato notato da coloro che parlano del "peso del giudizio" e del "pluralismo di fatto", e cioè che in condizioni non-­‐
ideali (ovvero tutte le condizioni attuali e prevedibili) l'assenza dell'assenso universale ad una proposizione, insieme all'esistenza di un vasto dissenso su di essa, non danno l'evidenza della sua falsità. (5) Ibid., 509b 1. (6) Ibid., 505e 4-­‐6. (7) "L'illusione che sottostà alla maggior parte delle negazioni dell'oggettività dell'etica è questa: ciò per cui i giudizi veri hanno verità secondo corrispondenza ("i fatti", "il mondo", "la realtà"...) in qualche modo lascia aperta la possibilità di un'introspezione svolta con mezzo diverso dal raggiungimento razionale dei giudizi veri del tipo in questione (scientifici, storici, crittografici,... e, perché no?, valutativi...). Tale illusione è la radice di tutti programmi riduttivisti che chiamiamo empirismo filosofico -­‐ programmi come quello di Hobbes e di Hume e dei loro successori..." (M.J. Finnis,Fundamental...cit., p. 64 (trad. mia, n.d.t.)). Fra i successori c'è, a suo modo e a dispetto delle sue intenzioni, Kant (cfr.ibid., pp. 122-­‐124). (8) Platone, Gorgia, 505c 6, citato alla nota 6. (9) Se le sue affermazioni lasciano Polo e Callicle poco colpiti, non mancano però di commuovere il vecchio sofista Gorgia (vedi ibid., 506a). In verità, come Platone presume e per certi versi prevede, tali affermazioni sono appelli che passano sopra le teste (e sotto il livello di attenzione) delle persone irragionevoli, per dirigersi a chiunque sia desideroso di ascoltare (la divisione fra persone ragionevoli e irragionevoli si ritrova anche all'interno del sistema mente-­‐volontà proprio di ciascuno -­‐ cioè di tutti). (10) Si veda in J. Buchler, The Philosophy of Peirce, London: Routledge & Kegan Paul, 1940: 3041, un passaggio in cui Peirce, mettendo in corsivo la parola "insight" parla di "suggestione adduttiva (che) ci viene come un flash, come un "atto d'intuizione"". L'enfasi di Peirce sulla fallibilità del pensiero che così emerge è del tutto compatibile con la tesi aristotelica (si veda Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, q. 85 a. 6) per cui l'intuito (nous, intellectus) è intrinsecamenteinfallibile, dal momento che in ogni istante particolare, ciò che ci sembra puro e semplice intuito (che non potrebbe non farci capire le cose come sono) può di fatto essere una semplice "idea brillante", distorta da una svista, da fantasia immaginativa e/o da un precedente o successivo ragionamento fallace. In ogni caso, tenendo in mente questa possibilità di errore, si deve andare oltre il semplice intuito del giudizio (in sé materia di intuito per quanto riguarda la realizzazione delle condizioni di adeguatezza ai dati, la validità argomentativa, ecc.). Perfino l'intuito basilare dei primi principi viene opportunamente rivisto e discusso da ciò che la tradizione chiama "dialettica". In questo modo, la "saggezza" non consiste solo nel trarre correttamente conclusioni, ma anche nel formulare giudizi sui principi primi indimostrabili e confutando (disputando) coloro che li negano: cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-­‐II, q. 66 a. 5 ad 4; J.M. Finnis, Aquinas: Moral, Political, and Legal Theory, Oxford: Oxford University Press, 1998: 88. A sottolineare l'abbandono kantiano del concetto aristotelico di giudizio troviamo "l'impronta empirista così spesso denunciata nel pensiero kantiano": cfr. B.J.F. Lonergan, Insight, London: Longmans, 1958: 154, 339-­‐342; cfr. J.M. Finnis, "Historical Consciousness" and Theological Foundations, Toronto: Pontifical Institute for Medieval Studies, 1992: 16. R. E. Allen (ed.), The Dialogues of Plato, vol. 1, New Haven: Yale University press, 19++: 68 220, pone chiaramente le radici della questione -­‐ per quanto "insight" sia un termine migliore di "intuizione": "assumendo senza obiezioni la non esistenza dell'intuizione intellettuale, su cui si basa la tradizione classica della metafisica, (Kant) trascurò di provare che ciò che chiamava ragione teoretica è vano nella metafisica e nell'etica...". (11) J.M. Finnis, Scepticism, Self-­‐refutation and the Good of Truth, in P.M. Hacker e J. Raz (eds.), Law, Morality and Society: Essays in honour of H.L.A. hart, Oxford: Oxford University Press, 1977: 247-­‐267. (12) Ibid., p. 251, alla base di cui si trova G. Isaye, La justification critique par rétorsion, «Revue philosophique de Louvain», 52, 1954: 205; J.L. Mackie, Self-­‐refutation -­‐ A Formal Analysis, «Philosophical Quarterly»14, 1964 : 195-­‐196 ; J.M. Boyle, Self-­‐referential Inconsistency, Inevitable Falsity and Metaphysical Argumentation, "Metaphilosophy", 5, 1972. Si veda anche J.M. Finnis, Natural Law & Natural Rights, Oxford: Oxford University Press, 1980: 73-­‐75; J.M. Boyle, G.G. Grisez, O. Tollefsen, Free Choice: A Self-­‐referential Argument, Notre Dame, Indiana: University of Notre Dame Press, 1976: 122-­‐138. (13) "Caro amico (Socrate), lasciati persuadere da me. Smettila con la confutazione (elenchon) ed esercita la musica dei fatti (pragmaton). Esercita ciò che ti farà apparire saggio (doxeis phronein). ... Non emulare gli uomini che praticano la confutazione (elenchontas) in queste questioni insignificanti, ma piuttosto coloro che possiedono vita, gloria (fama) (doxa) e molti altri beni" (Platone, Gorgia, 486c-­‐d). (14) Si veda Tommaso D'Aquino, Sentienta super metaphysicam IV, 6, n. 14 (609): l'elenchus o argumentatio (che Tommaso pensa sarebbe stato meglio chiamare redarguitio, auto-­‐
confutazione: n. 13 (608)) non "la dimostrazionesimpliciter". (15) La loquacità di molti "post-­‐modernisti" cerca di nascondere l'irrazionalità, l'arrendevolezza la male, implicate dal perdurare in tali incoerenze performative. (16) È tale, in ultima analisi, una negazione dell'evidenza (dei dati), e perciò non si tratta tanto di una questione di incoerenza logica, quanto di allontanarsi o di rendersi ciechi rispetto a ciò che così è, cosa da cui Socrate implorò di salvarsi, perfino quando ciò non implicasse alcuna incoerenza logica: "se a qualcuno di voi sembra che io sia d'accordo con me stesso in qualcosa che non è come credo, dovete approfittarne e confutarmi" (Platone, Gorgia, 506a2-­‐2). L'illogicità non è il solo, e forse nemmeno il più pericoloso, ostacolo alla verità. (17) Cfr. ibid., 509 a7. (18) Ibid., 519 c4. (19) Si veda ibid., 482 b6. (20) Ibid., 482 d -­‐ 483 a. (21) Si veda ibid., 525 a2-­‐3. (22) Così Callicle ama e adula sia il popolo (demos) che il suo amante Demos (ibid., 481 d, 513 b-­‐
d), mentre Socrate si preoccupa di non lasciare che le opinioni mutevoli del suo amato Alcibiade lo distolgano dagli argomenti immutabili della filosofia, suo più grande amore (482 d). Oppure, come dice Callicle, si dovrebbe (e Socrate alla fine lo farà, pensa egli fiduciosamente -­‐ e, noi sappiamo, erroneamente -­‐ ) abbandonare la filosofia ("spendere la vita bisbigliando in un angolo con qualche bimbo": 485 e) in favore di "libere, importanti, sufficienti" fatti delle corti, affari pubblici e privati, "piaceri e desideri umani", insomma dell'intera voluttuosa "musica dei fatti": 484 d, 485 e, 486 c. Si consideri inoltre l'ammissione strappata all'anima di Callicle, più avanti nel discorso: "non so perché, ma mi sembri sensato, o Socrate. Tuttavia provo affetto per la folla. Non sono affatto d'accordo con te": 513 c. (23) Da non confondere con l'unilaterale "altruismo" introdotto da Comte. Poiché l'amico A vuole il bene dell'amico B per amore di B, e B il bene di A per amore di A, A deve anche volere il suo stesso bene (per amore di B)ce B il suo stesso bene (per amore di A), cosicché ciascuno viene 69 innalzato ad una nuova prospettiva, cioè la preoccupazione per un autentico bene comune. Si veda J.M. Finnis, Natural Law...cit., pp. 142-­‐144, 158; Idem, Aquinas... cit., pp. 111-­‐117. (24) 507 d. (25) 507 b-­‐c. (26) "È così che io stabilisco queste cose, e sostengo che sono vere. E se sono vere, chi vuole essere felice deve, a quanto pare, ricercare e coltivare la temperanza, fuggire la dissolutezza con quanta forza ha nelle gambe... Questo mi pare che sia il riferimento a cui dobbiamo guardare e puntare nella, tendendo tutte le proprie forze e quelle della città a questo scopo: che vi siano giustizia (dikaiosyne) e temperanza (sophrosyne) in colui che vuole essere felice. Non bisogna lasciare sopravvivere i propri desideri sfrenati cercando di soddisfarli, il che sarebbe un male senza fine, producendo una vita da ladrone... né amico di un altro uomo né di un dio, perché incapace di condividere (koinonein); e non può esserci amicizia se non c'è condivisione (koinonia) con alcuno" (ibid., 507 c-­‐e). (27) Si veda ad esempio 489 b1 (dikaion to ison); e 508 a6 sull'uguaglianza geometrica come principio informante della giustizia. (28) Sui tentativi di identificare un elenco, più o meno esaustivo, dei beni umani fondamentali e delle ragioni dell'azione, si veda J.M. Finnis, Natural Law...cit., pp. 59-­‐99; Idem, Aquinas...cit., pp. 80-­‐86; G.G. Grisez, J.M. Boyle, J.M. Finnis,Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends "American Journal of Jurisprudence", 1987, 32, 99, pp. 106-­‐115. (29) "...La disposizione appropriata e il buon ordine dell'anima portano il nome della legittimità e del diritto, per cui le anime diventano rispettose della legge e ordinate; e questo corrisponde alla giustizia e alla temperanza .. (e) alle altre virtù...": Platone, Gorgia, 504 d, e. "... C'è senz'altro un ordino appropriato in ogni cosa, e affine ad esse, che genera un bene naturalemente adatto ad esse...". Ogni esercizio autentico della ragione pratica, come la vera arte (techne) della medicina in opposizione alla mera abilità orientata al piacere (empeiria), come la pasticceria (500 e 5), la cosmetica o la politica di adulazione retorico-­‐sofistica (463 b), "considera la natura (physin) della persona che serve a la causa (e natura (physin): 465 a 4) di ciò che fa e di cui sa dare ragione (logon)" (501 a 1-­‐3). (30) Per un'attenta documentazione della stretta relazione fra Callicle e Nietzsche, si veda E.R. Dodds (ed.), Plato: Gorgias: A Revised Text with Introduction and Commentary, Oxford: Oxfrod University Press, 1959, pp. 387-­‐391. Per un breve ma profondo commento delle pagine di Dodds, e sulle differenze che caratterizzano il post-­‐kantismo di Niezsche, si veda Allen, Dialogues of Plato, vol. I, pp. 220-­‐221. (31) Kata physin...dikaiou: Plato, Gorgias, 483 e1 (e perciò kata nomon...physeous: e3); inoltre 484 b1 (physeos dikaion), 488 b2-­‐3. (32) 482 e -­‐ 484 b. (33) 488 d. (34) 521 a-­‐b insieme a 518 a-­‐d. (35) 494 c-­‐e. (36) Per una critica delle metodologie etiche che suggeriscono di sottomettere tutte le regole, negative e positive, ad un "test" di appropriatezza "alla situazione", si veda ad esempio J.M. Finnis, Moral Absolutes, Washington, DC: Catholic University of America Press, 1993, pp. 16-­‐24; Idem, Fundamentals...cit., pp. 80-­‐108; J.M. Finnis, J.M. Boyle, G.G. Grisez,Nuclear Deterrence, Morality and Realism, Oxford: Oxford University Press, 1987, pp. 238-­‐272. (37) Si veda Tommaso d'Aquino, De Unitate Intellectus, III.3 (79); J.M. Finnis, Aquinas...cit., pp. 177-­‐179. (38) Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae I-­‐II 100, 3 ad 1; 11 c. Si veda J.M. Finnis, Aquinas...cit., pp. 115-­‐131, soprattutto p. 126. 70 (39) Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae., I-­‐II 95, 2 c; 100, 1 c; 3 c & ad 1; 6 c; 11 c & ad 1; 94, 6 c; J.M. Finnis,Aquinas... cit., p. 125. (40) Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-­‐II 95, 1 ad 2; 100, 3 ad 1; 100, 11 c; II-­‐II q. 44 a. 2. Negli ultimi tre riferimenti questo principio, o precetto, o comando, è unito al comando di amare Dio, mentre in II-­‐II 99, 1 ad 2 e in II-­‐II 44, 2 c & ad 4 il comando di amare Dio è implicitamente contenuto nel precetto di amare il prossimo (come il fine è implicito in ciò che è relativo al fine (quod est ad finem)). Si veda anche J.M. Finnis, Aquinas...cit., pp. 126 e 314. (41) Si veda ibid., pp. 138-­‐143 e 124-­‐129. (42) Può qualcosa essere più o meno morto? Sì. Si considerino, ad esempio, certi grandi alberi caduti, dal cui ramo possono crescere alcuni rimanenti germogli. (43) Il significato di tale fine "obbligante-­‐esplicante" è in ultima analisi considerato più sotto, nella sezione 7. (44) J. Locke, Questions concerning the Law of Nature (1660-­‐1665), ed. R. Horwitz, J.S. Clay, D. Clay, Ithaca: Cornell University Press, 1990, pp. 192-­‐193. (45) Ibid., pp. 158-­‐159, 166-­‐167. (46) Si veda ibid., pp. 102-­‐103. (47) Si veda ibid., pp. 204-­‐205. (48) Si veda ad esempio S. Pufendorf, Elementorum Jurisprudentiae Universalis Libri Duo, Vol. 2, The Translation, a cura di W.A. Oldfather, Oxford University Press, 1931: I def. 12 sez. 17: "infatti, se hai allontanato da Dio la funzione di amministrare la giustizia, tutta l'efficacia dei ... patti, all'osservanza dei quali le parti contraenti non possono obbligare l'altro con la forza, si spegne immediatamente, e ognuno misurerà la giustizia secondo il suo vantaggio particolare. E sicuramente, se vogliamo ammetterlo, allorquando la paura della vendetta divina è venuta meno, non si vedono ragioni sufficienti per cui si dovrebbe essere obbligati, una volta mutate le condizioni che mi davano un vantaggio, a fornire ciò per cui mi ero legato all'altra parte quando i miei interessi mi conducevano in quella direzione; ciò vale, naturalmente, se non devo temere alcun vero male, almeno da un uomo, in conseguenza di quell'atto". (49) J. Locke, Questions...cit., pp. 165-­‐166: "patet... posse homines a rebus sensibilibus colligere superiorem esse aliquem potentem sapientemque qui in homines ipsos jus habet et imperium. Quis enim negabit lutum figuli voluntati esse subjectum, testamque eadem manu qua formata est" (corsivi aggiunti). (50) Si veda ibid., pp. 178-­‐179 (passaggio cancellato da Locke nel 1664). (51) Si veda T. Hobbes, De Corpore Politico (1650), parte I, cap. 3; Idem, Leviathan, cap. 14; J.M. Finnis, Natural Law...cit., pp. 348-­‐349 (in cui si citano e si analizzano i passaggi più rilevanti, additando alle fallacie date dagli equivoci temporali e dalle preferenze cronologiche inesplicate inerenti alla sua strategia). (52) Si veda J.M. Finnis, Natural Law...cit., p. 349. (53) Per un elenco dei beni primari si veda J.M. Finnis, Is Natural Law Theory Compatible with Limited Government?, in R.P. George (ed.), Liberalism and Morality, Oxford: Oxford University Press, 1996, pp. 1-­‐26, specialmente p. 4; più in dettaglio, si veda Idem, Aquinas...cit., pp. 79-­‐86; prima, Idem Natural Law...cit., pp. 59-­‐99. (54) Si veda J.M. Finnis, Legal Enforcement of Duties to Oneself: Kant versus Neo-­‐Kantians, Columbia law Review, 1987, 87, pp. 433-­‐456, sosprattutto pp. 443-­‐445 e pp. 454-­‐456. (55) Si veda J.M. Finnis, Aquinas...cit.., pp. 29-­‐34. (56) Ibid., pp. 90-­‐94, 102. (57) Sui tre livelli di inclinationes a cui fa riferimento la Summa Theologiae, si veda J.M. Finnis, Aquinas...cit., pp. 92-­‐93. Il tipo o livello decisivo di "inclinazione naturale" sono, specie in Summa Theologiae I-­‐II 94, 2 c, le inclinazioni connaturali alla nostra volontà, le quali, come 71 tutte le operazioni della volontà, seguono la comprensione che l'intelletto ha dei beni intelligibili -­‐ essi rappresentano le nostre risposte naturali a tale primaria comprensione pratica, e la loro normatività nei nostri confronti è implicata dalla bontà intelligibile, dall'intrinseca desiderabilità, dei beni intesi come beni attraverso l'intuizione pratica. Rendere primarie le inclinazioni significa sfidare e rovesciare la comprensione più profonda di Aristotele, e cioè che noi desideriamo le cose perché sono (o ci sembrano) desiderabili: Metafisica XII, 7: 1072 a 29-­‐30. (58) Si veda J.M. Finnis, The Good of Marriage and the Moralità of Sexual Relations: Some Philosophical and Historical Observations, "The American Journal of Jurisprudence", 1997, 42, pp. 97-­‐134, soprattutto pp. 102-­‐114. (59) J.M. Finnis, G.G. Grisez, J.M. Boyle, "Direct" and "Indirect": A Reply to Critics of Our Action Theory "The Thomist", 2001, 65, pp. 1-­‐44. (60) Si vedano le citazioni in J.M. Finnis, Moral Absolutes...cit., p. 73. (61) J. Porter, Nature and Divine Law, Ottawa-­‐Novalis, Grand Rapids: Eedermans, 1999, p. 54. (62) K. Rahner, Natural Moral Law, in K. Rahner e H. Vorgremler, Concise Theological Dictionary, Fribourg: Herder, 1965, p. 305. Lonergan parla favorevolmente di questo contributo in B. Lonergan, The Transition from a Classicist World-­‐View to Historical Mindedness, in B. Lonergan, A Second Collection, London: Darton, Longman e Todd, 1974, p. 6. (63) Si veda J.M. Finnis, Historical Consciousness...cit., pp. 12-­‐16, 24-­‐29. (64) K. Rahner, Basic Observations on the Subject of the Changeable and Unchageable Factors in the Church, in K. Rahner, Theological Investigations XIV, New York: Crossroad, 1976, p. 15. Per ulteriori riferimenti e critiche, si veda J.M. Finnis, The Natural Law, Objective Moralità, and Vatican II, in W.E. May, Principles of Catholic Moral Life, Chicago: Franciscan Herald Press, 1980, pp. 113, 139-­‐142, 158-­‐149; G.G. Grisez, Christian Moral Principles, Chicago: Franciscan Herald Press, 1983, p. 869 n. 62. (65) Si veda J.M. Finnis, Fundamentals...cit., pp. 42-­‐45. (66) Si veda Idem, Historical Consciousness...cit., pp. 1-­‐3. (67) Ibid. (68) Enciclica Divino Afflante Spiritu, Acta Apostolicae Sedis, 1943, 35, pp. 309, 313. (69) A. Richardson, History, Sacred and Profane, London: SCM Press, 1964, p. 253; C. Becker, The Heavenly City of the Eighteenth-­‐Century Philosophers, New Haven: Yale University Press, 1932, p. 19. (70) Naturalmente, come indica l'influsso che ha avuto la tesi di Lonergan, ebbe alcune basi di verità significative. J.M. Finnis, Historical Consciousness...cit., pp. 6, 17, offre diversi esempi a supporto di quelli a cui si riferisce Pio XII; cfr. sopra n. 68. (71) B. Lonergan, Second Collection...icit., p. 112. (72) Ibid. (73) Aristotele, Metafisica VI, 2-­‐3, 1027 a 19 -­‐ b 16; Tommaso d'Aquino, ad loc.; Idem, In Peri Hermeneias I lett. 1 q 4, nn. 187, 194. (74) Idem, Summa Theologiae I, 1, 10 c; Idem In epistolam ad Galatas c. 4 lett. 7; cfr. Vaticano II, Dei Verbum 12: "... interpretes Sacrae Scripturae ... attente investigare debet, quid hagiographi reapse significare intenderint...". (75) F.E. Crowe (ed.), A Third Collection: Papers by Bernard J.F. Lonergan S.J., London: Geoffrey Chapman, 1985, p. 181. (76) Ibid., p. 177. (77) Ibid., pp. 176-­‐178, soprattutto l'ultimo paragrafo di p. 177. (78) Si veda ibid., le ultime tre linee di p. 177. (79) Ibid., p. 178. 72 (80) B. Lonergan, Method in Theology, London: Darton, Longman e Todd, 1972, pp. 247, 67, 115: si veda anche Idem,Third Collection...cit., pp. 173, 141 ("L'apprensione dei valori risiede nell'affettività"). (81) Si veda J.M. Finnis, Fundamentals...cit., pp. 42-­‐45, 54-­‐55. (82) Si veda J.M. Finnis, Self-­‐refutation and the Good of Truth, in P.M. HACKER, e J. RAZ, (eds.), Law, Morality, and Society, Oxford: Oxford University Press, 1977, pp. 247-­‐67, soprattutto pp. 257-­‐8. (83) Si veda J.M. Finnis, 'Historical Consciousness'...cit., pp. 15-­‐16, e B. Lonergan, Insight...cit., p. 342. (84) Principalmente (per larga parte della sua opera), G.G. Grisez, The Way of the Lord Jesus vol. 1, Christian Moral Principles; vol. 2, Living a Christian Life, Quincy, Illinois: Franciscan Press, 1993; vol. 3, Difficult Moral Questions,Quincy: Franciscan Press, 1998. (85) Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae I-­‐II, 71, 2 c. 73 CHARLES MOREROD
NATURA E LEGGE NATURALE NEL CATTOLICESIMO E NEL PROTESTANTESIMO Non c'è un reale parallelo fra cattolicesimo e protestantesimo. Benché ci sia una diversità fra i teologi cattolici, si può descrivere una posizione ufficiale della Chiesa cattolica su che cosa è la legge naturale. Non ci si trova tale posizione ufficiale nel protestantesimo, per ovvi motivi: 1. non c'è soltanto un protestantesimo, 2. la maggior parte delle confessioni protestanti non hanno un autorità d'insegnamento. Presenteremo dunque i principi della concezione cattolica della legge naturale, e poi cercheremo d'identificare alcuni presupposti fondamentali presenti nei diversi approcci protestanti della legge naturale. IL PUNTO DI VISTA CATTOLICO Diverse leggi La teologia cattolica distingue tradizionalmente diverse leggi, che sono coordinate: "Le espressioni della legge morale sono diverse, e sono tutte coordinate tra loro: la legge eterna, fonte, in Dio, di tutte le leggi; la legge naturale; la legge rivelata, che comprende la Legge antica e la Legge nuova o evangelica; infine le leggi civili ed ecclesiastiche." Il motivo per il quale queste leggi sono coordinate è la loro comune origine: Dio, che agisce nella creazione e nella rivelazione -­‐ redenzione. Il peccato originale non distrugge la natura. NATURA UMANA E LEGGE NATURALE La legge naturale è -­‐ almeno nel nostro contesto -­‐ la legge della natura umana. La ragione umana può scoprire questa natura umana e i suoi principi: "Supponendo che voi ammettiate anche che l'uomo è un essere dotato d'intelligenza, e che, in quanto tale, agisce comprendendo quello che fa e quindi ha il potere di determinare se stesso ai fini che egli persegue. D'altra parte, avendo una natura, essendo costituito in un certo determinato modo, l'uomo ha evidentemente dei fini che rispondono alla sua costituzione naturale e che sono gli stessi per tutti... Ma poiché l'uomo è dotato di intelligenza e determina a se stesso i propri fini, tocca ali accordare se medesimo ai fini necessariamente voluti dalla sua natura. Ciò vuol dire che vi è, per virtù stessa della natura umana, un ordine o una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire per accordarsi ai fini necessari dell'essere umano. La legge non scritta o il diritto naturale non è altro che questo." La legge naturale distingue il bene e il male , mostra come fare il bene secondo alcuni principi riassunti nel Decalogo , è universale , è immutabile , almeno nei suoi principi fondamentali , benché la sua applicazione possa cambiare . Grazie alla legge naturale, possiamo riconoscere se una legge positiva (accettata in uno determinato Stato) è legittima o no: "Se la legge scritta contenesse qualche cosa di contrario al diritto naturale, sarebbe ingiusta e non avrebbe la forza di obbligare". Alcuni uomini non accettano la legge naturale. La natura umana è unificata in tutti gli individui da una comune origine (Dio), ma anche da un fine comune, come già Aristotele l'aveva mostrato nel primo Libro dell'Etica Nicomachea. Tutti gli uomini, in ogni loro azione, cercano la beatitudine, benché non concordino sulla sua precisa identificazione . Anche chi rifiuterebbe tale fine la 74 cercherebbe in realtà nel suo stesso atto di rifiuto. L'oggetto del libero arbitrio non è il fine ultimo, ma i mezzi per ottenerlo: "L'uomo per necessità vuole la beatitudine, e non può volere l'infelicità, o miseria. Ma l'elezione non ha per oggetto il fine, bensì i mezzi...; non riguarda il bene perfetto, cioè la beatitudine, ma gli altri beni che sono beni particolari. Perciò l'uomo non compie un'elezione necessaria, ma libera." La legge naturale non è sempre percepita con chiarezza, a causa della limitatezza della nostra intelligenza e del peccato. Così Aristotele considerava la schiavitù naturale . Forse nel futuro la pena di morte sarà considerata opposta alla legge naturale. Ma il fatto che noi non siamo sempre capaci di riconoscerla non vuol dire che la legge naturale non esista: "La legge e la conoscenza della legge sono due cose differenti...È per dimenticanza di questa distinzione così semplice che molte perplessità sono nate riguardo alla legge non scritta" . Anche se in alcuni casi la maggioranza agisce contro la legge naturale, questa rimane naturale: "Dunque si devono detestare e punire dappertutto e sempre i vizi contrari alla natura, per esempio i vizi dei sodomiti, che se pure tutti i popoli della terra li praticassero, la legge divina li coinvolgerebbe in una medesima condanna per il loro misfatto, poiché non ha creato gli uomini per un tale uso di se stessi. ... quando è Dio stesso a dare un ordine contrario a un'usanza o a un patto qualsiasi, bisogna metterlo in pratica, anche se in quel luogo non fu mai praticato; e se fu trascurato, bisogna restaurarlo, se non fu stabilito, bisogna stabilirlo." LEGGE NATURALE E RIVELAZIONE Secondo la comprensione cattolica d'armonia fra natura e grazia (gratia supponit naturam ), la legge naturale conosciuta dalla ragione naturale e la morale rivelata non si oppongono l'una all'altra. Al contrario, la rivelazione presuppone la natura: "...A proposito della sua relazione [del cristianesimo] con la natura. Come l'ho detto, il cristianesimo è una semplice addizione ad essa, non la sostituisce né la contraddice, la riconosce e ne dipende, e questo necessariamente: perché come può provare le sue pretese se non riferendosi a quello che gli uomini hanno già? Per miracoloso che sia, non può dispensare dalla natura; questo sarebbe tagliare l'erba sotto i suoi piedi; perché quale sarebbe il valore di testimonianze a favore della rivelazione che negherebbero l'autorità di quel sistema di quel sistema di pensiero, e di quei correnti di pensiero a partire dei quali queste prove necessariamente sono cresciute?" L'Enciclica Fides et Ratio riassume i motivi per i quali non ci si può essere nessun opposizione fra natura e rivelazione: The Encyclical Fides et Ratio summarizes the reasons why there can't be an opposition between nature and Revelation: "La fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione" ; perciò, "È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo" . "Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio" . Se ci fosse una rottura fra natura e grazia, la rivelazione non sarebbe comprensibile, e dunque non sarebbe per niente una rivelazione. Visto che questa rivelazione è rivolta a tutti gli uomini di tutti i tempi, per la loro salvezza, essa presuppone una permanenza della natura umana . Possiamo conoscere la nostra natura e la sua legge. Ma il peccato rende tale conoscenza più difficile e incerta. Perciò, la rivelazione ci aiuta a rendere sicura questa conoscenza: "I precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza ed immediatezza. Nell'attuale situazione, la grazia e la rivelazione sono necessarie all'uomo peccatore perché le verità religiose e morali possano essere conosciute "da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore" [Pio XII, Lett. enc. Humani generis: Denz. -­‐Schönm., 3876]. La legge 75 naturale offre alla Legge rivelata e alla grazia un fondamento preparato da Dio e in piena armonia con l'opera dello Spirito." Per questo motivo il Magistero a volte deve spiegare la legge naturale. Non perché questa legge sarebbe conosciuta soltanto per la fede o sarebbe valida soltanto nella vita dei credenti, ma perché la fede da una lucidità spirituale su quello che è umano: "Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i nostri predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli apostoli la sua divina autorità e inviandoli a insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi e interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale. Infatti anche la legge naturale è espressione della volontà di Dio, l'adempimento fedele di essa è parimenti necessario alla salvezza eterna degli uomini." RIASSUNTO C'è una natura comune a tutti gli uomini, c'è una 'legge naturale' che dice quello che è buono o male secondo questa natura umana. La legge naturale dipende dal Creatore ed è sopra ogni legge umana positiva. La legge naturale può essere conosciuta per la ragione, ma tale conoscenza è resa più difficile dal peccato. La rivelazione divina ci aiuta a conoscere con certezza la legge naturale. La rivelazione divina è trasmessa dalla Chiesa, e dunque il magistero può spiegare che cosa è la legge naturale. LE TENDENZE DELLA RIFORMA A PROPOSITO DELLA LEGGE NATURALE Che autori protestanti? Non c'è soltanto un protestantesimo. Ci sono almeno due correnti maggiori: gli autori protestanti "classici": i principali riformatori e i loro discepoli contemporanei; i protestanti liberali, che hanno mantenuto l'aspetto individualistico della Riforma ma hanno abbandonato la maggior parte della sua teologia. Dipendono fondamentalmente dalla filosofia del loro tempo. Oggi, queste filosofie sono spesso opposte all'idea di legge naturale , o almeno alla sua determinazione o al suo uso nei campi etici e politici . Dobbiamo dunque fare una scelta sul modo di trovare se qualsiasi punto è comune a questi correnti protestanti, sul nostro tema. Studieremo i due maggiori riformatori, Lutero e Calvino, cercando un elemento fondamentale che rimanga fino ai nostri tempi dentro i diversi correnti. Da Lutero e Calvino, cercheremo quel che dicono specificamente a proposito della legge naturale. Poi studieremo il ruolo di queste affermazioni nella globalità dei loro sistemi. UNA LEGGE NATURALE DA LUTERO E CALVINO Lutero Per Martino Lutero, c'è una legge naturale (possiamo considerare che qui diritto naturale e legge naturale abbiano lo stesso senso), che è comune a tutti gli uomini: "Tutto questo si dice del diritto divino e naturale, che anche i pagani, Turchi e Ebrei devono tenere, se qualche pace e ordine devono rimanere nel mondo." Secondo Rom. 2,15, questo diritto è scritto nei nostri cuori, e il suo conteno è fondamentalmente 76 espresso dalla regolo d'oro o nel Decalogo: "Questa legge non è stata promulgata prima nel Decalogo, ma è iscritta nelle anime di tutti gli uomini. È contro di essa che Caino combatte". Calvino For John Calvin, natural law exists and is given by God: "Ora non essendo la legge di Dio, che definiamo morale, se non una testimonianza della legge naturale e della coscienza che nostro Signore ha impresso nel cuore di ogni uomo, non c'è dubbio che in essa sia pienamente manifesta quella giustizia di cui discorrevamo." Calvino definisce la legge naturale e il suo fine, che è di mostrare che l'uomo non la può osservare e ha bisogno della grazia: "Dobbiamo peraltro esaminare a qual fine questa conoscenza della Legge sia stata data agli uomini... Possiamo ricavare questo dalle parole di San Paolo considerando l'andamento del passo...Fine della legge naturale è dunque rendere l'uomo inescusabile. Potremo dunque definirla: una dimensione della coscienza che le permette di discernere tra il bene e il male, tanto da togliere all'uomo la scusa dell'ignoranza, essendo rimproverato dalla propria testimonianza stessa." Vediamo che i due maggiori riformatori accettano la legge naturale. Persino Karl Barth, convintissimo nemico della teologia naturale, ha dovuto riconoscere che i riformatori avevano accettato qualche teologia naturale sul piano morale . Ma si uno può accettare l'esistenza della legge naturale senza affermare la possibilità d'osservarla. LA LIMITAZIONE FONDAMENTALE DEGLI ATTI UMANI La legge naturale tratta degli atti umani. La comprensione di quello che gli atti umani sono e possono essere sarà il contesto in cui si capirà il vero significato della legge naturale. Per Lutero e Calvino, il principio della sola fide implica una limitatezza radicale degli atti umani nella loro relazione con Dio (e non in altri campi). L'idea centrale è che ogni cosa che si afferma a proposito delle azioni umane in relazione alla salvezza è come preso da Dio. Questo è il motivo per il quale Lutero rifiuta il libero arbitrio: "Vorrei qui avvertire i difensori del libero arbitrio onde sappiano quanto segue: essi, affermando che il volere degli uomini è libero, negano Cristo." La stessa struttura si trova chiaramente anche da Calvino: "Se l'uomo si attribuisce qualcosa nella volontà o nell'esecuzione, sottrae qualcosa a Dio." "Se l'uomo si gloria di se stesso, una parte della gloria di Dio è annullata...Poiché tutti coloro che si illudono di possedere qualcosa di per sé, si ergono contro Dio e ne oscurano la gloria." "Bisogna concludere che l'uomo non si può attribuire un sol briciolo di giustizia senza essere sacrilego; visto che sarebbe come sminuire e abbassare la gloria della giustizia di Dio." Questa forma mentis si applica alla teologia sacramentale, perché nessuna realtà creata può essere davvero usata per la trasmissione della grazia. Ecco quello che Calvino dice dell'Eucaristia: "Dobbiamo ora dare una definizione della presenza di Gesù Cristo nella Cena che non la vincoli al pane, lo rinchiuda in esso, non pretenda insomma situarlo in terra in questi elementi corruttibili recando così offesa alla sua gloria celeste...Manteniamo dunque decisamente questi due punti: non permettere che venga recata offesa alla gloria celeste di nostro Signore Gesù Cristo, il che vi verifica ogniqualvolta lo si localizza quaggiù in elementi corruttibili del mondo..." Lutero e Calvino presuppongono che ogni azione attribuita ad una creatura non possa essere totalmente l'opera di Dio. Si deve scegliere fra Dio e le sue creature, soprattutto fra Dio e l'uomo. I riformatori hanno scelto Dio, più tardi alcuni sceglieranno d'uccidere Dio per il bene dell'uomo; ambedue i correnti portano alla secolarizzazione. Comunque, il fatto che non ci sia nessun armonia fra dimensione divina e dimensione umana toglie ogni reale importanza alla legge 77 naturale. Ma tale opposizione fra azione divina e azione umana non è necessaria. San Tommaso mostra che una stessa azione può essere pienamente azione di Dio e azione d'una creatura, ambedue a 100%: "Come niente impedisce che un'azione sia prodotta da un soggetto agente e dalla sua virtù, così niente impedisce che l'identico effetto sia prodotto da un agente inferiore e da Dio: e da entrambi immediatamente sebbene in maniera diversa. È poi evidente, che sebbene le cose naturali producano i loro effetti, non è superfluo che li produca anche Dio: perché le cose naturali non li producono che per la virtù di Dio. E neppure è superfluo, dal momento che Dio può produrre da se stesso tutti gli effetti naturali, che vengano prodotti da cause naturali. Ciò infatti non è dovuto all'insufficienza della virtù di Dio, ma all'immensità della sua bontà, con la quale volle comunicare alle cose la propria somiglianza, non solo comunicando loro l'esistenza, ma anche conferendo ad esse la causalità verso altri esseri: poiché è in questi due modi che le creature conseguono la comune loro somiglianza con Dio... E questo serve a mostrare nelle cose create la bellezza dell'ordine. Inoltre è evidente che l'identico effetto viene attribuito sia alle cause naturali che a Dio, non nel senso che in parte viene prodotto da Dio e in parte dall'agente naturale; ma esso derive tutto e dall'uno e dall'altro, però in maniera diversa: ossia come l'identico effetto è attribuito tutto intero allo strumento e tutto intero all'agente principale." Per i cattolici, tale dottrina aiuta a capire il Nuovo Testamento, dove Gesù da veri compiti ai suoi discepoli: ciò vuol dire che gli uomini possono lavorare per la trasmissione della salvezza senza ridurre l'opera di Cristo. Ma Lutero e Calvino non hanno visto questa possibilità d'evitare la rivalità fra azione divina e azione umana. Ci sembra che Lutero dipenda d'una comprensione semplificata dell'univocità dell'essere scotista : se c'è soltanto un tipo d'essere, allora due autori d'una stessa azione (per esempio due uomini portando un oggetto) devono necessariamente condividere l'azione, in tal modo che nessuno dei due faccia tutto. Se questo si applica alla relazione fra Dio e l'uomo, Dio non è più l'autore di tutta la nostra salvezza. Ma tale conclusione dipende delle premesse della teoria. Lutero non poteva essere veramente cosciente della sua dipendenza da una teoria filosofica, perché si rifiutava di prendere in considerazione la filosofia, soprattutto la filosofia aristotelica , e riconosceva soltanto una pura autorità della Scrittura, considerata non contaminata da presupposti filosofici. In genere, tali punti non sono presi in considerazione nel dialogo ecumenico, perché i cattolici tendono ad accettare di non includere la metafisica nel loro dialogo con i protestanti . Anche la recente Dichiarazione congiunta fra cattolici e luterani sulla giustificazione , per utile che sia nell'espressione delle convergenze teologiche, non prende in considerazione i presupposti filosofici e si espone dunque ad una diversità interpretativa. I DUE REGNI DI LUTERO L'opposizione fra le azioni divine e umane si limita a quello che a da vedere immediatamente con la salvezza. Lutero distingue un altro livello, o altro regno, che è più o meno sconnesso dal livello della salvezza (benché sia raccomandato d'agire in modo cristiano anche a questo livello, quando è possibile). Lutero lo spiega per esempio quando parla dei principi: "Un principe può essere cristiano, ma non deve governare come cristiano: e in quanto regna non è un cristiano ma un principe...Perché in quanto è un cristiano, il Vangelo gli insegna di non fare del male a nessuno, di non punire né parlare, ma di perdonare a tutti, e lui deve soffrire le pene e ingiustizie che gli accadono. Questa dico che è una lezione cristiana, ma non farebbe un buon governo se la volessi predicare anche al principe; invece [il principe] deve dire: lascio il mio cristianesimo fra Dio e me...Ma sopra o accanto [al essere cristiano] ho nel mondo un altro statuto o dovere: il fatto d'essere un principe" . 78 I DUE REGNI NEL CONTESTO CONTEMPORANEO La teologia dei due regni mostra precisamente come una cattiva connessione fra il divino e l'umano porta ad una divisione nella vita dei cristiani. Questo si può ancora vedere oggi nell'azione politica di gruppi protestanti. Di solito, non c'è nessuna posizione delle comunità protestanti sul piano politico (eccetto a volte a proposito della giustizia sociale). Quando c'è una presa di posizione di gruppi protestanti sul piano politico, per esempio nel caso di gruppi che combattono l'aborto o criticano il contenuto dell'insegnamento nelle scuole, gli argomenti sono presi di solito direttamente nella Bibbia -­‐spesso in un modo fondamentalista che esprima una sconnessione con le scienze umane-­‐ e non sulla base della legge naturale. Il P. Congar vedeva tale divisione addirittura nella cristologia di Lutero, che era in un certo senso monofisita perché soltanto la natura divina di Cristo era davvero efficiente nell'opera di salvezza . La divisione fra due regni o due campi della vita non significa come tale che non ci sia una legge naturale. Si potrebbe pensare ad un sistema che non faccia bene la connessione fra due realtà accettate: legge naturale e morale rivelata. Ma in realtà la situazione che tende a diventare sempre più frequente è la divisione fra alcuni protestanti che fondano la loro azione sulla Bibbia sola e la maggioranza che -­‐ pur mantenendo forse una religiosità privata -­‐ agiscono nella vita pubblica mirando ad una efficienza nel ambito della legge positiva. Nei due casi, la referenza alla legge naturale è per lo meno marginale. AUTORI PROTESTANTI DOPO LA RIFORMA Che cosa hanno detto gli autori protestanti dopo Lutero e Calvino a proposito della legge naturale come tale? Degli autori come Melanchthon (1497-­‐1560), durante la stessa Riforma, Grotius (1583-­‐1645), Johannes Althusius (1557-­‐1683), o più recentemente Emil Brunner (1889-­‐1966) hanno visto la legge naturale come buona e utile. Ma sono dei protestanti tipici su questo punto? Risponderemmo negativamente a questa domanda. E qui dobbiamo trovare quello che è tipicamente protestante (o cattolico). Un atteggiamento tipicamente protestante a proposito della possibilità di riferirsi alla natura nel campo etico si trova da Eric Fuchs, Professore d'etica alla Facoltà Autonoma di Teologia Protestante dell'Università di Ginevra: il protestantesimo ha un atteggiamento ambivalente davanti alla natura. D'una parte la rifiuta in quanto fonte della normatività etica. A differenza della morale cattolica che, seguendo in questo Aristotele e San Tommaso d'Aquino, si fonda sulla permanenza e l'universalità della 'legge naturale', la teologia protestante non crede che si possano tirare delle norme etiche a partire d'una conoscenza delle leggi di funzionamento della natura (qui definita come insieme degli esseri viventi). Quello che fa la natura non è né buono né male, è l'uomo che lo deve giudicare a partire d'altri criteri che coinvolgono la sua libertà. Parimenti, se si parla della natura per indicare l'insieme delle condizioni oggettive che determinano l'esistenza umana (essere un corpo sessuato mortale), si descrive un ordine di realtà che non implica di per sé alcun obbligo morale. Anche se la morale deve ovviamente tener conto di questa realtà per non cadere in un idealismo ingannatore. Questo punto è dunque chiaro: la natura non può essere una norma etica. Quello che l'autore dice dopo è anche interessante: "Dall'altra parte, in quanto è l'espressione della creazione buona di Dio, offerta al godimento dell'uomo, la natura è stata esaltata nei paesi di tradizione protestante più di altrove. E questo da Calvino come da Rousseau. Perché se il peccato danneggia gravemente ogni opera umana, la natura rimane la traccia visibile della bontà dell'opera di Dio. Ecco perché è 79 possibile meravigliarsene e risentire frequentandola un sentimento religioso. Un segno di questo: uno dei rari oggetti di pietà che si trovino spesso nelle famiglie protestanti è un quadro o una fotografia d'un bel paesaggio, con un testo biblico in sottotitolo, di cui il senso è spesso senza relazione con l'immagine ma che ricorda che ammirazione della natura e fede in Dio vanno insieme nella sensibilità popolare protestante." Quest'ultimo testo illustra molto bene la situazione: l'uomo è in relazione con la natura -­‐ visto che comunque questo non si può evitare -­‐ ma ogni trattativa d'esprimere con la Bibbia questa relazione uomo-­‐natura fallisce. Il protestante è quindi in relazione con la Bibbia e con la natura, ma queste due relazioni non sono connesse. Tale è l'impatto culturale a lungo termine della sconnessione a radice filosofica fra le azioni divine e umane. RIASSUNTO C'è una certa presenza della legge naturale dai Riformatori e da alcuni autori protestanti più recenti. Ma fondamentalmente, visto che la natura è corrotta, le opere dell'uomo naturale non possono essere buone. Nella relazione con Dio, ogni bontà delle opere umane sarebbe un'offesa a Dio; questa affermazione dipende da presupposti filosofici incoscienti. Dunque la dimensione naturale non è connessa col livello della salvezza, e la natura non è un criterio etico. Non c'è una posizione ecclesiastica ufficiale sulla legge naturale nelle società protestanti: non soltanto perché non c'è un magistero, ma anche perché i presupposti della Riforma rendono difficile una connessione fra fede e natura. Le posizioni morali di alcuni gruppi protestanti (aborto...) sono tipicamente fondate sulla Scrittura, non sulla legge naturale, e suggeriscono che quello che si difende è una posizione specificamente religiosa.Tale situazione si esprime nella teologia luterana dei due regni e nelle sue conseguenze storiche: la fede nella vita personale, l'efficienza nei campi 'seculari'. Nella linea tipica del protestantesimo, che non accetta la legge naturale, il campo della natura c'è ancora, ma tende ad essere sconnesso dalla Rivelazione, e di conseguenza quello che è cristiano tende ad essere sconnesso dalla vita 'civile'. 80 (1) Per un riassunto della posizione cattolica con gli elementi chiavi della storia della filosofia, cf. Georges COTTIER,Nature et nature humaine, in: Nova et Vetera 74/4, 1999, p.57-­‐74. (2) Catechismo della Chiesa cattolica, § 1952. Cf. anche S. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, Ia-­‐IIae, q.91. (3) MARITAIN, J., I diritti dell'uomo e la legge naturale, traduzione di Guglielmo Usellini, Vita e Pensiero, Milano, 1977:56. (4) Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, § 1954, (5) Ibid, § 1955. (6) Ibid, § 1956. (7) Ibid, § 1958. (8) Cf. S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, Ia-­‐IIae, q.94, a.5. (9) Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, § 1957. (10) S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, IIa-­‐IIae, q.60, a.5, ad 1. (11) Ibid, Ia-­‐IIae, q.1, a.7. (12) Ibid, Ia-­‐IIae, q.13, a.6. (13) Cf. soprattutto ARISTOTELE, Politica, I.5. (14) MARITAIN, J., I diritti dell'uomo...:57. (15) S. AGUSTINO, Confessioni, III.8.15. (16) Cf. STOECKLE, B., "Gratia supponit naturam", Geschichte und Analyse eines theologischen Axioms, "Studia anselmiana" 49, Herder, Roma, 1962. (17) "as to its [Christianity's] relation to nature. As I have said, Christianity is simply an addition to it; it does not supersede or contradict it; it recognizes and depends on it, and that of necessity: for how possibly can it prove its claims except by an appeal to what men have already? Be it ever so miraculous, it cannot dispense with nature; this would be to cut the ground from under it; for what would be the worth of evidences in favour of a revelation which denied the authority of that system of thought, and those courses of reasoning, out of which those evidences necessarily grew?" (NEWMAN, J. H., An Essay in aid of a Grammar of Assent, II.X, Longmans, Green, and Co., London, New York and Bombay, 1930:388; nostra traduzione). (18) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et Ratio (14 settembre 1998), § 42. Questo viene confermato dall'argomento del § 82: "La Sacra Scrittura, infatti, presuppone sempre che l'uomo, anche se colpevole di doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida e semplice". (19) Fides et Ratio, § 66. (20) Fides et Ratio, § 84. (21) Fides et Ratio, § 95. (22) Catechismo della Chiesa cattolica, § 1960. (23) PAOLO VI, Enciclica Humanae Vitae (25 luglio 1968), no.4. (24) Cf. per esempio Sartre : « Je la vois, moi, cette nature, je la vois... Je sais que sa soumission est paresse, je sais qu'elle n'a pas de lois : ce qu'ils prennent pour sa constance... Elle n'a que des habitudes et peut en changer demain » (SARTRE, J.-­‐P. La nausée, "Le Livre de poche", Gallimard, Paris, 1963:222). (25) Nella linea di Immanuel Kant. (26) Cf. FLORES D'ARCAIS, P., Dio esiste?, MicroMega 2/2000:40: La pietra d'inciampo per il cristiano è la tentazione di dettare legge (in nome di una presunta ‘legge naturale' che coincide sempre, guarda caso, con la parola ex cathedra). In un ambiente diverso, cf. Karl Popper che esprime questo giudizio generale in un contesto di filosofia politica:: "The choice of conformity with ‘nature' as a supreme standard leads ultimately to consequences which few will be prepared 81 to face; it does not lead to a more natural form of civilization, but to beastliness" (POPPER, K., The Open Society and its Enemies, vol. 1, The Spell of Plato, Routledge & Kegan Paul, London and Henley, 1980, 5th edition reprinted:71. (27) Testo originale: Dis ist alles gesagt von gemeinen göttlichen und natürlichen recht, das auch Heiden, Türcken und Juden hallten müssen, soll anders fride und ordnung in der wellt bleiben (LUTERO M., Ermahnung zum Frieden auf die zwölf Artikel der Bauerschaft in Schwaben, 1525, WA 18:307, l.23-­‐25). Nostra traduzione. (28) Testo originale: Haec enim lex non in Decalogo primum promulgata sed omnium hominum animis inscripta est. Contra hanc Cain pugnat (Vorlesungen über 1. Mose Kap.4.9, 1544, WA 42:205, l.23-­‐25). Nostra traduzione. Cf. anche Ein Sermon Mart. Luther Über das Euangelion Matth... (1529), WA 29:564. (29) Traduzione presa da: CALVINO, G., Istituzione della religione cristiana, 2 vol., Unione Tipografico-­‐Editrice, Torino, 1971. Citiamo i paragrafi, che sono comuni a tutte le edizioni in diverse lingue. (30) CALVINO, Istituzione... IV.XX.16. (31) CALVINO, Istituzione... II.II.22. (32) Cf. BARR, J., Biblical Faith and Natural Theology, The Gifford Lectures for 1991 Delivered in the University of Edinburgh, Clarendon Press, Oxford, 1994:8. (33) LUTERO, De servo arbitrio (777), in: ERASMO DA ROTTERDAM, Il libero arbitrio (testo integrale), Martin LUTERO, Il servo arbitrio (passi scelti), Editrice Claudiana, Torino, 1993 (ristampa della seconda edizione):245. (34) CALVINO, Istituzione... II, III.9. (35) CALVINO, Istituzione... III, XIII.1. (36) CALVINO, Istituzione... III, XIII.2. (37) CALVINO, Istituzione... IV, XVII.19. (38) S. TOMMASO D'AQUINO, Summa contra Gentes, libro III, cap.70. (39) Cf. DUNS SCOTUS, Ordinatio I, dist. 3, pars 1, q.2, Opera Omnia, vol. 3:18, no.26: "Secundo dico quod non tantum in conceptu analogo conceptui creaturae concipitur Deus, scilicet qui omnino sit alius ab illo qui de creatura dicitur, sed in conceptu aliquo univoco sibi et creaturae. Et ne fiat contentio de nomine univocationis, univocum conceptum dico, qui ita est unus quod eius unitas sufficit ad contradictionem, affirmando et negando ipsum de eodem; sufficit etiam pro medio syllogistico, ut extrema unita in medio sic uno sine fallacia aequivocationis concludantur inter se uniri". (40) I suoi giudizi a proposito del "blinde Heide Aristoteles" (Adventspostille, WA 10, 1.2, 116, l.11, 1522) sono molto duri: "... ut impiissimi Aristotelis, publici veritatis vel ex professo hostis, sententias quantumlibet Christo adversarias..." (WA 6, 186, ll.14-­‐15, 1520). (41) Cf. CONGAR, Y., Un unique médiateur (excursus), in: COMMISSION INTERNATIONALE CATHOLIQUE-­‐LUTHERIENNE, Face à l'unité, Tous les textes officiels (1972-­‐1985):279 : " La Réforme voulait substituer un monde de relations personnelles à un monde de qualités ontologiques hiérarchiquement ordonnées. Elle combattit ainsi une scolastique qui fut, finalement, laissée à ses querelles internes. L'effort de l'Eglise catholique pendant et après le second concile du Vatican a consisté, pour une grande part, à dépasser la scolastique pour tendre ardemment vers ce qu'on pourrait appeler, sans idéalisation irréelle, I'Eglise indivise". (42) Cf. Il Regno-­‐Documenti n.812, 1998/7:250-­‐256. (43) Testo originale: "Ein Fürst kan wol ein Christ sein, aber als ein Christ mus er nicht regieren: und nach dem er regiret, heisst er nicht ein Christ sondern ein Fürst... Denn nach dem er ein Christ ist, leret ihn das Euangelium das er nieman sol leid thun, nicht straffen noch reden, sondern idermann vergeben, und was im leid odder unrecht geschicht sol er leiden. Das ist (sag ich) eines 82 Christen lectio, Aber das würde nicht ein gut regiment machen, wenn du dem Fürsten woltest also predigen, Sondern so mus er sagen: Meinem Christenstand lasse ich gehen zwischen Gott und mir... Aber über odder neben dem habe ich inn der welt einen andern stand odder ampt: das ich ein Furst bin" (Wochenpredigten über Matt. 5-­‐7, 1530/2, Druck 1532, WA 32:440). Nostra traduzione. (44) Cf. CONGAR, Y., Martin Luther, Sa foi, sa Réforme, "Cogitatio Fidei" 119, Cerf, Paris, 1983:105-­‐
133. (45) "Le protestantisme a une attitude ambivalente à l'égard de la nature. D'une part, il la récuse en tant que source de la normativité éthique. A la différence de la morale catholique qui, suivant en cela l'enseignement d'Aristote et Thomas d'Aquin, se fonde sur la permanence et l'universalité de la loi naturelle, la théologie protestante ne croit pas qu'on puisse tirer de la connaissance des lois de fonctionnement de la nature (définie ici comme l'ensemble des êtres vivants) des normes pour une éthique. Ce que ‘fait' la nature n'est ni bon ni mauvais, c'est l'homme qui est appelé à en juger à partir d'autres critères qui engagent sa liberté. De même, si l'on parle de la nature pour désigner l'ensemble des conditions objectives qui déterminent l'existence humaine (être un corps sexué mortel), on décrit un ordre de réalité qui n'implique ne soi aucune obligation morale. Même si la morale doit évidemment prendre en charge cette réalité sous peine de succomber à un idéalisme trompeur" (FUCHS, E., art. Nature, in : Encyclopédie du protestantisme, GISEL, P., directeur d'édition, Cerf -­‐ Labor et Fides, Paris -­‐ Genève, 1995:1066). Nostra traduzione. (46) "D'autre part, en tant qu'elle est l'expression de la création bonne de Dieu, offerte à la jouissance de l'homme, la nature a été plus qu'ailleurs exaltée dans les pays de tradition protestante. Et ce, aussi bien par Calvin que par Rousseau. Car si le péché affecte gravement tout œuvre humaine, la nature reste la trace visible de la bonté de l'œuvre de Dieu. C'est pourquoi on peut s'en émerveiller et ressentir à sa fréquentation un sentiment religieux. C'est ainsi qu'un des rares objets de piété qu'on trouve souvent dans les familles protestantes est un tableau ou une photographie d'un beau paysage, sous-­‐titré d'un texte biblique, dont le sens est souvent sans rapport avec l'image, mais qui rappelle que dans la sensibilité populaire protestante l'admiration de la nature et la foi en Dieu vont volontiers de pair" (Encyclopédie du protestantisme:1066). Nostra traduzione. 83 MARTIN RHONHEIMER LA LEGGE MORALE NATURALE: CONOSCENZA MORALE E CONSCIENZA. LA STRUTTURA COGNITIVA DELLA LEGGE NATURALE E LA VERITÀ DELLA SOGGETTIVITÀ LA "FALLACIA DUALISTA" ED IL CARATTERE ESSENZIALMENTE COGNITIVO DELLA LEGGE NATURALE Una reminiscenza storica: la dicotomia "natura-­‐ragione" Nel libro Lex naturae, pubblicato circa mezzo secolo fa e diventato prima del Concilio Vaticano II opera di riferimento obbligatorio, il teologo morale Josef Fuchs raccolse le formulazioni del Magistero ecclesiastico sulla legge morale naturale.(1) L'autore ritenne di rintracciare nei documenti del Magistero "due categorie" di formulazioni della legge naturale. Una prima categoria fa riferimento al "fondamento ontologico" della legge naturale, alla "natura delle cose": queste formulazioni identificano la legge naturale con "la natura corporeo-­‐spirituale dell'uomo" e quindi la intendono come natura, norma per l'agire umano. La legge naturale è perciò equiparata ad un ordine normativo, insito nella natura delle cose. Una seconda categoria di formulazioni fa riferimento a ciò che Fuchs chiama "l'aspetto noetico della legge naturale, il suo esser scritta nel cuore, la sua riconoscibilità naturale da parte dell'uomo" (2) . Con questa classificazione, Fuchs riprese un'opinione diffusa in vasti settori della teologia e della filosofia neoscolastica del tempo, che influenzò anche il linguaggio di molti documenti del Magistero. Ossia, la "legge naturale" sarebbe un ordine della natura che l'uomo può conoscere e che, una volta conosciuto, si impone immediatamente come norma dell'agire morale. (3) Tale schema, in effetti, è dualistico, si basa sulla dicotomia tra "natura"/"ordine naturale" (aspetto "oggettivo") e "ragione"/"conoscenza morale" (aspetto "soggettivo"). La legge naturale riguarda la natura, mentre spetta alla ragione leggere l'ordine morale insito nella natura e seguirlo attraverso il libero arbitrio; ne deriverebbe quindi che la legge naturale "è scritta nel cuore dell'uomo" unicamente in quanto ordine naturale normativo oggettivo conosciutosoggettivamente ed applicato all'agire. Secondo questa concezione, ciò che sarebbe "scritto nel cuore dell'uomo" non è la legge naturale in senso oggettivo, ma solo la conoscenza soggettiva di questa legge. La legge naturale sarebbe invece un codice di norme morali, trovato nella natura come "oggetto" di conoscenza, nel suo essere "legge", però, indipendente da ogni atto cognitivo dell'uomo. Questa posizione si basa su ciò che definirei la "fallacia dualista". Ritengo che parlare della legge naturale in questi termini non sia in linea con la tradizione della dottrina sulla lex naturalis, di cui San Tommaso d'Aquino non solo è un testimone privilegiato, ma è forse il più consapevole ed originale continuatore. Per questa tradizione, la legge naturale non era semplicemente un "ordine naturale", oggetto della conoscenza del soggetto che solo attraverso questa conoscenza diventerebbe qualcosa di "scritto nel cuore" dell'uomo, ma un modo particolare di conoscenza morale -­‐ cioè una conoscenza naturale del bene e del male -­‐. Secondo questa tradizione, la legge naturale avrebbe quindi un carattere essenzialmente cognitivo: è "scritta nel cuore dell'uomo", non solo come "qualcosa di conosciuto", ma in quanto la stessa apertura intellettiva del soggetto umano al bene morale è per gli atti umani una "legge"; e, poiché quest'apertura si sviluppa in modo naturale, può essere definita una legge naturale. Sant'Ambrogio, circa mille anni prima di 84 San Tommaso, parafrasando il celebre passaggio della lettera di San Paolo ai Romani (2, 14 ss), chiama la legge naturale la "parola di Dio" iscritto nel nostro cuore, e aggiunge: "opiniones queaedam nobis boni et mali pullulaverunt, dum id quod malum est naturaliter intellegimus esse vitandum et id quod bonum est naturaliter nobis intellegimus esse praeceptum": "per questo sono germogliate in noi le idee del bene e del male, mentre comprendiamo per natura che ciò che è male va evitato, e parimenti per natura sappiamo che ci è stato prescritto ciò che è bene" (4) . La legge naturale è questa conoscenza pratica e, perciò, normativa del bene e del male morale (5) . Così intesa, la legge naturale sta dalla parte del soggetto e, perciò, è veramente "soggettiva". La sua oggettività -­‐ e quindi l'oggettività delle norme morali fondate su di essa -­‐ è data dal fatto che in questa conoscenza naturale del bene umano si manifesta la verità della soggettività. Come vedremo più in particolare, la legge naturale è il principio intrinseco di verità della ragion pratica. Nella comunicazione quotidiana e nel linguaggio pastorale, il più delle volte, è sufficiente e persino utile esprimersi nei termini dello schema dualistico. Lo schema può bastare anche per difendere un diritto naturale, ossia il principio che alla base di qualsiasi norma giuridica positiva vi è un ordine normativo oggettivo del bene e del giusto; ed inoltre, per affermare che per la soggettività -­‐ per la conoscenza morale del soggetto agente-­‐ vi è una regola oggettiva di verità che non si identifica con ciò che il soggetto di fatto ritiene vero e buono. In quest'ultimo senso, la legge naturale è la norma morale che stabilisce la verità della soggettività, in modo che non debba affermare come veramente buono ciò che è buono solo secondo le apparenze. Lo schema dualistico rischia però di travisare il discorso sulla legge naturale e sulle conseguenze etico-­‐normative, fino a renderlo non intelligibile e razionalmente poco convincente. La contrapposizione tra "natura" ("ordine naturale")oggettiva e "ragione" ("conoscenza morale") soggettiva, favorisce un'interpretazione "fisicista" della legge naturale che viene identificata con strutture e finalità meramente naturali, alle quali è attribuita immediatamente una normatività morale Un'alternativa: l'antropologia dell'unità essenziale fra "natura" e "ragione" La fallacia dualista porta a nascondere che anche la ragione, quale facoltà conoscitiva, e quindi la stessa soggettività dell'agente morale, fa parte di ciò che chiamiamo "natura dell'uomo". Sono proprio gli atti intellettivi, di cui la ragione è la parte discorsiva, che aprono il soggetto umano all'intelligenza del bene secondo la verità del suo "essere persona" -­‐ unità corporeo-­‐spirituale -­‐, bene che si rivela come "bene della persona" solo rispetto alla conoscenza intellettiva. Questo bene non è puro "oggetto" che, come puro "dato naturale", starebbe dinanzi al soggetto che conosce, ma è anche parte del soggetto che conosce, in quanto è manifestato e, in un certo senso, costituito nella sua intelligibilità negli atti cognitivi. Questo, mi sembra, sia un dato antropologico e metafisico particolarmente decisivo per una corretta fondazione della filosofia morale: non è pensabile un concetto di "natura dell'uomo" senza la parte intellettiva ed i relativi atti dell'intelletto e della ragione. Come ho illustrato altrove più in dettaglio(6) , l'agire, secondo San Tommaso, segue sempre e manifesta l'essere di ogni cosa (agere sequitur esse); ma allo stesso tempo l'essere delle cose, cioè la loro essenza o natura, di cui gli atti sono la conseguenza, non ci è nota; la conosciamo conoscendo le facoltà di ogni natura; conosciamo le facoltà attraverso i loro atti, gli atti però attraverso i loro oggetti. (7) L'oggetto della libertà umana -­‐ che è nella ragione e nella volontà come appetitus in ratione -­‐ è proprio il bene nelle sue molteplici manifestazioni. Perciò, per conoscere la natura dell'uomo dobbiamo prima conoscere, per quanto possa sembrare paradossale, il bene specificamente umano. Questo, in linea di principio, è vero anche per gli animali non razionali; ma in questo caso possiamo conoscere il loro bene solo attraverso l'osservazione del loro comportamento, cioè di alcune regolarità e normalità tipiche. 85 Nell'uomo, che agisce con libertà, ciò che avviene regolarmente e con "normalità" non è però un criterio per stabilirne il bene. L'uomo agisce in base alla ragione e quindi con libertà, perché la ragione è "aperta a molte cose" e può avere "diverse concezioni del bene", anche false.(8) Di qui il problema dell'etica. L'etica non è una filosofia della natura, non descrive un comportamento regolare e, perciò, naturale.(9) La natura umana, che stiamo cercando di porre a fondamento dell'agire umano e la cui espressione è il bene morale, la possiamo trovare solo se già conosciamo il bene umano. La conoscenza della natura umana non è il punto di partenza dell'etica, e tanto meno della ragion pratica di ogni soggetto agente, ma il suo risultato. Dobbiamo già conoscere il bene umano per interpretare rettamente la "natura" ed arrivare così al concetto di natura umana, pieno di contenuto normativo. Conosciamo, infatti, il bene umano attraverso la legge naturale intesa come principio conoscitivo, ossia come conoscenza morale. Il bene umano, perciò, non è un oggetto "dato" agli atti intellettivi; la natura dell'intelletto -­‐ avendo origine dall'anima spirituale che è forma sostanziale e perciò principio di vita della sua corporeità -­‐ fa sì che solo negli atti intellettivi sia stabilito ed enunciato ciò che per l'uomo è veramente buono. Il bene umano e morale è essenzialmente un bonum rationis: un bene della ragione, per la ragione, formulato dallaragione.(10) Solo alla luce di questo bene, come appare per gli atti intellettivi dell'anima, la "natura umana" si rivela nel suo significato normativo. Perciò, anche se può sembrare paradossale, la conoscenza del bene umano precede la retta intelligenza della natura umana; non può rivelarne il carattere normativo prima che tutto ciò che è naturale nell'uomo sia stato interpretato alla luce di quel bene che è oggetto degli atti dell'intelletto, dell'intelletto pratico, non speculativo, da cui emana la legge naturale. Di conseguenza, non è opportuno in filosofia morale, e tanto meno in un discorso sulla "legge naturale", considerare la ragione umana come la facoltà "che conosce" contrapposta ad una natura come "ciò che si conosce". Questo schema è troppo semplicistico, come le teorie neoscolastiche che semplificano il concetto di legge naturale e ne offuscano la vera natura.(11) Occorre riscoprire la ragione umana anche in quanto "natura", cioè la ragione che naturalmente (naturaliter) conosce il bene da compiere ed il male da evitare. LA PROSPETTIVA DI SAN TOMMASO D'AQUINO: OLTRE LA FALLACIA DUALISTA Un testo a lungo dimenticato È sintomatico che Fuchs, nel libro citato, non consideri un testo del Magistero sulla legge naturale, che mi sembra sia l'unico in cui la nozione di legge naturale è tema dell'insegnamento papale e non serve solo ad esporre un determinato tema di morale. Si tratta dell'enciclica Libertas praestantissimum di Leone XIII, in cui è esposta in sintesi la dottrina sulla legge naturale, nel contesto più ampio dell'insegnamento sulla libertà umana e sulla legge morale.(12) Fuchs cita questo testo in modo incompleto, senza attribuirgli particolare importanza e, a quanto sembra, senza afferrarne il profondo significato: non riuscì ad attribuirlo a nessuna delle due "categorie" del suo schema. È però da rilevare che il testo non è stato ripreso in nessun documento successivo del Magistero! Si è dovuto attendere l'enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II del 1993, per trovarlo di nuovo citato e messo in rilievo in un documento del Magistero, insieme ad un altro testo importante di San Tommaso sulla legge naturale. Secondo la dottrina di San Tommaso d'Aquino, mirabilmente sintetizzata nell'enciclica leoniana, il concetto di legge naturale sfugge alla predetta alternativa alquanto semplicistica. Per San Tommaso la legge naturale riguarda sia il soggetto che conosce sia l'oggettività della verità della "natura". Secondo questa concezione, la legge naturale è, innanzitutto, per l'uomo la forma 86 naturale di conoscere in modo pratico e imperativo il bene umano secondo verità, una conoscenza che manifesta l'ordine morale che di solito chiamiamo "ordine naturale". La legge naturale, una praescriptio rationis Il testo di Leone XIII, ripreso nel n. 44 della Veritatis splendor, afferma innanzitutto che la legge naturale "è scritta e scolpita nell'animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare." Queste parole sono una definizione formale o essenziale della legge naturale: non è "la natura umana" o un "ordine della natura"; neppure è una norma insita nella natura delle cose, ma qualcosa di "scritto e scolpito nell'animo di tutti e di ciascun uomo". È "la stessa ragione umana" che comanda di fare il bene e vieta di peccare. La legge naturale, quindi, è proprio la ragione pratica, più esattamente, l'insieme di determinati giudizi della ragione pratica, quei giudizi, cioè, che naturalmente ci fanno fare il bene e fuggire il male. Perciò, nella frase seguente, il testo leoniano definisce la legge naturale come praescriptio rationis, una "prescrizione della ragione", termine vicino, se non identico, alla terminologia di San Tommaso per il quale la legge naturale, come ogni legge, è una ordinatio rationis(13). La legge naturale ha quindi carattere di una "legge". Non è una legge nel senso delle leggi fisiche o naturali della scienza moderna. Questo modo di parlare di "leggi naturali" come di regolarità, di finalizzazione e di strutture naturali, conoscibili da parte dell'uomo e, poi, praticamente applicabili, è un uso derivato ed improprio del termine "legge", che, pur avendo radici nel pensiero stoico, è nato con la scienza moderna. Quando Keplero parla delle "leges celeritatis et tarditatis" della terra e Newton formula le "leges motus", non parlano di un principio razionale che ordina degli atti, ma di strutture e di regolarità che sono, appunto, natura. Tali "leggi" in quanto sono natura, sono un effetto della ragione ordinatrice del Creatore, ma, considerate in sé, restano una struttura naturale semplice oggetto di conoscenza speculativa.(14) Sarebbe anacronistico voler interpretare testi sulla legge naturale, come quelli di San Tommaso, con l'ottica delle scienze naturali moderne.(15) Quando San Tommaso parla di "legge", ne parla in senso giuridico-­‐politico, in analogia con le leggi umane, con la legge divina e con la legge eterna, che è la ragione ordinatrice di Dio. Perciò, la "legge" è una ordinatio rationis o prescrizione razionale, cioè un atto imperativo della ragione che dirige, in un determinato ambito, gli atti umani al loro fine che è sempre un bene concreto.(16) La "natura", in quanto natura, non ha carattere di legge. "Legge" è semprealiquid pertinens ad rationem(17): le leggi possono essere stabilite dalla ragione eterna di Dio, dalla ragione di un legislatore umano, ma anche naturalmente dalla ragione naturale di ogni singolo uomo che conosce, in modo naturale e normativo -­‐ cioè pratico -­‐ il bene da compiere ed il male da evitare, ordinando così il suo agire al fine dovuto. Per San Tommaso, perciò, il primo principio della ragion pratica e il primo precetto della legge naturale sono la stessa cosa:bonum est faciendum et prosequendum et malum vitandum(18). Il carattere formalmente razionale e conoscitivo della legge naturale è confermato da un testo di San Tommaso, citato due volte nell'enciclica Veritatis splendor (nn. 12 e 40), per il quale la legge naturale "non è altro che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare"(19). Questa espressione spiega in modo categorico e chiaro il carattere razionale e conoscitivo della legge naturale. Come ogni legge, anche la legge naturale è, come dirà San Tommaso nella Summa Theologiae, "qualcosa di costituito dalla ragione" (aliquid a ratione constitutum(20)) e un' "opera della ragione" (opus rationis(21)). La legge naturale, infatti, procede dalla luce dell'intelletto che Dio ha dato all'uomo al momento della sua creazione. La legge naturale è un insieme di atti conoscitivi che ci fanno percepire, in modo imperativo, cioè pratico, il bene da compiere ed il male da evitare. Questa legge si chiama legge naturale "perché la ragione che la promulga è propria della natura 87 umana"(22), allo stesso modo in cui è proprio della natura umana l'intelletto che il Creatore ha dato all'uomo. È una legge che l'uomo attraverso i suoi atti intellettivi stabilisce, formula o promulga naturalmente(23). La legge naturale come "partecipazione nella creatura razionale della legge eterna " La seconda affermazione del testo leoniano, citato dalla Veritatis splendor è: "Ma tale prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non fosse la voce e l'interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi". L'enciclica Veritatis splendor continua, parafrasando il testo leoniano: "Infatti, la forza della legge risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di dare la sanzione a certi comportamenti." Quindi citando il testo leoniano: "Ora tutto ciò non potrebbe esistere nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni." Si dice, quindi, che questi atti prescrittivi della ragione umana hanno il carattere e la forza di una legge: impongono doveri e conferiscono diritti, e sanzionano determinati comportamenti. La ragione ha tale autorità perché è la voce di un'autorità più alta, dalla quale dipende e alla quale è sottomessa. L'affermazione è importante perché stabilisce la sottomissione della ragione umana a quella del suo Creatore, ma anche perché rinvia la ragione umana a fondare la sua normatività non tanto sulla "natura" o su un "ordine naturale", ma sulla ragione divina! Quest'ultima è la legge eterna che è la ratio della sapienza divina, che guida tutti gli atti ed i movimenti(24), ordinando le cose al fine dovuto(25). Nella legge naturale si manifesta, in modo naturale, la provvidenza di Dio: Dio insegna all'uomo in modo imperativo, a modo di legge cioè, mediante i suoi atti conoscitivi proprii, il vero bene. La terza asserzione del testo leoniano conferma quanto detto: "Ne consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all'atto e al fine che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore e governatore dell'universo." La ragione umana, dunque, in quanto legge naturale, rinvia non alla natura, ma a Dio. È importante non fraintendere quest'affermazione. Per conoscere il bene la ragione umana non ha bisogno di essere istruita da Dio, nel senso di una rivelazione che si debba aggiungere a ciò che la ragione umana è capace di conoscere. Il testo citato asserisce il contrario, la legge naturale è la stessa legge eterna: la legge eterna di Dio si manifesta nella legge naturale e, proprio con questa, raggiunge il suo scopo di dirigere l'agire umano al fine dovuto. La legge eterna è dunque conosciuta nella misura in cui la legge naturale si realizza e diventa efficace, cioè mediante la ragione naturale dell'uomo. In altre parole: la legge naturale è una partecipazione della legge eterna, ne costituisce il possesso in modo conoscitivo ed attivo. "Teonomia partecipata": il compito normativo della ragione umana La ragion pratica, in quanto legge naturale e in quanto procede da essa, è realmente guida normativa dell'agire, impone doveri e formula diritti. L'uomo ha una vera autonomia, perché la sua autonomia è "teonomia partecipata": partecipazione ed autopossesso della legge eterna(26). San Tommaso lo esprime in celebri formule: "la legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale"(27); l'uomo, "attraverso la sua ragione, partecipa alla provvidenza divina, provvedendo per sé e per gli altri"(28), la legge eterna, a prescindere da una rivelazione supplementare, sempre possibile, è rivelata proprio attraverso la legge naturale, cioè attraverso la "ragione naturale", che dalla legge eterna "deriva come la sua propria immagine"(29). Nella logica di San Tommaso, questi testi, in particolare il più noto secondo cui la legge naturale è la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale, non pretendono di affermare il carattere teonomico della legge naturale, ma piuttosto di fondare il carattere normativo della ragione umana,poiché questa non è che una "impronta del lume divino in noi" attraverso cui possiamo discernere il bene dal male; il che è proprio ciò che fa la legge naturale.(30) 88 Queste precisazioni sono importanti perché il rinvio alla legge eterna, cioè l'affermazione della sottomissione ad una sapienza superiore degli atti prescrittivi della ragione umana, chiamati "legge naturale", non limita in alcun modo il compito normativo della ragion pratica della persona umana e neppure porta a credere che per conoscere il bene umano è necessario ogni volta un esplicito riferimento a Dio. È proprio, infatti, della natura della ragion pratica comandare e muovere. La ragion pratica è principio di prassi e muove l'agente a perseguire o ad evitare ciò che ritiene buono o cattivo. Questo non significa che la ragione umana è capace solo di conoscere le relazioni di adeguatezza in modo indicativo, ma non ancora imperativo, dovendo, invece, per diventare normativa e pratica ricorrere in aggiunta alla conoscenza di Dio come autore di questo ordine di bene, e perciò come legislatore (tesi sostenuta all'inizio del XVII secolo da Francisco Suárez(31)). La natura umana è già in sé costituita in modo che la ragione, in quanto mossa dalla volontà ed inserita nel dinamismo appettivo delle inclinazioni naturali, realmente muove alla prassi e al bene. L'esplicita conoscenza del carattere partecipato della mozione intellettiva verso il bene conosciuto -­‐ la conoscenza, cioè, della sottomissione della ragione umana a quella del suo Creatore -­‐ non è necessaria per spiegare l'esistenza della consapevolezza di una vera e propria obbligatorietà del bene conosciuto. Essendo, infatti, il "bene" qualcosa di "vero" -­‐ altrimenti non sarebbe intelligibile -­‐, il vero e il bene si includono reciprocamente. I giudizi della ragion pratica hanno come oggetto il bene relativo all'agire sotto l'aspetto della sua verità. Anche l'intelletto pratico, come quello speculativo, conosce la verità.(32) Il bene conosciuto è quindi una "verità pratica"(33). La verità però s'impone alla coscienza per il suo "essere vero". Il bene conosciuto dalla ragione obbliga, quindi, il soggetto che conosce allo stesso modo in cui la verità conosciuta esige assenso. Inoltre, il giudizio della ragion pratica ha il carattere di un comando che include in sé lavis obligandi(34). L'esplicita conoscenza della natura partecipata della legge naturale e dell'ordine morale da essa stabilito non fonda il carattere pratico e imperativo della ragione umana, ma lo arricchisce sì da essere riconosciuta come verità pratica che proviene da una fonte trascendente, superiore, che, in determinate circostanze e situazioni limite, può essere il motivo decisivo per sottomettersi ai dettami della legge naturale. L'esplicita consapevolezza della "sottomissione partecipativa" della ragione umana a quella divina prepara l'esperienza morale a partecipare anche ad un'esperienza propriamente religiosa, esperienza che viene annullata dall'erronea affermazione di una assoluta autonomia dell'uomo. La conoscenza del carattere partecipato aggiunge quindi la "ratio legis" propiamente detta, ossia l'essere subordinato e sottomesso ad una legge superiore che è quella di Dio. Anche se la legge naturale, come opera della ragion pratica, ha il carattere di una "legge", la ratio legis non è esplicitamente o in concomitanza manifestata nel momento in cui sono applicati i giudizi pratici della legge naturale. L'esperienza morale fondamentale dell'uomo non è quella di seguire una "legge", ma è l'esperienza della verità del bene, più esattamente, alla luce del primo principio pratico, l'esperienza delbonum faciendum, del "bene da fare". Conoscendo esplicitamente il carattere partecipato di questi giudizi pratici, l'uomo è in grado di percepire la sua autonomia come espressione di una teonomia, di comprendere il bene conosciuto non solo come "bene da compiere", ma anche come volontà di Dio(35). San Tommaso su questo aspetto della legge naturale, dice poco; da buon aristotelico(36), sottolinea invece la natura normativa e motrice della ragion pratica, che perciò è capace di concretizzarsi come "legge naturale". In tal senso Tommaso afferma che nell'uomo la ragione, che è il principio della moralità, è in relazione al suo bene, ciò che il principe ed il giudice sono per lo Stato.(37) 89 LA LEGGE NATURALE COME ORDINATIO DELLA RAGION PRATICA SECONDO TOMMASO D'AQUINO(38) La ragione umana nell'ambito delle inclinazioni naturali Per salvare l'idea dell'identità fra legge naturale ed "ordine naturale da conoscere ed applicare" si potrebbe sostenere che Dio si rivela "nella natura" e che la ragione è partecipazione della legge eterna di Dio, nella misura in cui conosce e fa suo un ordine insito nella natura. Una tale concezione della legge naturale e del suo rapporto con la legge eterna è nota come dottrina stoica ed ha influito sulla tradizione del diritto naturale pervenutoci attraverso il diritto romano. Il concetto, tipico per la Stoa, che la legge eterna s'identifica con l'ordine cosmico e che perciò è decifrabile attraverso la conoscenza della natura, di cui l'uomo è una parte, apre la via ad una nozione di legge e di diritto naturale che ha avuto grande importanza nella tradizione occidentale. In questa tradizione stoica vi è una parte di verità. La maggior parte dei Padri della Chiesa, influenzati dallo stoicismo, pose però l'accento sul carattere razionale, intellettivo e conoscitivo della legge naturale, introducendo nella filosofia stoica una significativa trasformazione(39). I Padri percepivano la natura come creazione di un Dio e come proveniente da una legge eterna trascendenti e che perciò non si identificano con l'ordine naturale. Per gli stoici, la ratio umana non è partecipazione ed immagine di una ratio trascendente, ma di un logos insito nella stessa natura. La ratio umana diventa così un riflesso di ciò che la natura già contiene come inclinazioni e fini; l'uomo, nella oikeiosis, assimila razionalmente quest'ordine naturale.(40) Si spiegano le celebri espressioni di Cicerone, che, lette in un contesto post-­‐stoico e persino cristiano, risultano ambigue o almeno insufficienti: la legge sarebbe "somma ragione, insita nella natura che ci comanda ciò che si deve fare e vieta il contrario"(41); "legge non scritta, ma naturalmente data ... che afferriamo, cogliamo, strappiamo alla natura"(42), la legge naturale sarebbe la "retta ragione, concordante con la natura"(43). Per i Padri della Chiesa, la imago di questo Dio nel mondo non è né la natura, né l'ordine cosmico: l'immagine del Creatore è presente solo nell'anima spirituale dell'uomo, in particolare nel suo intelletto e perciò anche negli atti della ragion pratica. La ragion pratica non riflette semplicemente "la natura", ma essendo partecipazione attiva dell'intelletto divino, illumina la natura, rendendola pienamente intelligibile. Si spiegano così le affermazioni sulla legge naturale come quella citata di Sant'Ambrogio, che concorda con la nozione tomista di legge naturale perché ne sottolinea il carattere conoscitivo: Id quod malum est naturaliter intellegimus esse vitandum et quod bonum est naturaliter nobis intellegimus esse praeceptum. È evidente che l'autore concepisce la legge naturale come modo di conoscenza morale: la conoscenza pratica e naturale del bene e del male, che secondo Ambrogio è "la parola di Dio" in noi: il logos divino, non lo troviamo né nella natura, né "su tavole di pietra", ma "impresso nei nostri cuori, in virtù dello Spirito del Dio vivo. Quindi il giudizio della nostra coscienza si fa legge a se stessa"(44). La natura, come "ordine naturale dato" e "oggetto" della ragione, rientra nel concetto di legge naturale in un altro modo: poiché la legge naturale è il modo naturale della conoscenza pratica del bene umano, sorge il problema di come tale conoscenza pratica naturale del bene si possa realizzare. È necessario tener presente che l'uomo, pur avendo una facoltà intellettiva, non è il suo intelletto. Analogamente, gli atti teoretici e pratici dell'intelletto o della ragione non sono compiuti dalla sola potenza intellettiva. Actus sunt suppositi: gli atti non sono delle singole facoltà, ma del soggetto concreto nella totalità del suo essere. Non è la ragione che conosce, ma è la persona nell'insieme del suo essere corporeo-­‐spirituale che conosce mediante la ragione. L'uomo è un insieme di tendenze e di inclinazioni vitali, sensuali e spirituali. La "persona" è tutto ciò. 90 L'uomo è "persona" grazie alla sua spiritualità; ma la "persona" è il tutto formato da spirito e corpo in unità sostanziale. L'uomo non è uno spirito incarnato, poiché non appartiene al genere degli spiriti. L'uomo appartiene al genere degli animali, prima di tutto è un animal(45). La persona è essenzialmente un corpo vivente, animato da un'anima spirituale che permette al corpo vivente, a questo animale, di realizzare non solo atti spirituali, ma tutti gli altri atti della sua animalità impregnati della vita dello spirito e perciò sotto la guida della ragione: l'unità sostanziale di corporeità-­‐animalità e spiritualità trasforma il senso ed il contenuto della corporeità e della animalità. Conferiscono all'essere spirito dell'uomo il carattere specificamente umano e mondano, il carattere cioè di un'esistenza spirituale che non si realizza mai al margine della corporeità e della animalità naturale dell'uomo e del suo ambiente naturale che è il mondo, ma attraverso di esso. Ciò vale per gli atti dell'intelletto speculativo, che non sono possibili senza corpo, e anche per quelli dell'intelletto pratico, che non potrebbe essere pratico e muovere all'agire senza le inclinazioni naturali. Queste funzioni ed inclinazioni naturali, in particolare quelle dell'essere corporeo ed animale dell'uomo, come devono essere intese? Indubbiamente,-­‐ se pensiamo ad esempio alla tendenza a conservare se stessi o all'inclinazione sessuale -­‐ sono ovviamente pratiche, cioè spingono l'agente a perseguire il bene e il fine loro proprio e perciò muovono all'agire. Ogni inclinazione naturale ha per natura un bene e un fine proprio (bonum et finis proprium). Rispetto alla loro naturalità, seguire la tendenza a conservare se stessi o l'inclinazione sessuale significa anche perseguire il bene e il fine dovutoall'uomo? Al momento di seguire queste inclinazioni come possiamo sapere non solo cosa è proprio di queste inclinazioni secondo la loro natura particolare, ma anche ciò che è dovuto alla persona, cioè, ciò che è bene per l'uomo in quanto uomo?(46) Se esaminiamo la struttura ed il "funzionamento" della legge naturale, vedremo come la legge naturale fa parte dell'ordine della natura, lo esprime e in certo senso lo costituisce. Quest'ordine naturale, torniamo a ripeterlo, non è però una entità di fronte a cui l'uomo sta come soggetto conoscente ed agente; ma è un ordine naturale di cui fanno parte gli stessi atti conoscitivi naturali -­‐ atti naturali della ragion pratica -­‐. Si scopre così una ragione che è anch'essa natura ("ratio ut natura"); perciò la legge naturale si può definire una legge "interiore all'uomo" e "scolpita nella sua anima". La legge naturale, intesa come ragione pratica che naturalmente muove al bene, come si può dire che costituisce l'ordine morale? Proprio perché il lumen rationis naturalis, di cui parla San Tommaso, è creato ad imaginem della ragione divina(47). Poiché la legge naturale è partecipazione della legge eterna -­‐ e, nel caso della creatura razionale, in modo attivo -­‐, la legge naturale può essere considerata costituita dalla ragione naturale, così come tutto l'ordine del bene è originariamente costituito dalla ragione divina, che è la legge eterna(48). La partecipazione si mostra non solo nella sottomissione alla legge eterna, ma anche nella partecipazione alla funzione ordinatrice della legge eterna che è quella dicostituire l'ordine morale, anche se la ragione umana, come lume conoscitivo solo partecipato e creato, lo fa non creando la verità, ma conoscendola e trovandola nel proprio essere, essenzialmente costituito dalle inclinazioni naturali.(49) Un testo decisivo: Summa Theologiae I-­‐II, q. 94 a. 2 Il locus classicus, dove San Tommaso espone la genesi e la struttura conoscitiva della legge naturale, è il noto articolo 2 della Quaestio 94 della Prima secundae. San Tommaso afferma che : (1) la legge naturale è opera della ragion pratica, la quale ha un proprio punto di partenza e non deriva i suoi princìpi dalla ragione speculativa; (2) la legge naturale è una conoscenza pratica e precettiva del bene umano che si spiega perché la ragione umana s'inquadra nel dinamismo delle inclinazioni naturali; 91 (3) colti dalla ragion pratica, i beni e i fini delle inclinazioni naturali sono confermati nel loro carattere costitutivo del bene umano; allo stesso tempo, sono regolati e ordinati dalla ragione, cioè integrati nell'insieme dell'essere corporeo-­‐spirituale della persona, e quindi anche trasformati. Solo in quanto tali, essi fanno parte della legge naturale e sono la legge naturale. La legge naturale è opera della ragion pratica, la quale ha il proprio punto di partenza e non deriva i suoi princìpi dalla ragione speculativa(50) I precetti della legge naturale, afferma l'Aquinate, stanno alla ragion pratica come i primi princìpi dimostrativi stanno alla ragione speculativa (o teoretica). I precetti della legge naturale sono, quindi, dei princìpi -­‐ princìpi pratici -­‐, perciò non derivati da altre conoscenze. I princìpi pratici o precetti della legge naturale non sono applicazioni di conoscenze speculative della natura umana; ma atti in cui originariamente si manifesta, razionalmente, come ordo rationis, l'ordine naturale del bene umano. I princìpi pratici, avendo un proprio punto di partenza non derivato, sono immediatamente intuiti (altrimenti non sarebbero dei princìpi, come afferma San Tommaso). Come l'intelletto speculativo ha il suo punto di partenza nell'esperienza dell'essere e nell'evidenza della antinomia assoluta fra ente e non-­‐ente, e perciò può formulare il primo principio di non-­‐contraddizione, così la ragion pratica, in modo non consecutivo o derivato ma parallelo, parte da un'esperienza originaria ed irriducibile ad altre esperienze, cioè dall'esperienza del "bene" come correlato e contenuto formale di ogni tendere (bonum est quod omnia appetunt).(51) Da ciò deriva, in modo immediato e non dimostrabile, il primo principio della ragion pratica che è anche il primo precetto della legge naturale: bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum. Come il principio di non contraddizione non è un principio a parte, da cui sarebbero dedotte altre conoscenze, ma un principio fondante implicito in ogni altra conoscenza dell'essere, così dal primo principio della ragion pratica non si può dedurre nulla di più concreto. Esso è il fondamento, implicito e sempre presente, di ogni ulteriore conoscenza pratica universale e particolare. Tale principio conferisce ai giudizi della ragion pratica la dinamica operativa della prosecutio oppure della fuga. Questi ultimi sono ciò che potremmo chiamare la "copula pratica" che non è l'affermazione e la negazione teoretica ("è", "non è"), ma un tipo di affermazione/negazione specificamente pratico che muove a "fare il bene" (affermazione) e a "fuggire il male" (negazione). Il primo principio della ragion pratica non è, quindi, un principio puramente logico, una "struttura logica" dei precetti pratici, ma il primo principio della prassi e, al tempo stesso, il principio primo della moralità(52). Questo primo principio della ragion pratica, che San Tommaso identifica con il primo precetto della legge naturale, costituisce l'uomo soggettopratico e soggetto morale. Parteciperanno di questa duplice funzione anche tutti i successivi princìpi formulati dalla ragion pratica, cioè tutta la legge naturale. La legge naturale, infatti, ha il duplice significato di essere principio della prassi e principio di moralità. La legge naturale, nel suo significato originario e più profondo, non è una norma che dall'esterno regola l'agire umano, ma è lo stesso principio intrinseco della prassi umana: fa sì che l'uomo agisca. L'agire umano è, però, sin dal primo momento un agire morale, ossia in virtù della stessa legge naturale si sviluppa sin dall'inizio nell'antitesi morale "buono/cattivo". La legge naturale è una conoscenza pratica e precettiva del bene umano che si spiega perché la ragione umana si inquadra nel dinamismo delle inclinazioni naturali Il secondo punto di I-­‐II 94, 2 spiega la genesi degli altri precetti della legge naturale (ossia degli altri princìpi della ragion pratica), che hanno un contenuto più specifico. Non sono dedotti dal primo principio, ma si costituiscono attraverso un processo naturale e spontaneo, in cui la ragion pratica -­‐ sotto l'influsso della "copula pratica" che comanda di fare e di perseguire il bene ed evitare il male-­‐ coglie i singoli fini delle tendenze o inclinazioni naturali del proprio essere. È 92 un'esperienza originale del soggetto umano, un'esperienza soprattutto pratica, non derivata da altra conoscenza.(53) È l'originaria esperienza di sé come essere che tende al bene, nella molteplicità delle inclinazioni naturali proprie dell'uomo ed è, quindi, di carattere pratico e morale. È anche costitutiva di ogni altra esperienza della propria natura umana e punto di partenza, attraverso la speculazione teoretica, per ulteriori approfondimenti. Perciò la metafisica dell'uomo (l'antropologia filosofica) presuppone l'esperienza pratica della legge naturale; e la legge naturale come conoscenza originaria del bene è il presupposto per la conoscenza della natura umana.(54) La legge naturale è, pertanto, una conoscenza pratica e precettiva del bene umano che si spiega perché la ragione umana si inquadra nel dinamismo delle inclinazioni naturali. La ragion pratica ha il carattere di un imperium, ossia, è una ragione che comanda e muove, perché è una ragione che opera all'interno di un "ambiente orientato a"(55). Le tendenze ed inclinazioni naturali, attraverso la ragion pratica, diventano un bene per la ragione, sono razionalmente ordinate e, nell'ambito della ragione -­‐ ma solo a tale livello intellettivo -­‐ affermate come beni umani. In questo secondo passo San Tommaso afferma che, in base alla dinamica del primo principio pratico, tutto ciò che la ragione pratica naturalmente coglie come bene umano, fa parte, come bene da fare o male da evitare, dei precetti della legge naturale.(56) Risulta quindi evidente che la legge naturale è costituita dall'ordinamento della ragion pratica nella dinamica delle inclinazioni naturali. Perciò, San Tommaso può affermare che "la ragione afferra naturalmente tutto ciò verso cui l'uomo ha un'inclinazione naturale considerandoli come beni e, quindi, come qualcosa da perseguire con le opere, ed il loro contrario come male da evitare. L'ordine dei precetti della legge naturale segue, perciò, l'ordine delle inclinazioni naturali"(57). San Tommaso, partendo da queste tendenze dei precetti della legge naturale, prosegue argomentando sulle singole inclinazioni naturali, senza entrare nei dettagli della struttura razionale. Non ne parla per motivi, a mio parere, molto ovvi. Perché, innanzitutto, scopo di questo articolo è dimostrare che la legge naturale non è un'unica norma, ma ve ne sono una pluralità(58). Una volta spiegato che la genesi dei precetti della legge naturale si deve al rapporto costitutivo tra ragione pratica ed inclinazioni naturali, e che nell'uomo vi sono una pluralità di inclinazioni, lo scopo è raggiunto. Il secondo motivo è che San Tommaso, in questa sede, non ha bisogno di entrare nei dettagli perché gli altri aspetti relativi alla natura della legge in generale e a quella naturale, nonché la dottrina sulla ragione come misura e regola della moralità degli atti umani, li ha già trattati in articoli precedenti.(59) San Tommaso, tuttavia, accenna a questa dottrina nella risposta alla seconda obiezione. Conosciuti dalla ragion pratica, i beni e i fini delle inclinazioni naturali sono confermati nel loro carattere di costitutivo del bene umano; allo stesso tempo sono regolati ed ordinati dalla ragione, cioè integrati nell'insieme dell'essere corporeo-­‐spirituale della persona e, quindi, anche trasformati. Solo in quanto tali fanno parte della legge naturale e sono la legge naturale. In questa risposta alla seconda obiezione, San Tommaso afferma che "tutte le inclinazioni di qualsiasi parte dell'umana natura, cioè la concupiscibile e l'irascibile, in quanto regolate dalla ragione, fanno parte della legge naturale..."(60). Le inclinazioni naturali nella loro naturalità non sono ancora "legge naturale". Ne fanno parte in quanto sono regolate dalla ragione; ciò che formalmente è la legge naturale sono i giudizi della ragion pratica, che hanno come oggetto i singoli beni ed i fini propri delle inclinazioni naturali. In questi giudizi, pratici e normativi, i beni e i fini propri sono giudicati dalla ragione come ciò che è dovuto, cioè come fini, beni ed atti dovuti. Questa è la terminologia usata da San Tommaso: l'uomo, partecipando attraverso il possesso del lumen rationis naturalis alla legge eterna -­‐ la ragione ordinatrice di Dio -­‐, non è guidato dalle diverse inclinazioni semplicemente verso gli atti e i fini propri di queste, ma, a livello razionale, ha un'inclinazione naturale propria ad debitum actum et finem.(61) 93 Il che è in perfetta sintonia con la dottrina di San Tommaso sulla struttura razionale dell'oggetto morale. Infatti, la fondazione razionale del bene umano nell'ambito dei beni e dei fini propri delle singole inclinazioni naturali e dell'oggetto morale, a differenza dell'oggetto nel puro genus naturae, sono, a livelli diversi, processi analoghi. La similitudine si spiega perchè "negli atti umani il bene ed il male si definiscono in relazione alla ragione"(62). Quest'analisi della fondazione del bene umano concorda con l'affermazione dell'Aquinate, per il quale gli atti morali, nella loro specie, "sono costituiti da forme in quanto sono concepiti dalla ragione"(63). La ragione, infatti, sta alle inclinazioni naturali -­‐ in quantonaturali -­‐ come la forma sta alla materia. Insieme formano un'unità complessa (ciò vale anche per l'oggetto morale, composto dalla materia circa quam e dalla parte formale, che proviene dalla ragione.(64)). La naturalità del bene, espressa nella legge naturale, non può essere però ridotta alla pura naturalità delle singole inclinazioni naturali ed ai loro beni, fini ed atti propri. Questo equivarrebbe a ridurre il genus moris di un atto al genus naturae, a confondere "oggetto morale" e "oggetto fisico" di un atto umano. La legge naturale, come afferma il testo citato di Leone XIII, inclina l'uomo ad debitum actum et finem e in questo modo rende efficace la stessa legge eterna. Il che non sarebbe possibile senza l'atto regolante ed ordinatore della ragione. La legge naturale come conoscenza pratica del bene umano Per San Tommaso la legge in generale è ciò che regola gli atti umani. Il che, però, è compito della ragione: spetta, infatti, alla ragione ordinare al fine. Perciò, la legge è aliquid pertinens ad rationem(65). In concreto, per "legge" s'intendono "i giudizi ("proposizioni") pratici universali della ragion pratica, ordinati all'agire"(66). Anche la legge naturale, quindi, est aliquid per rationem constitutum e, come ogni giudizio, un opus rationis(67). La legge naturale è un insieme di giudizi naturali della ragion pratica che in modo normativo o imperativo indicano il bene da fare e il male da evitare, nell'ambito delle finalità indicate dalle inclinazioni naturali. L'insieme delle inclinazioni naturali, ordinate dalla ragione, costituisce e definisce l'identità umana e, perciò, anche l'ordine morale naturale dell'uomo. È dunque la legge naturale che manifesta "la natura umana" e quell'ordine della ragione, che è norma per l'agire. Il manifestarsi delle fondamenta dell'ordine morale oggettivo presuppone la presenza cognitiva della legge naturale. Questa non può essere dedotta da tale ordine, poiché è la stessa legge naturale che lo rende manifesto. La legge naturale è, quindi, l'insieme dei giudizi della ragion pratica che contengono ciò che è "per natura ragionevole". In realtà, questi giudizi si caratterizzano per una certa complessità: alcuni sono immediatamente evidenti e attuati con naturale spontaneità (i primi principi o principi comuni, come ad esempio la regola aurea(68)), altri derivano dai primi principi come frutto di un processo logico e non come pura deduzione (i precetti secondari della legge naturale, che si riferiscono ad azioni come "rispettare la proprietà altrui", "non uccidere", ecc.(69)). Questi giudizi pratici, normativi, imperativi (ad esempio, a livello di giudizi particolari, i giudizi della prudenza) muovono all'agire (o distolgono dall'agire). I precetti della legge naturale non sono, perciò, propriamente delle "norme" che, applicate dalla coscienza morale, regolano la libertà della persona ed il suo agire. Questi giudizi pratici della ragione naturale, che costituiscono una legge naturale, sono piuttosto fondamento e punto di partenza dell'agire in quanto agire morale. I giudizi o le conoscenze pratiche costituiscono la persona come soggetto pratico e morale, sia a livello generale che nei diversi ambiti dell'agire umano, corrispondenti alle diverse virtù morali. San Tommaso, perciò, afferma che "il primo orientamento delle nostre azioni al fine si realizza mediante la legge naturale"(70). Vale a dire, senza legge naturale non ci sarebbe alcun agire, poiché ogni agire persegue un fine, e senza questo perseguire, non si agisce. La legge naturale è anche un insieme di giudizi sui fondamentali beni umani da realizzare, beni che definiscono l'ordine del bene morale che è un ordo rationis. La legge naturale, perciò, non è 94 conosciuta o dedotta in base ad un ordine morale, ma è la legge naturale che costituisce e realizza l'ordine morale come ordo rationis. È quest'ordine che manifesta ciò che è la "natura umana" nel senso moralmente normativo. L'ordine della ragione non è altro, però, che l'ordine della legge eterna, che si manifesta attraverso e nella legge naturale: la legge naturale infatti è la legge eterna, presente nella ragionevolezza pratica dell'uomo. Legge naturale e coscienza morale È da sottolineare che l'intelletto, come facoltà spirituale, ha la capacità di riflettere in modo illimitato sui propri atti. L'intelletto umano riflette sui giudizi naturali della ragion pratica, scoprendo, quindi, l'ordine morale naturale come oggetto dell'intelletto speculativo e la "natura umana" come realtà antropologica piena di significato normativo. Si badi bene, però, che questa normatività non è dedotta o scoperta in una natura esterna all'uomo che conosce; al contrario, è la normatività originaria della ragion pratica che, essendo inserita nella dinamica delle inclinazioni naturali, fornisce giudizi naturali sul bene umano. Questi ultimi formano un'esperienza morale originaria, irriducibile e fondamentale. È un'esperienza in cui allo stesso tempo si manifesta l'essere umano, l'identità antropologica del soggetto e l'aspetto normativo di questa identità umana. L'analisi di questa esperienza morale porta ad un secondo concetto di "legge naturale", intesa in senso materiale e non formale. Tale concetto si riferisce solo ai contenuti propositivi dei giudizi della ragion pratica e della relativa esperienza morale, che, in senso proprio e originario, sono la legge naturale. L'intelletto riflettendo sui propri atti pratici e normativi forma un habitus di conoscenze morali normative, che è la legge naturale come habitus dei princìpi e fondamento della "scienza morale" (questo habitus dei primi principi è chiamato anche synderesis(71)). Queste conoscenze sono enunciati normativi, ossia norme morali, che, per il modo naturale in cui si manifestano nei primi giudizi della ragion pratica, appaiono nella coscienza come la voce di una verità, cui il soggetto deve sottomettersi, e che sono applicate all'agire concreto mediante il giudizio della coscienza. Mi limito a questo breve cenno, rinviando ad altri scritti per un'esposizione più dettagliata.(72) Legge naturale e diritto naturale Abbiamo visto che la legge naturale è un insieme di giudizi della ragion pratica che, in modo normativo o imperativo, mostra il bene da fare e il male da evitare nell'ambito dei fini espressi dalle inclinazioni naturali. Le inclinazioni sono molte e hanno origine dalla complessa natura della persona umana. San Tommaso, rispetto all'inclinazione a conservare se stessi, dice che è una tendenza fondamentale, ma nell'ordine della ragione è perseguita, ad esempio, in relazione alle esigenze di giustizia, di benevolenza verso il prossimo, di rispetto del bene comune, ecc. "Conservare se stessi", in quanto contenuto della legge naturale, non è solo l'inclinazione naturale nella sua pura naturalità. L'uomo è capace anche di sacrificare la propria vita per il bene altrui. Ciò vale anche per l'inclinazione sessuale tra uomo e donna, altro esempio citato da San Tommaso. Questa inclinazione, colta dalla ragione come bene umano e trasformata nel contenuto di un giudizio pratico, è molto più di una inclinazione che si trova nella natura. Essa è molto più di ciò che, con parole del giurista romano Ulpiano, "la natura ha insegnato a tutti gli animali"(73). L'inclinazione naturale, colta dalla ragione e perseguita nell'ordine della ragione -­‐a livello personale-­‐ diventa amore tra persone, amore con esigenza di esclusività (unicità) e di indissolubile fedeltà tra persone(non è pura attrazione di corpi), persone che si comprendono come unite nel compito di trasmettere la vita umana. Il matrimonio, fedele ed indissolubile, tra persone di diverso sesso, unite nel compito comune di trasmettere la vita umana, è proprio la verità della sessualità; è la sessualità concepita come bene umano. Come tutte le altre forme di amicizia e di virtù, il matrimonio, questo specifico tipo di amicizia, non si trova "nella natura". Esso è proprietà e norma di un ordine morale, cui l'uomo ha accesso mediante la legge naturale 95 come ordinatio rationis. Ciò che secondo Ulpiano "la natura avrebbe insegnato a tutti gli animali", è presupposto anche dell'amore umano, ma non esprime adeguatamente l'ordinemorale naturale al quale quest'amore appartiene. Per l'uomo, ciò che "la natura ha insegnato a tutti gli animali" non è sufficiente neppure per fondare una qualsiasi norma o dovere. Se l'animale fa ciò che la sua natura, dotata di istinti, gli impone compie la sua funzione. Si può affermare la stessa cosa per l'uomo? Le inclinazioni più importanti sorgono direttamente dalla natura spirituale dell'uomo. San Tommaso cita l'inclinazione naturale a conoscere la verità, in particolare la verità su Dio, e l'inclinazione naturale a vivere in società. L'uomo di per sé fugge l'ignoranza e cerca di non offendere gli altri uomini. Infatti, è la legge naturale che fonda le prime nozioni di giustizia -­‐ come di ogni altra virtù -­‐ e che rende possibile la nozione di "diritto naturale", cioè di qualcosa che è "giusto per natura". Qualsiasi nozione di diritto naturale presuppone la presenza attiva nel soggetto della legge naturale. Se la legge naturale, e con essa la ordinatio della ragion pratica, non formasse dei princìpi di giustizia, nulla potrebbe essere percepito come "naturalmente giusto". Qualunque nozione di "giusto" deriverebbe da una legge positiva o divina (rivelata) o umana. La nozione di "giusto", come dice Trasimaco, non sarebbe altro che l'interesse ed il vantaggio del più forte.(74) Sarebbe impensabile non solo la nozione di un "diritto naturale", ma lo stesso concetto di "giusto" come "bene" e come "dovuto a qualcuno". I termini "legge naturale" e "diritto naturale", talvolta, sono usati indistintamente e come sinonimi causando non poca confusione. Per la tradizione pre-­‐moderna, lo ius naturale è identico allo iustum naturale, vale a dire il "diritto" è qualcosa che, in base ad una certa convenienza, è dovuto a qualcuno (ad esempio, in una compravendita, ogni merce ha un suo prezzo, ma, secondo l'Aquinate, il prezzo concreto può essere stabilito per convenzione; che una merce abbia un prezzo ènaturale e, quindi, è naturale il rapporto "merce-­‐prezzo"; pagare un prezzo è conforme quindi allo ius naturale(75)). Da un punto di vista semantico, il concetto moderno di "diritto" è alquanto diverso: è soprattutto diritto soggettivo, cioè "pretesa" (claim, right), "diritto a qualcosa"(76). Così s'intendono i diritti di libertà e, in genere, i diritti umani. Lo ius naturale della tradizione tomista è un dato, una convenienza secundum naturam, fondamento dell'ordine della giustizia. Lo ius è proprio l'oggetto della virtù della giustizia (ossia, "ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo"). Inoltre bisogna distinguere tra "legge naturale" e "diritto naturale" perché la legge naturale non si riferisce solo alla giustizia degli atti in rapporto ad altre persone; ma regola tutte le virtù morali, anche gli atti che riguardano lo stesso soggetto agente, come gli atti della temperanza o della forza. È da sottolineare, che la nozione di "ius" non si auto-­‐fonda e non è "data" in natura; come tutte le nozioni morali, si forma all'interno della legge naturale. Ciò che è "naturale", rilevante per alcuni aspetti e presupposto per la formazione della legge naturale, sono specifiche relazioni di convenienza (ad esempio, la nota coniunctio maris et feminae come relazione naturale di adaequatio, o la relazione fra "merce" e "prezzo", e altre convenienze, Sachverhalte, intuitivamente afferrabili "dalla natura delle cose", come insegnano i giuristi romani dell'epoca del Principato(77)). La normatività di queste "convenienze" o adaequationes e la stessa nozione di dovuto (debitum) derivano però dalla ragion pratica, che è la sola capace di ordinare queste convenienze verso il fine della virtù, che è il bene della persona umana. Tali nozioni provengono dalla ragione naturale e sono anche naturali, come lo sono la legge naturale e la ragione. Attraverso la ragione pratica sono costituite tutte le nozioni relative all'ordine della giustizia. Quanto affermato da San Tommaso per la relazione fra legge e diritto, può essere applicato anche alla relazione fra legge naturale e diritto naturale, cioè, lex non est ipsum ius, proprie loquendo, sed aliqualis ratio iuris: "la legge non è, in senso proprio, il diritto, ma piuttosto ciò che fa sì che ciò che è diritto sia 'diritto'"(78). 96 Il diritto naturale, dunque, non è propriamente una norma dedotta dalla natura o "letta" in essa, ma il risultato di una lettura delle strutture naturali alla luce dei princìpi della legge naturale. È importante tenerlo presente per non cadere in un circolo vizioso o rendersi colpevoli di una petitio principii, quando si argomenta basandosi sul diritto naturale. Nozioni quali: "qualcosa di dovuto" al prossimo, "non offendere", "non nuocere", la stessa nozione di reciprocità espressa dalla Regola aurea, e di uguaglianza, di cui ogni forma di giustizia è una forma specifica, discendono dall'inclinazione naturale a vivere in società con gli altri uomini, a comunicare e a rapportarsi con loro con azioni di scambio, di distribuzione, ecc. Senza legge naturale, non ci sarebbe alcuna nozione di "diritto" o di "giusto", perché mancherebbe nelle relazioni tra gli uomini qualsiasi nozione di norma o di dovere, perciò è più che mai valida l'affermazione: lex non est ipsum ius, proprie loquendo, sed aliqualis ratio iuris. La nozione di "dovuto" e di "diritto" (ius), propria di ogni relazione di giustizia, non è però ancora sufficiente. Perché ciò che è dovuto possa rientrare nel primo principio della legge naturale (bonum faciendum ecc.), il "giusto" deve manifestarsi come "bene". San Tommaso dice, infatti, che "rendere a qualcuno ciò che è dovuto ha caratteristica di bene"(79). È necessario, quindi, ricondurre la nozione di giusto e di dovuto alla nozione di bene o di bonum humanum. Perché il "giusto" è un bene umano per chi si mette in relazione con un altro? Lo è per la Regola aurea, che fa parte dei primi principi della legge naturale ed implica il fondamentale riconoscimento dell'altro come "uguale a me". Questo riconoscimento, fondamento di ogni giustizia, è di nuovo frutto della ragione.(80) LA LEGGE NATURALE NEL CONTESTO DI UN'ETICA DELLE VIRTÙ Ritengo che dalla concezione tomista della legge naturale derivino conseguenze importati e feconde per la filosofia morale, sia per i suoi fondamenti che per la sua intrinseca struttura.(81) Qui mi soffermerò solo su alcuni aspetti. Legge naturale ed etica delle virtù Potremmo comprendere meglio che la legge naturale è realmente "scritta e scolpita" nell'anima umana, se abbandonassimo l'idea piuttosto semplicista che la legge naturale è solo un insieme di norme da leggere in un ordine naturale che è "dinanzi ai nostri occhi", e ci rendessimo conto, invece, che la legge naturale è qualcosa di insito nei giudizi naturali della ragion pratica di ogni uomo e, perciò, conoscenza di ciò che è "ragionevole per natura". Allora arriveremmo a conoscere la legge naturale anche nel suo significato ontologico, cioè come espressione della natura umana e dell'ordine morale fondato su questa natura. Questa legge emanata dalla ragion pratica del soggetto è proprio la natura umana nella sua dinamica normativa: è nello stesso tempo auto-­‐
possesso del soggetto -­‐vera autonomia, che è teonomia partecipata -­‐ e norma oggettiva che, dinanzi alla coscienza morale, si impone con la forza e l'autorità della verità. Concepire la legge naturale, in sintonia con San Tommaso, come l'insieme dei princìpi naturali della ragion pratica, apre la strada per comprendere l'intimo legame che c'è tra i precetti della legge naturale e le virtù morali. Infatti, anche le virtù morali sono un tipo di ordinatio rationis: come habitus sono l'ordine della ragione, "sigillata ed impressa" nelle inclinazioni concupiscibili (temperanza) ed irascibili (forza) e nell'appetito razionale che si chiama "volontà" (giustizia).(82) Poiché l'uomo è essenzialmente formato da un'anima razionale, ha anche "un'inclinazione naturale ad agire secondo la ragione"; il che equivale a vivere le virtù, i cui atti sono dunque imposti dalla legge naturale.(83) Le virtù morali sono il compimento della legge naturale a livello dell'agire concreto, poiché sono l'habitus di scegliere ciò che è bene per l'uomo in concreto.(84) Perciò, i precetti della legge naturale sono i princìpi della prudenza.(85) La "verità della soggettività", di cui la legge naturale è il fondamento a livello dei princìpi, è 97 garantita dal possesso delle virtù morali, la cui funzione, come ha insegnato Aristotele, è far sì che al soggetto appaia come buono ciò che lo è anche secondo verità.(86) Le singole virtù fanno ciò, disponendo gli "appetiti" dell'essere umano, le tendenze sensibili e la volontà, secondo le esigenze della ragione. Così, il secundum rationem agere(87), fondato sulla legge naturale, si compie nelle virtù morali, che però manifestano anche la loro funzione di dare piena efficacia e validità alla legge naturale: lo stretto legame tra legge naturale e virtù morale spiega come il vizio sia una delle cause principali dell'offuscamento della legge naturale nell'uomo. La concezione tomista apre la strada ad un'etica e ad una teologia morale fondata non tanto sulla "legge", ma anzitutto sulle virtù. Permanenza della legge naturale e problemi attuali relativi al rispetto della vita umana Attualmente molti sostengono che la legge naturale, e con essa il rispetto del diritto naturale, è diventata irrilevante o è stata messa da parte dalle persone, dalla società politica e dalle leggi su cui si fonda. Secondo quest'opinione, il mancato rispetto e persino la negazione della legge naturale sono rintracciabili nella grande diffusione delle pratiche contraccettive, dell'aborto, delle tecniche riproduttive, alle quali è connesso il grave problema degli embrioni umani congelati "in attesa" di divenire "utili", come cellule staminali per la ricerca medica, per la clonazione terapeutica, ecc. Ritengo che questa diagnosi, secondo cui i fenomeni citati segnalino la perdita o l'oblio della legge naturale nel cuore degli uomini, non sia del tutto corretta. Mi sembra importante fare una buona diagnosi per non sbagliare la terapia da applicare. Infatti, se ci si limitasse ad argomentare che la legge naturale è un dato facilmente decifrabile nella "natura delle cose", ne seguirebbe che chi non è in grado di cogliere o nega l'esistenza di una tale "legge della natura", negherebbe una verità evidente, e l'unica terapia sarebbe cercare di piegare questi ostinati negatori della verità con l'insistente affermazione del contrario. Sarebbe logico: a chi nega ciò che è evidente ed è intuitivamente conoscibile, non si deve rispondere con argomenti, ma con biasimo ed indignazione. Sono convinto che le cose siano più complesse; non credo che alcuni neghino ciò che è evidente ed intuitivamente conoscibile, e quindi i principi fondamentali della legge naturale. Anzi, su ciò che è evidente, vi è al giorno d'oggi un sorprendente consenso che testimonia la presenza della legge naturale nelle coscienze degli uomini. Se così non fosse, risulterebbe incomprensibile che siano considerati disonesti comportamenti quali l'uccidere l'innocente, l'adulterio, la menzogna, il furto, l'odio per il prossimo, l'invidia, i giudizi temerari, la diffamazione. Ovviamente, ciò non impedisce che, di fatto, l'innocente sia ucciso, la menzogna sia usata per fini privati e pubblici, i furti, l'odio, la diffamazione e molti altri tipi di ingiustizia siano all'ordine del giorno. Questi comportamenti, a causa della cattiveria e della debolezza umana, ci sono sempre stati, ma sono sempre stati disapprovati dalle persone con retto giudizio. Senza l'effettiva presenza della legge naturale nei cuori degli uomini questo non sarebbe possibile e non sarebbero neppure comprensibili le stesse nozioni di "adulterio", "assassinio", "menzogna", "furto" ecc., tutte, infatti, implicano che si abbia un concetto di "giustizia", anche questo frutto della legge naturale. Nella cultura odierna vi è una tendenza molto diffusa a non accettare, per principio, una morale "oggettiva" ed universale. A questo fenomeno di individualismo e soggettivismo etico a livello personale, paradossalmente, non corrisponde il fenomeno opposto: oggi, come mai prima nella storia, sono considerati punto di riferimento obbligatorio, per la vita pubblica e la valutazione dell'agire umano individuale ed istituzionale, in campo sociale, politico ed economico, quelle norme morali designate come "diritti umani", che sono proclamati come universali e si impongono con la forza del loro valore oggettivo. Altro indice questo che la legge naturale è lungi dall'essere caduta nell'oblio. 98 Tra i sostenitori dell'esistenza di una legge naturale vi sono però opinioni discordanti sul contenuto, cioè su ciò che la ragione umana ci indica come "buono" e "doveroso". C'è consenso solo sui principi più importanti, mentre c'è una grande diversità di opinioni tra credenti e non-­‐
credenti sui cosiddetti precetti "remoti" che, secondo lo stesso San Tommaso, possono essere compresi senza errore solo dai "più sapienti"(88). Problemi come la contraccezione, il divorzio, l'aborto in alcuni suoi aspetti (quando è adoperato con mentalità contraccettiva(89)), il divieto della clonazione terapeutica o la fertilizzazione in vitro, sono, dal punto di vista della "legge naturale", materie piuttosto remote, di cui spesso è difficile percepire l'intrinseco carattere morale. È, invece, per tutti facile, anche oggi, comprendere il carattere disordinato dell'uccidere, dell'adulterio, della menzogna, del furto, dell'odio per il prossimo, dell'invidia, dei giudizi temerari, della diffamazione, ecc., comportamenti ed atteggiamenti interiori ai quali si riferiscono i principali precetti della legge naturale. Con il progresso tecnologico aumentano continuamente le possibilità d'intervento sulla natura, su ciò che è "dato" e presupposto. Il potere dell'uomo si estende su ciò che, in epoche passate, bastava semplicemente accettare come "naturale" o come immutabile e si presentava all'uomo sotto forma di destino cui piegarsi docilmente. Siamo arrivati ad avere il potere di cambiare, almeno in molti aspetti, la "condizione umana", di poterla modificare in funzione delle nostre aspettative, non necessariamente illecite, di felicità e di benessere (si pensi alle tecniche riproduttive, alla genetica. ecc.). Nella società moderna, l'autonomia dell'individuo è ampliata come non mai. L'identità delle persone non è più ineluttabilmente definita secondo determinati ruoli sociali, preordinati dall'inserimento in un determinato contesto storico, sociale, familiare. Ritengo che questa evoluzione si debba valutare come una grande conquista. È logico, però, che tale sviluppo, se non altro per quanto riguarda l'utilità sociale, renda meno intelligibili alcuni divieti morali assoluti. Dove il contesto sociale non pre-­‐definisce più determinati ruoli per ogni singola persona o per gruppi di persone (definite ad esempio per il loro sesso), diventa più difficile comprendere alcuni valori e norme morali che, in passato, erano tutelati dai processi di socializzazione e dalla generale struttura della società e dai limiti imposti dalle circostanze comuni della vita. Consideriamo un esempio attuale: la sperimentazione sulla vita umana per motivi filantropici, come curare le malattie, è sempre stato un sogno degli uomini, non solo degli scienziati. Oggi sembra che siamo in grado di farlo, e la pressione aumenta, non perché la legge naturale non sia più riconosciuta, ma perché il potere dell'uomo sulla natura è cresciuto, il che genera, per l'intrinseca intelligibilità dell'ordine morale stabilita da questa legge, sfide fino ad oggi sconosciute. Chi opta per la sperimentazione con embrioni umani ed afferma che un embrione non è ancora un essere con la dignità ed i diritti di una persona, non nega la legge naturale, ma implicitimamente la conferma: infatti, non vuole strumentalizzare una persona a fin di bene e perciò è costretto a negare lo status di persona dell'embrione. L'errore non è in materia di legge naturale, non è proprio un errore di conoscenza pratica, ma anzitutto un errore di tipo teoretico; si tratta di una affermazione erronea sulla realtà, un errore di antropologia metafisica che determina una grave ingiustizia: la strumentalizzazione di alcuni individui umani per il bene di altre persone. Nessuno sostiene che si possa violare la dignità di alcuni esseri umani per il beneficio della maggioranza; ciò sarebbe chiaramente contrario alla legge naturale. Invece, si nega a certi esseri umani la dignità di persona in modo da sostrarli al precetto della legge naturale che vieta di utilizzare delle persone esclusivamente come strumento per soddisfare gli interessi di altri esseri umani. In altri casi, tale errore è dovuto ad una vera e propria discriminazione, che nasce da una volontà non retta che cerca soprattutto il proprio benessere, l'autodeterminazione, la realizzazione di 99 progetti personali, spesso leciti, ma perseguiti a spese di altre persone. In tale contesto di ingiustizia, l'errore di non riconoscere la dignità ed i diritti degli esseri umani non ancora nati, persino nella forma embrionale della vita umana, si manifesta come autentico errore pratico, cioè come ingiustizia.(90) Essere abitualmente in un simile errore causa un progressivo offuscamento della legge naturale nel proprio cuore, e rende la luce della ragione naturale sempre meno capace di guidare il proprio comportamento verso il vero bene dell'uomo. In questa situazione fare appello all'evidenza della legge naturale, ossia al diritto naturale, non è di grande aiuto per chi è coinvolto nel male. Invece, per chi, in buona fede o per semplice ignoranza dovuta anche alle pressioni dell'ambiente, ha bisogno di essere istruito nella verità, non sono sufficienti i richiami ad evidenze che in determinate condizioni non si dànno. Oggi molti, forse la maggioranza, dei problemi morali riguardano materie che rientrano nell'ambito dei precetti "remoti" della legge naturale, dove non c'è evidenza. Il processo conoscitivo della ragione naturale può essere seriamente fuorviato dai condizionamenti concreti ai quali il soggetto è esposto nel suo ambiente sociale, dal contesto biografico e culturale, dalle pressioni ed imposizioni materiali del mondo del lavoro. Si pensi, ad esempio, ai bambini e ai giovani che crescono in una società in cui il divorzio, e quindi le famiglie "articolate" ("bambini con quattro genitori" ecc.) sono diventate la normalità. In questa situazione gli appelli alle evidenze non potranno servire molto; sono necessari da un lato dimostrazioni, argomenti, e dall'altro, per chi è disposto ad accettarla, direttive da parte di un'autorità riconosciuta. Bisogna anche ricordare che l'evidenza di specifiche esigenze della legge naturale può trovare una motivazione solo nel contesto della fede cristiana e attraverso la grazia che è data, nell'ambito di una vita cristiana, per vivere nella prospettiva del mistero della Croce tutte le esigenze dell'ordine morale naturale. Quest'ordine, anche se in sé intelligibile per tutti, ha per l'uomo concreto delle difficoltà e spesso un carattere paradossale che rende inintelligibile il bene umano. Solo alla luce della fede anche la legge naturale recupera tutta la sua intelligibilità ed umanità. Non perché in sé non sarebbe razionalmente conoscibile, ma perché, fuori dall'ordine della redenzione, quest'intelligibilità può apparire spesso illusoria e persino un peso, che richiede delle esigenze disumane e non compatibili con il desiderio di felicità insito nel cuore dell'uomo.(91) Perché anche la legge naturale possa rivelarsi parte di quella verità che rende liberi, è necessario un paziente lavoro di diffusione del bene, della luce della fede, sì da permeare le strutture sociali con lo spirito di Cristo. (1) J. Fuchs, Lex Naturae. Zur Theologie des Naturrechts, Düsseldorf 1955. Si veda per maggiori dettagli M. Rhonheimer,Legge naturale e ragione pratica. Una visione tomista dell'autonomia morale, Armando, Roma 2001, pp. 36 ss. (testo originale: Natur als Grundlage der Moral. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei Thomas von Aquin. Eine Auseinandersetzung mit autonomer und teleologischer Ethik, Tyrolia Verlag, Innsbruck-­‐Wien 1987, pp. 30 ss.) (2) Ibid., pp. 13-­‐16. (3) Cf. ibid.: "Così l'essere, l'essente, la natura corporeo-­‐spirituale dell'uomo stesso appare come la norma del comportamento morale e del diritto ... la ragione legge il diritto naturale a partire dalla natura delle cose e dell'uomo". Non è corretta l'affermazione di Fuchs, che questo schema riporti l'opinione della tradizionale teologia morale. Cf. Rhonheimer, Legge naturale e ragion pratica, pp. 36 s. (4) Sant'Ambrogio, De Paradiso, 8, 39, in Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera (Tutte le Opere di Sant'Ambrogio, ed. bilingue), 2/I, recensuit Carolus Schenkl, introduzione, traduzione, note e indici di P. Siniscalco, Biblioteca Abrosiana, Milano / Città Nuova Editrice, Roma 1984, p. 98/99. Cf. anche A. Trapé, L'universalità e l'immutabilità delle norme morali e l'oggettività del giudizio morale secondo i Padri latini, in particolare secondo Sant'Agostino, in Universalité et 100 permanence des Lois morales, édité par S. Pinckaers et C. J. Pinto de Oliveira, Éditions Universitaires, Fribourg / Éditions du Cerf, Paris 1986, pp. 90-­‐101. (5) Cf. anche Sant'Agostino, che nel De libero arbitrio I, 6, 15, 48 parla di "illa lex quae summa ratio nominatur, cui semper obtemperandum est et per quam mali miseram, boni beatam vitam merentur..." (6) La prospettiva della morale. Fondamenti dell'etica filosofica, Armando, Roma 1994, pp. 159 ss. (7) San Tommaso d'Aquino, De Veritate 10, 1: "Quia vero rerum essentiae sunt nobis ignotae, virtutes autem earum innotescunt nobis per actus..." (8) Id., Summa Theologiae I-­‐II, 17, 1 ad 2: "Ex hoc enim voluntas libere potest ad diversa ferri, quia ratio potest habere diversas conceptiones boni". (9) Cf. Aristotele, Fisica, II, 8. (10) Per un'esposizione più ampia della nozione di bonum rationis si veda M. Rhonheimer, Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. Handlungstheorie bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik, Akademie Verlag, Berlin 1994, pp. 124 ss. (11) Ritengo che la non corretta fondazione della cosiddetta "morale autonoma" ha le sue radici proprio nella fallacia dualista e nella conseguente interpretazione "fisicista" della legge naturale, da cui ci si è voluto "liberare" invertendo i termini, dichiarando la ragione "autonoma" rispetto alla natura, in un modo però che non si supera, ma anzi continua, in termini opposti, il tradizionale dualismo. Questo aspetto l'ho analizzato ampiamente nel mio studio Legge naturale e ragione pratica, cit. (12) Cf. Rhonheimer, Legge naturale e ragione pratica, pp. 39 ss. (13) I-­‐II, 90, 1 e 4. (14) È vero che S. Tommaso chiama "legge" non solo ciò che regola, ma anche ciò che è regolato da qualche legge, come le inclinazioni. Questo però non si chiama legge "essentialiter, sed quasi participative", ma in senso proprio, cioè di ciò che regola, "lex est in ratione sola" (I-­‐II, 90, 1 ad 1). (15) Così, ad esempio, Johannes Messner voleva assimilare il concetto di "legge naturale" in campo morale a quello delle scienze naturali; cf. J. Messner, Das Naturrecht, Tyrolia Verlag, Innsbruck-­‐Wien 61966, pp. 55. A. F. Utz nella recensione critica al mio libro Natur als Grundlage der Moral (Legge naturale e ragione pratica), si rifa esplicitamente alla posizione del Messner, definendola l'autentica posizione di San Tommaso d'Aquino: "Naturgesetz ist bei Thomas zunächst ein Gesetz im natur-­‐wissenschaftlichen Sinn, d.h. ein Gesetz des Seins..." (A. F. Utz, Wonach richtet sich das Gewissen? «Die neue Ordnung», Heft 2 (1988), pp. 152-­‐156; 155. La critica di Utz si fonda però su un grave malinteso, cf. il "Postscriptum" di Legge naturale e ragione pratica, pp. 521 ss. (16) Si spiega perchè la definitio legis, che contiene tutti gli elementi essenziali in senso proprio, è quella della legge civile; cf. I-­‐II, 90, 4: "...definitio legis, quae nihil est aliud quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata". Per l'origine pratico-­‐politico della nozione di legge in San Tommaso si veda W. Kluxen, Philosophische Ethik bei Thomas von Aquin (1964), Felix Meiner, 21980 e 31998, pp. 230 ss. (17) I-­‐II, 90, 1. (18) I-­‐II, 94, 2. (19) "...lex naturae (...) nihil aliud est nisi lumen intellectus insitum nobis a Deo, per quod cognoscimus quid agendum et quid vitandum. Hoc lumen et hanc legem dedit Deus homini in creatione" (In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio, Prologus I). (20) I-­‐II, 94, 1. (21) Ibid. (22) Veritatis splendor, 42. 101 (23) "...promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam" (I-­‐II, 90, 4 ad 1). (24) I-­‐II, 93, 1: "lex aeterna nihil aliud est quam ratio divinae sapientiae, secundum quod est directiva omnium actuum et motionum." (25) Ibid.: "...ratio divinae sapientiae moventis omnia ad debitum finem, obtinet rationem legis." (26) Cf. Veritatis splendor, 41. Si veda su questo argomento l'eccellente articolo di J. De Finance, Autonomie et théonomie, in M. Zalba (a cura di), L'agire Morale (Atti del Congresso Internazionale Roma-­‐Napoli -­‐ 17/24 Aprile 1974: Tommaso d'Aquino nel suo settimo centenario, Vol. 5), Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1974, pp. 239-­‐260. Questo articolo mi è stato di grande profitto per il mio libro Legge naturale e ragione pratica, pp. 308 ss. (27) I-­‐II, 91, 2: "lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura." (28) Ibid.: "fit providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens." (29) I-­‐II, 19, 4 ad 3: "licet lex aeterna sit nobis ignota secundum quod est in mente divina; innotescit tamen nobis aliqualiter vel per rationem naturalem, quae ab ea derivatur ut propria eius imago; vel per aliqualem revelationem superadditam." (30) I-­‐II, 91, 2: "...quasi lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum, quod pertinet ad naturalem legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis." (31) Cf. M. Bastit, Naissance de la loi moderne. La pensée de la loi de saint Thomas à Suarez, P.U.F., Paris 1990, pp. 338 ss. (32) I, 79, 11: "... verum et bonum se invicem includunt: nam verum est quoddam bonum, alioquin non esset appetibile; et bonum est quoddam verum,alioquin non esset intelligibile (...) obiectum intellectus practici est bonum ordinabile ad opus, sub ratione veri. Intellectus enim practicus veritatem cognoscit, sicut et speculativus; sed veritatem cognitam ordinat ad opus." (33) Per il concetto di "verità pratica", in questo contesto, si veda M. Rhonheimer, Praktische Prinzipien, Naturgesetz und konkrete Handlungsurteile in tugendethischer Perspektive. Zur Diskussion über praktische Vernunft und "lex naturalis" bei Thomas von Aquin, «Studia Moralia» 39 (2001), pp. 113-­‐158. (34) Cf. I-­‐II, 104, 1: "...praeceptorum ciuscumque legis quaedam habent vim obligandi ex ipso dictamine rationis, quia naturalis ratio dictat hoc esse debitum fieri vel vitari. Et huiusmodi praecepta dicuntur moralia: eo quod a ratione dicuntur mores humani." Cf. per questa tematica Rhonheimer, Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis, cit., pp. 531 ss. (35) In questo senso, e solo in questo, la legge naturale può essere intesa come "principium exterior" degli atti umani (cf. I-­‐II, 90, Prooemium): la legge naturale in quanto partecipazione della legge eterna, "viene da fuori"; ma in quanto legge naturale, è un principio intrinseco dell'agire. È necessario prendere in considerazione anche il contesto biblico della teologia morale di San Tommaso che inserisce la ragion pratica aristotelica in un contesto teologico profondamente caratterizzato dalla tradizione biblica della legge. (36) Per la struttura profondamente aristotelica della teoria morale di San Tommaso d'Aquino cf. K. L. Flannery, Acts Amid Precepts. The Aristotelian Logical Structure of Thomas Aquinas's Moral Theory, The Catholic University of America Press, Washington D. C., 2001, e anche il mio libro Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. (37) I-­‐II, 104, 1 ad 3: "ratio, quae est principium moralium, se habet in homine respectu eorum quae ad ipsum pertinent, sicut princeps vel iudex in civitate." (38) Per ulteriori chiarimenti, rinvio il lettore ai miei lavori sopra citati (Legge naturale e ragione pratica; La prospettiva della morale; Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis) in cui ho sviluppato questa tematica. Inoltre, precisazioni e aggiunte sono state inserite nell'edizione spagnola di La prospettiva della morale (La perspectiva de la moral. Fundamentos de la ética filosófica, Rialp, Madrid 2000) e ancor di più nell'edizione tedesca (Die Perspektive der Moral. 102 Philosophische Grundlagen der Tugendethik, Akademie Verlag, Berlin 2001). Per evitare equivoci può essere utile il mio articolo Praktische Vernunft und das "von Natur aus Vernünftige". Zur Lehre von der Lex naturalis als Prinzip der Praxis bei Thomas von Aquin, «Theologie und Philosophie», 75 (2000), pp. 493-­‐522. (39) Alcuni aspetti sono trattati da M. Spanneut, Les normes morales du stoïcisme chez les Pères de l'Église, inUniversalité et permanence des Lois morales, cit., pp. 114-­‐135. (40) Sulla dottrina della oikeiosis cf. M. Forschner, Die stoische Ethik. Über den Zusammenhang von Natur-­‐, Sprach-­‐ und Moralphilosphie im altstoischen System, Klett-­‐Cotta, Stuttgart 1981, pp. 142 ss. (41) "lex est ratio summa, insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria" (De Legibus, I, 6, 18.) (42) "non scripta, sed nata lex ... verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus..."(Pro Milone, IV, 10; in: M. Tulli Ciceronis Orationes, ed. A. C. Clark, e. typ. Clarendoniano, Oxonii 1964). (43) "recta ratio naturae congruens" (De Re publica III, 22, 33). (44) "Dei autem praeceptum non quasi in tabulis lapideis atramento legimus inscriptum, sed cordibus nostris tenemus impressum spiritu dei vivi. Ergo opinio nostra sibi legem facit" (De Paradiso 8, 39, cit., p. 98). (45) Per un'ottima impostazione cf. D. Braine, The Human Person. Animal and Spirit, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Ind., 1992. (46) La fondamentale e significativa distinzione fra "actus et finis proprius" e "actus et finis debitus" (o "conveniens"), spesso tralasciata dagli interpreti, è in I-­‐II 91, 2 ossia in In Quattuor Libros Sententiarum, IV, 33, 1, 1. Ho cercato di mettere opportunamente in rilievo questa distinzione in Legge naturale e ragion pratica, pp. 89 e 98; cf. anche G. Abbà,Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Las, Roma 1989, p. 183. (47) I-­‐II, 19, 4 ad 3. È molto interessante il commento di Tommaso al Vangelo di San Giovanni, i cui principali testi sono raccolti in Legge naturale e ragion pratica, pp. 261 s. (48) Perciò, come già citato, l'Aquinate non esita a definire la lex naturalis in I-­‐II, 94, 1 "aliquid per rationem constitutum: sicut etiam propositio est quoddam opus rationis". (49) Anche le inclinazioni naturali, nel loro essere naturale, sono partecipazione della legge eterna, ma in modo meramente passivo, come qualcosa che è regolato dalla legge eterna, non come ciò che regola, come nel caso dell'uomo (cf. I-­‐II, 91, 2), ossia, utilizzando un'altra terminologia, per modum principii motivi, e non in modo attivo, cioè per modum cognitionis (I-­‐II, 93, 6). Il tema è trattato con molta chiarezza in G. Abbà, Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di San Tommaso d'Aquino, Las, Roma 1983, 260 s. (50) Per una migliore comprensione di questo punto devo molto a G. Grisez, The First Principle of Practical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae, 1-­‐2, Question 94, Article 2, «Natural Law Forum» 10 (1965), pp. 168-­‐201; una versione ridotta (ma non autorizzata e non del tutto soddisfacente) è in A. Kenny (a cura di), Aquinas: A Collection of Critical Essays, London -­‐ Melbourne 1969, pp. 340-­‐382. (51) Questo è il testo completo: "Sicut autem ens est primum quod cadit in apprehensione simpliciter, ita bonum est primum quod cadit in apprehensione practicae rationis, quae ordinatur ad opus: omne enim agens agit propter finem, qui habet rationem boni. Et ideo primum principium in ratione practica est quod fundatur supra rationem boni, quae est, 'Bonum est quod omnia appetunt'. Hoc est ergo primum praeceptum legis, quod bonum est faciendum et prosequendum, el malum vitandum. Et super hoc fundantur omnia alia praecepta legis naturae..." -­‐ L'impronta profondamente aristotelica di questo testo è ancora più evidente se lo si legge alla luce del commento di San Tommaso al De Anima di Aristotele, dove afferma che il punto di partenza dell'intelletto pratico è "l'appetitible": "ipsum appetibile, quod est primum consideratum ab intellectu practico..." (In de Anima III, lect. 15). 103 (52) Ho cercato di dimostrarlo, contro l'interpretazione di L. Honnefelder e di G. Wieland, nel mio saggio Praktische Vernunft und das "von Natur aus Vernünftige". Zur Lehre von der Lex naturalis als Prinzip der Praxis bei Thomas von Aquin, «Theologie und Philosophie», 75 (2000), pp. 493-­‐522. La mia interpretazione differisce anche da quella di G. Grisez, per il quale il primo principio non è in tutti i riguardi un principio morale, ma in certi aspetti pre-­‐morale, tesi che ho difficoltà di comprendere bene. (53) Molti adducono come prova che la ragion pratica dipende nei suoi atti da quella speculativa o teoretica, negandole un punto di partenza proprio ed indipendente, l'affermazione di I, 79, 11 (sed contra) "Intellectus speculativus per extensionem fit practicus" (parafrasi di De Anima III, 10 433a 15, nel corpo dell'articolo correttamente citato come "(intellectus) speculativus differt a practico, fine"). Come ho cercato di mostrare in Legge naturale e ragion pratica, pp. 53 ss., la citata affermazione di San Tommaso si riferisce solo all'intelletto come potenza intellettiva: ossia, gli atti dell'intelletto pratico non provengono da una altra potenza intellettiva, ma per estensione di questa all'agire dello stesso intelletto che è quello speculativo. Questa extensio, che si riferisce alla facoltà, non si verifica però nei giudizi di questa facoltà: l'affermazione che la ragion pratica ha un suo punto di partenza si riferisce solo ai giudizi pratici, che comunque, come dice esplicitamente San Tommaso, non sono derivati da giudizi teoretici previ. Il che non impedisce di mantenere, a livello della potenza e dell'essere della persona, la profonda unità fra intelletto teoretico e pratico. Nello stesso ragionamento pratico (il "sillogismo pratico") sono necessarie delle premesse, che sono semplici affermazioni sulla realtà, cioè giudizi di tipo "speculativo"; cf. la mia analisi in La prospettiva della morale, pp. 98 ss. (54) Ho trattato ampiamente questo tema in Legge naturale e ragion pratica, pp. 51 ss. Nella stessa linea cf. J. Finnis,Fundamentals of Ethics, Georgetown / Oxford University Press, Georgetown / Oxford 1983, pp. 10 ss.; 20 ss., anche se non mi sembra giustificato chiamare, come lo fa Finnis, la dottrina aristotelica sull'ergon idion un "erratic boulder" (cf. la mia critica in Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis, pp. 53 ss.). Le osservazioni critiche invece di R. McInerny,Aquinas on Human Action. A Theory of Practice, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 1992, pp.184 ss., mi sembrano basate sulla confusione fra "riflessione etica" e "conoscenza pratica" (cf. p. 188). La "riflessione etica" già presuppone quella conoscenza pratica in cui originariamente nasce, in ogni soggetto, l'esperienza del bene umano e della propria natura umana. Il tema di Finnis (e il mio) è appunto questa conoscenza pratica originaria del soggetto agente, non la riflessione etica susseguente. Perciò, nell'esposizione di McInerny del pensiero di Finnis, quest'ultimo viene non poco falsificato. (55) Cf. I-­‐II, 17, 1: "Unde relinquitur quod imperare sit actus rationis, praesupposito actu voluntatis." Questa struttura "imperativa" vale per la ragione pratica a tutti livelli; cf. il commento al De Anima, III, lect. 15: "Quia enim ipsum appetibile, quod est primum consideratum ab intellectu practico, movet, propter hoc dicitur intellectus practicus movere, quia scilicet eius principium, quod est appetibile, movet." (56) "... ut scilicet omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae, quae ratio practica naturaliter apprehendit esse bona humana." (57) "Quia vero bonum habet rationem finis, malum autem contrarii, inde est quod omnia illa ad quae homo habet naturalem inclinationem, ratio naturaliter apprehendit ut bona, et per consequens ut opere prosequenda, et contraria eorum ut mala et vitanda. Secundum igitur ordinem inclinationum naturalium, est ordo praeceptorum legis naturae." (58) Il titolo dell'articolo 2 infatti è "Utrum lex naturalis contineat plura precepta, vel unum tantum". (59) L'ha messo in rilievo J. Tonneau, Absolu et obligation en morale, Inst. d'études médiévales -­‐ J. Vrin, Montréal-­‐Paris 1965, pp. 89 s. 104 (60) "... omnes inclinationes quarumcumque partium humanae naturae, puta concupiscibilis et irascibilis, secundum quod regulantur ratione, pertinent ad legem naturalem ..." (I-­‐II, 94, 2 ad 2). (61) I-­‐II, 91, 2. (62) "In actibus autem humanis bonum et malum dicitur per comparationem ad rationem" (I-­‐II, 18, 5). Che questo principio di San Tommaso vada inteso alla lettera, l'ha dimostrato anni fa con chiarezza e in modo ancora oggi valido L. Lehu, La raison, règle de la moralité d'après Saint Thomas, J. Gabalda et Fils, Paris 1930. (63) "species moralium actuum constituuntur ex formis prout sunt a ratione conceptae" (I-­‐II, 18, 10; cf anche In Sent. II, 39, 2, 1). (64) Poiché gli atti umani sono atti volontari, l'oggetto è sempre un oggetto della volontà. Però è fondamentalmente e unicamente la ragione a presentare alla volontà il suo oggetto; perciò la bontà della volontà, in quanto dipende dal suo oggetto, dipende proprio dalla ragione (I-­‐II, 19, 3); il tendere della volontà non può riferirsi a qualcosa di buono senza che questo non sia previamente afferrato dalla ragione (ibid., ad 1); giustamente, il tendere verso il fine dovuto (finis debitus) dipende del tutto dalla conoscenza del fine, di cui solo la ragione è capace. E ancora: qualsiasi oggetto appartiene al genus moris ed è atto a causare la bontà morale nell'atto della volontà nella misura in cui cade sotto l'ordine della ragione: "Ratio enim principium est humanorum et moralium actuum..." (I-­‐II, 19, 1 ad 3). (65) I-­‐II, 90, 1. (66) Ibid., ad 2: "... propositiones universales rationis practicae ordinatae ad actiones..." (67) I-­‐II, 94, 1. (68) Cf. In duo Praecepta caritatis et in decem legis praecepta, Prologus I: "Nullus enim ignorat quod illud quod nollet sibi fieri, non faciat alteri, et cetera talia." (69) Per la inventio dei precetti secondari rimando a Legge naturale e ragione pratica, pp. 265 ss. Il testi di San Tommaso sui precetti primi e secondari della legge naturale si trovano utilmente raccolti in R. A. Armstrong, Primary and Secondary Precepts in Thomistic Natural Law Teaching, Martinus Nijhoff, Den Haag 1966. -­‐ La inventio dei principi secondari non è un processo deduttivo e immediato, ma presuppone l'esperienza concreta e si svolge nel tempo, cioè, in un certo senso possiede una struttura narrativa. Rimando a miei lavori Praktische Vernunft und das "von Natur aus Vernünftige", pp. 511 ss.; Die Perspektive der Moral, pp. 253 ss. (o La perspectiva de la moral, pp. 301 ss.). (70) "nam omnis ratiocinatio derivatur a principiis naturaliter notis (...) Et sic etiam oportet quod prima directio actuum nostrorum ad finem, fiat per legem naturalem (I-­‐II, 91, 2 ad 2). (71) Cf. I-­‐II, 94 1 ad 2: "synderesis dicitur lex intellectus nostri, inquantum est habitus continens praecepta legis naturalis, quae sunt prima principia operum humanorum.". Cf. anche I, 79, 12. (72) Cf. ad esempio La prospettiva della morale, pp. 255 ss. Quest'ottica è in linea con il noto passo della Gaudium et spesn. 16: "Nell'intimo della coscienza, l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male ... una legge scritta da Dio dentro il suo cuore...". Nell'enciclica Veritatis splendor n. 60 è ulteriormente spiegato il nesso fra coscienza e legge naturale: quest'ultima è la norma di verità della prima: "Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragion pratica in riferimento al bene supremo...". Inoltre, nel n. 61 viene affermato: "La verità circa il bene morale,dichiarata nella legge della ragione, è riconosciuta praticamente e concretamente dal giudizio della coscienza ..." (il corsivo è mio). Il giudizio della coscienza è una "norma normata": è normata dalla legge naturale che per la coscienza è la regola di verità. (73) Nel primo libro delle Institutiones (D. I, I, I, 3): "Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit". Un esempio (citato da San Tommaso in I-­‐II, 94, 2) è per Ulpiano la "maris atque feminae 105 coniunctio, quam nos matrimonium appellamus..." (cit. secondo M. Bretone, Geschichte des römischen Rechts. Von den Anfängen bis zu Justinian, C. H. Beck, München 21998, pp. 232 e 337; orig.: Storia del Diritto Romano, Laterza, Roma-­‐Bari 1987). (74) Platone, Repubblica, 338 E -­‐ 339 A. (75) Cf. II-­‐II, 57 2: "ius sive iustum, est aliquod opus adaequatum alteri secundum aliquem aequalitatis modum. Dupliciter autem potest alicui homini aliquid esse adaequatum. Uno quidem modo, ex ipsa natura rei: puta cum aliquis tantum dat ut tantum recipiat. Et hoc vocatur ius naturale." Il secondo modo è chiamato ex condicto, e può essere privato o publico. Il privato corrisponderebbe alla lex dicta, conosciuta nel diritto romano e che appartiene allo ius privatum, da distinguere dallo ius publicum; distinzione diversa da quella moderna fra diritto pubblico e privato (cf. G. Dulckeit, F. Schwarz, W. Waldstein, Römische Rechtsgeschichte, C. H. Beck, München 91995, p. 49 s.). (76) Secondo Michel Villey, la genesi del concetto moderno di diritto soggettivo risale ad Occam: M. Villey, Droit subjectif I (La genèse du droit subjectif chez Guillaume d'Occam), in Villey, Seize Essais de Philosophie de Droit dont un sur la crise universitaire, Paris 1969, pp. 140-­‐178. Tuttavia, le differenze vengono a volte esagerate. Per una visione contrastante si veda J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, Oxford 1980 (cap. VIII.3 e nota a pagina 228). (77) Cf. W. Waldstein, Naturrecht bei den klassischen römischen Juristen, in Das Naaturrechtsdenken heute und morgen. Gedächtnisschrift für René Marcic, a cura di d. Mayer-­‐Maly / P. M. Simons , Duncker & Humblot, Berlin 1983, pp. 239-­‐253; dello stesso autore l'ampio studio Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der neueren Forschung, a cura di H. Temporini e W. Haase,, II: Principat, Fünfzehnter Band, a cura di H. Temporini, Walter de Gruyter, Berlin, New York 1976, pp. 3-­‐100. (78) II-­‐II, 57, 1 ad 2. (79) "reddere debitum alicui habet rationem boni" (II-­‐II, 81, 2). (80) Cf. M. Rhonheimer, Sins against Justice (IIaIIae, qq. 59-­‐78), in S. J. Pope (a cura di) Essays on the Ethics of St. Thomas Aquinas, Georgetown University Press, Washington D. C., 2002, pp. 287-­‐
303; 290. Per la "nascita del principio di 'giustizia'" si veda inoltre La prospettiva della morale, pp. 242 ss. (81) Cf. l'introduzione di La prospettiva della morale, e in particolare l'introduzione dell'edizione tedesca Die Perspektive der Moral. Philosophische Grundlagen der Tugendethik, Akademie Verlag, Berlin 2001. (82) Cf. De virtutibus in communi, q. un., 9: "virtus appetitivae partis nihil est aliud quam quaedam dispositio, sive forma, sigillata et impressa in vi appetitiva a ratione." (83) Cf. I-­‐II, 94, 3: "Unde cum anima rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio inest cuilibet homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem.Unde secundum hoc omnes actus virtutum sunt de lege naturali: dictat enim hoc naturaliter unicuique propria ratio, ut virtuose agat." (84) Si veda A. Rodríguez Luño, La scelta etica. Il rapporto fra libertà e virtù, Edizioni Ares, Milano 1988. (85) Cf. Rhonheimer, Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis, cit. pp. 530 ss. (86) Aristotele, Etica Nicomachea III, 4, 1113a 29 s.: "Chi è virtuoso, infatti, giudica rettamente ogni cosa ed in ciascuna gli appare il vero." Per l'importanza di questo principio nell'ambito dell'etica aristotelica, si veda G. Bien, Die menschlichen Meinungen und das Gute. Die Lösung des Normproblems in der aristotelischen Ethik, in M. Riedel (a cura di), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, I, Verlag Rombach, Freiburg/Br. 1972, pp. 345-­‐371 (87) Cf. I-­‐II, 94, 3 (citato sopra). 106 (88) Cf. I-­‐II, 100, 1. (89) Cf. M. Rhonheimer, Contraccezione, mentalità contraccettiva e cultura dell'aborto: valutazioni e connessioni, in R. Lucas Lucas (a cura di), Commento interdisciplinare alla «Evangelium vitae» (Pontificia Accademia per la Vita, Ed. italiana a cura di E. Sgreccia e R. Lucas Lucas), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 435-­‐452. Si veda anche il mio studio Sessualità e responsabilità in Rhonheimer, Etica della procreazione. Contraccezione -­‐ Fecondazione artificiale -­‐ Aborto, Edizioni PUL-­‐Mursia, Milano 2000, in particolare pp. 95 ss. (90) Rinvio al mio articolo Diritti fondamentali, legge morale e difesa legale della vita nello stato costituzionale democratico. L'approccio costituzionalistico all'enciclica Evangelium vitae, «Annales Theologici« 9 (1995), pp. 271-­‐334; ristampato con il titolo La difesa legale della vita nello Stato costituzionale democratico e la legge morale, in Rhonheimer, Etica della procreazione, cit, pp. 195-­‐
250. (91) Cf. M. Rhonheimer, Is Christian Morality Reasonable? On the Difference Between Secular and Christian Humanism, «Annales Theologici», 15 (2001), pp. 529-­‐549; Über die Existenz einer spezifisch christlichen Moral des Humanums, «Internationale katholische Zeitschrift 'Communio'» 23 (1994), pp. 360-­‐372; Legge naturale e ragion pratica, pp. 509 ss. 107 FRANCESCO VIOLA
IL DIRITTO NATURALE: STABILITÀ ED EVOLUZIONE DEI SUOI CONTENUTI Nel contesto di questo scritto considererò la legge naturale e il diritto naturale sostanzialmente come sinonimi. Anche se si vuole distinguere l'una dell'altro, collegando la "legge naturale" alla problematica dell'obbligo (debitum morale) e il "diritto naturale" a quella di un ordine giuridico virtuale (debitum legale), che in nome dell'umanità e in assenza di un potere giuridico internazionale potrebbe essere reso effettivo in casi eccezionali da autorità giudiziarie ufficiali, e persino da singoli individui (1) , ai fini del tema dei contenuti e della loro evoluzione non vi sarebbe alcuna differenza. Infatti, se -­‐ seguendo Tommaso d'Aquino -­‐ consideriamo il diritto naturale la ipsa res iusta (2) , cioè come l'atto giusto quanto al suo oggetto, allora esso è determinato dalla legge, sia essa naturale o positiva. Il contenuto del diritto naturale è la conclusione tratta dall'uso dei princìpi della ragionevolezza pratica (3) . Potremmo dire à la Wittgenstein che il senso dei princìpi della legge naturale riposa tutto nel loro uso. AMBIGUITÀ DELLA PRESENZA DEL DIRITTO NATURALE OGGI Nella lunga storia delle concezioni del diritto naturale molteplici sono stati i tentativi di mostrarne l'attualità e la permanenza nelle concrete vicende storiche. Alcuni di questi tentativi si sono spinti ad ipotizzare un'apertura dello stesso diritto naturale alla storicità e alla mutevolezza delle credenze. Ricordo che Leo Strauss (4) ha enfatizzato la differenza tra la concezione aristotelica, che -­‐ a suo parere -­‐ sarebbe stata favorevole ad un diritto naturale mutevole, e quella di Tommaso d'Aquino che ne riafferma l'immutabilità (5). Più sensibile alla mutevolezza del diritto naturale è Michel Villey, influenzato dall'uso romanistico e sostenitore, per questo, di una più netta distinzione tra diritto naturale e legge naturale (6). Altri hanno parlato di "diritto naturale a contenuto variabile", di "diritto naturale storico" e di "diritto naturale vigente" (7). Ma non credo che questo sia il modo più felice per mostrare la permanenza dei contenuti del diritto naturale. Ovviamente la questione dell'evoluzione del diritto naturale assume una sua rilevanza teorica se significa in certo qual modo un suo mutamento sostanziale. Infatti, che si evolva la coscienza morale dell'umanità non fa problema, ma diventa un problema se si afferma che mutano i contenuti fondamentali della morale. Pertanto il problema della mutevolezza del diritto naturale o è un falso problema oppure si pone solo per quelle concezioni del diritto naturale che non distinguono tra princìpi e loro conclusioni. Mi riferisco ovviamente al giusnaturalismo moderno che, allontanandosi dal senso della ragion pratica, ha concepito il diritto naturale come un corpo di norme già definite, eterne e immutabili. Ma per una concezione come quella di Aristotele o di Tommaso d'Aquino, per cui il diritto naturale è l'esercizio della ragionevolezza pratica e il suo risultato, il problema del mutamento non esiste, poiché i princìpi della legge naturale sono immutabili e sono conosciuti da tutti, mentre le loro conclusioni possono non essere conosciute da tutti e possono variare in una certa misura sulla base delle circostanze. E qui -­‐ come si sa -­‐ Tommaso usa la distinzione tra «ut in pluribus» e «in aliquo particolari, et in paucioribus, propter aliquas speciales causas impedientes observantiam talium praeceptorum» (8). Una volta accettata l'idea che il diritto naturale è frutto del ragionamento pratico, allora diventa cruciale la questione del retto esercizio della ragione. Esso implica l'individuazione dei princìpi primi e l'argomentazione delle conclusioni. Il carattere controverso dei primi e il dibattito sulla 108 correttezza delle conclusioni costituiscono le ragioni principali dell'instabilità del diritto naturale nella coscienza dell'uomo contemporaneo. Un'altra fonte di confusione è data dalla convinzione, attualmente diffusa, dell'identificazione del diritto naturale con i diritti umani. In realtà questi non possono di per sé fornire una giustificazione ultima e hanno bisogno essi stessi di essere giustificati sia nella loro attribuzione sia nel loro esercizio. Si può avere un diritto e usarlo male, cioè contro la legge naturale, tant'è vero che le corti di giustizia giudicano sul corretto uso dei diritti (9). Nella coscienza dell'uomo contemporaneo il diritto in senso soggettivo s'è separato dal dovere, cioè dalla regola, e ciò ha reso instabile il diritto naturale, a cui appartiene sia il diritto in senso soggettivo sia la norma. I diritti sono attribuiti sulla base del diritto naturale, ma poi, quando sono usati male, contravvengono ai princìpi della ragionevolezza pratica che pure appartengono al diritto naturale. Si crea così un contrasto all'interno dello stesso diritto naturale. Sulla base di queste considerazioni mi sembra particolarmente necessario oggi riflettere sul modo d'intendere la ragionevolezza pratica, sui suoi princìpi e sulle sue articolazioni con la consapevolezza che qui s'incontra inevitabilmente la questione del diritto naturale e dei suoi contenuti. Da questo punto di vista la cultura giuridica e politica contemporanea attraversa una fase ambigua, perché, da una parte, è particolarmente propizia al diritto naturale e, dall'altra, non è certamente favorevole alla stabilità dei suoi contenuti. Il diritto nasce come ragione e diventa volontà. L'esigenza di una coordinazione delle azioni sociali fa sorgere regole che il tempo purifica al vaglio della ragione. La stabilità sociale conduce a preservare queste regole dal mutamento, proteggendole con il contrassegno dell'autorità. Ciò che nasce come diritto della ragione viene riclassificato come fonte del diritto in senso positivistico (10). Ma in tal modo il principio di autorità prevale sul ragionamento pratico e la richiesta di stabilità dei contenuti del diritto positivo non sempre permette di adeguarli alla complessità dei problemi concreti. Oggi, sotto differenti punti di vista, assistiamo ad una profonda trasformazione dell'assetto giuridico-­‐positivo del passato ed allora il diritto deve tornare a bussare alle porte della ragione, cioè del diritto naturale. Tuttavia, se ci poniamo da un altro punto di vista, che è quello del pluralismo contemporaneo, del rifiuto diffuso di accettare che vi siano modelli di comportamento validi per tutti gli uomini, persino solo per quelli appartenenti ad una stessa comunità politica, e di ritenere che le soluzioni ai problemi di oggi possano valere per quelli di domani, allora il ricorso alla ragione e alla ragionevolezza assumerà un carattere puramente contingente non solo riguardo alle conclusioni, ma persino riguardo agli stessi principi. E questo non è favorevole al diritto naturale e alla stabilità dei suoi contenuti. Non basta, pertanto, il ritorno alla ragione per ritrovare il senso del diritto naturale, poiché questo è legato ad un determinato uso della ragione e della ragionevolezza pratica. Credo che un sostenitore del diritto naturale debba oggi assolvere due obblighi: il primo è quello di mostrare che il ragionamento giuridico di fatto praticato dalle corti di giustizia dal punto di vista della struttura argomentativa non è in contrasto con l'uso della ragionevolezza proprio del diritto naturale; il secondo è quello di mostrare che la tradizione del diritto naturale è in grado di fornire la giustificazione più adeguata dei princìpi della ragionevolezza pratica. Qui cercherò di indicare in modo sommario e molto generale come -­‐ a mio parere -­‐ questi due compiti dovrebbero essere assolti. IL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA NEL DIRITTO POSITIVO È un dato di fatto che il principio della ragionevolezza pratica ha ormai assunto il rango di valore costituzionale. La costituzionalizzazione dei diritti umani implica necessariamente la 109 considerazione della ragionevolezza come valore costituzionale, anche se esso non è esplicitamente formulato. Con ciò si vuol dire qualcosa di più della constatazione che l'attributo della ragionevolezza risulta prescritto per l'esercizio di tutte le pubbliche funzioni (e quindi anche di quelle della Corte Costituzionale) (11). Si vuol dire che la costituzione non è una tavola di valori e di princìpi da applicare nel modo automatico della sussunzione, che è l'idea direttiva della razionalità giuridica, ma è un insieme di orientamenti che solo nel concreto assumono un volto definito e una composizione organica. Proprio il linguaggio dei princìpi suggerisce l'idea di un processo che ha l'inizio e l'avvio con il testo costituzionale, ma che si compie solo nell'applicazione, di cui la legge ordinaria è a sua volta il primo passo e la sentenza costituzionale l'ultimo. L'applicazione della costituzione non è la stessa cosa dell'applicazione di una legge. I metodi tradizionali interpretativi di tipo letterale e logico non bastano al giudice costituzionale. Sono necessari riscontri sostanziali di conformità alla legge e forme di giudizio nettamente orientate alla valutazione delle conseguenze dell'atto legislativo e alla verifica della razionalità materiale della prescrizione normativa, cioè della sua capacità di realizzare obiettivi di benessere sociale e di collegare in un ragionevole rapporto mezzi e fini dell'azione statale. Ebbene, in questo processo la regola generale è proprio la ragionevolezza. Per questo essa è concetto ben più comprensivo e fondativo di quello giuridico di razionalità sussuntiva. È insieme -­‐ secondo la giurisprudenza costituzionale -­‐ un concetto-­‐mezzo e un concetto-­‐fine, una tecnica e una meta verso cui i processi giuridici devono tendere. La ragionevolezza è un mezzo per la soddisfazione dei valori ed un valore essa stessa senza il quale neppure gli altri valori potrebbero realizzarsi in modo adeguato (12). Appartiene allo spirito del costituzionalismo l'esigenza che la dignità umana non sia soltanto proclamata in astratto, quanto soprattutto sia rispettata nei casi concreti nella misura massima del possibile. Ed allora, in queste condizioni, la ragionevolezza è necessaria, sia per lo statuto di "fine ultimo" (cioè non subordinato) dei diritti fondamentali, sia per l'esigenza di andar incontro alle attese dei particolari accadimenti della vita, alla giustizia del caso concreto (13). In un regime etico-­‐giuridico governato dalla morale dei diritti, qual è quello attuale, il principio del dovere, necessario per la praticabilità di ogni etica e inteso come misura e come ordine, in una parola come "regola", è tutto concentrato nella ragionevolezza (14). Questa trasforma i princìpi in regole. Questo valore esprime per l'individuo l'esigenza di dare alle proprie azioni, abitudini e pratiche un ordine generale nel rispetto dell'integrità e dell'autenticità (15) e, per le comunità, è l'istanza di armonizzare le aspettative dei consociati in modo da garantire insieme la certezza e la giustizia. Alla fin dei conti tutta l'impresa giuridica si giustifica sulla base della ragionevolezza pratica, cioè della necessità di coordinare le azioni sociali non in qualsiasi modo, ma secondo equità e giustizia. La dottrina costituzionale dei paesi europei e non si sta industriando in forme diverse per definire con maggiore precisione in cosa consista il "giudizio di ragionevolezza" nel presupposto che esso abbia una sua identità rispetto agli altri processi decisionali usati dai giudici costituzionali (16). L'evoluzione del giudizio costituzionale di ragionevolezza registra in modo evidente la sua progressiva autonomia dal giudizio di eguaglianza quando ci si rende conto che quest'ultimo non è meramente formale e implica necessariamente giudizi di valore che necessitano di essere giustificati. Di conseguenza ci si accorge che il giudizio di ragionevolezza in senso stretto non ha più un carattere intra-­‐sistematico, cioè interno alla normativa già stabilita, ma ha un carattere extra-­‐sistematico, in quanto valuta la norma sulla base di parametri in qualche modo "esterni", che possono essere sia giuridicamente rinvenibili nei valori costituzionali, sia legati a giudizi di funzionalità, di idoneità e di proporzionalità, come anche di equità. 110 Un passo ulteriore in questa direzione viene fatto quando occorre operare un bilanciamento dei diritti ed allora è particolarmente evidente che ad una tecnica di giudizio di tipo interpretativo si affianca un processo di tipo prevalentemente argomentativo. Il bilanciamento è esso stesso una forma di decisione che non deriva da un sillogismo giudiziario, ma al contrario è diretto a formulare quei giudizi di valore che sono necessari per la selezione delle premesse del sillogismo stesso. Qui la ragionevolezza raggiunge il massimo d'indipendenza dalle funzioni meramente applicative solitamente attribuite ad un giudice. In realtà la tecnica del bilanciamento messa in opera dal giudice costituzionale ha la sua legittimità solo a patto che si possa mostrare che i percorsi della ragionevolezza praticati sono ben diversi dalle logiche della convenienza politica e dalle scelte ideologiche. Come ha notato Bickel, le corti di giustizia non entrano in concorrenza con le regole della rappresentanza democratica solo nella misura in cui offrono ad essa l'apporto di ciò che solo esse possono dare, cioè l'apporto di argomentazioni legate ad una storia istituzionale e non già alla contingenza politica (17). Tali ragioni fanno diretto riferimento a valori ampiamente accettati e assolutamente indispensabili per la convivenza civile e sono profondamente sensibili all'uguale rispetto per la dignità delle persone senza il quale gli stessi procedimenti della rappresentanza democratica non potrebbero funzionare correttamente. Un'evoluzione simile del concetto di "ragionevolezza" sarebbe possibile dimostrare in relazione al diritto internazionale e all'uso di tale principio da parte della Corte Internazionale di Giustizia e nella pratica interpretativa dei trattati internazionali. Non posso soffermarmi molto sull'argomento (18), ma si può dire che anche qui la forza attrattiva dell'idea di ragionevolezza induce a ricercare il raggiungimento del massimo di giustizia possibile nelle concrete circostanze segnate dall'eguaglianza normativa degli Stati. Sono, quindi, ragionevoli tutte quelle soluzioni che rendono la società internazionale più rispettosa dei diritti individuali e collettivi, il meno possibile conflittuale, e che accrescono le possibilità di cooperazione e d'intesa. Infatti non sono rare le pronunce della Corte Internazionale di Giustizia in cui si parla di intenzioni che si possonoragionevolmente attribuire agli Stati in funzione delle circostanze. Più in generale si parla di prendere in considerazione lo scopo ragionevolmente perseguito dallo Stato. Ma evidentemente questa è una costruzione giuridica: è più lo scopo che lo Stato avrebbe dovuto perseguire che quello che di fatto ha perseguito. Certamente questo "avrebbe dovuto" non rinvia ad un modello ideale di comportamento quanto piuttosto a ciò che ci si sarebbe potuto aspettare, date le attuali condizioni dell'ordinamento internazionale. E tuttavia ciò non indica un mero adattamento alla situazione di fatto dominata dalla sovranità degli Stati, perché indubbiamente oggi crescono nel diritto internazionale i vincoli oggettivi superiori alla volontà degli Stati. Lo jus cogens è uno dei frutti dell'esercizio della ragionevolezza nella pratica giuridica internazionale. Esigere che questo metodo della ragionevolezza s'ispiri (o si debba ispirare) a parametri pur sempre giuridici e non extra-­‐giuridici ha un senso solo a condizione di non rispolverare la vecchia disputa tra giusnaturalismo e giuspositivismo (19) e a patto di rendersi conto che la giuridicità internazionale non risiede nell'empirica volontà degli Stati, ma nella lettura che dà di questa una prassi giuridica già segnata da valori fondamentali e garanzie specifiche. In mancanza del consenso sociale di una comunità determinata (nazionale o internazionale) si può ritenere che vi siano risorse interne alla pratica giuridica per la determinazione del concetto di ragionevolezza. Vi sono, infatti, beni propriamente giuridici in quanto possono essere raggiunti solo attraverso il diritto e fruiti nel diritto, cioè all'interno della pratica della giuridicità. 111 LE FORME DELLA RAGIONEVOLEZZA NEL DIRITTO POSITIVO Se poi gettiamo uno sguardo, anche sommario, alle forme dell'argomentazione giuridica adottate dalla giurisprudenza costituzionale, che in questo per ovvie ragioni è molto più avanzata di quella internazionale, ci accorgiamo che si vanno individuando alcuni vincoli tipici comuni. Non si tratta propriamente di "tecniche argomentative", poiché ognuna di esse si prefigge un obiettivo che potrebbe essere raggiunto da procedimenti tecnici differenti. In generale, tutti riconoscono che vi sono modi ragionevoli di fare certe cose e modi irragionevoli. E si potrebbe anche aggiungere che ciò che è in questo senso "irragionevole" appare anche "innaturale", cioè contrario alla "natura delle cose". Ciò significa che le forme della ragionevolezza devono tener conto dei contesti sociali e storici entro cui operano. Se ci poniamo in quest'ottica molto comprensiva, ci accorgeremo che un confronto tra la giurisprudenza delle varie corti costituzionali mette in luce «una certa koiné degli strumenti argomentativi» (20). Certamente ci sono anche notevoli differenze, perché la pratica costituzionale della ragionevolezza dipende dalla concezione culturale di "costituzione". Ad esempio, i percorsi argomentativi sono indubbiamente influenzati dalla questione se una determinata costituzione abbia voluto formulare i valori secondo una gerarchia di priorità o no. Tuttavia, nonostante tutte le varianti possibili, possiamo individuare alcune massime di "buon senso" che sono presenti nella pratica costituzionale di vari paesi. Posso solo qui indicarne alcune in modo molto approssimativo e incompleto: Non è ragionevole una decisione legale che senza alcuna giustificazione accettabile danneggi un valore fondamentale o ne impedisca la realizzazione (criterio della legittimità). È ragionevole limitare un diritto fondamentale solo se ciò è giustificato dalla necessità di proteggere un interesse pubblico essenziale (21) o un altro diritto fondamentale (criterio della necessità). È ragionevole una misura restrittiva dei diritti fondamentali se, oltre essere necessaria, è l'unico mezzo praticabile o il più mite tra quelli praticabili (criterio del minor danno) (22). È irragionevole formulare una misura restrittiva dei diritti fondamentali in termini vaghi sì da permettere interpretazioni estensive (criterio della determinatezza) (23). È irragionevole limitare un diritto fondamentale sino al punto da vanificarlo nella sostanza (criterio del contenuto essenziale). È ragionevole esigere che i mezzi legislativi predisposti siano idonei (o non palesemente inadeguati) al raggiungimento del fine (criterio dell'idoneità) (24). Ora è interessante constatare la somiglianza tra questi vincoli argomentativi giurisprudenziali con quelle esigenze metodologiche della ragionevolezza pratica a cui ha posto attenzione la riflessione filosofica di tutti i tempi. La loro presenza mostra che la stessa ragionevolezza pratica è un valore fondamentale necessariamente presente nel momento del raggiungimento e della realizzazione degli altri valori. Si tratta nella sostanza del valore della regola e della misura senza il quale anche la partecipazione agli altri valori sarebbe falsata o impossibile. Non basta mirare ad un bene fondamentale, ma bisogna farlo con misura e ordine, altrimenti si sarà in balìa della "tirannia dei valori" con effetti devastanti. Finnis ha parlato di «basic requirements of practical reasonableness», riconoscendovi il «metodo del diritto naturale», cioè il modo specifico in cui dai primi princìpi pratici si traggono i princìpi morali del diritto naturale (25). Non voglio dire che vi sia una piena corrispondenza tra queste massime della giurisprudenza costituzionale e le esigenze della ragionevolezza pratica individuate dai filosofi e, tuttavia, non ci si può sottrarre dal giustificare in qualche modo la somiglianza tra le une e le altre. 112 I princìpi da cui il giudice trae le conclusioni sulla base della ragionevolezza non sono i primi princìpi della legge naturale, ma diritti costituzionali, cioè princìpi già in certo qual modo positivizzati, essi stessi a loro volta conclusioni tratte da princìpi più fondamentali. Ma a questo punto il giudice costituzionale giuspositivista si ferma, non risale ai princìpi della legge naturale e invoca come suo vincolo il consenso sociale, cioè la moralità positiva, interpretando i valori costituzionali come l'etica pubblica di fatto accettata dai consociati. Il consenso sociale svolge lo stesso ruolo dei primi princìpi del diritto naturale con la differenza che è (o almeno si crede che sia) un fatto empirico. Ciò che per il momento mi preme mostrare è la vicinanza tra la struttura argomentativa del ragionamento giuridico, applicato ai diritti e ai valori costituzionali, e quella della tradizione del diritto naturale. Ma la differenza, che non è certamente poca cosa, sta nel modo di considerare i princìpi e d'intendere il loro contenuto. Ognuno vede quanto questa differenza sia importante ai fini della permanenza e stabilità del contenuto del diritto naturale. PLURALISMO E GIUSTIZIA Ora io non intendo certamente qui affrontare il difficile problema della giustificazione e della fondazione dei primi princìpi della legge naturale, poiché non voglio perdere di vista il riferimento alla pratica giuridica e politica esistente. Mi limito a constatare che la sostituzione del consenso sociale ai primi princìpi del diritto naturale non è di per sé convincente e non è più accettabile nel contesto attuale. Il criterio del consenso sociale non funziona più come vincolo univoco per il giudice. Infatti, le corti costituzionali di tutto il mondo sono accusate di decidere sulla base di propri criteri politici ed etici.. Le società politiche hanno perso la compattezza della loro cultura di fondo e, conseguentemente, il consenso sociale intorno ad un nucleo di valori condivisi e, soprattutto, intorno al modo d'interpretarli è in decomposizione. Anche il richiamo concorde ai diritti si rivela come una fragile unità quando si constata quanto diversamente questi siano interpretati e praticati. Si rafforza, dunque, la convinzione che solo con la ragionevolezza dei fini (e non solo dei mezzi) si potrà affrontare il pluralismo. In questo senso s'impone un ritorno al diritto naturale in senso compiuto. Ma a questo punto debbo passare dalla filosofia del diritto alla filosofia politica e morale, per quanto valore possano avere queste distinzioni interne al sapere pratico. È significativo che il dibattito attuale della filosofia politica sia fortemente attratto dalla problematica della ragionevolezza e della ragione pubblica. La ragionevolezza oggi è generalmente intesa come la disposizione a tener conto delle conseguenze delle proprie azioni per il benessere degli altri, cioè un atteggiamento che predispone a partecipare ad una cooperazione equa, rispettosa dell'altro come libero ed eguale e segnata dalla reciprocità. Essere ragionevoli significa riconoscere che gli altri hanno gli stessi diritti a perseguire i propri fini e che, quindi, bisogna cercare condizioni tali che siano accettabili da tutti (26). La persona ragionevole percepisce come valore fondamentale e fine in sé un mondo sociale nel quale tutti possano cooperare da individui liberi ed eguali, a condizioni accettabili da tutti, in piena reciprocità e con mutuo beneficio (27). Che senso dobbiamo dare a questo modo d'intendere la persona ragionevole? Di per sé ne potrebbe avere molti e non tutti compatibili fra loro. Ma indubbiamente esso esprime un orientamento generale ben chiaro, che è ottimamente espresso dalle parole di un costituzionalista italiano: «"ragionevole"... è colui che si rende conto della necessità, in vista della coesistenza, di addivenire a "composizioni" in cui vi sia posto non per una sola, ma per tante "ragioni". Non l'assolutismo di una sola ragione e nemmeno il relativismo rispetto alle tante 113 ragioni (una o l'altra, pari sono), ma il pluralismo (le une e le altre, per quanto possibile, insieme)» (28). Il fatto del pluralismo è inteso come il kantiano "fatto della ragione", cioè come l'istituzione di una nuova condizione di verità tra l'assolutismo e il relativismo, tra l'unica verità e nessuna verità. L'assolutismo mortificherebbe il pluralismo in quanto renderebbe illegittime tutte le opinioni non conformi all'unica verità; il relativismo destituirebbe il pluralismo di ogni dignità epistemica. A ognuno non basta poter soddisfare le proprie preferenze, ma tutti vogliono che le loro preferenze siano riconosciute come vere e giuste. E lo si comprende bene, in quanto in tal modo tali preferenze hanno una dignità sociale e non sono un capriccio. Ma è impossibile che sia contemporaneamente vero o giusto A e non A, così come c'insegna il principio di non contraddizione della metafisica classica. Non è un caso se la concezione della giustizia che cerca di dare spessore filosofico a questa pretesa abbia una chiara matrice hegeliana. Michel Rosenfeld ha così definitivo il suo "pluralismo comprensivo": «in a contemporary pluralistic society there are many competing conceptions of the good, each good in itself, but none good enough to be embraced by all. Under these circumstances, it becomes imperative to imagine an overriding conception of the good which would encompass all others in the context of an elaboration of a community of communities. While working on breaking free from the impasse resulting from clashing visions of the good, it should become apparent that there is no escape from plurality, but the plurality of conceptions of the good can itself become a good-­‐or, more precisely, the good that may bind together other goods. And once this becomes accepted, all that can be done is to embark on a dialectical quest to harmonize the plurality of goods» (29). È proprio della dialettica hegeliana pretendere di abbracciare in un processo unico e in una sintesi suprema tutte le contrapposte concezioni della verità e del bene, ma questo è possibile proprio sulla base di un "sapere assoluto" che non è certamente l'esito desiderato dal pluralismo contemporaneo. Per questo, più accortamente, Rawls lascia fuori dalla porta della giustizia politica la questione della verità e del bene (30). A suo parere non è la filosofia politica che deve risolvere le difficoltà epistemologiche del pluralismo. Il suo compito è solo quello di disegnare istituzioni giuste nelle condizioni culturali attuali. Ora mi chiederò se questo è possibile senza prendere in considerazione i princìpi del diritto naturale. Prenderò come caso paradigmatico il pensiero di John Rawls. IL PRINCIPIO DI COOPERAZIONE L'uso rawlsiano della ragionevolezza riposa integralmente sul "principio di cooperazione" senza il quale nessuna convivenza civile potrebbe mai sorgere (31). Anche in una società plurale, in quanto propriamente "società", non basta la mera coordinazione delle azioni che potrebbe essere realizzata dall'agire strategico o dalla scelta razionale. Questa non basta, perché una società ha bisogno di una qualche comunanza per essere qualcosa di diverso da un mero modus vivendi. Ma non v'è alcuna comunanza quando si agisce semplicemente sulla base delle aspettative di come probabilmente agiranno gli altri. Occorre in più un atteggiamento cooperativo, che però in ragione del pluralismo non può consistere in una previa condivisione dei fini. Nessuno può rifiutare sia la necessità della cooperazione sociale, sia l'idea di un equo sistema di cooperazione sociale. Ma c'è da chiedersi se quest'idea può assumere di per sé e da sola il ruolo di principio della giustizia senza alcuna presupposizione. Come possiamo giudicare se un sistema di cooperazione è equo senza presupporre le caratteristiche dei soggetti che cooperano e dei beni che devono essere distribuiti? Eppure stranamente nel pensiero di Rawls l'idea di cooperazione equa, cioè ragionevole, viene prima del concetto di persona e, anzi, è proprio l'idea dei giusti 114 termini della cooperazione a dar forma alle caratteristiche dei soggetti che partecipano ad essa (32). In tal modo la teoria politica si chiude in se stessa e non ha bisogno di rivolgersi a princìpi "esterni" di carattere antropologico o etico. Cos'hanno in comune persone "libere ed eguali" in quanto tali? Verrebbe da rispondere: niente del tutto! L'uguaglianza nelle cose fondamentali non implica per ciò stesso la comunanza e l'aiuto reciproco. Su questa sola base non si potrebbe comprendere il perché della cooperazione. Perché mai persone che si pongono le une nei confronti delle altre come "libere ed eguali" dovrebbero cooperare? Ma queste domande non hanno senso per Rawls in quanto le persone possono essere pensate in tal senso solo già presupponendo l'idea dell'equa cooperazione sociale, in una parola queste persone sono già "cittadini" o persone politiche, cioè forniti di atteggiamenti cooperativi. Ma questo ha tutta l'aria di una petitio principii: qui la natura della società non si trae dal modo di essere delle persone, ma al contrario sono esse a configurarsi sulla base di un'idea presupposta di equità. Ma da dove è tratta quest'idea di equità? Un sostenitore del diritto naturale farebbe ricorso ad un principio primo della legge naturale, ma per Rawls si tratta di un postulato della teoria politica. E non si tratta di punti di vista che alla fin dei conti potrebbero essere compatibili, perché dal modo di derivazione del principio di cooperazione si inferisce anche la sua interpretazione e l'uso al suo interno delle esigenze della ragionevolezza pratica, come apparirà evidente da un'analisi più attenta. Un elemento centrale del principio rawlsiano di cooperazione è dato dall'idea di reciprocità, per cui tutti coloro che cooperano secondo le regole stabilite devono ricavarne un beneficio adeguato (33). Quindi bisogna riconoscere che a monte del principio rawlsiano di cooperazione c'è pur sempre un interesse personale. Si precisa subito che quest'idea di reciprocità è intermedia fra quella altruistica d'imparzialità e quella egoistica del vantaggio reciproco. Abbiamo, pertanto, tre modelli di giustizia politica: quello imparziale, che consiste -­‐ come ha sottolineato Barry -­‐ nel tener conto del punto di vista di ognuno e di agire senza tener conto del self-­‐interest (34); quello del vantaggio reciproco, che tiene conto dei vincoli che inducono una persona guidata dal self-­‐
interest a pagare il minor prezzo possibile per ottenere la cooperazione degli altri; quello della reciprocità rawlsiana, che non guarda allo scambio in particolare, ma ad un sistema generale di cooperazione che assegna a tutti gli stessi diritti e doveri fondamentali e stabilisce le regole per una distribuzione equa dei benefici prodotti dagli sforzi di tutti. Quest'ultima è differente dal mutuo vantaggio, perché non è motivata egoisticamente, cioè anche a costo del danno altrui, ed è differente dall'imparzialità, perché non elimina l'interesse personale in quanto nessuno sosterrebbe un ordine sociale senza aspettarsi da ciò qualche guadagno. Essa si configura, pertanto, come uninteresse disinteressato nel senso di Adam Smith (35). È importante notare che quest'idea di reciprocità persegue due obiettivi: quello di non rinunciare all'amore di sé e quello di trovare una qualche comunanza tra le persone. Queste esigenze mi sembrano entrambe apprezzabili. È, invece, molto discutibile il modo in cui Rawls cerca di perseguirle e il modo della loro giustificazione. È proprio sotto questo aspetto che vorrei mostrare la superiorità dei princìpi del diritto naturale. Per dirla in breve, la strategia usata da Rawls è quella di elaborare un concetto di persona politica che, pur mirando al proprio interesse, si volga verso princìpi d'azione che possono essere accettati da tutti. Sembra a Rawls che ciò richieda una concezione della persona distaccata dai propri fini (unencumbered self) e da una propria identità (36). Solo chi ha il potere morale di sospendere il punto di vista che lo identifica può difendere princìpi che tutti possono accettare. Questa è anche una concezione della ragionevolezza nell'ambito della vita politica. Una persona è ragionevole quando è pronta a proporre, e a riconoscere quando proposto da altri, i princìpi necessari a specificare ciò che può essere accettato da tutti come i termini equi della cooperazione sociale (37). La ragionevolezza consiste nell'essere sensibile a ciò che gli altri sono 115 in grado di accettare. Non possiamo chiedere agli altri sacrifici che non sono in grado di accettare. In mancanza del consenso sociale a causa del pluralismo, allora bisogna costruire le condizioni del "consenso ideale" attraverso la neutralizzazione di tutti i punti di vista personali. Ciò che è in gioco qui è evidentemente l'idea del bene comune, cioè di un convenire su princìpi che possono (e debbono) essere accettati da tutti. Come faccio a sapere ciò che può essere accettato anche dagli altri? Si potrebbe chiederlo a loro nel discorso che s'intreccia nelle piazze della città. Ma questa via sarebbe -­‐ secondo Rawls -­‐ troppo empirica e contingente, comunque inadeguata ai fini dell'edificazione di una teoria politica. Neppure si può perseguire l'idea di Kant per cui ognuno può discernere la legge morale grazie alla ragion pratica, che soddisfa pretese rigorosamente cognitive, poiché per Rawls dalla parte contraente ci si può aspettare solo decisioni razionali rispetto allo scopo. Non resta che isolare all'interno della persona la ragionevolezza dalla razionalità in modo che sulla base della prima si possa proporre agli altri equi, e per ciò stesso accettabili, termini di collaborazione. Ma in tal modo ciò che resta oscuro e ingiustificato è il tipo di legame che le persone hanno tra loro. Certamente dalla cooperazione ognuno spera più benefici di quelli che potrebbe ottenere da solo, ma ciò non basta a giustificare in modo adeguato le relazioni e i legami che hanno le persone fra loro. Conseguentemente anche l'idea del bene comune è meramente strumentale agli interessi delle persone singolarmente considerate (38). Insomma, il principio primo da cui Rawls deriva la cooperazione sociale è sempre e soltanto quello del vantaggio reciproco e da esso si trae una concezione della giustizia come reciprocità, che resta all'interno di questo paradigma e non è certamente un modello ad esso alternativo. La potremo chiamare la concezione del "mutuo vantaggio lungimirante". LA REGOLA D'ORO Ora io vorrei mostrare che la giusta istanza di coniugare l'amore di sé con il bene comune, certamente presente nel pensiero di Rawls, potrebbe essere più adeguatamente realizzata facendo riferimento ad un principio tradizionale del diritto naturale, quello della Regola d'oro. Sia nella sua formulazione negativa ("non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi), sia in quella positiva ("fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te") la regola aurea è nella sostanza il principio "ama il prossimo come te stesso" (39). Questo principio è ampiamente presente in quasi tutte le culture e religioni tanto da potersi annoverare tra gliéndoxa dell'umanità, cioè tra quelle intuizioni morali radicate nella pratica generale della vita sociale (40). Tuttavia il suo ruolo normativo è stato sottoposto a tali critiche da indurre a pensare che esso sia al più una massima di buon senso oppure che possa avere una validità solo in dipendenza da una qualche fede religiosa (41), ma in ogni caso da escludere che da esso possa dipendere una teoria etica e politica. Queste critiche sono state riassunte da Hans Kelsen sulla scia di Kant (42), ma sono del tutto infondate in quanto sono basate su un fraintendimento. Da una parte s'è affermato che la regola aurea conduce a risultati contraddittori fino al punto da essere rovinosi per il diritto e per la morale e, dall'altra, s'è sostenuto che essa, anche ammettendone la validità, è tautologica e vuota, sicché non può fornire di per sé alcuna vera e propria direttiva morale. Tuttavia solo il secondo ordine di obiezioni è degno di essere preso in considerazione. Infatti la regola aurea conduce a risultati contraddittori solo qualora s'intende che bisognerebbe desiderare per gli altri ciò che si desidera per sé senza qualificare in senso propriamente normativo questo desiderio. Non si possono trasformare le proprie preferenze personali in preferenze anche degli altri (vedi l'esempio del masochista) e, conseguentemente, ritenersi obbligati in tal senso. È ovvio che qui non si tratta di preferenze e di gusti personali. Il significato 116 della regola aurea è senza dubbio il seguente: il bene che vorrei fosse fatto a me, cioè ciò che desidero come bene per me, come mio bene, deve anche essere desiderato come bene per gli altri, cioè come bene per tutti o bene in sé. Già s. Agostino, nel suo commento a Mt 7.12, aveva notato che nella formula tradizionale della regola aurea si deve sottintendere il termine "buono", cioè bisogna fare agli altri ciò che è buono, e che ciò è implicito nel riferimento alla volontà, che è la facoltà del bene, mentre non la volontà, ma la cupidigia sarebbe propria delle azioni malvage (43). È proprio a questa specificazione della formulazione della regola aurea che si rivolge la seconda critica, ben più consistente. Essa è diretta a mostrare l'inutilità della regola aurea ai fini della determinazione delle regole e dei comportamenti morali. Infatti, se solo i desideri moralmente giustificati sono rilevanti, allora -­‐ si obietta -­‐ si presuppone l'esistenza di un ordinamento normativo che determini quali desideri siano moralmente giustificati e quali no. Ed allora non sarà la regola aurea il primo principio della vita morale, ma questo ordinamento normativo presupposto. Di conseguenza, la regola aurea diventa puramente tautologica o vuota, in quanto finisce soltanto per affermare che devo trattare gli altri come gli altri devono essere trattati, cioè nell'applicare in modo imparziale, ovvero senza fare eccezioni, norme generali. Ma di per sé la regola aurea non dice quale debba essere il contenuto di queste norme generali, ma solo che, una volta presupposte tali norme, bisogna applicarle a tutti senza eccezioni. Sulla base della sola regola aurea non si potrebbe scrutinare il contenuto delle norme morali, ma solo riaffermare le modalità della loro applicazione, cosa peraltro ridondante. Che la regola aurea non intervenga in alcun modo nella determinazione del contenuto delle norme morali non è vero, poiché nessuno può negare che almeno escluda come valide tutte quelle norme che discriminino fra le persone. Essa sostiene che il soggetto, a cui si rivolge l'imperativo, e gli altri (tutti gli uomini), a cui è diretto il suo comportamento, appartengano alla medesima categoria di esseri e che sia vietato fare discriminazioni all'interno di questa categoria. Essa afferma la sostanziale uguaglianza di tutti nei confronti del bene e, al contempo, la loro comunanza nel bene. Il fatto è che la regola aurea non deve essere intesa né come una norma determinata che detti un comportamento tipico, né come una norma generale da cui dedurre il contenuto di norme particolari. Non è a questo modo che bisogna intendere i princìpi del diritto naturale, ma come orientamenti generali che aiutano a scrutinare la validità morale delle regole morali, sociali, giuridiche e politiche. Se formuliamo la regola aurea in questo modo: "devo fare (o non fare) agli altri ciò che giustificatamente desidero (o non desidero) per me stesso", allora risulterà più evidente la differenza rispetto al principio kantiano di universalizzazione. Quest'ultimo, infatti, prescinde completamente dal riferimento ad una soggettività desiderante il bene per concentrarsi sul fatto che si possa accettare che la massima della propria azione divenga una prescrizione valevole per tutti in circostanze simili, cioè una legge universale. Ma così si separa il desiderio dalla sua giustificazione e il bene diventa il dovere (44). Perché ci sia il bene occorre che ci sia un soggetto desiderante, così come il senso del valore sta nella partecipazione ad esso. Ebbene, la regola aurea è criticata proprio perché non ammette questa separazione tra desiderio e sua giustificazione normativa, ma è proprio qui che risiede il suo significato: il desiderio universale e comunicativo del bene. La misura di questa comunanza è data dall'amore di sé se esso è inteso non già come attaccamento alle proprie preferenze e ai propri particolari piani di vita e neppure come la possibilità di una separazione del sé dal me per enucleare un io distaccato e neutrale, ma come l'attenzione per tutti gli aspetti fondamentali dell'umano che ogni uomo trova innanzi tutto in se stesso ed è per questo che deve essere -­‐ come si esprime Aristotele -­‐ "amico di se stesso". 117 Il controllo dell'amore di sé, cioè la verifica della sua rettitudine, è dato dal fatto che esso non si opponga all'amore per l'altro. Se in sé l'uomo ama l'umano, allora anche l'amore del prossimo è una cosa naturale (45). Non posso amare l'altro per quello che è se non sulla base dell'amare se stessi per quello che si è nell'orizzonte della similitudine. L'amico è «un altro se stesso» (46). La similitudine permette la connessione fra la stima di sé e la sollecitudine per l'altro. Non posso rettamente stimare me stesso senza stimare l'altro come me stesso. E qui abbiamo l'idea della reciprocità propria della regola aurea: ciascuno ama l'altro «per quello che egli è per se stesso» (47). Amare l'altro per quello che l'altro è corrisponde all'amare se stessi per quello che si è, che è l'amore di sé proprio della regola aurea. È possibile mettersi dal punto di vista dell'altro solo sulla base della possibilità della comunicazione delle prospettive. S'è fatta una distinzione tra la «mera reciprocità», per cui si riconosce l'altro come un sé dotato di un proprio punto di vista, e la «reciprocità reversibile», per cui ci si immedesima nella prospettiva dell'altro (48). Questa distinzione non si pone sul piano della regola aurea che sostiene la comunicazione delle prospettive nell'ambito dei valori fondamentali dell'umano. Essa introduce la nozione di umanità come termine mediatore tra la diversità delle persone, superando il carattere dissimetrico della relazione intersoggettiva dovuto all'alterità. In ogni caso per la regola aurea "reciprocità" non significa "mutuo vantaggio", anche se a lungo termine. Essa non dice: "fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te a condizione che gli altri facciano lo stesso". In questo senso prescrive l'amore di benevolenza e prefigura relazioni sociali fra "datori di doni" (49). Nella regola aurea c'è, dunque, l'amore di sé e il principio della benevolenza. Ma questo è un orizzonte molto generale e comprensivo che riguarda tutta la vita morale e la molteplicità delle relazioni intersoggettive. Sul piano della morale sociale e politica la regola aurea introduce il principio della solidarietà e del mutuo aiuto. Poiché c'è una comunanza di tutti a proposito dei beni umani fondamentali, promuoverli per gli altri è la stessa cosa che promuoverli per sé. I singoli individui diventano parti di un insieme che contribuiscono ad alimentare e da cui traggono le loro risorse (50). La loro stessa realizzazione è parte costituente di questa comunità. Non si tratta ancora di una comunità politica, ma di quella comunità morale di tutti gli esseri umani che è immanente in ogni comunità concreta, quella per cui ogni persona ha diritto ad essere trattato come "uno dei nostri" (51). È qui evidente che senza il principio di solidarietà non potrebbe aversi il concetto generale di bene comune, che quindi precede quello di giustizia. Abbiamo considerato la regola aurea come un principio primo del diritto naturale e come tale esso precede qualsiasi teoria della giustizia, fornendo a questa un orizzonte generale di concetti. Poi si dovrà procedere per successive determinazioni, anche in considerazione delle circostanze storiche concrete. La ragionevolezza è il mezzo per trattare tali questioni in modo da non violare la regola aurea, ma sarebbe errato ritenerle già risolte dalla regola aurea stessa. Ho voluto solo mostrare che essa non è una formula vuota e che è indispensabile per fondare il principio di cooperazione. CONCLUSIONE Se ora ritorniamo, in conclusione, a considerare la teoria della giustizia di Rawls, possiamo notare che essa viola la regola aurea sotto alcuni aspetti decisivi. Innanzi tutto, Rawls pensa che sia possibile conferire al principio di cooperazione il ruolo di principio primo, anche rispetto alla nozione di persona politica, e questo è impossibile in quanto esso è con tutta evidenza subordinato al principio di benevolenza e a quello di solidarietà. Questi finiscono per essere implicitamente presupposti senza essere tematizzati, sottraendosi all'onere di una loro interpretazione e giustificazione. 118 In secondo luogo, Rawls ritiene possibile separare all'interno della persona e tra le persone l'amore di sé dall'atteggiamento cooperativo e dalla ragionevolezza, ma in tal modo la giustapposizione degli interessi impedisce all'idea di giustizia di elevarsi ad un riconoscimento vero e ad una solidarietà in cui ciascuno si sente in debito verso ognuno (52). In terzo luogo, nel pensiero di Rawls manca una vera e propria idea della solidarietà. Un'uguaglianza normativa, che non è una similitudine esistenziale, non basta a motivare degli esseri umani a cooperare fra loro e a giustificare il principio di cooperazione. Ciò non significa che il principio di cooperazione non porti un contributo importante per l'evoluzione del diritto naturale e alla ricerca della verità pratica. Il rispetto dei diritti degli altri è un rispetto della verità, poiché appartiene al bene di una persona non solo aver credenze vere, ma anche credenze consapevoli e raggiunte in piena libertà. Il modo autentico di praticare la benevolenza non esige di far propri gli scopi degli altri, ma di far valere la loro possibilità di essere se stessi in una società giusta. In quarto, e ultimo, luogo in tal modo la questione del pluralismo non è affrontata, ma evitata. L'eliminazione dell'identità della persona politica mette tra parentesi il pluralismo. L'idea rawlsiana di cooperazione esige la neutralizzazione del pluralismo, mentre in realtà la sfida di oggi è come si debba e si possa cooperare nelle condizioni del pluralismo. In questo senso un concetto estremamente ricco di bene comune aiuta a comprendere e ad affrontare il pluralismo contemporaneo molto più di una sua indebita restrizione. Non è forse la società globale e plurale il luogo più ampio e più adatto per cercare la verità senza pregiudizi e preclusioni? Ritengo che il ricorso alla regola aurea avrebbe potuto dare alla stessa teoria rawlsiana più solidi fondamenti. Certamente vi sono in questa aspetti non compatibili con quella, soprattutto a proposito dell'ampiezza del concetto di "bene comune". Tuttavia vi sono anche implicite e inconsapevoli conferme della perenne attualità di questo principio primo del diritto naturale. Mi si potrà far notare che non ho trattato della stabilità e dell'evoluzione dei contenuti del diritto naturale, ma solo dell'attualità dei suoi princìpi primi e della permanenza della sua struttura argomentativa. Ma confido sul fatto che questi elementi siano ben più importanti dei valori fondamentali, perché ne condizionano la giustificazione, l'interpretazione e la realizzazione. 119 (1) Cfr. MARITAIN J., La loi naturelle ou loi non écrite, Fribourg: Éditions Universitaires, 1986:47-­‐
51. (2) TOMMASO D'AQUINO, Sum. Theol., II-­‐II, 57, 1, ad 1m. (3) Ibid., I-­‐II, 94, 2. (4) STRAUSS L., Natural Right and History, Chicago: Chicago U.P., 1953. (5) Per una critica cfr. KALINOWSKI G., Notions de Nature. Sur la muabilité du concept de nature et l'immuabilité de la loi naturelle, in MAYER-­‐MALY D. e SIMONS P.M. (a cura di), Das Naturrechtsdenken heute und morgen.Gedächtnisschrift für René Marcic, Berlin: Duncker & Humblot, 1983:52 ss. (6) Cfr. KALINOWSKI G. e VILLEY M., La mobilité du droit naturel chez Aristote et Thomas d'Aquin, Archives de Philosophie du droit 1984, 29:190-­‐199. (7) Per la presenza di questa tendenza nella filosofia giuridica italiana cfr. VIOLA F., Italian Natural Law, in Law and Politics between Nature and History, European Journal of Law, Philosophy and Computer Science, 1998, 2:355-­‐367. (8) TOMMASO D'AQUINO, Sum. Theol., I-­‐II, 94, 5c. (9) Mi sono occupato di tale questione in VIOLA F., Etica e metaetica dei diritti umani, Torino: Giappichelli, 2000:137-­‐158. (10) VIOLA F. e ZACCARIA G., Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, III ed., Roma-­‐Bari: Laterza, 2001:407. (11) Per questo cfr. PALADIN L., Ragionevolezza (principio di), in Enciclopedia del diritto, Agg., I, Milano: Giuffrè, 1997: 899 ss. (12) RUGGERI A, Ragionevolezza e valori, attraverso il prisma della giustizia costituzionale, Diritto e società 2000, 4:569-­‐570. (13) Zagrebelsky G., Su tre aspetti della ragionevolezza, in BARILE P. et al., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Milano: Giuffrè, 1994:189-­‐190. (14) Cfr. VIOLA, Etica e metaetica..., pp. 107-­‐136. (15) Cfr., anche per le radici filosofiche della ragionevolezza pratica, FINNIS J., Natural Law and Natural Rights, Oxford: Clarendon Press, rep. 1992: 88. (16) Cfr., in generale, SCACCIA G., Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano: Giuffrè, 2000. (17) Cfr. Bickel A., The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, II ed., New Haven: Yale U.P., 1986. (18) Rinvio a Corten O., L'utilisation du "raisonnable" par le juge international, Bruxelles: Bruylant, 1997. (19) Come fa CORTEN O., L'interprétation du "raisonnable" par les juridictions internationales: au-­‐
delà du positivisme juridique?, R.G.D.I.P. 1998, 1:5-­‐43. (20) CERRI A., I modi argomentativi del giudizio di ragionevolezza delle leggi: cenni di diritto comparato, in BARILE et al., Il principio di ragionevolezza..., p. 135. (21) È ciò che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha chiamato «compelling public interest» e il tribunale costituzionale tedesco «überwiegende Interesse der Allgemenheit». Per la Corte costituzionale italiana si deve trattare di un interesse pur sempre costituzionalmente protetto. (22) Si può ritenere che in senso lato il secondo principio di giustizia di Rawls s'inscriva in questa esigenza di equità per cui le aspettative di coloro che si trovano in una situazione più favorevole sono protette nella misura in cui ciò serva a migliorare coloro meno avvantaggiati. In ogni caso questo criterio è servito a giustificare provvedimenti di tipo compensativo. (23) La Corte Suprema americana ha parlato di «vagueness test». 120 (24) Mi riferisco ovviamente al sindacato di Verhältnismassigkeit del Tribunale costituzionale tedesco. (25) FINNIS, Natural Law..., p.103. (26) Rawls J., Political Liberalism, New York: Columbia U. P., 1996:48-­‐54. (27) Segnalo che il primato della comprensione rende l'ermeneutica particolarmente predisposta a sostenere questo senso della "ragionevolezza". Cfr. il fascicolo della Revue de Métaphysique et de Morale dedicato a Équité et interprétation, 2001:1. (28) Zagrebelsky G., Il diritto mite, Torino: Einaudi, 1992:203. Sul concetto attuale di ragionevolezza cfr. anche Viola F. e Zaccaria G., Diritto e interpretazione..., pp. 41-­‐43. (29) ROSENFELD M., Comprehensive Pluralism is neither an Overlapping Consensus nor a Modus Vivendi: A Reply to Professors Arato, Avineri, and Michelman, Cardozo Law Review 2000, 21:1997. Più in generale cfr. ID., Just Interpretations.Law between Ethics and Politics, Berkeley: University of California Press, 1998. (30) Per questo tema rinvio a VIOLA F., Giustizia e verità, Filosofia e Teologia 2001, 15: 490-­‐503. (31) «The most fundamental idea in this conception of justice is the idea of society as a fair system of social cooperation over time from one generation to the next (Theory, §1: 4). We use this idea as the central organizing idea in trying to develop a political conception of justice for a democratic regime». RAWLS J., Justice as Fairness. A Restatement, ed. by E. Kelly, Cambridge, Mass.: The Belknap Press of Harvard U.P., 2001:5. (32) «Since we begin from the idea of society as a fair system of cooperation, we assume that persons as citizens have all the capacities that enable them to be cooperating members of society». RAWLS, Political..., p.20. (33) «Fair terms of cooperation specify an idea of reciprocity: all who are engaged in cooperation and who do their part as the rules and procedure require, are to benefit in appropriate way as assessed by a suitable benchmark of comparaison».Ibid., p.16. (34) «The desire to act in ways that can be defended to oneself and others without appealing to personal advantage». BARRY B., Theories of Justice, Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1989:7-­‐8, 361-­‐364 e cfr. anche GIBBARD A., Constructing Justice, Philosophy & Public Affairs 1991, 20:264-­‐279. (35) Il self-­‐interest smithiano non è l'egoismo, cioè l'acquisizione di vantaggi personali a danno degli altri, ma propriamente un'indifferenza nei confronti degli altri e un'incapacità di mettersi dal punto di vista degli altri, abbandonando il proprio. (36) Sono ben note le critiche che a questa concezione della persona muove SANDEL M. J., Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge: Cambridge U. P., 1982. Cfr. anche Political Liberalism, reviewed by M.J.Sandel, Harvard Law Review 1994, 107:1765-­‐1794. (37) RAWLS, Justice as..., pp.6-­‐7. (38) Qui non discuto la teoria rawlsiana dei beni primari (primary goods), cioè delle condizioni sociali e dei mezzi necessari per tutti i fini, che rendono possibile ai cittadini di sviluppare ed esercitare i loro poteri morali e perseguire la loro particolare concezione del bene. Da una parte, questa concezione esile (thin) del bene comune impedisce che la socialità umana sia intesa come un valore in sé; dall'altra, credo che un'analisi più attenta di questi beni primari potrebbe condurre ad implicazioni che rendono questa concezione ben più spessa (thick) di quanto appare. (39) Tommaso d'Aquino, pur non chiamandola mai così, fa esplicito riferimento ad essa (I-­‐II, 94, 4 ad 1) e afferma che tutti i princìpi e le norme morali sono implictamente in essa contenuti (I-­‐II, 91, 4; 99, 1 ad 2; 100, 2 e 3). Cfr. anche FINNIS J., Aquinas, Oxford: Oxford U. P., 1998:138. (40) Cfr., da ultimo, WATTLES J., The Golden Rule, Oxford: Oxford U.P., 1996. (41) Diversa dalla dipendenza dalla prospettiva etico-­‐religiosa è la tesi della convergenza tra ciò che detta la ragione e ciò che insegna la fede. In questo senso cfr. D'AGOSTINO F., La «regola 121 aurea» e la logica della secolarizzazione, in LOMBARDI VALLAURI L. e DILCHER G., Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, vol. II, Milano: Giuffrè, 1981:941-­‐955. (42) Cfr. KELSEN H., Das Problem der Gerechtigkeit, Wien: Franz Deuticke,1960. (43) AGOSTINO, De Sermone in monte, II, sec. 74. (44) Per questo non condivido la tesi di Ricoeur per cui Kant avrebbe dato una formulazione più rigorosa della regola d'oro. In realtà il principio di universalizzazione è un'altra cosa. Cfr. RICOEUR P., Soi-­‐même comme un autre, Paris: Éditions du Seuil, 1990. (45) «Est autem omnibus hominibus naturale ut se invicem diligant. Cuius signum est quod quodam naturali instinctu homo cuilibet homini, etiam ignoto, subvenit in necessitate, puta revocando ab errore viae, erigendo a casu, et aliis huiusmodi: ac si omnis homo omni homini esset naturaliter familiaris et amicus». TOMMASO D'AQUINO, Contra Gent., 3, 117. (46) ARISTOTELE, Et.Nic., IX, 4, 1166 a 32. (47) Ibid., VIII, 3, 1156 b 9. (48) ROSENFELD M., Affirmative Action and Justice. A Philosophical and Constitucional Inquiry, New Haven: Yale U.P., 1991: 247-­‐249 e, per la distinzione tra diritto (mera reciprocità) e morale (reciprocità reversibile), ID., Just Interpetations..., 69 ss. (49) Cfr. HITTINGER R., Razones para la sociedad civil, in Alvira R. et al. (a cura di), Sociedad civil. La democracia y su destino, Pamplona: Eunsa, 1999:27-­‐42. (50) FINNIS, Aquinas, p.118. (51) Cfr. Habermas J., Justice and Solidarity, in KELLY M. (ed.), Hermeneutics and Critical Theory in Ethics and Politics, Cambridge,Mass.: Mit Press, 1990:47. (52) Questo è notato da RICOEUR P., Liebe und Gerechtigkeit -­‐ Amor et Justice, Tübingen: Mohr, 1990. 122 FRANCESCO D'AGOSTINO
IL DIRITTO NATURALE, IL DIRITTO POSITIVO E LE NUOVE PROVOCAZIONI DELLA BIOETICA Nei dibattiti bioetici il riferimento alla natura e, di conseguenza, in una prospettiva dottrinale, al diritto naturale è significativamente frequente. La biomedicina e le sue provocatorie scoperte e realizzazioni mettono infatti in questione, manipolandolo, un ordine naturale ritenuto tradizionalmente (ma, ben sappiamo, a torto) immutabile, ma sentito ciò non di meno da molti (soprattutto a livello di senso comune) come giusto. Ne segue uno specifico e preliminare dovere per la bioetica, quello di sottoporre nelle proprie analisi a vaglio critico il fondamento di legittimità dell'appello alla natura (e al diritto naturale). Nelle considerazioni che seguono vorrei limitarmi soltanto a mostrare alcune difficoltà al riguardo, in genere non percepite, o sottovalutate. In queste mie riflessioni non entrerò in merito alla distinzione legge naturale/diritto naturale, né rifletterò sulle valenze specificamente etiche della dottrina della legge naturale. Non intendo nemmeno ripresentare la dialettica tradizionale che nella storia della filosofia del diritto si è instaurata (peraltro secondo molteplici profili) tra diritto naturale e diritto positivo e quale possa essere oggi una sua adeguata riformulazione (1). Presuppongo nota, nelle sue linee essenziali, la storia dell'idea giusnaturalistica e come essa si sia cristallizzata in un paradigma che a mio avviso è tanto teoricamente tuttora potente, quanto culturalmente debole. Peraltro, e questo è il primo punto su cui vorrei richiamare l'attenzione, l'emergere delle nuove problematiche bioetiche e più in generale il nuovo rilievo assunto dai problemi della vita e della sua difesa stanno non solo aprendo nuovi orizzonti problematici ai giuristi (2), ma soprattutto comportando una profonda, e in genere poco avvertita, alterazione della dialettica diritto naturale/diritto positivo, per come essa è stata in genere pensata. La prima alterazione va percepita in un orizzonte di carattere funzionale. Secondo la dottrina tradizionale (e non solo cattolica) la dialettica diritto naturale/diritto positivo avrebbe come funzione prioritaria e fondamentale quella diorientare il diritto positivo secondo giustizia, e di conseguenza quella di controllare e al limite smascherare qualsiasiesercizio arbitrario della funzione legislativa. In tal senso per usare un'espressione antica, enfatica, ma non impropria, di Giorgio Del Vecchio, il diritto naturale sarebbe "nemico di ogni tirannide"; esso appare come il punto di riferimento, in nome del quale si dà oggettiva legittimazione al dire di no al potere, quale che sia il rischio sociale e personale che possa gravare a seguito di tale obiezione sull'obiettore. Tale dottrina mantiene una sua indubbia attualità, anche se è stata riformulata negli ultimi decenni utilizzando il paradigma dei diritti umani fondamentali, anziché il paradigma del diritto naturale; peraltro, non è difficile percepire che i due paradigmi -­‐anche se a volte al prezzo di riformulazioni teoriche non irrilevanti e non sempre condivisibili-­‐ sono reciprocamente convertibili. Peraltro, va avvertito come la polemica anti-­‐giusnaturalistica non abbia mai avuto come proprio obiettivo quello di legittimare l'autoreferenzialità del potere (se non in casi estremi, il cui approfondimento potrebbe forse riservare sorprese). Essa, quando si è manifestata, ha piuttosto avuto come obiettivo quello della critica al carattere astratto e anti-­‐storico (o, a seconda dei contesti, del carattere metafisico e/o religioso) dei principi giusnaturalistici. Si può perfino avanzare l'ipotesi secondo la quale nella tradizione occidentale il sapere del diritto positivo si sia strutturato come scienzaproprio ed esclusivamente a causa del suo essere sempre stato pensato a partire da una matrice giusnaturalistica: tale matrice -­‐autentico ghost in the machine-­‐ sarebbe esigita dalla stessa logica funzionale del diritto, perché sarebbe l'unica forza in grado di 123 attivare nel diritto stesso le necessarie dinamiche di innovazione normativa. (Altra questione -­‐in questo contesto non rilevante-­‐ se tale matrice venga poi letta e teorizzata come psicologica, etica, politica, o comunque pre-­‐giuridica: resterebbe fermo in ogni caso il necessario appello del diritto positivo a tale matrice come ad un altro-­‐da-­‐sécome a un motore, a un carburante o ad un principio di dotazione di senso del sistema positivo). Nel dibattito bioetico attuale, o almeno in gran parte di esso, lo schema appena presentato si è pressoché dissolto. Molte tra le più forti e diffuse istanze bioetiche (3) appaiono in genere caratterizzate da pulsioni libertarie, che si trasformano, sul piano del diritto positivo, in istanze di delegalizzazione, volte al limite a creare quello che la dottrina tedesca chiama "uno spazio libero dal diritto", un rechtsfreier Raum. Si sostiene che, in campo bioetico (ma non solo in questo), il miglior diritto sarebbe nessun diritto; o, in subordine, che la migliore fonte di diritto, cui si potrebbe concedere una qualche legittimazione, sarebbe quella abilitata a produrre meri decreti amministrativi. Dovrebbe essere precluso al legislatore -­‐a colui cioè che tradizionalmente è pensato come il soggetto chiamato istituzionalmente a orientare in modo controfattuale, cioè generale, astratto e assiologicamente vincolante i cittadini, il diritto di sindacare istanze ed esperienze che qualificano in radice il rapporto dei cittadini con la vita; al legislatore si potrebbe al più -­‐come appena ricordato-­‐ riconoscere una funzione meramente tecnica, quella cioè di potenziare la fluida dinamicità di prassi sociali autoreferenziali mediante decreti, mediante cioè norme caratterizzate da un rango puramente pragmatico e quindi in chiave valoriale significativamente poco elevato (4). Su quali presupposti teorici e/o simbolici si fondano queste pretese? Non credo che esse vadano ricondotte ad orizzonti di senso particolarmente strutturati; chi le elabora non le inserisce in genere nel quadro di più complesse argomentazioni politico-­‐ideologiche (ne è prova la trasversalità parlamentare di molte iniziative in questi campi). Né molto numerosi sono coloro che ritengono che in bioetica si possano risolvere gli hard cases ricorrendo a criteri meramente procedurali; mi sembra altresì che nemmeno le prospettive utilitaristiche diano adeguato fondamento a queste pretese, dato che in molte di queste situazioni è dubbio che la permissività auspicata corrisponda all'ottimizzazione dell'interesse del maggior numero dei consociati o ad altri dei classici canoni delle diverse scuole utilitaristiche. Ritengo che ci troviamo piuttosto di fronte ad una imprevista variante del paradigma giusnaturalistico, a un rinnovato, anche se confuso e ben poco esplicitato, appello al codice simbolico della natura. La natura, cui qui si fa riferimento, non viene intesa in modo sempre univoco. A volte viene identificata con le dinamiche pre-­‐logiche (e in certo senso impersonali) del desiderio soggettivo: si arriva in questi casi abbastanza rapidamente a vere e proprie forme di sacralizzazione bioetica del principio di autonomia, come quando ad es. si difende come vero e proprio diritto fondamentale quello al c.d. suicidio razionale. Altre volte l'appello alla natura viene fatto coincidere con quello alla difesa di quello specifico bene che è la soggettività femminile (si pensi alla rivendicazione della insindacabilità della decisione abortiva). Il bene biologico della specie, come bene naturale, viene sempre più spesso invocato per giustificare pratiche eugenetiche (di tale carattere peraltro sono molti aborti). E sempre più si diffonde l'appello a combattere per la difesa della biosfera, vista come l'unico, autentico orizzonte ultimo di valore (queste posizioni e posizioni analoghe sono frequentemente riscontrabili anche negli animalisti). Anche le richieste di riconoscere come decisione privata e insindacabile quella della sterilizzazione volontaria non terapeutica si radica, in ultima analisi, in una curiosa motivazione di carattere naturalistico: la sessualità umana potrebbe compiutamente estrinsecarsi nella sua dimensione più autentica, l'unica quindi veramente "naturale", solo se (tecnologicamente!) liberata da ogni rischio procreativo. "Ingannando" la natura, procurando cioè una sterilità "artificiale", si consentirebbe insomma alla natura di riconquistare se stessa. Con considerazioni analoghe, peraltro, sono stati elaborati 124 diversi paradigmi di confutazione del carattere innaturale dell'omosessualità. Bioetica e appello alla natura sembrano quindi saldarsi, secondo modalità oggettivamente sconcertanti. E poiché l'appello alla natura è sempre coinciso -­‐almeno psicologicamente-­‐ con un appello alla giustizia, non ci si deve meravigliare del fatto che molte nuove richieste libertarie in bioetica vengano formulate con rimarchevole intensità passionale, da soggetti che si sentono moralmente nel giusto, perché non pretendono che i loro desideri soggettivi siano socialmente gratificati, ma che non sia soffocata la voce della natura che si fa strada in loro e attraverso i loro desideri. Nel contesto della diatribe bioetiche, tra diritto naturale e diritto positivo sembrano instaurarsi pertanto nuove e inedite tensioni. La pretesa del "neogiusnaturalismo libertario" bioetico non è tanto quella di costituire il fondamento di legittimità e di giustificazione del diritto positivo (secondo i moduli del giusnaturalismo "tradizionale"), bensì quella di operare sul diritto positivo, facendolo ritrarre progressivamente dalla sua funzione di normatività sociale, per ridurlo a mero ed estrinseco garante di nuove dimensioni di autonomia. Perché questo progetto divenga credibile e possibile, bisogna che il "neogiusnaturalismo" elabori nei confronti del diritto positivo una strategia adeguata di attacco. Questa strategia si sostanzia, con sempre maggiore evidenza, in una accusa: l' indifferenza o peggio ancora l'ostilità nei confronti delle nuove pretese bioetiche di carattere libertario sarebbe la prova della inaccettabile volontà del diritto positivo di ignorare e di ferire indebitamente le esigenze della "vita materiale". Sottoposto a un simile -­‐e per lui inaspettato attacco-­‐ il sistema del diritto positivo reagisce goffamente; precipita nelle spirali dell' indecidibilità -­‐emblematico il caso italiano della mancata regolamentazione della fecondazione assistita (5) -­‐ o tende comunque ad entrare in una situazione di instabilità e di contraddizione, di cui danno prova le oscillazioni giurisprudenziali di tanti paesi, quando i giudici, sollecitati a risolvere complesse e inedite controversie di natura bioetica, utilizzano (né saprebbero o potrebbero fare altrimenti) il loro tradizionale e antiquato armamentario concettuale. A quali forze attinge questo paradigma "neogiusnaturalistico"? La domanda non risponde ad una generica curiosità di tipo storiografico (peraltro legittima), ma a precise esigenze teoretiche. Non è di certo irrilevante verificare dove storicamente si radichi questo nuovo paradigma, ad es. se trovi le sue radici nel libertinismo sadista (6), o comunque nello spirito della "modernità". Avanzo però l'ipotesi che mere indagini storiografiche siano insufficienti per comprendere ilnovum che dobbiamo fronteggiare. Penso che attraverso il "neogiusnaturalismo libertario" inaspettatamente ci si trovi di fronte all'emergere, nella cultura attuale, di dinamiche che vanno riferite non ad un'epoca specifica della Weltgeschichte, ma al costituirsi stesso della identità umana in generale -­‐e conseguentemente della coscienza etica e giuridica-­‐ ([7]); dinamiche ricostruibili più attraverso il lavoro dei filosofi che quello degli storici; e più ancora che attraverso il lavoro dei filosofi, mediante l'analisi del linguaggio dei miti o dell'espressività della psiche (8). Si tratta insomma di dinamiche avvicinabili in quelle regioni ctonie, telluriche, della soggettività, la cui esplorazione non può essere affidata alle sole forze della ragione calcolante e che rinviano ad un inizio che non va confuso con un punto di partenza, ma con un'arché, che non possiede cioè carattere cronologico, bensì ontologico (9). In queste dinamiche archeologiche non è possibile cogliere la natura come fondamento del diritto; e tra ius naturale e ius civile non si dà né continuità né correlazione (secondo la linea dominante, come si è detto, nella storia dell'Occidente), ma né più né meno che conflitto. Lo ius naturale esprime -­‐in questo orizzonte-­‐ le esigenze della vita materiale, una vita calda e irriflessa, caratterizzata dalla ripugnanza nei confronti di vincoli, norme e istituzioni -­‐si tratta della dimensione alla quale si allude parlando, a seconda dei casi, di "principio femminile" di "codice materno", o psicoanaliticamente del mondo dell' Es-­‐, mentre lo ius civile esprimerebbe quelle della vita spirituale, fredda e riflessiva, aperta al sacrificio della spontaneità naturale e 125 all'accettazione delle regole e delle istituzioni, nel nome delle superiori esigenze della vita civile -­‐ psicoanaliticamente il mondo dell' Ich, che deve occupare, costi quel che costi, lo spazio magmatico dell'inconscio: wo Es war, soll Ich werden (10); o, se così ci si vuole esprimere, il "principio maschile" il "codice paterno" (11) -­‐. Immaginare una conciliazione -­‐se non provvisoria e occasionale-­‐ tra i due mondi, non è possibile: la loro antinomia può essere rimossa o nascosta, ma è nel suo principio insanabile. Una splendida esemplificazione di questa antinomia ci viene offerta attraverso il nitore ineguagliato delle parole di un grande poeta latino, attento indagatore dei miti. La natura ha posto in Mirra un amore invincibile per il padre Cinira; la donna è ben consapevole che la sua passione incestuosa realizza unnefas, ma non può non chiedersi se davvero essa possa essere ritenuta un delitto (si tamen hoc scelus est), dato questo amore la natura (il diritto naturale) lo consente a tutti gli animali, mentre solo agli uomini le leggi, che essi stessi, e non la natura, si sono dati, lo proscrivono: humana malignas/cura dedit leges, et quod natura remittit/invida jura negant (12). Con forza espressiva minore, ma con gli stessi intendimenti si esprime, a secoli e secoli di distanza, Michel Foucault: "Quale desiderio potrebbe essere contro-­‐natura dacché esso è stato immesso nell'uomo dalla natura stessa, dacché gli è stato insegnato da essa nella grande lezione di vita e di morte che il mondo non cessa di ripetere?" (13). Va fronteggiato il paradigma neogiusnaturalistico? Assolutamente sì. Va fronteggiato per una ragione fondamentale: perché il suo imporsi (eventualmente anche contro le intenzioni di chi se ne lascia affascinare), l'imporsi cioè di un siffatto jus naturale sullo jus civile, toglierebbe alla soggettività umana la possibilità di conquistare se stessa, di assumere, direbbe Hegel, la posizione eretta (14). Va fronteggiato nel nome della dignità specifica conquistata dall'uomo nel corso della sua storia e che si è strutturata nel principio del diritto, in quello jus civile, attraverso il quale l'essere umano, senza rinnegare la sua natura tellurica, si innalza al riconoscimento della sua identità di zoon politikón, di civis, cioè di soggetto relazionale, vincolato dai doveri oggettivi della relazionalità interpersonale. L'intuizione antichissima per la quale il biosdell'uomo ha bisogno della polis, perché in essa soltanto si dà il nomos (15), riassume efficacemente tutta questa tematica. Con quali strategie va fronteggiato il paradigma neogiusnaturalistico? Esse possono essere significativamente diverse. Una prima possibile strategia si caratterizza per il carattere specificamente filosofico. Mettendo in luce l'equivocità della categoria di natura (16), e sottolineando la necessità di un rigoroso controllo teoretico sulle sue emergenze tematiche, si può cercare di sottrarre il fondamento al "neogiusnaturalismo", cioè il suo vincolo costitutivo con la natura. In questa linea è possibile giungere, sia pure con lessici diversi, a mostrare la distanza, se non la contraddizione, tra la naturaempiricamente rilevabile e la natura metafisicamente tematizzabile; ne seguirebbe che l'intero della questione verrebbe poi modulato secondo le critiche che ad un giusnaturalismo teoreticamente "cattivo" possono essere mosse da parte di un giusnaturalismo teoreticamente "buono". Questa strada possiede a mio avviso interessanti potenzialità teoretiche, ma sembra poco efficace, nei limiti in cui nei dibattiti bioetici odierni il "neogiusnaturalismo" non è il frutto di vittorioseelaborazioni teoretiche, ma rappresenta piuttosto l'emergere collettivo di vere e proprie forme private di sensibilità, che qualificano con forza la cultura oggi dominante e che si esprimono attraverso codici simbolici anziché attraverso paradigmi speculativi. Un solo esempio basterà a far capire la portata della questione. Il lungo dibattito sull'aborto, esploso a livello mondiale una trentina di anni fa, era iniziato ponendo in questione lo statuto ontologico della vita prenatale, cui veniva negato carattere propriamente umano. Rigorose fatiche speculative e intensi dibattiti hanno condotto, senza ombra di dubbio, e con il decisivo aiuto della ragione scientifica, a mostrare (o meglio a confermare) con chiarezza il carattere autenticamente umano, individuale e personale della vita 126 prenatale. Se ne sarebbe dovuto dedurre un rafforzamento di quella sua tutela giuridica, che tradizionalmente faceva parte degli ordinamenti positivi di pressoché tutti i paesi del mondo, anche se con strutturazioni "tecniche" diversificate. Così non è avvenuto: ha vinto, in un arco molto condensato di anni la logica della liberalizzazione, in forme più o meno esplicite (o più o meno ipocrite, come sarebbe corretto dire). Come è potuto avvenire? Con un opportuno mutamento di strategia: il neogiusnaturalismo non ha chiesto più (come richiedeva agli inizi del dibattito) la liberalizzazione dell'aborto, negando il carattere di autentica vita umana alla vita fetale, ma semplicemente postulando l'insindacabilità della scelta abortiva materna, come scelta non riconducibile ai parametri della legge (17). Non è difficile mostrare l'imporsi della medesima falsariga dialettica in pressoché tutte le altre questioni brucianti della bioetica. Il paradigma neogiusnaturalistico si è imposto come nuovo e potente codice simbolico di interpretazione e gestione di quanto attiene alla vita. Se si vuole percorrere una strada alternativa, si deve assumere coscienza che è indispensabile procedere alla elaborazione di nuovi codici simbolici. Nel contesto dei simboli, il nuovo non è detto però che debba apparire come l'irriducibilmentealtro, in una logica antagonistica; nuovo è ciò che ha la potenzialità di veicolare significati che il vecchio non è più in grado di esprimere. Né è necessario ipotizzare o insistere sulla antinomicità dello jus naturale rispetto allo jus civile: un conflitto aperto dei due principi confermerebbe e al limite fomenterebbe ciò che è già sotto gli occhi di tutti, e cioè laprevalenza fattuale del primo sul secondo. Bisogna piuttosto rilevare che lo jus civile non falsifica lo jus naturale, né va pensato come tale da portare di necessità alla sua delegittimazione o alla sua demistificazione, bensì ad un suo superamento/inveramento. Lo jus naturale ha una sua presa autentica sulla realtà ed è, sotto un certo profilo almeno, incapace di mistificarla (così come è incapace di legittimarla); ma è altresì incapace di comprenderla: e ciò avviene per la semplice ragione che la realtà che esso giunge a percepire è spiritualmente cieca ed ottusa. Lo jus civile non si fa portatore di un bene alternativo a quello di cui si fa portatore lo jus naturale, perché la loro antinomia non consiste nella percezione e nella difesa di beni diversi, ma nella capacità dell'uno (lo jus civile) di percepire il bene umano, a fronte della totale incapacità dell'altro (lo jus naturale) di percepire il bene in generale. L'antinomicità delle due dimensioni del diritto è reale, ma solo nel senso che è impossibile elaborarle contestualmente. Essa però ammette (o addirittura esige) una sorta di sintesi dialettica: infatti, la forza normativa e fredda del principio dello jus civile, pur se sembra recare violenza al calore del principio dello jus naturale, in realtà, all'interno delle sue forme, ne garantisce la sopravvivenza; mentre l'espansione indifferenziata dello jus naturale a scapito dello jus civile può sì dare sulle prime l'illusione del giusto trionfo della spontaneità sull'artificio, della libertà individuale sul vincolo sociale, dell'amore sulla legge, ma alla lunga produce piuttosto indifferenziazione, cioè negazione della soggettività. Nella famosa metafora di Aristotele, l'anima (la natura) avverte il peso del corpo (le leggi) con la stessa ripugnanza con cui un corpo vivo avvertirebbe il vincolo che lo tenesse incatenato ad un cadavere (18). Ma l'uomo è anima incarnata; e quel vincolo, che sembra al neogiusnaturalismo libertario ripugnante, è in realtà l'unica condizione di possibilità per la vita stessa, per la vita del bios così come per quella dell'anima (19). Se questa sintesi dialettica tra jus naturale e jus civile resta inoperante, si attivano esperienze di contraddizione irresolubile: lo jus naturale, così caldamente rivendicato, anziché aprire le porte all'abolizione o alla sublimazione del diritto -­‐secondo i sogni costantemente risorgenti nell'umanità (20)-­‐ si rivela o si trasforma in una utopia regressiva (21); e lo jus civile, nella sua incapacità di resistere alle pressioni libertarie del neogiusnaturalismo, assume rapidamente un doppio volto ipocrita, o per dirla con André Gide, inizia a "mentire con assoluta sincerità", alterando e distorcendo il significato delle pratiche che liberalizza (22). L'aborto liberalizzato si è storicamente rivelato non solo come la pratica sostitutiva dell'abbandono dei neonati (23), ma come una vera e propria forma di infanticidio 127 anticipato(per usare un'espressione ruvida, ma oggettivamente corretta). La liberalizzazione dell'eutanasia, perorata e approvata come misura di paradossale soccorso per malati terminali, ha condotto, in quel grande laboratorio di esperienze libertarie che sono i Paesi Bassi, all'avallo legale della soppressione di anziani privi di specifiche patologie, ma semplicemente depressi o "stanchi della vita" (24). L'incapacità di continuare a qualificare in modo oggettivo la sessualità umana, e la sostituzione della categoria del sesso con quella di genere (25), ha portato effetti a catena, tra i quali basti menzionare, in ordine crescente di problematicità, quelli concernenti l'avallo a pratiche di sterilizzazione volontaria (26), la giustificazione di pratiche di manipolazione e al limite di mutilazione del corpo umano (27), l'indebita omologazione dei rapporti omosessuali con quelli eterosessuali -­‐con i conseguenti incredibili pasticci in ordine alla definizione dello status giuridico della vita di coppia (28)-­‐ e last but not least il significativo vuoto argomentativo che si sta diffondendo in tema di pedofilia (vuoto che i politici colmano, per ora, con dichiarazioni di intenti sufficientemente confortanti nella sostanza, ma deprimenti quanto alla loro scarsissima robustezza logica). Se è doveroso auspicarne l'elaborazione, non è però agevole percepire, nel dibattito bioetico attuale, i segni di un possibile emergere di quei nuovi codici simbolici cui ho fatto sopra accenno e che ritengo essenziali per fronteggiare il neogiusnaturalismo libertario. E' però possibile individuare alcuni segnali, alcune tracce sui cui è utile richiamare l'attenzione. E' agevole percepire che lo sgomento indotto nell'opinione pubblica da pratiche biomediche estreme non tende a diminuire, col passare degli anni, come pure molti avevano frettolosamente ipotizzato che dovesse avvenire, ammonendo a dare tempo al tempo, sì da far riassorbire quello che si riteneva in definitiva essere null'altro che un mero shock culturale. A fronte di tante patetiche, e a loro modo (come si è già osservato) autentiche e convulse rivendicazioni, il comune intelletto umano, cui giustamente Kant dava tanto credito, non si placa; continua a ribellarsi, anche se quasi mai riesce ad esprimere in termini esatti le ragioni della sua istintiva ribellione, né a fronteggiare in modo adeguato quelle istanze che tanto lo turbano. È che le questioni bioetiche generano spaesamento, angoscia, non paura. Se soltanto dipaura si trattasse -­‐cioè di quel provvidenziale meccanismo di difesa di cui siamo tutti biologicamente provvisti per attivare difese contro pericoli prevedibili e determinati-­‐ non c'è alcun dubbio che le stesse scienze biomediche che l' attivano sarebbero parimenti in grado di gestirla e al limite dominarla (29). Ma poiché ciò che è in gioco non è la paura, ma l'angoscia -­‐cioè la consapevolezza ontologica della nostra finitudine, che si esprime anche nella nostra assoluta vulnerabilità di fronte all'imprevedibilità strutturalmente insita nella possibilità (30)-­‐ nessuna risposta "scientifica" che provenga dalla biomedicina e dalle scienze ad essa connesse, per quanto ragionevolmente rasserenante, potrà mai essere adeguata. Essa potrà aiutarci efficacemente a dominare la nostra ansia, ma sarà inerme di fronte all'emergere della nostraangoscia. Né il codice simbolico del progresso né quello della rivendicazione soggettiva possono dare una risposta all'angoscia. Il codice del progresso entra infatti in contraddizione con quella che dell'angoscia è la stessa essenza: essendo il progresso biomedico apertura indifferenziata al futuro, esso fomenterà, anziché ridurla, l'angoscia, dato che propria dell'imprevedibilità di un futuro aperto essa soffre. Ma neanche il codice della rivendicazione soggettiva potrà fornire una risposta adeguata all'angoscia bioetica, perché la rivendicazione presuppone un soggetto rivendicante, stabile nella sua identità, forte nelle sue pretese, determinato nell'ottenerne la realizzazione: esattamente il contrario, cioè, della soggettività odierna, debole, incerta, frantumata, sgomenta di fronte al moltiplicarsi delle possibilità, "multipla"(31). Se quanto detto ha un senso, si può ipotizzare che un nuovo codice simbolico della bioetica riuscirà ad emergere e ad imporsi solo se con uno sforzo che dovrà essere nello stesso tempo teoretico, culturale e spirituale, saprà prendere sul serio che ciò di cui va alla ricerca l'uomo 128 contemporaneo non è solo una risposta pragmatica alle proprie paure, ma una risposta sapienziale alla propria angoscia: una risposta che può anche non possedere alcun carattere operativo, ma che deve assolutamente avere un carattere rivelativo. Rivelativo di che cosa? Del fatto che quando giunge alla consapevolezza della propria finitudine (in termini esistenzialistici, di quel nulla che attraverso l'angoscia viene alla luce) l'uomo esprime il tutto di se stesso in una unica grande, indeterminata domanda di aiuto. Chi arriva a comprendere lo spessore di questa domanda e riesce a non confonderla con la banale esigenza dell'individuo di vedersi sollevato dalle proprie ansie, acquisisce ben presto la consapevolezza che di fronte a questa grande, indeterminata domanda di aiuto il pensiero scientifico, come già si è detto, è disarmato: il suo codice simbolico è, di necessità, oggettivante, e non lo pone in grado né di percepirla adeguatamente, né tanto meno di gestirla. Il nuovo codice simbolico che auspichiamo dovrà muoversi piuttosto in quell' ambito teoreticamente non ben definibile, ma psicologicamente ben percepibile che è il conforto: una sintesi di comprensione, solidarietà, prossimità, sollecitudine, cura, condivisione, sostegno, aiuto, amicizia disinteressata. Non so se il conforto possa aiutare chi soffre dello spaesamento indotto dall'angoscia a ritrovare un suo luogo. Ma immagino che questo sia il suo vero compito e che già l'assumerlo con consapevolezza equivalga al fornire un orientamento a chi si stesse muovendo senza mappa in un territorio assolutamente sconosciuto. 129 (1) Posso rinviare a FINNIS J., Natural law -­‐ positive law, in LOPEZ TRUJILLO A., HERRANZ J., SGRECCIA E. (a cura di), Evangelium Vitae e Diritto. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1997: pp. 199-­‐212. (2) Su questo problema sono già intervenuto diverse volte: mi permetto di rinviare ad alcuni miei scritti Medicina e Diritto: riflessioni filosofiche, in "Iustitia", 40, 1987, pp. 69-­‐71, Etica e diritto in bioetica, in Quando morire? Bioetica e diritto nel dibattito sull'eutanasia, a cura di VIAFORA C., Padova, Gregoriana, 1996, pp. 69-­‐86, La bioetica come problema giuridico: brevi analisi di carattere sistemico, in Le radici della bioetica, Atti del Congresso Internazionale, a cura di SGRECCIA, MELE, MIRANDA, Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 203-­‐211. Tutti questi scritti sono ora raccolti in D'AGOSTINO F., Bioetica, nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 19983. (3) Alludo alle richieste di liberalizzazione dell'aborto, della sterilizzazione, dell' eutanasia, della fecondazione assistita, del cambiamento di sesso, ma anche alle istanze per modificare opinioni consolidate in tema di eugenetica, per predeterminare il sesso dei nascituri o per non ostacolare le ricerche in tema di clonazione, nonché alla rivendicazione del risarcimento di una wrongful life, ecc. (4) Si apre qui una questione articolata e complessa, già avvertita da tempo dai più sottili sociologi del diritto. Cfr. ad es. CARBONNIER J., Flessibile diritto, tr.it., Milano, Giuffrè, 1997. (5) Cfr. le considerazioni di BUSNELLI F.D., nel capitolo Procreazione assistita del suo Bioetica e diritto privato.Frammenti di un dizionario, Torino, Giappichelli, 2001, pp. 181 ss. ed il mio contributo The Italian Experience of Legislation on artificial Fertilization, in Evangelium Vitae. Five Years of confrontation with the society. Proceedings of the Sixth asembly of the Pontifical Academy For Life, ed. By Vial Correa J. and Sgreccia E., Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2001, pp. 257-­‐261. (6) ) Sul carattere sadista della moderna rivendicazione della liberalizzazione dell'aborto, ha scritto uno studio esemplare LOMBARDI VALLAURI L., Abortismo libertario e sadismo, in "Jus", 1975 e anche in volume, Milano, Scotti Camuzzi Editore, 1976. Va ricordato che, con sincero rincrescimento di molti (tra cui chi scrive), il Lombardi sembra avere smarrito la lucidità teoretica che possedeva nella sua piena maturità. (7) Alcuni autori ritengono che tale arché si prolunghi nel presente e assuma concretizzazioni storico-­‐empiriche. Descrivendo quella che a suo avviso è una dimensione dello spirito indiano, Pannikar scrive: "L'uomo qui non è pura coscienza, né vive delle sue idee chiare e distinte; si direbbe che le sue reazioni e le sue decisioni non siano motivate da idee pragmatiche, né da convinzioni espresse, ma da istinti cosmici, se si vuole, da forze telluriche, da fattori ctonici, L'uomo per gli indù è una cosa tra le altre cose, è un essere di più nella creazione e forma un tutt'uno con l'universo...non è soltanto la sua ragione, e neppure il suo interesse, ciò che lo guida o che lo rende uomo, ma è uomo con tutto il suo essere e accetta il dono della sua semplice vita e della sua totale e indivisa esistenza. Non ha raggiunto una prospettiva di fronte alla natura, né si crede re del creato, con signoria di servizio divino. Perciò non è neppure spettatore della natura, ma parte della natura stessa" (PANNIKAR R., La India. Gente, cultura y creencias, Madrid, Rialp, 1960, tr.it., L'India. Popolazione, cultura, credenze, Brescia, Morcelliana, 1964, pp. 104-­‐105). (8) Di cui può fornirci ottimo esempio il lavoro di NEUMANN E.,, Ursprungsgeschichte des Bewusstseins, Zürich, Rascher Verlag, 1949, tr.it. Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio, 1978. (9) Ho già lavorato in questa direzione nel mio libro, D'AGOSTINO F., Per un'archeologia del diritto, Milano, Giuffrè, 1979. 130 (10) Come è noto, questa è la straordinaria e densissima formula con la quale FREUD riassume le dinamiche di maturazione archeologica della soggettività (cfr. Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, in Gesammelte Werke, Frankfurt a.M., 1940-­‐1953, vol. XV, p. 86; tr.it. Introduzione allo studio della psicoanalisi, Roma, Astrolabio, 1948, p. 426). (11) Sulla dialettica dei due principi, o, se si preferisce, sulla antinomia tra diritto materno e diritto paterno, si deve sempre ripartire da BACHOFEN J.J., le cui opere principali, il Versuch über die Gräbersymbolik der Alten ed il Mutterrecht sono ormai disponibili in italiano (cfr. Il simbolismo funerario degli antichi, Napoli, Guida, 1989 e Il matriarcato, 2 voll., Torino, Einaudi, 1988). Su Bachofen, cfr. Uwe WESEL, Der Mythos von Matriarchat. Über Bachofens Mutterrecht und die Stellung von Frauen im fruehen Gesellschaften, Frankfurt a.M., 1999 e, nella letteratura italiana, CASCAVILLA M., Johann Jakob Bachofen: dalla parte del diritto femminile, in "Hermeneutica", 1989, pp. 163-­‐200. Essenziali in merito le considerazioni di MANCINI I., Filosofia della prassi, Brescia, Morcelliana, 1986, pp. 229-­‐280. (12) OVIDIO, Metamorfosi, 10, 321 e ss. e in part. 329 ss.: "L'umana inquietudine/emanò leggi malvage e ciò che la natura concede/lo negano invide leggi". (13) FOUCAULT M., Histoire de la folie à l'âge classique, Paris 1961, p. 296. Quali che siano stati gli specifici intendimenti teoretici foucaultiani (che qui poco interessano), c'è da rilevare che nelle sue osservazioni si dà quanto basterebbe per giustificare appieno quello che Hegel ebbe una volta a chiamare der ungeheuerste Unglaube an die Natur, la sfiducia più smisurata nella natura (Der Geist des Christentums und sein Schicksal, in HEGEL, Theorie Werkausgabe, vol. I, Frühe Schriften, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1971, p. 274). (14) Che è la prima cosa che l'uomo deve apprendere: das erste, was hier gelernt werden mu² , ist das Aufrechtstehen(HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, § 396, Zusatz). (15) DEMOCRITO, fr. 248 (Diels-­‐Kranz). (16) Ricordo per tutti le pagine di COTTA S., Diritto, persona, mondo umano, Torino 1989, in part. pp. 95 e ss. (17) Esemplari, ma veri e propri Holzwege, le sofferte considerazioni sull'aborto di Natalia GINZBURG: "Abortire è uccidere, ma si tratta di una uccisione che non può essere paragonata a nessun'altra...essendo questa una scelta diversa da ogni altra, non vi possono entrare le nostre abituali considerazioni di ordine morale; esse appaiono qui inservibili. Noi sappiamo bene che uccidere è male; ma qui, in presenza d 'una possibilità viva ma immersa nel buio,anche l'idea del bene e del male è immersa nel buio. In una simile scelta, la luce della ragione, la luce della logica, la luce abituale delle considerazioni morali non possono entrare; esse non porterebbero nessun soccorso, perché non ci sono risposte o chiarimenti logici quando tutto è immerso nel buio; è una scelta in cui stanno uno davanti all'altro l'individuo e il destino, al buio. Tale scelta non può dunque essere che individuale, privata e buia. Essa è, fra tutte le scelte umane, la più privata, la più anarchica, la più solitaria. E' una scelta che appartiene di diritto alla madre, e soltanto a lei; e questo non perché esista, in ogni circostanza della vita, un libero diritto di scelta; e non perché 'la pancia è mia e ne faccio quello che mi pare': penso che mai come in una simile scelta le persone sentono che niente gli appartiene, e meno che mai il loro proprio corpo: gli appartiene soltanto un'orribile facoltà di scegliere, per una forma senza né voce né occhi, la vita o il nulla. E' una facoltà pesante come il piombo, una libertà che si trascina dietro ferri e catene: perché chi sceglie deve scegliere per due, e l'altro è muto. Si tratta di lacerarsi in una parte di sé, ammazzare una parte di sé, strappare dalle proprie membra per sempre una precisa possibilità viva e ignota; è una scelta muta e buia come è muta l'intesa che intercorre sotterranea con quella forma nascosta; e il rapporto fra la madre e quella forma vivente, ignota e nascosta, è in verità il rapporto più chiuso e più incatenato e più nero che esista al mondo, è il meno libero fra tutti i rapporti e non riguarda nessuno. Una simile scelta, non riguarda nessuno e meno che mai la legge. E chiaro che 131 la legge non ha nessun diritto né di proibirla né di punirla..." (Aborto: la donna è sola, in "Corriere della Sera", 7.2.1975, col titolo Dell'aborto, ora in GINZBURG N., Non possiamo saperlo. Saggi 1973-­‐1990, a cura di SCARPA D., Torino, Einaudi, 2001, p. 28-­‐29). (18) Protreptico, 10b, tr.it. in ARISTOTELE, Opere, vol. XI, Costituzione degli Ateniesi e Frammenti, Roma-­‐Bari, Laterza, 1973, pp. 150 e ss. (19) Cfr. D'AGOSTINO, Zoé, bios, psyché: fondazione concettuale e conseguenze pratiche del discorso sulla vita, in Nuove Frontiere del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Bari, Dedalo, 2001, pp. 109-­‐118. (20) Per tutti cfr. BACHOFEN, Il matriarcato, cit., vol. I, pp. 316-­‐317: "Svincolandosi da ogni zavorra o mistura materiale, il diritto diventa amore". (21) MANCINI, Filosofia della prassi, cit. pp. 260 ss. (22) Buoni esempi di queste violenze (non solo) linguistiche per quel che concerne la fecondazione artificiale ce li fornisce PALMARO M., La fecondazione extra-­‐corporea tra diritto naturale e diritto positivo, in AA.VV., Fecondazione extra-­‐corporea: pro o contro l'uomo?, a cura di GARRONE G., Milano, Gribaudi, 2001, pp. 69 e ss. (23) Cfr. l'ampia e impressionante ricerca di BOSWELL J., The Kindness of Strangers, 1988, tr.it. L'abbandono dei bambini, Milano, Rizzoli, 1991. (24) Si vedano i dati riportati da KIMSMA G.K., La dolce morte e la misura della sofferenza, in "Janus", anno I, n° 1, 2001, pp. 80-­‐92. (25) Cfr. per tutti LORBER J., Paradoxes of gender, Yale University Press, 1994, tr.it., L'invenzione dei sessi, Milano, Il Saggiatore, 1995. (26) Cfr. AMATO S., Tendenze nichilistiche del diritto moderno: la sterilizzazione, in "Archivio Giuridico", 1/2000, pp. 7-­‐22. (27) Si tratta di pratiche di cui la pubblica opinione stenta a prendere coscienza e che in genere vengono occultate come fenomeni di moda, riconducibili a forme estreme di tatuaggio e di piercing. La realtà è ben diversa. Basti osservare la documentazione fotografica raccolta in un libro cult americano come Modern primitives, disponibile da qualche anno anche in italiano, con un titolo (a mio avviso intenzionalmente e riduttivamente) fuorviante: Tatuaggi, corpo, spirito, Milano, Apogeo, 1994. (28) Cfr. LEROY-­‐FORGEOT F.,/ MÉCARY C., Le couple omosexuelle et le droit, Paris, Odile Jacob, 2001. (29) LUHMANN N., Comunicazione ecologica, Milano: Franco Angeli, 1990. (30) Il tema al quale alludo, fatto per la prima volta emergere in modo esplicito da Kierkegaard, costituisce, come è noto, una delle ossature del pensiero heideggeriano. Ai nostri fini basti rimandare al classico Che cos'è la metsifica? Del 1929, ora in HEIDEGGER, M., Wegmarken, Frankfurt a.M., Klostermann, 1976, tr.it., Segnavia, Milano, Aldephi, 1987, in part. pp. 67-­‐68. (31) Cfr. GALZIGNA M., La sfida dell'altro. Per una critica dell'io unitario, in AA.VV., La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale, a cura di M.GALZIGNA, Venezia 1999, pp. 11-­‐26. 132 JOSEPH SEIFERT
IL DIRITTO ALLA VITA E LA QUADRUPLA RADICE DELLA DIGNITA' UMANA Siamo oggi testimoni di come gli attacchi contro il diritto alla vita e contro la dignità inviolabile di ogni essere umano vadano intensificandosi e diffondendosi in quasi tutto il mondo. Pratiche come l'aborto, l'eliminazione degli embrioni soprannumerari da fecondazione in vitro, l'utilizzo e l'uccisione di embrioni per la ricerca con le cellule staminali, l'eutanasia e molti altri atti contro la vita abbracciano il mondo intero, in forme aperte o nascoste, e costituiscono una vera guerra, terribilmente sanguinosa, contro la dignità dell'essere umano e il diritto alla vita. Ma anche a livello di idee si combatte questa guerra contro il diritto e la dignità di ogni vita umana. DIGNITA' UMANA, GIUSTO (IUSTUM) OGGETTIVO E DIRITTO (IUS) ALLA VITA I due termini dignità e diritto alla vita sono strettamente correlati, tuttavia si riferiscono a realtà molto differenti: la dignità è un valore-­‐proprietà inerente alla persona, non la legittima pretesa della vita in relazione ad altre persone; di conseguenza, la dignità della vita umana compete anche a Robinson Crusoe che vive solo su un'isola e la cui situazione impedisce che il suo potenziale diritto alla vita divenga un'effettiva questione dibattuta. La legge naturale, intesa come ciò che è obiettivamente giusto e appropriato alla dignità umana (iustum), si può anche intendere come una "legge" che indica l'appropriatezza di certi atti ai beni di cui sono oggetti. Iustum non è la dignità stessa della persona, ma una conseguenza dell'ambito degli atti diretti alle persone. Il diritto alla vita, invece, non indica il valore della vita in quanto tale, né l'oggettivo iustum, ma piuttosto una pretesa oggettiva di vita fondata sulla natura della vita e sul suo valore; per meglio dire, il diritto alla vita è un oggettivo titolo a possedere la vita, e non tanto, invece, il diritto a non essere privato della vita da parte di altri. Questa pretesa lecita deriva dalla dignità della vita umana, ma si distingue da essa. Inoltre, mentre la dignità appartiene alla vita umana anche di fronte a Dio, il diritto alla vita è una pretesa che vale solo in relazione ad altri esseri umani, ma non a Dio, che può legittimamente porre fine alle nostre vite sulla terra. Pertanto, il diritto alla vita presuppone non solo il valore della vita umana, ma anche i limiti della conoscenza, del potere e dell'autorità, i quali rendono ragione della mancanza di alcuni diritti metafisici nell'uomo e del fatto che l'uomo non è il signore della vita e della morte, né delle proprie o di quelle di altri esseri umani.(1) Il diritto alla vita, quindi, è uno speciale tipo di diritto, che non ci dà il potere di disporre della vita e tuttavia è inseparabile dall'obbligo di preservarla. Inoltre, mentre abbiamo un diritto alla vita in relazione agli altri esseri umani o a persone finite, non lo abbiamo in relazione a Dio. Di contro al diritto alla vita, la persona possiede la dignità, in senso assoluto, anche qualora siano assenti le situazioni nelle quali può valere la pretesa della vita. La differenza fra i due concetti è ancora più evidente considerando come la dignità infinta della persona non include un diritto divino alla vita. Questo perché ogni diritto alla vita presuppone, oltre alla dignità, anche la contingenza della vita nel soggetto di tale diritto, e la possibilità di minaccia per la vita stessa. Questi elementi non fanno parte in alcun modo della dignità; al contrario, la dignità di una persona è maggiore quando la persona non possiede il diritto alla vita o il bisogno di essa, come accade per la dignità degli angeli e di Dio. 133 Nonostante questa netta distinzione, il diritto fondamentale alla vita, violato ogni qualvolta una persona umana innocente è intenzionalmente uccisa da altri, è intimamente connesso con la dignità umana e trova in essa la sua condizione primaria. LE RADICI DELLA LOTTA CONTRO LA DIGNITA' DI OGNI ESSERE UMANO L'accesa lotta teoretica contro la dignità di ogni essere umano e contro il diritto alla vita ha assunto molte forme ed ha molte radici che intendo qui elencare, ma che non posso sottoporre ad una critica estesa. Spero tuttavia che le implicazioni insite in quanto segue possano ovviare al problema. L'attacco contro il diritto alla vita si radica in primo luogo nella negazione della distinzione essenziale fra uomo ed animale, a causa di una concezione evoluzionista della vita.(2) Spesso tale evoluzionismo ha le sue radici in un ateismo che nega il carattere della persona umana come creatura ad immagine di Dio, e perciò il fondamento metafisico e religioso della dignità umana. Una terza ragione per rifiutare la dignità umana risiede nella riduzione dell'essere personale a ciò che potremmo chiamare le sue performance personali, assenti negli embrioni e in molti altri esseri umani.(3) La posizione attualista e la riduzione della persona alla sua attività cosciente sono strettamente legate anche ad una quarta ragione possibile di negazione del diritto universale alla vita: l'introduzione di una distinzione fra essere umano e persona umana, concedendo però l'attributo di persona solo agli esseri umani coscienti capaci di agire come persone, e dunque negando l'attributo di persona ai neonati e alle persone in coma irreversibile che sono permanentemente incoscienti, come pure ai cosiddetti morti cerebrali. Tale distinzione fra esseri umani biologicamente definiti e persone umane è strettamente connessa all'attualismo, in quanto negazione di un soggetto personale sostanziale, o anima.(4) Altre negazioni dell'universalità della dignità umana e del diritto alla vita si basano sulla negazione della legge naturale e dei diritti umani fondamentali che si fondano sulla natura dell'essere e dei valori, accettando quali fonti del diritto solo le leggi positive implementate dai legislatori. Un'ulteriore teoria che si cela dietro la negazione della dignità umana è un generale scetticismo e relativismo dei valori che nega ogni valore indipendente dalle opinioni soggettive, ciò che Spaemann chiama "revoziebare Toleranzedikte" (editto di tolleranza revocabile).(5) Di contro a questo sintetico quadro di alcune fra i più frequenti motivi di negazione della dignità umana e del diritto alla vita, dobbiamo cercare di raggiungere una comprensione teoretica, così da dare una spiegazione, del valore unico della vita e della dignità umane quali fondamenti del diritto alla vita e di altri diritti umani essenziali. Iniziamo chiedendoci che cosa significhi "dignità" della vita umana, per procedere poi a discutere le sue quattro fonti. CHE COS'E' LA DIGNITA'? La dignità è l'eccellenza unica del valore In primo luogo, la dignità designa un valore oggettivo e intrinseco. Qualità della soddisfazione soggettiva, come l'oggetto dell'atto "A me piace il cioccolato" (che ad altri non piace), non possono mai rappresentare categorie appropriate alla dignità umana. Se qualcuno volesse applicare una tale espressione alla dignità umana e, mentre tortura un bambino o violenta una donna, reagisse al nostro sdegno dicendo : "A te questo non piace ma a me sì; non ti immischiare 134 nelle mie preferenze soggettive", vedremmo immediatamente l'errore categoriale insito in tale affermazione: il valore chiamatodignità costituisce l'intrinseca preziosità e bontà di un essere, che non dipendono in alcun modo dal nostro gradimento. Se fosse solo una questione di preferenza soggettiva, non si tratterebbe neppure di dignità. Al contrario, "dignità" non solo indica il valore oggettivo intrinseco di una persona, ma anche un valore molto alto, sublime. E nemmeno questo basta a descrivere tale valore; infatti, quando ci troviamo di fronte ad un'opera d'arte come l'Ultima Cena di Leonardo, di alto e sublime valore oggettivo, non le attribuiamo la dignità in senso proprio, perché un'opera d'arte manca del grado di realtà necessario ad un essere per possedere in senso proprio l'attributo della dignità. Il termine "dignità", dunque, non designa tutti i valori sublimi ma solo (ed è il terzo significato) il valore di un essere realmente esistente, come la persona. Il termine "dignità" è stato di recente applicato dalla legislazione svizzera(6) a tutte le creature, inclusi animali e piante, e perfino alle cose inanimate(7). Sebbene ciò abbia qualche giustificazione, in quanto ogni essere realmente esistente in natura ha qualche valore speciale, come il termine "Würde der Kreatur" esprime, tuttavia le entità non-­‐personali non posseggono dignità in senso proprio. In quarto luogo, poi, il termine designa un valore unico di cui non solo è dotata ogni persona avente un'intrinseca e oggettiva preziosità -­‐ poiché questo si può dire anche degli animali e di tutti gli esseri viventi, come pure delle cose materiali -­‐ ma che eleva le persone ad un livello di valore incommensurabilmente più alto, non paragonabile assiologicamente a nessun altro valore che non merita il nobile titolo di dignità. La dignità è inseparabile dall'essere persona l'essere persona è inseparabile dalla dignità Dignità significa quindi un'eccellenza di valore che è così strettamente connessa alla natura della persona che non si può comprendere senza cogliere l'essenza della persona nella cui natura essa si radica. Quando consideriamo la persona come un soggetto di natura razionale individuale, unico e irripetibile, cogliamo la dignità che fondata in esso. Di qui la definizione di persona di Alessandro di Hales secondo tale dignità(8): "la persona è una sostanza che si distingue per una proprietà afferente alla dignità". L'essenza e l'esistenza reale delle persone danno origine ad una dignità ontologica che capiamo appartenere ad un soggetto dotato di una natura tale da renderlo capace in linea di principio di comprensione, di atti liberi, di coscienza morale, di atti religiosi, ecc.; in una parola, ad una persona. E a sua volta questo valore, la dignità, sebbene scaturisca dalle caratteristiche essenziali di una persona, appartiene così intimamente all'essenza personale che è proprio esso a distinguere le persone dagli altri esseri, e per questo viene correttamente incluso nella definizione assiologia di persona che citato. Il carattere inalienabile della dignità La "dignità" è anche chiamata "inalienabile". Questo termine non si applica in realtà a tutte le forme e le dimensioni della dignità, come vedremo, ma si applica al valore ontologico della persona in quanto tale, che è radicata intelligibilmente nell'essere e nell'essenza della persona.(9) Il carattere "inviolabile", la " sacralità" della dignità e la sua natura non negoziabile: la dignità come oggetto di rispetto morale e giuridico incondizionato (assoluto) e come "intrinsece malum".(10) "Dignità" non significa soltanto eccellenza di valore in quanto tale, ma è portatrice di una relazione intrinseca con il fatto di essere l'oggetto della moralità e degli imperativi morali. Anzi: con il fatto di essere l'oggetto di un tipo particolare di imperativi morali "assoluti" e 135 incondizionati(x). Non significa solo un alto e nobile valore, come quello di un animale, che deve essere rispettato ma che consente in determinate circostanze di macellarlo o ucciderlo, di usarlo come cibo o per scopi estetici. La natura inviolabile della dignità personale proibisce qualunque atto del genere. Si può anche chiamarla la "sacralità" di tale valore, che già ai Romani fece dire "homo homini res sacra est" (l'uomo è cosa sacra per l'altro uomo).(11) Questa sacralità comprende anche il corpo umano e la sfera sessuale, così intimamente legate alla persona umana spirituale. La dignità è pertanto un caso particolare di valore moralmente rilevante, la cui violazione costituisce non solo un atto immorale ma uno speciale oltraggio morale. Inoltre, "la dignità" indica un valore morale così rilevante che è in grado di fondare un intrinsece malum (male intrinseco). Le azioni essenzialmente e gravemente dirette contro tale dignità sono nello stesso tempo contro la moralità, cioè sono essenzialmente ed intrinsecamente dei mali, e non possono divenire buone o permesse a certe condizioni o se praticate con buoni propositi.(12) La dignità indica un aspetto "sacrosanto" della persona, che rende inviolabile il suo valore, proibendo di agire contro tale dignità, per qualunque ragione. Kant dice che la dignità è un valore che non ha equivalenti ("an dessen Stelle" nicht "etwas anderes als Äquivalent gesetzt werden" kann), ossia che ha un carattere assoluto, che non ammette alcuna negoziazione o offesa, nella convinzione che in un bilancio dei beni in gioco l'offesa sia compensata da altri beni. Un essere che possiede dignità, poi, non si può violare per ragioni pragmatiche, nemmeno per un bene -­‐ parlando in termini quantitativi -­‐ maggiore. Kant prosegue dicendo che la dignità della persona eccelle su qualunque cosa che abbia un prezzo, configurandosi come il valore insostituibile di un essere, che non può subire negoziazioni (das "uber allen Preis erhaben ist, mithin kein Äquivalent verstattet").(13) Dunque all'uomo è dovuto il rispetto (Achtung) in modo assoluto, un rispetto che vieta di usare un essere umano come semplice mezzo.(14) Ogni forma puramente teleologica e consequenzialista di fondazione della norma morale fallisce nel riconoscere questo aspetto della dignità e perciò va rifiutata.(15) Il fatto che la dignità sia inviolabile non vuol dire ovviamente che non può essere violato ciò che la possiede, ma che una persona dotata di dignità non andrebbe mai violata quanto a ciò che costituisce questa dignità. La dignità è "ciò di cui non si può pensare il più grande" Le peculiari assolutezza e inviolabilità morali della dignità della vita e della persona umane sono sempre state viste sia come conseguenze che come ragioni del fatto che l'uomo è somigliante in modo affatto speciale all'id quo maius nihil cogitari posse (ciò di cui non si può pensare il più grande), per il suo carattere di immagine di Dio.(16) Ciò perché la più grande, la suprema dignità appartiene precisamente a quell'essere che è pura e infinita perfezione, a Dio come solo essere assolutamente perfetto, più grande del quale nulla può essere immaginato.(17) San Tommaso fa riferimento a questa relazione con l'assoluta perfezione divina nella sua spiegazione della definizione di persona nei termini della dignità umana: "Rispondo che persona sta ad indicare ciò che è più perfetto in tutta la natura, cioè un essere individuale sussistente di natura razionale. Così, poiché tutto ciò che è perfetto va attribuito a Dio, dal momento che la Sua essenza contiene ogni perfezione, questo nome, "persona", si applica convenientemente a Dio; ma non nel modo in cui si applica alle creature, bensì in un modo più eccellente, come accade anche con altri nomi che, mentre li diamo alle creature, li attribuiamo a Dio. Lo abbiamo mostrato parlando dei nomi di Dio (Q. 13, a. 2).(18) Sebbene il nome "persona" possa non appartenere a Dio quanto alla sua origine, appartiene a Dio in modo eccellente nel suo significato oggettivo. Anche agli uomini famosi rappresentati nelle 136 commedie o nelle tragedie venne dato il nome di "persona" per indicare che avevano grande dignità. Ugualmente, coloro che ricoprivano alti ranghi nella Chiesa furono chiamati "persone". Di qui il fatto che alcuni abbiano dato una definizione di persona come "ipostasi distinta a causa della dignità". E dato che la sussistenza in una natura razionale è di grande dignità, ogni individuo di natura razionale è chiamato "persona". Ora, la dignità della natura divina eccelle su ogni altra dignità, e quindi il nome "persona" appartiene in modo sommamente eminente a Dio.(19) LE QUATTRO RADICI E FONTI DELLA DIGNITA' UMANA Ciò che l'uomo è in quanto persona (e non ciò che possiede solo accidentalmente), cioè l'essenza, l'essere e la sostanza, come fonti della dignità umana. La prima fonte della dignità umana appare chiaramente considerando come nessuna esperienza o atto cosciente dell'uomo possano esistere per se stessi, ma necessitano di un soggetto. Tale soggetto deve sussistere in sé nell'essere. Le funzioni, le qualità delle cose, non possono in alcun modo essere persone. È evidente che una proprietà di qualcosa, o una funzione mentale o sociale, non possono essere soggetti di esperienze coscienti, e pertanto non possono essere persone. Le esperienze e gli atti umani appartengono sempre ad un soggetto che è di più di queste esperienze ed è irriducibile ad esse; non solo, le attua, le vive, le fa o le causa in altri modi. Tale soggetto, inoltre, che sussiste in sé ed è soggetto di atti razionali, non può essere un qualunque soggetto, come un cervello composto di milioni di cellule, ma deve essere un soggetto semplice e spirituale. E questo soggetto è una persona solo se possiede una natura razionale.(20) Coloro che cercano di restringere la dignità umana ai membri sani di mente, in salute e intelligenti della specie umana negano che le fonti della dignità siano proprio l'esistenza e la natura sostanziale della persona umana. Gli autori che negano la dignità della persona di tutti e di ciascun singolo uomo, restringendola ad alcuni esemplari del genere umano, cercano di attribuire la dignità dell'uomo a tratti accidentali, affrancandola dall'essenza. Tuttavia, vediamo chiaramente che l'essere personale, e dunque anche la dignità della persona in quanto persona, non risiedono unicamente negli atti e negli accidenti, ma nell'essenza e nella natura sostanziale, e dunque sono dati con l'esistenza stessa. L'essere persona, non importa se sana o malata, se maschio o femmina, se vecchia o giovane, se cosciente o in coma, è la prima base della dignità umana, dal momento che la libertà, la consapevolezza e la conoscenza, come pure il carattere diio e di sé che appartengono all'essenza della persona, richiedono chiaramente un soggetto, che vive e sussiste in sé nell'essere, e non dipende da questi atti né inerisce ad un'altra cosa come suo accidente. Inoltre, l'essere personale, che è la fonte primaria della dignità umana, richiede sia l'essenza razionale e intellettuale che l'esistenza concreta e individuale del soggetto che chiamiamo persona. Le persone non sono mai essenze astratte, ma sempre individui esistenti e incomunicabili. Ciò fu riconosciuto chiaramente da Riccardo di San Vittore, che ebbe a dire che la persona è "l'incomunicabile esistenza di una natura razionale" (persona est intellectualis naturae incommunicabilis existentia), e che "esiste per sé soltanto secondo una modalità singolare di esistenza razionale" (existens per se solum juxta singularem quendam rationalis existentiae modum).(21) Dunque, l'essenza di una natura razionale, così come l'esistenza e la vita reali di un insostituibile individuo insostituibile di tale natura, si compenetrano nell'origine della dignità personale.(22) Un essere umano possiede una dignità inalienabile non solo "quando funziona come persona", ma la possiede in virtù del suo "essere persona".(23) 137 In termini aristotelici, è l'essere sostanziale dell'uomo e le sue potenze che fondano questa dignità, non solo le sue attualizzazioni.(24) Anche quando un uomo dorme possiede la dignità; anche quando cade in uno stato di incoscienza o di coma possiede la dignità; anche l'embrione che non può ancora usare l'intelletto ma lo possiede come condizione di possibilità per usarlo poi è dotato della dignità personale. Possiamo chiamarla quindi la "dignità puramente ontologica delle persone". LA SECONDA FONTE DELLA DIGNITA' UMANA: COSCIENZA E ATTUAZIONE DELLA PERSONALITA'. Blaise Pascal dice che "tutta la nostra dignità consiste nel pensiero".(25) Queste belle parole indicano che solo nella vita cosciente e razionale la persona realizza il suo essere in quanto persona. La persona in stato di incoscienza è come se dormisse, quindi possiede solo in potenza l'essere consapevole della persona. Si potrebbe quasi dire che nella persona l'essere puramente ontologico inconsapevole e lo stato di consapevolezza sono in relazione tra loro come la potenza e l'atto. La vita razionale cosciente è l'atto dell'esistenza personale. Ma se tutta la dignità della persona consistesse nel pensiero, si dovrebbe negare la dignità del concepito e dell'incosciente che non è in grado di pensare. Così, se Pascal avesse ragione, dovremmo chiederci: la dignità umana si radica veramente in tutti i membri della specie umana o dobbiamo ricadere invece in ciò che Singer chiama "specismo"?(26) Singer parla della sua "proposta di rifiutare la santità della vita umana"(27), pensando, apparentemente come Pascal, che il valore degli esseri umani possa risiedere solamente nella loro capacità attuale di pensare, di volere, ecc. Arriva a difendere l'idea che i ritardati e i bambini disabili in genere sono meno dotati di dignità dei maiali o degli scimpanzé(28). Pertanto, il diritto alla vita andrebbe ristretto solo ad alcuni esseri umani. Ma allora, se davvero tutta la dignità dell'uomo consistesse nel pensiero e negli atti liberi e consapevoli, potrebbe davvero essere permesso l'aborto? Mentre rifiutiamo totalmente, per le ragioni esposte, la negazione singeriana del primo e più fondamentale livello della dignità umana, non neghiamo che la coscienza attuale dia origine ad una seconda nuova dimensione della dignità personale. Questa seconda fonte della dignità della persona umana consiste nell'attuazione consapevole della persona, nella coscienza personale risvegliata che costituisce in un certo senso l'atto dell'essere personale. Questo tratto può essere assente o ridotto in persone gravemente ritardate o in esseri umani in stato vegetativo permanente, o in stato di incoscienza.(29) Anche nell'essere coscientemente risvegliato della persona umana troviamo invero la radice di una nuova dimensione della dignità, che si esprime nell'acquisizione di quei diritti umani che non sono -­‐ come è invece il diritto alla vita -­‐ fondati sull'essere stesso della persona, sul suo carattere sostanziale, ma sui differenti gradi di consapevolezza e di maturità. Ad esempio, il diritto umano alla libertà di parola e di movimento, o all'istruzione, non possono essere attribuiti ad un bambino piccolo, così come il diritto umano al matrimonio, o all'educazione dei figli, ecc. Questi diritti, che si trovano solo in una persona che vive consapevolmente e coscientemente ad un certo livello di maturità, non sono come il diritto a non essere sottoposti ad assassinio, a mutilazioni, a trattamento indegno, ecc, che si radicano nella prima fonte della dignità umana, cioè la persona umana vivente in quanto tale.(30) Questa seconda fonte della dignità umana e dei diritti umani può infatti andare perduta nella cosiddetta morte cerebrale, nel coma irreversibile, ecc.(31) Dunque, questa seconda dimensione della dignità della persona umana, con i diritti che in essa si radicano, non sono inalienabili come la dignità e i diritti che si fondano semplicemente sulla sostanza, sull'esistenza e sull'essenza della persona, in primo luogo sulla dignità umana. Tuttavia, anche questa seconda dimensione 138 della dignità personale è inalienabile, fintantoché la persona ha una vita cosciente. Non dipende da valori qualitativi, se si esclude il senso debole spiegato sopra: l'uomo cattivo la possiede al pari del buono. Possiamo chiamarla dignità della personalità risvegliata o dignità della consapevolezza razionale attuale. Su questa seconda fonte della dignità personale, troviamo oggi nella medicina e nella società una paradossale commistione di sovrastima e sottostima. La dignità è fortemente sottovalutata allorché, nella somministrazione di sedativi ad un malato terminale o in altri atti diretti contro la vita cosciente delle persone, si mettono semplicemente le persone a dormire come se si trattasse di animali, così da non lasciarli vivere e morire nello stato di veglia e attraverso atti personali coscienti. Solo allora la loro dignità ontologica sarebbe rispettata, ma anche in questo caso si trascura il fatto che essa non è affatto separata dalla seconda sorgente della dignità, che costituisce piuttosto la sua attuazione: tutte le specifiche caratteristiche umane della mente e della libera volontà, dei sentimenti e della felicità si possono realizzare unicamente attraverso la vita cosciente della persona. Perciò, la medicina non dovrebbe mai privare a lungo la persona della coscienza senza gravi motivi. Non si deve mai dimenticare che la gravità di mali come il cadere in uno stato di permanente incoscienza o l'essere privati della possibilità di vivere pienamente la vita personale cosciente a causa di un grave ritardo mentale è dovuta precisamente alla grande dignità che attiene alla vita razionale cosciente, alla conoscenza degli atti liberi, ai sentimenti dell'amore e della felicità. La seconda fonte della dignità è assolutamente sopravvalutata, tuttavia, quando a persone senza o con pochissima consapevolezza razionale viene negata la qualità di vita necessaria per proteggere le loro vite dall'aborto o dall'eutanasia, e quando la dignità della vita umana è considerata dipendente unicamente dalla coscienza personale. Ma quel che più conta è che la seconda fonte della dignità della persona, per quanto sublime, non può mai sostituire il primo e più fondamentale livello (e fonte) della dignità personale, che resta la base del diritto alla vita e della dignità, le quali ci proibiscono di uccidere un essere umano innocente. In realtà, la seconda dimensione della dignità, in quanto dignità della coscienza attuale della persona e in quanto condizione di tutti gli atti personali, è in un certo senso più alta e più evidente dell'altra (che apparterrebbe anche ad un essere umano che fosse incosciente per tutto il corso della sua vita), mentre la prima dignità personale, quella puramente ontologica, resta il fondamento di ogni dignità umana e diritto alla vita. Ciononostante, la prima dignità ontologica è tanto profondamente ordinata a trovare nella seconda la sua realizzazione che l'idea di una persona eternamente inconsapevole sembra quasi una contraddizione in termini. Eppure, per quanto le prime due dimensioni della dignità personale siano elevate e cruciali per il diritto alla vita e per altri basilari diritti umani, non sono affatto le sorgenti e le dimensioni più elevate e più importanti della dignità personale. Non dobbiamo scordarlo mai: perfino il diavolo o una persona umana demoniaca possiede le prime due dimensioni e fonti della dignità. LA TERZA FONTE E UN NUOVO SENSO DI DIGNITA' PERSONALE QUALITATIVA: LA REALIZZAZIONE DELLA VOCAZIONE PERSONALE ALLA TRASCENDENZA E ALLA DIGNITA' MORALE In terzo luogo, c'è una dignità umana che risulta solo dalle buone attualizzazioni della persona attraverso la conoscenza della verità, e soprattutto attraverso le perfezioni morali della giustizia, dell'amore per la verità, della gentilezza, ecc. Questa realizzazione auto-­‐trascendente della persona comprende anche la relazione ad un "tu", ad un altro, e ultimamente il dono di sé nell'amore e nella formazione della communio personarum.(32) La semplice attualizzazione della 139 personalità non basta a fondare questo livello qualitativo e prevalentemente morale della dignità umana, che è anche all'origine di nuovi diritti umani. Infatti, senza il raggiungimento di un livello minimo di dignità morale nel comportamento, diventa legittima la privazione della facoltà di esercitare certi diritti umani, basati sull'esistenza cosciente della persona, ad esempio il diritto alla libertà di movimento. È questo ciò a cui prima alludevamo: un livello minimo di dignità, nel terzo senso, è condizione della pienezza di possesso dei diritti radicati nel secondo livello della dignità umana. Per questa ragione il criminale può essere privato di diritti tanto elementari come il diritto alla libertà di movimento, il diritto al matrimonio, all'educazione dei figli, e così via, ma non potrà mai essere privato di altri diritti umani, che sono interamente e unicamente radicati nel secondo livello della dignità personale: ad esempio ad un giusto processo, a difendersi davanti alla corte, alla libertà di coscienza e di religione. Alcuni diritti umani radicati nella coscienza delle persone viventi, pertanto, sono assolutamente inalienabili per tutta la loro vita, qualunque crimine abbiano commesso. Altri, che si radicano nel secondo livello, si possono perdere, quando se ne è gravemente abusato e la giusta punizione lo richiede.(33) Ora, questa terza dimensione della dignità, come pure la quarta, si può comprendere soltanto nei termini dalla trascendenza personale. Abbiamo altrove(34) insistito sulla concezione sbagliata di uomo insita nell'ingegnosa definizione aristotelica dell'animale vivente come entelechia. Per quanto acuta possa essere tale descrizione relativamente alla piante e agli animali, così come per molte dimensioni della vita e dell'anima umana, essa risulta completamente fuorviante quando viene usata per descrivere l'essenza dell'uomo in quanto persona. Infatti, poiché la vita dell'uomo è vita personale e mentale, è governata in ogni suo aspetto, in senso vocazionale, da un principio di trascendenza, inteso in vari sensi: nella conoscenza troviamo una trascendenza ricettiva, grazie a cui l'essere e l'essenza delle cose si dischiudono alla mente; troviamo cioè un prolungamento della vita mentale al di là della sua attualità immanente, un'apertura del soggetto a ciò che va oltre la vita stessa, una partecipazione al cosa e al come le cose stesse sono. Nella conoscenza assolutamente certa questa trascendenza, così come la scoperta delle cose stesse e delle cose in se stesse dal momento che esistono indipendentemente dalla consapevolezza dell'uomo, diviene indubitabile.(35) Nell'amore e negli atti morali ci si trascende in tutt'altro senso, e cioè attraverso l'uso corretto della libertà, nella libera accoglienza e conoscenza dell'essere e del valore dell'altro per le sue intrinseche preziosità, dignità e importanza(36). L'atteggiamento di rispondenza al valore dell'essere per il suo valore intrinseco culmina nell'essenza dell'atto religioso, il cui nucleo centrale, come Max Scheler ha mostrato nella sua originalissima filosofia della religione, è l'adorazione, cioè un'affermazione totalmente trascendente dell'assoluta Bontà.(37) Riguardo al livello della dignità morale della persona, Gabriel Marcel ebbe giustamente a dire che si tratta di una conquista e non di un possesso.(38) La totale novità di questa dimensione e fonte della dignità personale emerge con chiarezza -­‐ nella sua irriducibilità alle prime due sorgenti della dignità -­‐ quando consideriamo come essa dipenda dal buon uso dell'intelletto e della libertà. Questa dignità non è inalienabile, né ci appartiene automaticamente in quanto persone. È piuttosto il frutto degli atti morali buoni e perciò si distingue radicalmente dal primo tipo di dignità. Ha inoltre una qualità distintiva e unica che, come nota giustamente Kant, culmina nella santità. Questa dignità differisce dalla dignità puramente ontologica della persona, in quanto si dà anche l'opposto: si pone infatti in radicale contrasto con l'indegnità morale e la malvagità, con la malizia di un Hitler che con le sue azioni perde ogni dignità morale. La cattiveria, quindi, può far perdere temporaneamente o permanentemente ad una persona tale dignità. 140 Inoltre, in virtù di questa terza fonte della dignità umana si deve alla persona un tipo totalmente nuovo di stima, una stima intesa in un senso assai più letterale e profondo di quello che rappresenta l'appropriata reazione di rispetto dovuta ad ogni essere portatore di una fisionomia umana. Tale reazione appropriata al terzo tipo di dignità personale porta dalla stima alla venerazione e, se questa dignità è infinita, all'adorazione. Rispetto al primo tipo, corrisponde ad un senso completamente nuovo alla sacralità e alla santità. Rispetto al secondo livello della dignità personale, il terzo può avere numerosi gradi. È meno fondativo dei primi due, ma di valore più sublime, in quanto costituisce l'unum necessarium: si tratta di quel valore che decide il destino eterno dell'uomo, quel valore che rende ragione della distinzione fra bene e male, fra perdere l'anima e salvarla. Senza di esso la prima e la seconda dimensione della dignità, che possiedono anche demoni, non servono a nulla per l'anima umana. Da questo punto di vista puramente assiologico, la terza dimensione della dignità personale è la più importante ed è garantita dalla dignità ontologica della persona. Un grado minimo di essa va presupposto anche per diritti come la libertà di movimento, che un criminale può conseguentemente perdere. Vi sono altri diritti umani, come il diritto ad una buona reputazione morale e alla tutela del proprio onore di fronte alla società, che hanno le loro radici in questa dignità e che non possono essere rivendicati dove questa dignità in senso morale è stata persa in parte o del tutto. LA DIGNITA' COME DONO UNA QUARTA FONTE DI DIGNITA' UMANA: LE RELAZIONI ESTRINSECHE E I DONI INDIVIDUALI DI VARIO GENERE Una quarta fonte del valore di una personalità, ma anche della dignità stessa della persona nel suo proprio essere, non dipende dalla persona, né dal suo essere personale sostanziale né dalla coscienza, e neanche dal buon uso dell'intelligenza e della libertà. Questa dimensione della dignità personale, invece, procede dai quei doni che superano ciò che si situa unicamente nella persona, nei suoi atti morali o intellettivi; essa non è posseduta né da ogni persona né allo stesso grado da tutti coloro che hanno la dignità derivata dalle altre fonti.(39) Fra le persona umane, esistono su questa dimensione della dignità, di contro alle prime due, molte differenze e nessuna uguaglianza. Tuttavia, l'ineguaglianza fra gli uomini rispetto alla dignità in generale non è del tutto vera. In opposizione ai pareri contrari di Marcel e di Scheler, a livello della prima fonte della dignità umana -­‐ posseduta in virtù del carattere sostanziale della persona umana -­‐ dobbiamo sostenere un'uguaglianza universale di tutti gli uomini, poiché questa dignità non richiede altre condizioni che la natura umana, e non ammette gradi. Siamo obbligati dunque ad opporci ad ogni tentativo di negare questo livello di uguale dignità umana come fondamento del diritto alla vita. Pertanto, occorre distinguere l'essere ugualmente persona proprio di tutti gli uomini, che possiedono gli stessi diritti fondamentali e sono uguali a tutti gli altri, da altri aspetti per i quali semplicemente non è vero che tutti gli uomini sono uguali.(40) I doni che conferiscono a tutti o ad alcuni particolare dignità possono essere doni naturali immanenti alla persona, come la bellezza, l'intelligenza, la genialità, il fascino, la forza di carattere, ecc. Questi ultimi doni costituiscono la dignità particolare del genio, dell'artista, ecc. Anche i ruoli e le funzioni sociali possono dare alla persona ulteriori dimensioni di dignità, che generano nuovi diritti umani: ad esempio il conferimento della carica di giudice ad un uomo o ad una donna da parte della società dà origine ad una nuova dignità e ad un nuovo diritto umano: il diritto dell'indipendenza del giudice. Allo stesso modo, incarichi di autorità come quello del poliziotto, dell'uomo di stato, del re, ecc. danno ai loro portatori nuovi tipi di dignità e nuovi diritti. 141 I doni da cui deriva questa ulteriore dignità possono essere anche doni ricevuti attraverso la relazione con altre persone, come l'"addomesticamento" della volpe ne Il Piccolo Principe. La nozione di "être apprivoise" di St. Exupery nel Piccolo Principe si riferisce all'unicità che una rosa o un animale ricevono per il fatto di essere amati da persone. Questo vale simbolicamente per analoghe virtù di unicità che gli esseri umani ricevono quando sono oggetto d'amore per altre persone. Naturalmente, l'unicità personale già precede e motiva l'amore umano, ma da questo essere amati proviene una nuova dimensione dell'unicità. A questa fonte della dignità appartengono tanto il valore dell'individuo per il fatto di essere oggetto di amore interpersonale o il valore di una persona in quanto membro della comunità, quanto l'accettazione sociale di un bambino da parte dei genitori o della società. La dignità umana che procede dai doni che superano la natura razionale immanente delle persone può anche riferirsi ad una dimensione religioso-­‐teologica e contemporaneamente ontologica di questi doni, cioè alla più alta fonte di tale dignità: la dignità della persona amata e redenta da Dio, dotata della grazie santificante, ecc. Il "fondamento esistenzialista" della dignità umana di Gabriel Marcel si riferisce anche a questa quarta fonte della dignità. Marcel vede la dignità umana e la fratellanza fondate sul dono condiviso della paternità (di Dio, n.d.t.), che anche i non credenti, ma difensori della dignità umana, possono inconsapevolmente accettare, dimostrando una fede più profonda delle loro effettive credenze e opinioni ateistiche. Marcel pensa che solo un simile riferimento al padre comune renda intelligibile il senso di fratellanza avvertito anche da tanti atei nei confronti degli altri uomini, percepito da Marcel come una tensione verso l'uguaglianza. Pertanto, sia la fratellanza che la fondamentale dignità umana presuppongono la relazione di colui che è dotato di dignità umana con un Tu.(41) Questa nozione di dignità della persona, nei suoi aspetti specificamente religiosi in quanto basati sulla rivelazione, supera la capacità della conoscenza filosofica, e tuttavia possiamo vedere attraverso la filosofia della religione che questa più profonda fonte religiosa della dignità personale è possibile e, se esiste, rappresenta un tipo completamente diverso di dignità rispetto alla dignità che semplicemente procede in modo immanente dalla natura della persona: è di questo tipo la dignità personale nell'ordine della grazia, la presenza e l'amore di Dio attraverso la grazia nell'anima. Inoltre, la dimensione religiosa di doni come la redenzione e il rinnovamento della natura,(42) se davvero esiste come ammettono i credenti, costituisce una dimensione totalmente diversa della dignità umana derivata dai doni, rispetto alla quale la dignità derivata dall'accettazione interpersonale da parte della società svanisce del tutto.(43) Come la seconda e la terza, anche questa quarta fonte della dignità umana ha diverse forme e si può perdere, dal momento che -­‐ almeno per molti suoi aspetti -­‐ non è data a tutti o necessariamente.(44) Una delle ragioni principali della negazione del diritto alla vita nei confronti del concepito consiste nella riduzione della dignità dell'embrione a questo quarto livello di dignità umana, interpretata in modo completamente secolarizzato: solo il valore attribuito all'embrione dall'accettazione o dall'amore dei genitori e della società conferisce valore al figlio. Ciò tralascia non soltanto la dimensione più profonda di questa quarta fonte della dignità, ma anche il fatto che la quarta fonte della dignità presuppone la prima e si costruisce su di essa. Ciò vale anche per la dignità conferita divinamente, e tanto più per quella conferita umanamente.(45) Inoltre, credendo che solamente se i genitori accolgono e amano un embrione come loro figlio tale embrione meriti tutela giuridica, e che diversamente sarebbe consentito l'aborto, la ricerca con le cellule staminali, ecc., si identifica tutta la dignità umana con questa quarta fonte, nei suoi aspetti puramente interpersonali. Questo vuol dire scambiare radicalmente l'interezza della dignità umana con una piccola parte della sua quarta dimensione. Vuole dire inoltre fallire nel vedere che 142 il fondamento e la condizione di ogni forma di dignità risiede nella prima fonte, ossia nella dignità puramente ontologica. Così, tutte e quattro le dimensioni della dignità personale attingono alla prima inalienabile dimensione, che è la più importante per il diritto alla vita ed il valore della vita umana, violati negli atti umani diretti contro la vita. Nello stesso tempo, la suprema dignità della persona umana risiede nella perfezione della persona che a sua volta implica la forma più profonda, la raison d'être, della dignità umana, raggiungibile solo attraverso l'autotrascendimento e l'amorevole auto-­‐donazione, che culminano nell'amore di Dio e in una santità in cui cooperano la libertà e la grazia, e quindi la terza e la quarta dimensione della dignità personale. Privando il concepito o altri esseri umani della vita, li si priva anche della possibilità di realizzare questa dimensione più profonda della loro vocazione ad una dignità più alta di quella di semplici esseri che vivono come persone. 143 (i) Una simile interpretazione della vita umana può avere altre conseguenze, come il naturalismo relativistico. Si veda Josef Seifert, Philosophy and Science in the Context of Contemporary Culture. A Culture of Life Based on an Image of Man as Persona Versus an Anti-­‐Culture of Death Based on an Iimage of Man as a Product of Matter and Chance, in Pontifical Council for Culture, Proceedings of the Jubilee for Men and Women from the World of Learning. International Conference on Faith and Scinece; The Human Search for Truth. Philosophy -­‐ Science -­‐ Faith: he Outlook for the 3thMillennium, Roma, 23 Maggio 2000, i.c.p.; Idem, A Critical Review of the Theory of "Evolution", in ibid., conferenza inaugurale. (ii) Spesso, anche se non sempre, la seconda motivazione va di pari passo con la prima, come si vede in Peter Singer. Il programma esplicitamente evoluzionista di Singer a favore di una "desacralizzazione della vita umana" avvia, in forma abbastanza radicale, un movimento che nega ogni dignità essenziale alla persona umana e conseguentemente anche un diritto universale alla vita; ciò comporta l'idea che la vita umana meriti tutela giuridica solo a certi livelli di consapevolezza e di "qualità di vita", e che la vita di un maiale sano possa essere più degna di tutela giuridica rispetto a quella di un essere umano gravemente handicappato. Attribuire alla vita umana una vita e una dignità essenzialmente più elevate viene definito "specismo", cioè un infondato orgoglio di appartenenza alla specie umana. Si veda Peter Singer, Unsanctifying Human Life, in P. Singer, Ethical Issues Relating to Life and Death, Melbourne: editore?, 1979, pp. 41-­‐61; Idem, Muss dieses Kind am Leben bleiben?, Erlangen: Harald Fischer Verlag, 1993. Oltre a basarsi normalmente sull'evoluzionismo che nega la distinzione essenziale fra persone umane e animali, questa posizione si può basare anche sulla teoria deflazionista dell'uomo e sulla negazione della soggettività personale sottesa ad ogni stato cosciente e superiore ad essi. Tale negazione humiana di un sé sostanziale, come pure altre forme di attualismo che riconoscono l'essere personale soltanto in atto e non come soggetto spirituale sostanziale, sono altrettanto diffuse, pur senza essere fondate sulla teoria evoluzionista, che Hume peraltro non conosceva ancora. (iii) Su questo punto si veda Robert Spaemann, Personen. Verruche über den Unterschieden zwischen "etwas" und "jemand", Stuttgard: Klett-­‐Cotta, 1996; vedi anche J. Seifert, Is Brain Death actually Death?, "The Monist", 76, 1993, pp. 175-­‐202; e D. Alan Shewmon, Is Brain Death Actually Death? An autobiographical Conceptual Itinerari, "Aletheia", VII, 1997 (1995-­‐2001). (iv) Si veda R. Spaemann, Über den Begriff der Menschenwürde, in E.W. Böckenförde e R. Spaemann (eds.), Menschenrechte und Menschewürde. Historische Voraussetzungen -­‐ säkulare Gestalt -­‐ christliches Verständnis, Stuttgard: Klett.Cotta, 1987, pp. 295-­‐313, soprattutto p. 295. (v) Fortpflanzungsgesetz e altre leggi che regolano l'ingegneria genetica. (vi) La legge svizzera parla di "Würde der Kreatur", estendendo così il significato di dignità a tutti gli esseri viventi. (vii) Alessander Hal., Glossa, 1, 23, 9. (viii) Vedi anche J. Seifert, Sein und Wesen, Heidelberg: Universitätsverlag C. Winter, 1996; Idem, Essence and Existence. A New Foundation of Classical Metaphysics on the Basis of "Phenomenological Realism", "Aletheia", I, 1977, pp. 17-­‐157; Idem, Critical Investigation of "Existentialist Thomism", "Aletheia", I, 2, 1977, pp. 371-­‐459. (ix) È cioè moralmente rilevante. Sulla distinzione fondamentale fra moralmente rilevante e valori morali si veda D. von Hildebrand, Ethics, Chicago: Franciscan Herald Press, 1978II, capitolo 19. (x) Ovviamente, nelle fedi ebraica, cristiana e musulmana questa sacralità della dignità si spiega con il carattere di persona creata a "immagine di Dio", tuttavia -­‐ se ritorniamo per un attimo a Cicerone -­‐ la dignità della persona come fonte dei doveri morali era chiaramente compresa anche dai Romani. Cfr. Cicero, De legibus, I, vii,, 22: "animal hoc providum, sagax, multiplex, acutum, 144 memor, plenum rationis et consilii, quem vocamus hominem, preclare quidam condizione generatum esse a supremo deo; solum est enim ex tot animantium generibus atque naturis particeps rationis et cogitationis, cum cetera sint omnia expertia. quid est autem non dicam in nomine, sed in omni coelo atque terra ratione divini? Quae cum adolevit atque perfecta est, nominatur rite sapienta. Est igitur, quondam nihil est ratione melius nomine et in deo, prima homini cum deo societas...". La dignità non è soltanto un valore sublime, ma è anche diversa dal valore sublime che troviamo nell'arte, che non riesce ad obbligare la nostra coscienza morale. Invece, la dignità sta ad indicare una preziosità intrinseca della persona, così essenziale per la personalità e così imponente da emanare gli imperativi morali per rispettarla; di più: la dignità impone l'obbligo categorico di rispettare un essere che ne sia dotato -­‐ sia giuridicamente che moralmente -­‐ in un modo essenzialmente più alto e più assoluto rispetto a quegli esseri che pure possiedono un valore moralmente rilevante ma mancano di tale dignità, come gli animali. Certamente anche la crudeltà verso gli animali è moralmente sbagliata, ma non è paragonabile alla violazione delle persone, dotate di questo valore così nobile e moralmente imponente: la dignità. Quindi, quando nel 1993 un comitato svizzero per i diritti degli animali distribuì ripetutamente in Austria materiale contro il "maiale KZ" del principe del Liechtenstein, era davvero ridicola l'equazione implicita in questi volantini fra l'indubbio valore dei maiali e la dignità delle persone uccise ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento. (xi) L'enciclica Evangelium Vitae chiarisce bene questo punto: "l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita"" (n. 58). Nello stesso capitolo dell'enciclica si sostiene che nel caso "dell'aborto procurato... si riconosce che si tratta di un omicidio". Questo sarebbe falso se valesse l'insegnamento sull'infusione ritardata dell'anima. Ancora, il Papa cita il documento Donum Vitae, che esprime con chiarezza lo stesso concetto: "l'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto io diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita" (I, 1). Ma come si potrebbero "riconoscere diritti in quanto persona" se non si trattasse di una persona! L'Evangelium Vitae aggiunge: "la vita uman è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita" (n. 61). Giovanni Paolo II cita anche Pio XII, Giovanni XXIII e altri che pronunciarono affermazioni analoghe (cfr. ibid., n. 62). Anche la condanna di ogni forma di aborto dal momento del concepimento in avanti come intrinsece malum, in un passaggio di forma quasi dogmatica e in tal caso infallibile (cfr. ibidem), prova che la dottrina morale della Chiesa oggi (non al tempo di San Tommaso) richiede in maniera assoluta il riconoscimento dell'essere personale di ogni essere umano dal concepimento in poi. Leggiamo lo splendido testo in cui la bellezza gloriosa della posizione autentica del Magistero rifulge: "pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi ... dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisccec sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente" (n. 62). Se così non fosse, questa affermazione non potrebbe essere apodittica, e nemmeno il papa potrebbe asserire dogmaticamente in Evangelium Vitae che anche in caso di pericolo per la vita della madre (cioè per la vita di una persona) l'uccisione del feto è moralmente riprovevole (intrinsecamente e sempre sbagliata)! Questa posizione, come mostra la storia della Chiesa al tempo della teoria universalmente accettata del "feto non formato", mostra come non sia affatto evidente, se non addirittura contrario all'evidenza, non dare la precedenza alla persona nel caso in cui vi fosse un conflitto fra una vita personale e una vita non personale. (xii) I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, 434: "In Reiche der Zweke hat alles etweder einen Preis, oder Würde. Was einen Preis hat, an dessen Stelle kann auch etwas anderes als 145 Äquivalent gesetz werden; was dagegen über allen Preis erhaben ist, mithin kein Äquivalent verstatten, das hat eine Würde"; cfr. EBD., 436: "Diese Schätzung giebt also den Werth einer solchen Denkungsart als Würde zu erkennen und setzt sie über allen Preis unendlich weg, mit dem sie gar nicht in Anschlag und Vergleichung gebracht werden kann, o werden kann, ohne sich gleichsam an der Heiligkeit derselben zu vergreifen"; cfr anche Metaphysik der Sitten VI, 434: "Allein der Mensch, als Person betrachtet, d.i. als Subject einer moralisch-­‐praktischen Vernunft, ist über allen Preis erhaben; denn als ein solcher (homo noumenon) ist er nicht blos als Mittel zu anderer ihren, //VI435// ja selbst seinen eigenen Zwecken, sondern als Zweck an sich selbst zu schätzen, d.i. er besitzt eine Würde (einen absoluten innern Werth), wodurch er allen andern vernünftigen Weltwesen Achtung für ihn abnöthigt, sich mit jedem Anderen dieser Art messen und auf den Fuß der Gleichheit schätzen kann. Die Menschheit in seiner Person ist das Object der Achtung, die er von jedem anderen Menschen fordern kann; deren er aber auch sich nicht verlustig machen muß". (xiii) Si veda il suo famoso testo in Foundations B64/65: "But suppose there were something the existence of which had itself absolute worth, something which, as an end in itself, could be a ground of definite laws. In it and only in it could lie the ground of a possible categorical imperative, i.e., of a practical law. Now, I say, man and, in general, every rational being exists as an end in himself and not merely as a means to be arbitrarily used by this or that will...All objects of inclinations have only a conditional worth, for if the inclinations and the needs founded on them did not exist, their object would be without worth..."; E l'originale tedesco, I. Kant, Grundlegung zu einer Metaphysik der Sitten, BA 64, 65: "Gesetzt aber, es gäbe etwas, dessen Dasein an sich selbst einen absoluten Wert hat, was als Zweck an sich selbst, ein Grund bestimmter Gesetze sein könnte, so würde in ihm, und nur in ihm allein, der Grund eines möglichen kategorischen Imperativs, d.i. eines praktischen Gesetzes, liegen. Nun sage ich: der Mensch und überhaupt jedes vernünftige Wesen, existiert als Zweck an sich selbst, nicht bloß als Mittel...Alle Gegenstände der Neigungen haben nur einen bedingten Wert; denn wenn die Neigungen und darauf gegründeten Bedürfnisse nicht wären, so würde ihr Gegenstand ohne Wert sein"; cfr anche I. Kant, KpV 61, 62. (xiv) Ad esempio, la dignità della persona proibisce assolutamente lo stupro, anche nel caso in cui questa azione potesse salvare altre dieci donne da un analogo destino, poiché un simile attacco contro l'integrità della libertà e della sessualità è essenzialmente un attacco contro l'inviolabile dignità umana sia delle donne che dello stupratore, ed è perciò intrinsecamente sbagliato. Questa inviolabilità come inseparabile dalla dignità personale appartiene sia alla persona stessa che ai diritti che emanano dalla persona. Cfr. J. Seifert, Absolute Moral Obligations towards Finite Goods as Foundation of Intrinsically Right and Wrong Actions. A Critique of Consequentialist Teleological Ethics: Destruction of Ethics through Moral Theology?, "Anthropos", 1, 1985, pp. 57-­‐
94. (xv) Anselmo d'Aosta, Proslogion, 2-­‐3. (xvi) Su questo, si veda la profonda analisi dell'unicità della dignità divina in Rudolf Otto, Das Heilige. Über das Irrazionale in der Idee des Göttlichen una sein Verhältnis zum Rationalen, pp. 14 ss. e pp. 66 ss. Otto analizza momenti come il "tremendum", il "sanctum", l'"augustum", la maestà unica e altri misteriosi valori che competono esclusivamente a Dio e che costituiscono in modo archetipico e perfettisisimo la dignità personale. Inoltre, indaga la stretta correlazione intenzionale fra questi momenti del Santo e i corrispondenti momenti dell'atto religioso. Cfr. anche R. Otto, Wert, Würde und Recht, e Idem, Wertgesetz und Autonomie. (xvii) Thomas Aq., Summa Theologiae, I, Q. 29, a. 3, Rp. 1. (xviii) Ibid., I, Q. 29, a. 3, Ra. 2: "Ad secundum dicendum quod, quamvis hoc nomen persona non conveniat deo quantum ad id a quo impositum est nomen, tamen quantum ad id ad quod 146 significandum imponitur, maxime deo convenit. Quia enim in comoediis et tragoediis repraesentabantur aliqui homines famosi, impositum est hoc nomen persona ad significandum aliquos dignitatem habentes. Unde consueverunt dici personae in ecclesiis, quae habent aliquam dignitatem. Propter quod quidam definiunt personam, dicentes quod persona est hypostasis proprietate distincta ad dignitatem pertinente. Et quia magnae dignitatis est in rationali natura subsistere, ideo omne individuum rationalis naturae dicitur persona, ut dictum est. Sed dignitas divinae naturae excedit omnem dignitatem, et secundum hoc maxime competit deo nomen personae". Tommaso parla anche di "Distinctio supereminentis dignitatis" (Thomas Aq., In Sent., pp. 133, 136, 137, 228-­‐229). Cfr inoltre. Urs von Balthasar, Zum Begriff der Person, cit., p. 98. (xix) Cfr. J. Seifert, Leib und Seele. Ein Beitrag zur philosophischen Anthropologie, Salzburg: A. Pustet, 1973; e Idem, Das Leib-­‐Seele Problem und die gegenwärtige philosophische Diskussion. Eine kritisch-­‐systematische Analyse, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989II. Lo stesso soggetto della consapevolezza deve essere un'entità spirituale, dal momento che l'uomo può essere persona solo in virtù dell'anima razionale; infatti l'unità e la singolarità del soggetto di miliardi di esperienze è necessariamente un soggetto spirituale, non materiale. E in questo soggetto di natura razionale scopriamo la prima fonte della dignità personale. Boezio lo vide chiaramente quando disse: "Persona est rationabilis naturae individua substantia" (la persona è una sostanza individuale di natura razionale): Boethius, Contra Eutychen et Nestorium, cap. 3. (xx) Riccardo di San Vittore, Trin., 4, 22 e 4, 25. La realtà dell'esistenza individuale, e perfino dell'assoluta unicità e insostituibilità della persona come soggetto dotato di natura razionale, è condizione della dignità umana e di ogni dignità personale. (xxi) Potremmo qui aggiungere un elemento che è più facilmente accessibile da una prospettiva linguistica, sottolineata da Stephen Schwarz nel suo libro di notevole spessore sulla questione morale dell'aborto. Cfr. S. Schwarz, The Moral Question of Abortion, Chicago: Loyola university Press, 1990. (xxii) Ibid., pp. 100-­‐113. Le radici della dignità della persona risiedono perciò nella sua realtà sostanziale ed escludono quindi il fatto che la persona possieda la dignità solo in termini di "funzionamento" (virgolette mie, n.d.t.) personale. (xxiii) Per questo è un peccato che Scheler ritenga di poter salvare la categoria di persona soltanto negando l'essere sostanziale della persona come sussistente in sé nell'essere. Così afferma in Die Stellung des Menschen im Kosmos, p. 39: "Das Zentrum des Geistes, die "Person", ist also weder gegenständliches noch dingliches Sein, sondern nur ein stetig selbst sich vollziehendes (wesenhaft bestimmtes) Ordnungsgefüge von Akten". (xxiv) Si veda Blaise Pascal, Thoughts, 5th ed., trad. e intr. di A.J. Krailsheimer, London: Penguin, 1973: "146. Man is obviously made to think. It is his whole dignity and his whole merit; and his whole duty is to think as he ought. Now, the order of thought is to begin with self, and with its Author and its end". Si veda anche, nella stessa opera: "346. Thought constitutes the greatness of man. 347. Man is but a reed, the greatest in nature; but he is a thinking reed. The entire universe need not arm itself to crush him. A vapour, a drop of water suffices to kill him. But, if the universe were to crush him, man would still be more noble than that which killed him, because he knows that he dies and the advantage which the universe has over him; the universe knows nothing of this. All our dignity consists, then, in thought. By it we must elevate ourselves, and not by space and time which we cannot fill. Let us endeavour, then, to think well; this is the principle of morality. 348. A thinking reed.-­‐ It is not from space that I must seek my dignity, but from the government of my thought. I shall have no more if I possess worlds. By space the universe encompasses and swallows me up like an atom; by thought I comprehend the world". E ancora: "365. Thought.-­‐ All the dignity of man consists in thought. Thought is, therefore, by its nature a 147 wonderful and incomparable thing. It must have strange defects to be contemptible. But it has such, so that nothing is more ridiculous. How great it is in its nature! How vile it is in its defects! But what is this thought? How foolish it is!". (xxv) Peter Singer, Unsanctifying Human Life, in P. Singer, Ethical Issues Relating to Life and Death, Melbourne, 1979, pp. 41-­‐61. (xxvi) Ibid., p. 59; Ebd., p. 43 e p. 50.. (xxvii) Rifiutando questa dignità fondata sulla sostanza stessa della persona, Singer sottolinea un punto importante sull'aborto, ribadendo che la sua prospettiva sarebbe inammissibile e l'aborto sarebbe sbagliato se la potenzialità dell'uomo lo rendesse già persona, e se possedesse un'anima. Si veda P. Singer, Unsanctifying..., cit., p. 50: "I will only point out that if we believe it is the potential of the infant that makes it wrong to kill it, we seem to be committed to the view that abortion, however soon after conception it may take place, is as seriously wrong as infanticide". (xxviii) Fichte ed Engelhardt suppongono lo stato attuale della personalità viene raggiunto normalmente dai bambini solo dopo il secondo anno di vita; ma si potrebbe anche posticipare o anticipare notevolmente questa data, dal momento che l'essere consapevolmente risvegliato della persona va incontro ad un'infinità di sfumature e di gradi, dalle prime esperienze prenatali dello stato embrionale alla prima infanzia, fino all'età adulta. (xxix) Cfr. J.M. Palacios, ibid.?, p. 62. (xxx) Una delle prime acute critiche all'identificazione della morte con la morte cerebrale fu Hans Jonas. Cfr. H. Jonas, Gehirntod und menschliche Organbank: Zur pragmatischen Umdefinierung des Todes (abbr. 'Gehirntod'), in: H. Jonas, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Frankfurt a.M.: Insel Verlag, 1985, pp. 219-­‐241. Cfr. anche H. Jonas, Philosophical Essays: From Ancient Creed to Technological Man, Chicago and London: The University of Chicago Press, 1974, e Idem, Against the Stream: Comments on the Definition and Redefinition of Death, in: Philosophical Essays: From Ancient Creed to Technological Man, Englewood Cliffs, N.J.: Prentice-­‐Hall, 1974, pp. 132-­‐140. Si veda anche la mia critica alla nozione di morte cerebrale come vera morte della persona: J. Seifert, Is 'Brain Death' actually Death? A Critique of Redefining Man's Death in Terms of 'Brain Death', in R.J. White, H. Angstwurm, I. Carasco de Paola (eds.), Working Group on the Determination of Brain Death and Its Relationship to Human Death, Pontificia Accademia delle Scienze, Città del Vaticano 1992, pp. 95-­‐143. Si veda anche il mio Hirntod: Ein Beitrag zur Kritik der philosophischen Korrumpierung der medizinischen Technik, in ???, Ethik und Technik, Zürich: M&T edition, 1988. Si veda inoltre il mio Is Brain Death Actually Death?, "Monist", estate 1993; Idem, Ist 'Hirntod' wirklich der Tod? in WMW. Diskussionsforum Medizinische Ethik, 4, October 1990; e Idem, Erklären heute Medizin und Gesetze Lebende zu Toten? In R. Greinert and G. Wuttke (eds.), Organspende: Kritische Ansichten zur Transplantationsmedizin, Göttingen: Lamuv Verlag 1991, pp. 185-­‐208. (xxxi) Molti pensatori del XIX e XX secolo hanno insistito su questo punto: Feuerbach, Martin Buber, Gabriel Marcel, Dietrich von Hildebrand, Hans Urs von Balthasar e altri. (xxxii) Palacios ha espresso in modo eccellente la differenza fra il secondo e il terzo livello della dignità umana: "La filosofia personalista attribuisce così alla persona una dignità ontologica che costituisce il fondamento di un parte della sua dignità morale. Da una parte, quindi, la persona è in parte dotata di dignità per il solo fatto di esistere come persona, e ciò lo rende meritevole di essere trattato in un certo modo, che si può già considerare una forma di dignità moral(ment)e rilevante. Per altro verso, tuttavia, ogni persona si rende moralmente degna o indegna in un senso più proprio, divenendo tale o tale altra persona -­‐ una buona o una cattiva persona -­‐in virtù degli atti morali che esegue". In originale: "La filosofía personalista atribuye, por tanto, a la persona una dignidad ontológica que constituye el fundamento de una parte de su dignidad moral. De una parte, pues la persona es, por una parte, ontológicamente digna por el mero hecho 148 de ser persona, y ello la hace acreedora a ser tratada de una cierta manera, lo cual puede ya considerarse como una forma de dignidad moral. Mas, por otra parte, cada persona humana se hace digna o indigna moralmente en sentido más propio al convertirse en tal o cual persona -­‐ en una buena o una mala persona, como decimos los españoles -­‐ en razón de los actos morales que realiza" (J.M. Palacios, ibid., p. 261). (xxxiii) Si veda il mio Essere e persona. Verso una fondazione fenomenologica di una metafisica classica e personalista, Milano: Vita e Pensiero, 1989, cap. 9. (xxxiv) Si veda il mio Back to Things in Themselves. (xxxv) Le opere d'arte o le altre persone possiedono il loro valore in modo del tutto indipendente dai nostri interessi e dalla realizzazione dei nostri desideri, e noi siamo in grado di rispondere ad essi perché tale ammirazione, rispetto, o amore sono dovuti a questi esseri e a queste persone. Le fondamentali scoperte compiute con la risposta valoriale nell'etica di Dietrich von Hildebrand e con la filosofia dell'amore e del principio personalistico nell'etica polacca spiegano questo tratto essenziale della persona. Si veda D. von Hildebrand, Ethics, capp. 11-­‐3 e 17-­‐18; Idem, Das Wesen der Liebe, capp. 1-­‐5 e 9; Karol Wojtyìa, Love and Responsibility, trad. di H.T. Willetts, San Francisco: Ignatius Press, 1993; Tadeusz Styczeî, Zur Frage einer unabhängigen Ethik, in Tadeusz Styczeî, Andrzej Szostek, Karol Wojtyìa, Der Streit um den Menschen. Personaler Anspruch des Sittlichen, Kevelär, 1979; Andrzej Szostek, in ibid. (xxxvi) Max Scheler, Probleme der Religion, pp. 101 ss. Si pensi alla bella "definizione" scheleriana dell'essenza dell'uomo in termini di trascendenza e di auto-­‐trascendenza: "Thus the intention and directedness of man beyond himself and beyond all life constitutes his essence. This precisely is the proper essential concept of "man": He is a thing which transcends himself and his life and all life. His essential core -­‐ prescinding from his special constitution -­‐ is exactly that movement, that spiritual act of self-­‐transcendence!". E continua: "This fact, however, is in equal measure misconceived and ignored by "humanistic" and by "biological" ethics" (traduzione mia). Per il testo originale si veda Max Scheler, Der Formalismus, p. 293: "So macht die Intention des Menschen über sich und über alles Leben hinaus eben sein Wesen aus. Das eben ist der eigentliche Wesensbegriff des "Menschen": Er ist ein Ding, das sich selbst und sein Leben und alles Leben transzendiert. Sein Wesenskern -­‐ abgesehen von aller besonderen Organisation -­‐ ist eben jene Bewegung, jener geistige Akt des Sichtranszendierens! Dies aber verkennen die "humane" Ethik und die "biologische" Ethik in gleichem Maße". Si veda inoltre la traduzione ufficiale inglese dell'opera principale di Scheler: M. Scheler, Formalism in Ethics and Non-­‐Formal Ethics of Values. On man as a trans-­‐telechy rather than an en-­‐telechy; si veda anche J. Seifert, Essere e persona...cit., cap. 9. (xxxvii) Questo non varrebbe per il primo livello ontologico della personalità, e solo in alcuni ristrettissimi casi nel secondo livello e fonte della dignità personale. Questa dimensione della dignità personale cresce attraverso l'educazione, il raffinamento del pensiero, ma molto più attraverso l'acquisizione dei valori morali. (xxxviii) Riguardo a questi doni esistono fondamentali disuguaglianze, cosicché il riconoscimento fraterno del valore di ognuno appare in contrasto con l'esigenza di uguaglianza, come hanno sottolineato pensatori come Gabriel Marcel o Erik Kühnelt-­‐Leding. L'invocazione alla fraternità della Rivoluzione Francese contraddice in un certo senso l'invocazione all'uguaglianza della medesima, puntualizzano questi pensatori. Di fatto, come cerca di dimostrare Max Scheler, una pretesa di uguaglianza che neghi le differenze esistenti nei talenti e nei doni di vario tipo risulterebbe da un principio di risentimento, più che dalla riflessione sull'universale uguaglianza della natura umana. Infatti, in poche parole, gli uomini non sono uguali rispetto alla quarta, come pure alla seconda e terza, fonte della dignità umana. Cfr. Max Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralem. 149 (xxxix) Pretendere uguaglianza di dignità su queste ineguaglianza può essere frutto del ressentiment e dell'invidia, piuttosto che della verità. Ciò non esclude che la quarta fonte di dignità attraverso i doni intrinseci possa essere in linea di principio elargita a tutti gli uomini, come ritiene la persona religiosa per valori come "l'essere oggetto della misericordia divina" o "l'essere redenti da Cristo". (xl) Cfr. Gabriel Marcel, The Existential Background of Human Dignity; cfr. anche Idem, Die Menschenwürde und ihr existentieller Grund, pp. 139-­‐162 e 163 ss.; Erik Kühnelt-­‐Leddin, Liberty or Equality. The Challenge of Our Time. (xli) La vecchia preghiera della liturgia tridentina esprimeva questa dimensione della dignità dicendo: "Deus, qui dignitatem humane substantiae mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti...". (xlii) Su questo dono religiose di una nuova dignità tramite la grazia San Tommaso d'Aquino parla in Summa Theol., IIae, Q. 63, a.2. co: "Et quia personarum acceptio est cum aliquid personae attribuitur praeter proportionem dignitatis ipsius, considerare oportet quod dignitas alicuius personae potest attendi dupliciter. Uno modo, simpliciter et secundum se, et sic maioris dignitatis est ille qui magis abundat in spiritualibus gratiae donis. Alio modo, per comparationem ad bonum commune, contingit enim quandoque quod ille qui est minus sanctus et minus sciens, potest maius conferre ad bonum commune, propter potentiam vel industriam saecularem, vel propter aliquid huiusmodi. Et quia dispensationes spiritualium principalius ordinantur ad utilitatem communem, secundum illud I ad Cor. XII, unicuique datur manifestatio spiritus ad utilitatem; ideo quandoque absque acceptione personarum in dispensatione spiritualium illi qui sunt simpliciter minus boni, melioribus praeferuntur, sicut etiam et deus gratias gratis datas quandoque concedit minus bonis ». (xliii) Non neghiamo che anche l'esistenza e la vita di un persona possono essere correttamente interpretate come doni, ma non hanno il carattere peculiare di doni estrinseci che qui intendiamo. L'esistenza e la vita della persona non sono elementi che vanno al di là del possesso dell'essere e della natura umane. Allo stesso modo, non sono soggette al potere dell'uomo dotato di dignità, come la terza fonte della dignità morale è in larga parte. (xliv) Tommaso considera anche la dignità divinamente donata con la redenzione come il frutto di un certo riconoscimento della dignità inerente alla natura umana da parte di Dio. Si veda la sua De rationibuis fidei, cap. 5: "Homo enim suam infirmitatem cognoscens, si ei promitteretur quod ad beatitudinem perveniret, cuius vix Angeli capaces sunt, quae scilicet in visione et fruitione dei consistit, vix hoc sperare posset, nisi ex alia parte sibi dignitas humanae naturae ostenderetur, quam tanti aestimat deus, ut pro eius salute homo fieri voluit. Et sic per hoc quod deus factus est homo, spem nobis dedit ut homo etiam posset pervenire ad hoc quod uniretur deo per beatam fruitionem". 150 MARIA DOLORES VILA-­‐CORO
I DIRITTI UMANI E IL DIRITTO ALLA VITA INTRODUZIONE Le rivoluzione scientifica, iniziata 50 anni fa, avanza sempre più rapidamente ed ha prodotto una società diffidente. Al giorno d'oggi, l'applicazione delle biotecnologie sull'uomo è tale che può avere effetto sull'essenza costitutiva dell'essere umano, sulla struttura della famiglia e della società. Può perfino modificare l'identità stessa dell'individuo e della specie umana, mediante trasformazioni irreversibili come la clonazione, la manipolazione dei gameti e degli embrioni, la sostituzione dell'ambiente prenatale umano con uno animale, la fecondazione tra specie diverse. La situazione esige che si assumano posizioni nette, punti di vista e criteri che non deformino le coscienze morali e che non diano luogo alla legalizzazione di attività che sono contrarie al rispetto della vita umana e alla dignità dell'individuo. Vale la pena di mettere in evidenza le posizioni errate prese da alcuni esperti di bioetica. Questi errori, in Spagna, hanno portato all'approvazione di alcune leggi ed all'emissione di sentenze da parte della Corte Costituzionale che non proteggono il diritto fondamentale alla vita. Il mio punto di partenza è quello di descrivere, dalla prospettiva dei diritti umani, la situazione attuale, utilizzando la Spagna come esempio di ciò che potrebbe accadere in altre nazioni. I DIRITTI UMANI Una riflessione sull'origine e la formazione dei diritti umani può condurre allo studio di diritti fondamentali. Questi sono nati per consentire all'uomo di sviluppare ed usare la sua personalità al massimo delle sue potenzialità. Hanno una doppia prospettiva: innanzitutto, attraverso di essi l'uomo è autorizzato ad esercitare il suo potere all'interno del suo ambito odominium e, in secondo luogo, grazie ad essi l'uomo ha facoltà di impedire che il tranquillo godimento dello spazio in cui egli esercita il suo legittimo potere venga turbato. La Legge deve concedere all'uomo certe libertà e certi diritti che vanno oltre e sono al di sopra dello Stato e della comunità politica.(1) Secondo Bodin "un diritto umano è un diritto che l'uomo ha stabilito in conformità con la natura ed a motivo della sua utilità".(2) L'origine dei diritti umani può essere fatta risalire, principalmente, a due fonti chiaramente distinte. Il giusnaturalismo Per i seguaci di questa teoria, i diritti umani sono fondati sui valori e sui principi della Legge Naturale. Questi sono concetti di una tale ovvia certezza che nessuno può negarli se non privandoli del loro vero significato, della loro evidenza morale che è qualcosa di simile alla percezione sensoriale naturale.(3) L'espressione giustizia naturale veniva usata dai giuristi Romani in un senso molto ampio: ciò che la natura ha insegnato a tutti gli animali(4). Per quanto riguarda specificatamente l'uomo, la giustizia naturale rimanda all'essenza naturale dell'uomo. Presuppone la ragione come facoltà di considerare una cosa in relazione a ciò che scaturisce da essa: dunque, la capacità di trarre deduzioni o conclusioni.(5) Il Cristianesimo ha sviluppato e promosso i principi del giusnaturalismo considerandoli una caratteristica essenziale dell'uomo, una conseguenza naturale della sua condizione umana e connaturata alla sua dignità. La loro origine si trova nella Legge Naturale che a sua volta 151 partecipa della Legge Eterna, così i diritti naturali sono elementi costitutivi dell'ordine universale. Sono antecedenti a tutto il Diritto positivo. Il diritto positivo li cristallizza in norme specifiche e li incorpora come fondamento per provvedimenti giuridici. I diritti naturali coincidono con l'uomo perché sono richiesti dalla sua natura e dalla sua dignità; sono di natura ontologica. Nel XVII secolo assistiamo allo sviluppo di un nuovo concetto di diritti naturali. Tale concetto ha il suo fondamento in un sistema di valori morali, che è utilitaristico ed individualista, non ha connessioni con i doveri e mette in evidenza gli aspetti di rivendicazione. Lascia l'uomo senza legami sociali e conduce ad un'esistenza conflittuale con gli altri individui che combattono tutti per i propri diritti. Questo nuovo concetto fu principalmente opera di due ideologi inglesi che ruppero con la Scolastica, vale a dire Thomas Hobbes e John Locke. La Scolastica forniva una concezione globale in cui l'etica e la politica erano controllate dalla teologia. I diritti erano subordinati all'idea di dovere, essendo l'uomo una creatura di Dio che deve obbedire ai comandamenti. Le leggi della morale utilitarista di Hobbes sono ordini pragmatici e razionali formulati con l'intento di raggiungere una finalità stabilita. Sono, in realtà, una giustificazione per il più lampante e spietato egoismo borghese. Non cercano di fare del bene di per sé, quanto piuttosto di evitare i mali causati dal rimanere in uno stato naturale. Locke modificò il modello hobbesiano e basò i diritti umani sul concetto di proprietà. Questo concetto include la vita, come anche la libertà e la proprietà, nel senso di dominio sulle cose. L'uomo che possiede è il concetto antropologico a base della filosofia liberale.(6) Per Millán Puelles è Kant, con la sua idea di legge rigorosamente definita, ad aprire le porte alla teoria giuridica positivista. Kant afferma che la legge pura e semplice è correlativa alla possibilità di usare strumenti fisici di coercizione. Per Kant, la legge rigorosamente definita è quella che non ha componenti etiche di nessun tipo. Quando Rosseau pose le fondamenta della moderna teoria della democrazia, avanzò l'opinione che i diritti esistono solamente in quanto sono generati dalla volontà generale che è sia fonte che garanzia dei diritti naturali. Il cittadino esprime la sua volontà nelle Leggi e queste leggi a loro volta esprimono principi naturali. Rosseau non prende in considerazione che il volere generale non può essere estrapolato perché sono i cittadini stessi che fanno le leggi e concedono diritti. I seguaci di questa teoria approvano il positivismo giuridico.(7) La bioetica basata sul consenso, che oggi alcuni cercano di imporre, va in questa direzione. Il positivismo L'altra fonte di diritti sono le stesse disposizioni di legge che non riconoscono i diritti connaturati dell'uomo, in quanto sono le leggi che gli assegnano tali diritti. Questa è la posizione del positivismo giuridico che reagisce fortemente contro qualunque sospetto di metafisica in materia di diritto -­‐ in effetti di Legge Naturale -­‐ che potrebbe affermare l'esistenza di un ordine di valori extragiuridici.(8) Sia la storica scuola tedesca di diritto, influenzata dal Romanticismo, sia la scuola francese di esegesi, un prodotto del razionalismo, si dichiarano contro la Legge Naturale.(9) Queste posizioni positiviste riconoscono solamente i diritti stabiliti da norme, con il risultato che il cittadino ha titolo a questi diritti solo se l'organo legislativo considera giusto concederli. Per riassumere, possiamo osservare che il concetto di diritti umani ha due distinte prospettive. I principi del Giusnaturalismo considerano questi diritti appartenenti all'uomo e connaturati alla sua natura. Essi sono oggettivi ed universali perché si applicano a tutti gli uomini, i quali condividono la stessa natura e condizione. Sono, quindi, anteriori allo Stato che semplicemente li riconosce e li tutela. La posizione positivista li considera puramente dalla prospettiva della Legge 152 Positivista. Ammette quei diritti che vengono accordati in base a delle norme sebbene queste possano riconoscere certi diritti connaturati alla condizione umana.(10) Razionalismo e scientismo hanno contribuito alla formazione del pensiero tecno-­‐scientifico che rifiuta qualunque trascendentalismo e, conseguentemente, non accetta nessun tipo di legge morale naturale, essendo limitata all'aspetto quantitativo della materia. Poiché alla mente umana è stata concessa la capacità di superare qualunque tipo di frontiera, la situazione è dunque matura perché il soggettivismo presenti il suo punto di vista sull'etica. "Ciò che io credo sia buono, posso esprimerlo in una norma". Al fine di evitare il solipsismo, viene messo in dubbio il fatto che l'individuo possa conoscere la verità. Si pensa che il Contrattualismo abbia trovato la formula perfetta, dal momento che la capacità di comprendere "il conoscere" è raggiunta attraverso la contrapposizione di opinioni, al fine di trovare la norma su cui si è d'accordo e che verrà accettata da tutti come valida. Per rendere ciò più semplice, la bioetica basata su obiettivi minimi da raggiungere, come risultato del consenso generale, viene promossa. LA DIGNITÀ DELLA PERSONA La Costituzione spagnola all'art. 10 proclama " La dignità della persona, i diritti inviolabili che le sono connaturati, il libero sviluppo della personalità, il rispetto della legge e dei diritti altrui sono fondamento dell'ordine politico e della pace sociale." I diritti della persona umana derivano dalla dignità. Tra questi diritti, il diritto alla vita è stato definito fondamentale e centrale, perché senza di esso nessun altro ne esiste. Questo articolo fu ispirato dalla Costituzione tedesca: "La dignità dell'uomo è sacra ed è dovere di tutte le autorità dello Stato tutelarla e rispettarla". Le leggi spagnole sono eredi della tradizione filosofica greca, del diritto Romano e della cultura cristiana, e qui per cristianità si deve intendere una concezione antropologica dell'uomo non semplicemente nel suo aspetto religioso. Nel Codice Civile ci imbattiamo in alcuni concetti che non necessitano di ulteriori spiegazioni per essere compresi. Tutti comprendono, rispettano e accettano tali concetti che fanno appello a principi morali; norme generali come bona fide, ilprudent paterfamilias, ovverosia l'uomo assennato, il genuino buon senso... che sono in relazione ad una sottostante moralità oggettiva che chiarifica, completa e soprattutto pone le fondamenta della norma. L'insieme di valori e principi, concepito dalle nostre menti, considera l'uomo da una angolazione spirituale che mette insieme i valori ed i principi presenti in tutto il corso della nostra Storia. Considerato che la vita umana è superiore, si può dunque coerentemente dedurre che essa sia sacra per l'uomo; cioè, per sua stessa natura intrinsecamente sacra e dunque degna del massimo rispetto. L'essenziale dignità della persona è all'origine di tutti i diritti fondamentali, sebbene in alcuni casi ciò sia più palesemente evidente che in altri, come nel caso del diritto alla integrità fisica e morale, alla libertà ideologica e di religione, la libertà personale, il diritto all'onorabilità, alla privacy personale e familiare, alla libertà di espressione, all'istruzione e all'obiezione di coscienza. Secondo Lucas, la riflessione antropologica contempla l'uomo da un'angolazione corporale-­‐spirituale.(11) Ciò è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale(12) quando afferma che la Costituzione ha "elevato la dignità della persona a valore giuridico fondamentale, unitamente al valore della vita umana, e l'ha messa in stretta relazione alla dimensione morale di quest'ultima. Tale dignità, senza pregiudizio dei diritti connaturati alla persona, è intimamente collegata al pieno sviluppo della persona (art. 10), al diritto all'integrità fisica e morale (art. 15) ed alla privacy personale e familiare (art. 18.7)... La tortura e la mutilazione, il trattamento degradante e disumano sono attacchi all'essenza stessa della dignità e sottintendono la mancata considerazione della condizione umana di coloro che li subiscono".(13) 153 La formula che proclama la dignità umana come valore e principio fondamentale del Diritto è conforme alla realtà dell'uomo e, per tale motivo, è stata accettata da tutte le nazioni che hanno sottoscritto la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. In questa dichiarazione, la difesa della dignità viene dichiarata principio fondamentale ed alla base di tutti i diritti. Le Dichiarazioni dei Diritti Umani, le costituzioni degli Stati del mondo occidentale, i numerosi documenti ed i rapporti delle organizzazioni internazionali, proclamano la dignità della persona ed i diritti fondamentali, tra cui spicca il diritto alla vita umana, che da alcuni viene considerata sacra.(14) Eppure, come si vedrà più avanti, una serie di norme connesse all'applicazione sugli esseri umani dei progressi compiuti dalla scienza e dalla medicina, ed alcune Sentenze di Tribunale non rispettano né la dignità dell'individuo, né il suo diritto alla vita. L'importanza antropologica dell'uomo, che va ben oltre la mera biologia perché è aperta al trascendente, è la chiave del dibattito sulla dignità della persona. E' un approccio che non richiede necessariamente una fede religiosa, perché sebbene un avvicinamento a Dio possa essere il supremo fondamento del valore, c'è un altro fondamento che è ad esso simile: quello di non ridurre tutto alla semplice biologia. E' una visione antitetica a quella materialista della vita umana espressa da Engel, secondo cui la vita è semplicemente una delle varie forme di movimento della materia. Da ciò deriva un concetto di Diritto che non rileva valori superiori nell'uomo e conseguentemente non riconosce che egli abbia dei diritti. Gli utilitaristi non accettano, e pertanto negano, la sacralità della vita umana con la qualcosa noi intendiamo che essa non può essere soppressa in base alla propria volontà; gli utilitaristi accettano che della vita si possa disporre a piacimento, ovvero, di essa si può fare uso. Non accettando che la vita è un valore in sé, essi non accettano neanche che la vita valga la pena di essere vissuta a meno che non possieda una certa qualità: la qualità della vita viene considerata più importante della vita stessa. Ma essi non si rendono conto che sia la realizzabilità che la qualità della vita hanno la loro origine ed il loro fondamento nella vita stessa, da cui essi derivano il loro valore. In questo modo l'ordine logico viene alterato e la casualità viene elevata al di sopra della sostanza. Abbiamo qui un caso di paralogismo categoriale che consiste nell'introdurre termini provenienti da differenti categorie di ragionamento. IL DIRITTO ALLA VITA Il Diritto alla Vita non compare in nessuna Costituzione spagnola fino al 1978. Durante la discussione in Senato dell'articolo 10 della Costituzione del 1978, il Professore di Diritto Sánchez Agesta affermò che nella tradizione spagnola i diritti dell'individuo risalgono al XII secolo. Appaiono nella Carta di Leon (Fuero de León), che alcuni storici chiamano la Magna Carta, che è precedente di un secolo alla Magna Carta inglese(15) che John Lackland (Giovanni Senzaterra) concesse ai sudditi inglesi nel 1215 abolendo la pena di morte. Nel 1776 la Dichiarazione della Virginia proclamò il diritto alla vita, che è stato successivamente incluso nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789. Romeo Casabona sostiene che questo sia un chiaro riconoscimento che non ha solamente un valore simbolico.(16) Sebbene sia opinione di questo autore che tale riconoscimento implichi un obbligo vincolante e comporti un autentico dovere giuridico per coloro a cui tale norma è diretta, alcune leggi, come vedremo più avanti, non rientrano nel sistema di riferimento all'interno del quale la vita umana deve essere protetta e chiaramente seguono la visione utilitarista. La straordinaria caratteristica del diritto alla vita è che costituisce un prius antropologico. E' più di un diritto fondamentale; è la condizione che rende possibile ogni susseguente diritto: la vita è empirica e non teoretica. "La cosa naturale è avere titolarità al diritto alla vita".(17) Ad essere 154 assolutamente precisi, non possiamo dire che la vita umana sia solo un diritto perché in effetti è il supporto e la raison d'être di tutti gli altri diritti. Senza la vita non ci può essere nessun potere che è il principio intrinseco di tutti i diritti. "Il primo attributo di questa realtà fondamentale che chiamiamo "la nostra vita" è il semplice fatto che esiste per sé, è cosciente di sé, è trasparente a sé. Solo questo vuol dire che la vita, e tutto ciò che ne fa parte, è indubitabile e proprio perché è la sola realtà indubitabile, è anche fondamentale".(18) Nella Costituzione spagnola, capitolo II, sezione 1 Sui diritti fondamentali e la libertà pubblica, troviamo innanzitutto l'articolo 15 che rende inequivocabile la sua posizione prioritaria rispetto ad altri diritti... "Tutti hanno diritto alla vita ed alla integrità fisica e morale, ed in nessuna circostanza si può essere sottoposti a torture né a pene o trattamenti degradanti e disumani." La conservazione della vita è un diritto dell'essere umano che è tutelato dalla Costituzione perché contiene un valore fondamentale che è assoluto, nel senso che è in relazione con il mondo intero. Sebbene sia assoluto è limitato dai diritti di altri individui. La vita umana non consiste solamente nel preservare l'esistenza; nascere, crescere, svilupparsi. E' un processo graduale di auto-­‐formazione, un compito che si compie in un ambiente prestabilito e che determina se alcuni geni o altri vengono espressi, un habitat in cui l'essere umano cresce e si sviluppa nell'esercitare le superiori qualità che possiede. A questo riguardo, è della massima importanza ciò che chiamo l'habitat prenatale. La protezione della vita include anche la protezione dello spazio chiuso in cui l'essere umano si forma. Questo primo habitat disposto dalla natura viene negato dalla donazione di ovuli e dalla maternità in affitto, quando il bambino deve crescere in un grembo diverso da quello della madre che produce l'ovulo. L'articolo 45 della Costituzione spagnola stabilisce che "Tutti hanno il diritto di godere di un ambiente idoneo allo sviluppo della persona, così come il dovere di conservarlo".(19) Il valore legalmente protetto è quello di un habitat idoneo allo sviluppo dell'individuo. Considerato che l'essere umano necessita di un ambiente fisiochimico e biologico appropriato, ed anche di uno emotivo, intellettuale e morale, sono dell'opinione che "ambiente" debba riferirsi a tutto ciò che attiene alle diverse fasi dello sviluppo umano. Una delle leggi originate dall'articolo 45 della Costituzione è la Legge 4/89 relativa alla Conservazione degli spazi naturali nonché della flora e della fauna allo stato naturale. Questa legge è stata oggetto di un ricorso per incostituzionalità. Nella Sentenza che ha risolto il ricorso, la Corte Costituzionale ha definito medio ambiente l'insieme di circostanze in cui una persona vive, l'armoniosa regolazione dell'ambiente in cui l'uomo vive e che condiziona la sua esistenza, la sua identità ed il suo sviluppo".(20) Quando la nostra Costituzione fu promulgata nel 1978 nessuno poteva immaginare che un essere umano avrebbe potuto svilupparsi in un utero che non fosse quello della madre. Ovviamente l'articolo 45 non venne formulato avendo in mente questa possibilità. Ma è chiaro che esso debba includere questo primo, intimo e molto personale ambiente che è della massima importanza per la formazione e lo sviluppo dell'individuo durante le prime fasi della sua esistenza. LaDichiarazione Universale sul Genoma Umano dell'UNESCO, articolo 4, afferma che i geni sono espressi in modi diversi a seconda dall'ambiente naturale e sociale dell'individuo. L'influenza dell'ambiente è determinante perché influisce direttamente sulla formazione e sullo sviluppo dell'individuo, e dunque sul diritto alla vita. Permettendo ad una donna priva di un partner di accedere alla inseminazione artificiale, il bambino viene privato della presenza del suo padre biologico. Se la donna ha una relazione omosessuale, il bambino viene posto in un ambiente che va contro l'ordine naturale delle cose, dove il ruolo maschile, con i suoi connaturati elementi di definizione e caratterizzazione, viene assunto da una donna. Lo stesso avviene nell'adozione di un bambino da parte di omosessuali. 155 Nei casi in cui la coppia ricorre ad un donatore anonimo, sia che sia la madre o il padre, la relazione di causalità filogenetica verrà rotta, ed una persona sarà deprivata di un riferimento indispensabile per la costituzione della sua identità personale. Inoltre, nascondere l'identità del padre potrebbe avere conseguenze che non sono state sufficientemente valutate; tra le altre il rischio di unioni tra consanguinei. Il neurobiologo Rodriguez Delgado spiega come le mappe genetiche siano fondamentali nelle fasi iniziali della formazione cerebrale e lo sviluppo, e che esse sono collegate alla costituzione dei sistemi e dei modi di apprendimento, tuttavia, e vorrei attirare l'attenzione del lettore su questo punto, "queste fasi iniziali vengono condizionate in modo considerevole dall'influsso delle percezioni sensoriali che forniscono le informazioni..."(21) In breve, scindendo la continuità genetica, viene introdotto un ambiente di apprendimento estraneo; l'habitat del bambino è stato alterato con la conseguenza che egli riceverà un impatto informativo estraneo al suo ambiente che costituisce la sua naturale continuità. Oggigiorno c'è una grande preoccupazione per l'ambiente, come risulta evidente dal grande numero di congressi e riunioni che vengono organizzati a tale scopo. In campo internazionale spiccano gli incontri al vertice di Rio de Janeiro nel 1992, di Kyoto nel 1997 e di Buenos Aires nel 1998. Il Trattato di Maastrich include una sezione sulla protezione ambientale. In Europa le norme si sono moltiplicate a seguito delle direttive comunitarie e delle raccomandazioni degli organismi e delle conferenze internazionali ed includono, tra gli altri provvedimenti relativi ad aree naturali, la conservazione delle specie minacciate di estinzione (animali e vegetali)... l'inquinamento atmosferico ed acustico, la conservazione dello strato di ozono e della biodiversità.(22) Dovremmo mostrare lo stesso interesse per lo specifico ambiente dell'essere umano durante le fasi iniziali del suo sviluppo. LA PERSONA IN CONTRAPPOSIZIONE ALLA PERSONALITÀ GIURIDICA Durante la fase parlamentare antecedente l'approvazione dell'attuale Costituzione spagnola ci fu un dibattito sulla possibilità che il diritto di "ogni persona" includesse quello del bambino concepito ma non ancora nato. Per evitare qualsiasi dubbio di interpretazione fu scelta la formula "tutti hanno diritto alla vita". Tuttavia, quando l'aborto fu depenalizzato in alcune circostanze, fu paradossalmente asserito che il bambino concepito ma non nato non era una persona e, quindi, non era incluso nel termine "tutti". In base alla definizione del vocabolario: Persona: si riferisce ad un individuo della specie umana. Un essere umano. Personalità: si riferisce al modo d'essere di una particolare persona; le qualità che caratterizzano quella persona. La Persona può esistere indipendentemente dalla personalità. La personalità legale significa che la Legge riconosce lo status legale di "qualcuno" che, dunque, occupa un posto nell'Ordinamento Giuridico. Ciò è così palesemente vero che il Codice Civile afferma che lo status legale è "determinato" dalla nascita, purché vengano soddisfatti i requisiti dell'articolo 30, requisiti che, in base allo stesso articolo, hanno effetto nel Diritto Civile. E' importante insistere su questo punto perché, per quanto riguarda il Diritto Penale, il Codice riconosce de facto lo status legale del neonato comminando delle pene a coloro che sono colpevoli di aborto. Ed uccidere un neonato entro le prime 24 ore, e dunque prima che la personalità civile sia stata determinata, costituisce un omicidio. L'aborto appariva nella Rubrica Crimini contro la Persona del Codice Civile in vigore fino al 1996 e costituiva un chiaro riconoscimento dello status di persona per il nascituro. Nell'attuale Codice questa dicitura è stata eliminata. In base alla Convenzione universale sui diritti dell'infanzia, il bambino è titolato ad avere la sua personalità legale dal momento della nascita. Questa Dichiarazione modifica i succitati articoli 29 e 30 perché è un trattato internazionale che la 156 Spagna ha ratificato. Ma in pratica, ai neonati non è concesso essere registrati. La loro personalità legale non è riconosciuta perché ciò implicherebbe un conflitto nel caso di feti abortiti e nati vivi che vengono lasciati morire con il pretesto che essi "non sono in grado di vivere", facendo ricorso alle leggi 35/88 e 42/88. In alcune legislazioni, come quella tedesca ed italiana, il solo requisito per vedere riconosciuta la personalità civile è quello di nascere vivi. Accade così che la donna, che intende rinunciare al suo bambino per farlo adottare, è costretta a riconoscere questo bambino, registrandolo a suo nome in quanto madre, ed aumentando in tal modo il rischio che lei opti per un aborto nel caso desiderasse nascondere la sua gravidanza, come prima è stato accennato. L'ufficio anagrafico nazionale afferma che la precedente interpretazione della legge che permetteva ad una madre di non rivelare la sua identità nella cartella clinica della nascita non è valida. La motivazione data è che il bambino ha il diritto di conoscere la sua origine genetica, un diritto che viene negato ai bambini di donatori anonimi. Il fatto che il nasciturus sia soggetto alla legge è dimostrato da diversi articoli del Codice Civile e dal diritto penale. Malgrado tutti questi diritti necessitino di un soggetto, che il codice legale stesso riconosce, in alcuni ambiti si dice che il bambino concepito ma non nato, non è ancora una persona perché la personalità legale non è stata riconosciuta! Nell'articolo 16 della Costituzione spagnola, la libertà ideologica e religiosa vengono garantite. Occasionalmente, il conflitto nasce tra certe norme religiose ed il diritto alla vita. Negli ospedali è necessario andare in tribunale, quando i genitori, testimoni di Geova, non concedono il permesso di fare una trasfusione di sangue che salverebbe la vita ad un minore. Questo è un esempio dei limiti della potestà e della tutela paterna. Entrambe devono essere esercitate a beneficio del bambino, altrimenti il diritto decade. Tale è il caso di embrioni che vengono congelati in banche per scopi riproduttivi e circa i quali l'autorizzazione parentale viene richiesta al fine di poterli utilizzare nella sperimentazione. LEGGI SPECIFICHE RELATIVE ALLE TECNICHE BIOMEDICHE(23) Sull'aborto e l'eutanasia L'aborto è ancora un crimine quando viene praticato senza il consenso della donna ed al di fuori dai casi contemplati dalla legge.Questo crimine figurava nel Titolo VIII Crimini contro la persona del Codice Penale in vigore fino al 1996. Nell'attuale Codice è denominato Sull'aborto e la condizione di persona del bambino concepito ma non nato è omessa. All'interno di questo nuovo Titolo ci sono solo due articoli; l'aborto commesso senza il consenso della donna e quello che non rientra nei casi ammessi dalla legge. I tre casi per la depenalizzazione del precedente Codice Penale, articolo 417, restano in vigore mediante un rapido adattamento della legge alla nuova situazione. La pratica dell'aborto nei seguenti tre casi viene espressamente dichiarata non punibile: "Serio pericolo per la vita e la salute mentale e fisica della gestante".(24) "In caso di violenza carnale", nelle prime 12 settimane."Presunzione che il feto nasca con seri handicap fisici o mentali", entro le prime 22 settimane.La legge stabilisce gli accertamenti che devono essere praticati e documentati, l'espresso consenso della donna in stato interessante, e richiede che l'aborto venga effettuato da un dottore medico, o sotto la sua supervisione, ed in centri pubblici o privati che siano autorizzati.L'introduzione della dicitura salute mentale, come motivo per la depenalizzazione, rende difficile determinare con precisione cosa s'intenda per salute mentale e quando essa sia in pericolo. Il risultato è stato quello di aprire la porta a qualunque tipo di aborto. D'altro canto, poiché non esiste limite di tempo, in caso di pericolo per la vita o la salute della donna in stato interessante, molti bambini nascono vivi. Vengono lasciati morire, facendo ricorso alla legge 35/88, con il pretesto che essi non sono in grado di vivere, che non hanno nessuna probabilità di continuare a vivere. Lo stato di salute viene presupposto e viene imposto un criterio soggettivo che va contro la realtà dei fatti che mostra che il neonato è vivo. Le nascite dei 157 neonati non vengono registrate la qual cosa non è conforme a quanto stabilito nella Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, come precedentemente detto.La sentenza 53/1985, che verrà illustrata successivamente, risolve il ricorso per incostituzionalità che allora fu intentato contro la depenalizzazione dell'aborto. Questa sentenza, assieme alle due che furono pronunciate per risolvere altri ricorsi contro le leggi 35/88 e 42/88, si spiega con l'intento di mostrare la progressiva svalutazione della vita umana.L'eutanasia in quanto tale non è presente nel nostro Codice. L'articolo 143 sezione 4, concernente il reato di suicidio assistito, descrive azioni che sono uguali all'eutanasia e la pena che deve essere comminata.(25) Malgrado le macchinazioni di parte, tese ad ottenere una depenalizzazione, al momento attuale l'eutanasia è ancora considerata una condotta criminosa. Legge 35/88 sulle tecniche di riproduzione assistita Nel Preambolo viene affermato che "occorre garantire la libertà delle scienze e della ricerca, in conformità con i valori riconosciuti dalla Costituzione come la tutela dell'integrità fisica e della vita dell'uomo, la capacità della persona malata di prendere decisioni, e la dignità umana. L'attività scientifica, intrapresa tenendo nel dovuto conto le considerazioni etiche e morali, è una conquista del mondo democratico e civile, in cui il progresso sociale ed individuale devono essere fondate sul rispetto della dignità umana e la libertà".Queste affermazioni appaiono molto attraenti a prima vista. Ma il testo degli articoli dimostra che la parola dignità viene usata per dare prestigio alla legge e per predisporre il cittadino a suo favore. Contrariamente a quanto sembra indicare, tutto ciò che viene proclamato viene poi negato all'interno degli articoli di legge. Il cittadino comune non riesce a distinguere ciò che è permesso nel testo degli articoli, perché ciò è celato in una foresta di eufemismi. Le attività che sono permesse interferiscono con il diritto alla vita della persona e non rispettano la sua dignità. Esse costituiscono un'ulteriore prova della manipolazione della lingua a cui abbiamo accennato.A titolo d'esempio possiamo menzionare la scelta del sesso che è autorizzata "per motivi terapeutici". Alcune malattie, come l'emofilia, colpiscono solo i maschi; le femmine non soffrono di questa malattia, ma la trasmettono alle generazioni successive. La scelta del sesso consiste nell'eliminare i maschi e nell'impiantare nell'utero della madre solo gli embrioni femminili. Non c'è nessuna funzione terapeutica per la persona malata: non è un atto medico perché non solo non riesce a curarla, ma la distrugge... Non è stata eseguita nessuna terapia; la comparsa della malattia è stata solo trasferita alle future generazioni.Un altro esempio di arbitrarietà viene alla luce sulla questione del diritto di ogni persona a conoscere la propria origine genetica. In conformità con l'articolo 39 della Costituzione ed il 127 del Codice Civile, i bambini hanno diritto di conoscere la loro origine genetica, fino al punto di usare prove biologiche. Questi due articoli costituiscono un nuovo sviluppo del nostro Diritto. Precedentemente essi non esistevano, al fine di tutelare la famiglia da turbamenti che potevano risultare dal riconoscere di fronte al mondo intero figli nati al di fuori del matrimonio. Ora questo riconoscimento è permesso, ma è negato a coloro che vengono concepiti tramite la riproduzione artificiale, proteggendo così i donatori a detrimento del diritto del bambino.L'anonimato dell'identità del donatore è una condizione imposta da questa legge a coloro che utilizzano le tecniche di riproduzione artificiali. Né l'anagrafe consente alcuna allusione che potrebbe rivelare l'identità del donatore o perfino le circostanze del concepimento; la menzogna è stata istituzionalizzata. L'articolo 14 della Costituzione dichiara che tutti gli spagnoli sono uguali di fronte alla Legge; l'articolo 39 garantisce la totale protezione dei bambini, uguali di fronte alla legge a prescindere dalla loro filiazione... I bambini concepiti mediante tecniche di riproduzione artificiale con un donatore anonimo vengono discriminati.L'inseminazione/fecondazione artificiale con il liquido seminale di un donatore anonimo è previsto per le donne senza un partner che poi danno alla luce un bambino senza 158 padre. La famiglia monoparentale, una triste conseguenza del divorzio dei genitori, viene incoraggiata e favorita grazie a queste tecniche. I bambini di genitori separati e madri vedove per lo meno hanno una conoscenza parziale del padre: conoscono la sua identità e la sua genealogia che permette loro di sentirsi integrati nel filum familiare. Ma un'ulteriore difficoltà per i bambini concepiti da donatori anonimi è che ad essi manca un riferimento paterno o materno (se sono il prodotto di una donazione di ovulo). Peraltro, il rischio di unioni tra consanguinei non è stato del tutto valutato.È l'articolo 13.2 che più chiaramente e indiscutibilmente interferisce con la dignità ed i diritti fondamentali della persona. "Nell'utero qualunque intervento sull'embrione o sul feto vivo o sul feto in grado di vivere fuori dall'utero avrà solo un intento terapeutico, quello di favorire il suo benessere ed agevolare il suo sviluppo". Si deve dare un'interpretazione a sensu contrario ed eliminare gli eufemismi per cogliere il vero significato di questo articolo. Esso autorizza l'utilizzo di feti vivi fuori dall'utero per scopi terapeutici che non favoriscono il loro benessere se essi non sono considerati in grado di vivere, ad esempio trapiantando i loro organi a beneficio di terze parti. La Sentenza che ha risolto il ricorso di incostituzionalità contro questa legge sarà oggetto di una disamina più dettagliata nel corso del presente articolo. Legge 42/1988 sulla donazione e l'uso di embrioni e feti umani, o delle loro cellule, dei loro tessuti o dei loro organiSulla stessa linea della legge precedente, in conformità con l'articolo 5.4, "I feti espulsi prematuramente e spontaneamente, e considerati biologicamente capaci di vivere, saranno trattati all'unico scopo di favorirne lo sviluppo e l'autonomia di vita". A sensu contrario, i feti non in grado di vivere non saranno trattati clinicamente con l'unico scopo di favorirne lo sviluppo e l'autonomia di vita: saranno lasciati morire.Nel capitolo che si occupa delle violazioni e delle sanzioni, l'art. 9.e considera che la sperimentazione che utilizza embrioni o feti vivi costituisce una violazione molto seria, a meno che essi non siano in grado di vivere al di fuori dell'utero e la sperimentazione su di essi sia stata approvata dalle pertinenti autorità pubbliche o, se precedentemente stabilito da regolamento, dalla Commissione Nazionale (che non è stata costituita).Nel risolvere i ricorsi di incostituzionalità contro queste leggi, la Corte Costituzionale non ha considerato, stranamente, che i succitati articoli erano incostituzionali, ovverosia non ha considerato che questi articoli erano contrari al diritto alla vita tutelato dall'articolo 15 della Costituzione spagnola. E' importante considerare che qui non abbiamo a che fare con embrioni 'in vitro' o bambini concepiti e non nati, ma con neonati.Regio Decreto 413/1996 del 1 marzo, relativo ai requisiti dei centri e dei servizi sanitari connessi alle tecniche di riproduzione assistitaQuesta norma stabilisce i requisiti operativi e tecnici necessari per l'autorizzazione e la uniformazione dei centri e dei servizi sanitari connessi alle tecniche di riproduzione assistita.A giudicare dal suo titolo, questo decreto fa riferimento ad aspetti amministrativi, ma in verità regola niente di meno che la donazione di gameti ed embrioni con una chiara mancanza di precisione grammaticale e terminologica.Riguardo agli embrioni, all'articolo 12.a si afferma "Essi non verranno utilizzati a scopo di fecondazionein vitro in un'altra donna che non sia quella della coppia, a meno che l'uomo e la donna concordino la donazione per iscritto..." Questo requisito dell'autorizzazione da parte dell'uomo non viene stabilito in caso di aborto, sebbene il bambino concepito sia già impiantato nella donna, sia più sviluppato e più capace di vivere. Questo permesso non viene richiesto neanche quando si afferma che la "sola possibile alternativa" per i quasi 300.000 embrioni congelati è di distruggerli e di usarli per la ricerca...Ogni immaginabile difficoltà viene creata per impedire l'impianto in un'altra donna che porterà la gravidanza a termine, sebbene ciò sia consentito per legge e ci sia una lista di donne disposte all'adozione prenatale. 159 GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SPAGNOLA Sentenze della Corte Costituzionale sul diritto alla vita nelle sue fasi iniziali. In Spagna ci sono tre sentenze che sono dirette a dirimere tre ricorsi di incostituzionalità riguardo lo status giuridico del bambino concepito ma non nato. Devo annotare che in nessuno dei tre ricorsi è stata presentata una prova biologica, da parte di periti, per provare la natura biologica dell'essere concepito ma non nato dal momento del concepimento. Nessun esperto in medicina, embriologia o biologia è stato convocato per provare la condizione di essere umano dal momento in cui l'ovulo è stato fecondato. La Corte Costituzionale ha emesso la sua sentenza da prospettive che non hanno tenuto conto del punto di vista biologico dell'inizio della vita perché nessuna affermazione solenne, rapporto, o nuova informazione di qualsiasi genere è stata addotta che avrebbe potuto far crescere la consapevolezza ed illuminare i magistrati.La sentenza 53/1985 risolve un ricorso presentato contro la Legge Organica 9/1985 del 5 luglio che depenalizzava l'aborto volontario in alcune circostanze. La sentenza 212/1996 risolve quello contro la Legge 42/1988 Sulla donazione di embrioni, delle loro strutture e cellule. La sentenza 116/1999 si occupa della Legge 35/1988 Sulle tecniche di riproduzione assistita. Sentenza 53/1985 Questa sentenza stabilisce un'interpretazione del diritto alla vita come contenuto nell'articolo 15 della Costituzione spagnola. Nella ratio desidendi n° 5 si fa rilevare che "la vita umana è un lento processo di sviluppo che inizia con la gestazione durante la quale una realtà biologica gradualmente prende forma corporea e conformazione umana e che termina con la morte" la vita del nasciturus, in quanto incarna un valore fondamentale (la vita umana) garantito dall'articolo 15 della Costituzione spagnola, costituisce un valore legalmente tutelato conformemente al suddetto precetto costituzionale... Questa tutela comporta due obblighi per lo Stato; quello di astenersi dall'interrompere od ostacolare il processo naturale di gestazione e quello di istituire una struttura legale che tuteli efficacemente la vita e che, considerata la natura fondamentale della vita, includa norme penali".Come si può osservare, in questa sentenza la Corte riafferma la tutela del nasciturus fino al punto da collegarla all'articolo 15 che è il primo tra i diritti fondamentali e le libertà pubbliche della Costituzione spagnola ed in base al quale "tutti hanno diritto alla vita". Ma è considerato semplicemente un valore legalmente tutelato. Questa sentenza risolve la questione dell'aborto nel caso di conflitto tra la madre ed il feto, dando la priorità alla madre. In un certo senso, è come se l'esonero derivante dalla necessità venisse applicato in modo molto permissivo. Il problema diviene chiaro quando consente l'aborto di embrioni e feti con seri difetti fisici, promuovendo in tal modo l'eutanasia. Sentenza 212/1996 La sentenza della Corte Costituzionale segna un cambiamento di direzione nel modo di considerare il valore della vita umana accordando meno tutela rispetto alla sentenza precedente. La gerarchia dei valori viene alterata imponendo il criterio della vitalità (la probabilità della vita di continuare al di là del fatto che il bambino sia vivo). La sentenza prende in considerazione il succitato articolo 5.4 ritenendolo conforme alla legge. "I feti espulsi prematuramente e spontaneamente, e considerati biologicamente vitali saranno trattati clinicamente con l'unico scopo di favorirne lo sviluppo e l'autonomia di vita". Da ciò si può arguire che un feto nato vivo che non sia considerato capace di vivere non avrà il diritto ad essere trattato clinicamente allo scopo di favorirne lo sviluppo e l'autonomia di vita; non avrà nessun diritto alla vita. Occorre considerare che qui non abbiamo a che fare con un nasciturus, come specificato 160 precedentemente.Vale la pena soffermarsi ad esaminare il significato di vitalità perché è un criterio che è stato imposto al fine di giustificare la distruzione di embrioni e l'utilizzo di embrioni e feti a scopo di sperimentazione. Si deve ricordare che, in conformità con la prima Clausola supplementare sezione e) della Legge 42/1988, il Governo avrebbe dovuto istituire entro sei mesi dalla promulgazione di questa legge, "I criteri di vitalità o di mancanza di vitalità del feto fuori dall'utero con effetto su questa legge". Il Governo non ha annunciato nessun tipo di criterio, ma anche se l'avesse fatto, quando abbiamo a che fare con un feto nato vivo, la vitalità è semplicemente una prognosi, non è un criterio oggettivo; è un'opinione soggettiva che viene proiettata su un futuro incerto. Se la vitalità viene giudicata dal grado di maturità del neonato nato vivo non esiste nessun parametro applicabile per tale misurazione. La prognosi in medicina si basa su dati statistici e questi cambiano a seconda dei progressi tecnologici. Oggi, bambini che non pesano più di 500 grammi alla nascita sopravvivono, cosa che sarebbe stata inimmaginabile fino ad alcuni anni fa. La prognosi si contrappone alla diagnosi che è la registrazione di un evento esistente, non la futura incertezza della prognosi, ma una situazione effettiva che può essere verificata dal dottore. Nel caso di un feto nato vivo, non è necessaria neanche l'opinione di un professionista perché la prova del fatto che sia vivo si può semplicemente constatare. Come il Magistrato Gabaldón ha dichiarato: "se la vita deve essere tutelata, la sola condizione di esclusione sarà quella che non c'è più vita nell'organismo".C'è differenza tra un feto nato vivo ed un bambino prematuro? Una tale differenza non esiste. Né il nostro codice legale, né la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia -­‐ sottoscritta da 157 paesi inclusa la Spagna -­‐ stabiliscono una tale distinzione, anzi è vero il contrario. La summenzionata Convenzione richiede il riconoscimento della personalità legale per il bambino nato vivo sin dal momento della sua nascita, senza porre alcun limite di peso o periodo di gestazione. Dal momento che è un trattato internazionale è prioritario rispetto all'articolo 30 del Codice Civile che richiede che il bambino viva 24 ore fuori dall'utero per poterne riconoscere la personalità legale, come affermato prima.La sentenza sostiene che la legge contro cui è stato fatto ricorso è essenzialmente conforme alla Costituzione. Una volta che le gerarchia dei valori è stata alterata e la vitalità viene prima del diritto alla vita non è difficile azzardare che la porta per l'eutanasia sia stata aperta. Perché non applicare questo criterio ai malati anche se non sono necessariamente malati terminali o a quelli non esclusivamente in età molto avanzata? Sentenza 116/1999 Questa sentenza risolve il ricorso contro la Legge 35/1988 sulle tecniche di riproduzione assistita. La Corte Costituzionale non prende in considerazione i punti essenziali del ricorso. Insiste nel mettere la salute e la vitalità prima del diritto alla vita. La ratio desidendi n° 11 ammette l'utilizzo degli esseri umani a fini di ricerca e di sperimentazione scientifica; afferma che "pre-­‐embrioni che non sono stati impiantati (...) non sono esseri umani, e pertanto il fatto che dopo un determinato periodo di tempo essi siano a disposizione delle banche non può essere considerato contrario al diritto alla vita (articolo 15 della Costituzione spagnola) o alla dignità umana (articolo 10.1 della Costituzione spagnola)".La sentenza afferma anche che i pre-­‐
embrioni in vitro non hanno la stessa tutela di quelli che sono stati trasferiti nell'utero. È possibile sconsigliare il loro trasferimento nell'utero (per distruggerli) se sono portatori di malattie ereditarie. La Corte Costituzionale ha "risolto" la polemica sul destino di questi embrioni congelati dichiarando che l'embrione che non è stato impiantato non è né una vita umana, né una persona e non ha diritto alla vita. Allora, sembra che non esista neanche; deve essere un "embrione virtuale". La sentenza afferma che "usare questi embrioni a scopo di sperimentazione non è pertanto una violazione dei loro diritti" (perché nega che essi abbiano tali diritti). Dunque, i pre-­‐embrioni sono tutelati meno di quanto lo siano quelli già impiantati, ma anche questi ultimi, 161 che sono già nell'utero, possono essere distrutti, se sono portatori di malformazioni.L'aspetto più serio di questa sentenza è che considera l'articolo 13.2 della legge 35/88 conforme alla Costituzione. Di nuovo, si può arguire che i feti nati vivi fuori dall'utero (neonati) che non sono considerati vitali possono essere utilizzati per altri scopi terapeutici che non favoriscono il loro benessere; cioè, utilizzare i loro organi e le loro strutture per trapianti, o per produrre medicine.Il criterio di vitalità non è stato definito, il che porta a ritenere che possa riferirsi al grado di maturità e non a feti acefali con deformità teratologiche.Coloro che hanno fatto ricorso non hanno presentato nessuna prova che avrebbe potuto aiutare la Corte, e non hanno neanche menzionato la raccomandazione 1100 del Consiglio d'Europa. L'articolo 13.3 della Legge 35/88, l'oggetto di questa sentenza, rimane in vigore; non è stato dichiarato incostituzionale. Lascia la porta aperta alla legalizzazione della sperimentazione su feti nati vivi che non siano considerati vitali a causa del loro grado di maturità, ma che sono, a tutti gli effetti, neonati il cui diritto alla vita è indiscutibile.Che tutela rimane per gli embrioni in vitro o per quelli congelati? Vi prego di notare che il pretesto di considerare se sia una persona o meno, se si trovi nell'utero o no, sono solo sottili distinzioni che in ogni caso vengono superate dal criterio di vitalità che è un criterio soggettivo che si applica anche al feto, anche a quello nato vivo, ed in questo ultimo caso fa riferimento a qualcosa di impreciso, variabile e dipendente dai progressi tecnologici, come nel caso del grado di maturità SULLA CLONAZIONE UMANA La clonazione costituisce una violazione del diritto alla vita in senso profondamente umano perché interferisce con l'identità e l'unicità della persona, senza tener conto del grande numero di embrioni che vengono perduti nei tentativi di clonazione. La summenzionata Legge 35/88 proibisce qualunque tipo di clonazione, ma il nuovo Codice Penale, articolo 161, punisce solo la creazione di esseri umani identici a scopo di selezione razziale. Da ciò si può dedurre che la clonazione non costituisce un reato a condizione che non sia a scopo di selezione razziale. In questo caso specifico si è fatto un passo indietro rispetto alla tutela garantita dalla Legge 35/88. In ogni caso si deve ricordare che la Spagna ha ratificato l'Accordo del Consiglio d'Europa sulla Biomedicina che respinge qualunque tipo di clonazione, specialmente nel suo Protocollo.È molto interessante riflettere sui punti stabiliti nella Risoluzione del parlamento europeo sulla clonazione umana.(26)Si fa riferimento all'embrione come vita umana sin dai suoi primi momenti (pre-­‐
embrione). Si ritiene che abbia dignità e che sia degno di protezione e tutela, e che la sua distruzione vada contro le norme morali.C'è una reazione alla manipolazione della lingua "una nuova strategia semantica che cerca di indebolire la portata morale della clonazione umana".Mette in evidenza che queste tecniche sono contrarie all'ordine ed alla moralità pubblica, e che la clonazione è un attacco ai principi morali vigenti in Europa.In nessun punto si fa riferimento a norme religiose o a dogmi di fede, solo dignità, moralità ed ordine pubblico.Si rivolge ai Membri del Parlamento del Regno Unito affinché votino secondo le proprie coscienze e non si facciano influenzare da cause esterne. In questo modo dimostra che la verità può essere trovata nella coscienza dell'individuo.Considera che i diritti umani ed il rispetto della dignità e della vita umana devono essere un costante scopo della politica legislativa dei governi. 162 CONCLUSIONI
Chi beneficia della degradazione dell'essere umano? Come si può osservare, atteggiamenti permissivi o anche un chiaro sostegno alla sperimentazione, alla distruzione degli embrioni umani, all'aborto, alla riproduzione artificiale, e all'eutanasia appartengono a determinati gruppi politici. Se ci fermiamo a chiederci quali benefici si ottengano si potrà facilmente notare che gli interessi economici sono al primo posto. Gli affari in questo campo muovono enormi quantità di denaro, il che li rende tra i più remunerativi in Europa. Ma esistono anche motivi politici che promuovono tali affari. Coloro che difendono queste posizioni permissive costantemente alludono ai diritti, alla libertà personale, mai alla responsabilità o all'impegno; l'immediato soddisfacimento del desiderio personale viene legittimato.La soluzione non è quella di continuare a stilare altre Dichiarazioni di diritti umani, sebbene sia un bene fare questo. Per migliorare la situazione queste dichiarazioni devono essere accompagnate da un'adeguata informazione e formazione rivolta a tutti coloro che hanno un qualche potere e influenza nella società, come politici, magistrati, giornalisti, insegnanti. Questo è particolarmente importante per i giovani che rappresentano la nostra speranza per il futuro.La lista dei diritti umani si allunga ogni giorno di più, ma questo aumento finisce con lo sminuire la portata di questi stessi diritti perché li diluisce in un mare di buone intenzioni. Oggi, l'uomo ha tutti i diritti immaginabili, ma quelli che in realtà sono oltraggi e violazioni al vero significato della dignità umana diventano diritti, o viene richiesto il loro riconoscimento come diritti. Si può osservare che la concessione di questi presunti diritti porta sempre al danneggiamento di qualcun altro: gli esseri umani vittime dell'aborto, i bambini adottati da omosessuali, i bambini di donne sole concepiti da un donatore anonimo, gli embrioni umani distrutti a scopo terapeutico.Il 17 novembre una sentenza della Corte Suprema francese ha suscitato una grande polemica a cui ha fatto seguito un vivace dibattito perché è stata interpretata come il riconoscimento del paradossale diritto a non nascere, un autentico parossismo dei diritti umani.Come è risaputo, malgrado le solenni Dichiarazioni, i diritti fondamentali, di fatto, vengono troppo frequentemente violati. Ma l'attuale situazione è più grave perché le leggi e le sentenze che ho commentato stanno istituzionalizzando queste violazioni. Non sono vere norme giuridiche. Possiamo considerare leggi solo quelle che sono inscritte nell'ordine naturale. 163 (1) Legaz Y Lacambra L., La noción jurídica de la persona humana y los derechos de hombre, in Revista de Estudios Políticos, Madrid, 155, p. 45. (2) Bodin, J., Expose du Droit universel, Parigi, Presses Universitaires de France, 1985, p. 17. (3) 4 Cfr. Wieacker F., Historia del Derecho Privado en la Edad Moderna, Madrid, Aguilar, 1957, p. 249. (4) "Quod natura omnia animalia docuit", Cd. Ulpiano, Digesto, 1, 1, 1, S3. (5) Cfr. Millán Puelles A., Léxico Filosófico, Madrid, Rialp, 1984, pp. 223-­‐224. (6) Robles G., Los derechos fundamentales y la ética en la sociedad actual, Madrid, Civitas, 1992, p. 37. (7) Jellinek G., Savigny, Stahk seguono questa teoria. Jelline nega l'origine roussoniana della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, ponendo l'origine nella Riforma più concretamente nel Will of Right delle colonie americane, (JELLINE K.E., BOUTMY E. ET AL., Orígenes de la Declaración de Derechos del Hombre y del Ciuddano,Madrid: Editor Nacional, 1984: 18. La posizione di Jelline è chiaramente positivista, rifiuta esplicitamente la legge naturale come fondamento dei diritti umani. (8) Cfr. Fernández Galiano A., Lecciones de Teoría del Derecho y Derecho Natural, Madrid, Universitas, 1993, p. 397. (9) Cfr. Hernández Gil A., Metodología de la ciencia del Derecho, Madrid, Antonio Hernández Gil, 1971, p. 89. (10) Vila-­‐Coro M.D., Introducción a la Biojurídica, Madrid, Universidad Complutense de Madrid, 1995, pp. 173-­‐ss. (11) Lucas Lucas R., ¿Cuándo se inicia la persona humana? Individualidad biológica y existencia personal, in Lopez Barahona M., Lucas Lucas R., El inicio de la vida, Madrid, B.A.C., 1999, p. 92. (12) Sentenza n. 53 dell'11 aprile 1985. (13) González Pérez J., La Dignidad de la Persona, Madrid, 1986, pp. 84-­‐86. (14) Il Genoma Umano e l'UNESCO. Il Comitato internazionale di Bioetica dell'UNESCO, istituito dal Direttore Generale Prof. Federico Mayor Zaragoza, ha ideato la prima Dichiarazione Universale sul Genoma Umano e sui Diritti Umani in cui viene dichiarata l'inviolabilità del genoma umano. É il primo strumento universale nel campo della biologia. Questa dichiarazione è stata approvata all'unanimità e plaudita dalla Conferenza Generale nel corso della sua XXIX° sessione. Costituisce il primo strumento universale in campo biologico. La Conferenza Generale delle Nazioni Unite ha accluso una risoluzione applicativa a questa Dichiarazione, in cui si chiedeva agli Stati Membri di prendere misure adeguate al fine di promuovere i principi in essa contenuti e di incoraggiare la loro applicazione. L'impegno morale preso dagli Stati nell'adottare questa Dichiarazione è un punto di partenza: mostra una consapevolezza a livello mondiale circa la necessità di una riflessione etica relativa alla scienza e alle tecnologie. Il Direttore (UNESCO, ICB Noordwijk La Haya dicembre 1998) ha messo in evidenza che la più grande sfida del prossimo millennio ha una portata etica. È un punto di riferimento per le Nazioni, come l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto nell'approvare questa Dichiarazione. L'articolo 2 afferma: "Ogni individuo ha il diritto al rispetto della sua dignità e dei suoi diritti qualunque siano le sue caratteristiche genetiche". Questa dignità impedisce che gli individui vengano ridotti alle loro caratteristiche genetiche e garantisce che" il carattere unico e la diversità di ognuno vengano rispettati". È mia opinione che il genoma umano debba essere definito prendendo in considerazione l'ambiente prenatale quale elemento costitutivo a motivo della sua estrema importanza nel determinare il modo in cui i geni vengono espressi. 164 (15) Tuck R., Natural right theories. Their origin and development, Cambridge University Press, 1979, capitolo 1. (16) Romeo Casabona C., El Derecho y la Bioética ante los límites de la vida humana, Madrid, Ceura, 1996, p. 66. (17) Recasens Siches L., Filosofía del Derecho, Messico, Porrúa, 1961, p. 559. (18) Ortega Y Gasset J., Qué es filosofía, in Obras completas, Madrid, Alianza Editorial, 1983, Vol. VII, p. 425. (19) In Spagna, la prima legge sulla Tutela dell'Ambiente è stata promulgata nel 1972. (20) Vedi Vila-­‐Coro M.D., Huérfanos Biológicos, el hombre y la mujer ante la reproducción artificial, Madrid, San Pablo, 1997, pp. 59-­‐66. (21) Rodriguez Delgado J.M., La mente del niño, cómo se forma y cómo hay que educarla, Madrid, Aguilar, 2001, pp. 46-­‐47. (22) Fernández De Buján F., La vida Principio rector del derecho, Madrid, Dykinson, 1999. (23) La Legge Organica 10/1995 del 23 novembre specifica i crimini per danno al feto: articoli 157 e 158 del Codice Penale Titolo IV. (24) Questo primo caso è stato sempre in vigore in conformità col l'articolo 20.5 del Codice Penale che esenta da responsabilità penali la persona che, in uno stato di necessità per prevenire danni per sé o per un'altra persona, lede o danneggia i diritti legali di un'altra persona o contravviene ad un dovere, a condizione che certi requisiti vengano rispettati. (25) Art.143.2: "La persona che coopera in atti indispensabili per il suicidio sarà condannato a due o tre anni di prigione". Art. 143.3: "Se la cooperazione arriva al punto di causare la morte la pena andrà da sei a dieci anni". (26) PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione sulla Clonazione Umana, (8settembre 2000). 165 CARLO CAFFARRA
LEGGE NATURALE, MATRIMONIO E PROCREAZIONE STATUS QUAESTIONIS Vorrei in primo luogo porre nel modo più preciso la domanda alla quale cercherò nelle pagine seguenti di dare una risposta. Un poeta italiano scrisse: "dal dì che nozze, tribunali ed are dieron all'umane belve d'essere gentili". Egli esprime una convinzione pacificamente posseduta da ogni popolo e presente in ogni cultura: il matrimonio, l'amministrazione della giustizia e la religione segnano il passaggio dal regno animale al regno umano. Gli animali non si sposano, non hanno tribunali e non costruiscono templi. Dunque, anche il matrimonio e la sua espansione nella famiglia è un fattopropriamente umano: propriamente ed esclusivamente. La nostra presente riflessione si propone di individuare il significato preciso del "propriamente ed esclusivamente umano" che definisce il contenuto dell'istituzione matrimoniale e familiare. La domanda cioè potrebbe essere formulata almeno in prima battuta nel modo seguente: in che cosa consiste l'humanum del matrimonio? Così formulata , la domanda sembrerebbe subalterna ad un'altra domanda, più radicale: in che cosa consiste l'humanumdella persona umana come tale? Il problema su cui stiamo riflettendo ci porta dentro al grande dibattito antropologico che ha caratterizzato il percorso teoretico della modernità, fino ai suoi esisti nichilisti. Ed infatti tale percorso si è ripercosso puntualmente nella concezione del matrimonio e della famiglia, fino all'esito attuale. Se la definizione dell'humanum è esaustivamente riconducibile alla sua libertà; se quella definizione è opera della libertà stessa, ne consegue che l'humanitas del matrimonio è il suo essere semplicemente e puramente creazione della libertà umana: creato ... ex nihilo sui et subiecti, in un certo senso. L'introduzione dentro alle legislazioni europee del riconoscimento delle coppie omosessuali; l'attribuzione a queste o ai singoli del diritto di procreare (in vitro!) o di adottare è la traduzione giuridica di questa prospettiva. Ma la stessa vicenda teoretica e pratica della riduzione della verità intera dell'uomo alla sua libertà può anche essere letta e compresa da un altro punto di vista, quello che parallelamente e consequenzialmente espunge la corporeità dalla costituzione della persona umana. Alla luce di questa espulsione, la diversità dei sessi e la procreazione in quanto conseguenza della loro unità apparterrebbero alla dimensione biologica, non propriamente umana (del matrimonio della) della persona umana: la procreazione può essere sostituita legittimamente dai procedimenti artificiali procreativi; la comunità coniugale fondata sulla diversità dei sessi può essere sostituita legittimamente dalla comunità "coniugale" omosessuale. Che cosa resta? Quale "residuo di humanum" permane in questa prospettiva? La visione del matrimonio come "relazione pura". E' ciò che ha espresso A. Giddens per esempio in un'opera del 1992. (1) Il vissuto coniugale in quanto vissuto umano assume la figura di una contrattazione fra due ricerche di felicità individuale che possono anche scontrarsi, in cui l'unica condizione decisiva è "la parità dei conti nel dare e nell'avere" (2). Il matrimonio è sempre più un fatto "privato-­‐
soggettivo": un puro vissuto che la legge civile deve semplicemente registrare, anziché un "dover-­‐
essere" che la legge civile deve riconoscere. E quindi si comprende come abbiano potuto essere introdotti modelli para-­‐matrimoniali: Ley de uniones stables de pareja in Catalogna (1998); Ley de parejas estables no casadas in Aragona (1999); Ley que adopta medidas de protecao de unido de facto in Portogallo (1999); Pacte civil 166 de solidarité in Francia (PACS) (1999).La conferma di questa riduzione tendenzialmente completa dell'humanitas del matrimonio e della famiglia ad una semplice negoziazione delle parti la si ha nella progressiva giuridizzazione del rapporto genitori-­‐figli e la tendenza ad ampliare l'intervento del giudice nella vita della coppia in quanto tutela dell'individuo. (3) In breve: da una concezione del matrimonio fondato su esigenze di legge naturale si è passati alla concezione del matrimonio come fondato esclusivamente sul diritto di autodeterminazione individuale. Penso di non cadere in un rozzo semplicismo teoretico dicendo che lo status quaestionis sotteso dal tema: "Legge naturale: matrimonio e procreazione" è esprimibile dal seguente dilemma: l'humanitas della comunità coniugale e familiare è esaustivamente riconducibile alla libera autodeterminazione degli individui oppure essa ha un suo contenuto che si impone alla libera autodeterminazione degli individui come la verità si impone alla libertà? Un'ultima premessa. Non affronto la questione dal punto di vista generale, poiché lo fanno in sostanza tutte le relazioni di questo Seminario di studio. LA NATURALITÀ DEL MATRIMONIO Possiamo dare inizio alla costruzione della nostra risposta, partendo dalla riflessione su due testi della Lett. Enc. Veritatis Splendor. Il primo recita: "Si può ... comprendere il vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura propria ed originale dell'uomo, alla natura della persona umana, che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine" (4). E poco più sotto: "In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua totalità unificata, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale, si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana". (5). La risposta alla domanda sulla "naturalità" del matrimonio potrebbe dunque essere formulata nel modo seguente: il matrimonio (e la procreazione come frutto dell'unione sessuale dei due sposi) (6) si fonda sulla natura della persona umana, in quanto esso realizza nell'unità le sue inclinazioni sessuali che sono di ordine sia spirituale sia psicologico che biologico, secondo la verità intera della persona medesima. Vorrei ora nel seguito spiegare punto per punto questa risposta, e dimostrarne la verità. Ho significato la naturalità del matrimonio parlando di una "fondazione" di questo sulla natura della persona umana. Ho voluto evitare in questo modo due errori opposti presenti nella riflessione sul nostro tema. L'errore di affermare unaneutralità o indifferenza assiologica del matrimonio nei confronti della realizzazione della persona: il bene della persona e il matrimonio sono indifferenti l'uno per l'altro. Sposarsi non è per (il bene del) la persona né bene né male. Oppure un errore contrario (che troviamo spesso in chi contesta il valore morale della verginità cristiana): non esiste possibilità di una vera realizzazione piena della persona umana all'infuori della vita matrimoniale. Parlare di fondamento del matrimonio e della procreazione nella persona umana significa dire che essi trovano spiegazione e ragione d'essere nella natura della persona umana: è questa natura il fondamento e il principio del matrimonio e della procreazione, senza però che questa natura esiga per il singolo il matrimonio. Ma che cosa si intende, nel contesto del discorso che andiamo facendo "fondamento e principio" con cui si qualifica la natura della persona umana in ordine al matrimonio e alla procreazione? 167 Significa la presenza in questa di inclinazioni sessuali di ordine sia spirituale (7) sia psicologico sia biologico che nella loro unità muovono la persona a sposarsi e a generare la vita. E' questo il punto centrale della nostra spiegazione e dimostrazione. La tesi dell'unità sostanziale della persona umana, che qui presuppongo dimostrata, ha conseguenze teoreticamente rilevanti per la conoscenza del senso del dimorfismo sessuale. La persona umana è persona umana-­‐donna; è persona umana-­‐uomo. La femminilità/mascolinità strutturano e configurano la persona umana. La reciproca attrazione o inclinazione possiede dunque un senso interamente umano: biologico, psichico e spirituale. E' unitariamente, dal punto di vista strutturale, attrazione/inclinazione biologica, psicologica e spirituale. Il vero nodo teoretico da sciogliere è questa unità nella tridimensionalità. Che cosa significa: è unitariamente biologica-­‐psichica-­‐spirituale? È ancora la tesi dell'unità sostanziale della persona umana che deve guidarci alla risposta. L'unità delle tre dimensioni della reciproca attrazione-­‐inclinazione non può essere pensata teoreticamente in termini di "dominio" e quindi di "uso" di una dimensione nei confronti dell'altra. Sottolineo "teoreticamente": è vero che nella congiuntura dell'attuale condizione umana (8), come ci viene spiegato dalla fede cristiana, l'unità, meglio sarebbe dire l'unificazione è opera di un dominio (9) della dimensione che si giudica superiore sopra quella inferiore. Ma non stiamo facendo per ora un discorso etico. D'altra parte, si cadrebbe nel più grossolano errore se si pensasse l'unità nei termini di una confusione fra realtà ontologicamente diverse come lo sono la materia e lo spirito. Indivise et inconfuse: verrebbe da dire, desumendo una formula cristologica. Positivamente, mi sembra che esista un solo modo di pensare l'unità di cui stiamo parlando. Da un punto di vista fenomenologico è l'unità che esiste fra il "segno" e il "significato": il corpo esprime la persona (quae in corpore manifestatur, cfr. Veritatis splendor);(10) in questo consiste il significato specificamente umano del corpo. Il corpo è il segno della persona; la persona è significata dal e nel corpo. Stiamo però parlando di inclinazioni, dunque del movimento del soggetto umano verso la sua realizzazione, cioè verso il suo fine, cioè verso il suo bene. Non un bene qualsiasi, ma il bene della persona in quanto persona -­‐ maschio "inclinata" verso la persona-­‐femmina, e reciprocamente. Cioè: stiamo parlando della persona in quanto inclinata a con-­‐vivere con le altre persone nella forma specifica di societas coniugalis, di consortium maris et foeminae. In che cosa consiste il bene della persona così considerata? La risposta che qui di seguito darò presuppone la critica dell'utilitarismo, anche nelle sue forme odierne più sofisticate, come unica ragione o prevalente ragione dell'umano con-­‐vivere. La teoria sociale dell'utilitarismo è conseguenza, in sostanza, della negazione della capacità della ragione di cogliere un bene puramente intelligibile. L'unico modo buono di realizzare l'inclinazione-­‐attribuzione uomo-­‐donna è quello nel quale la persona di ciascuno in quanto tale è riconosciuta nella sua dignità, e nel quale l'una cessa di essere estranea all'altro perché diventa l'unadell'altra. Ora questa modalità è l'amore che si esprime e realizza nel dono di sé (non è questo il luogo di fare una completa esposizione del concetto di amore come dono di sé). Il bene della persona consiste nel dono di sé. L'essere le persone "quasi propter se procuratae, creaturae vero aliae quasi ad rationales creaturas ordinatae" (11) fa sì che si possono associare solamente nella giustizia, e nell'amore che si esprime nel dono di sé. Ritorno ora al problema dell'unità delle inclinazioni nelle loro dimensioni biologica, psichica e spirituale. L'unità consiste nel fatto che la dimensione biologica e psicologica esprimono la persona nella sua dimensione spirituale: soggetto chiamato a realizzarsi nel dono di sé.(12) Ciò che è significato è la persona che si realizza nel dono di sé. Vorrei ora approfondire e chiarire 168 ulteriormente questa unità, poiché dobbiamo cercare di evitare due errori opposti e soprattutto vedere nella verità questa unità di cui stiamo parlando. L'inclinazione reciproca della mascolinità-­‐femminilità se considerata esclusivamente dal punto di vista biologico e/o psicologico non è ordinata, meglio, orientata al dono di sé. Usando l'accurata distinzione tommasiana di finis proprius e finis debitus, diremmo che così considerata quell'inclinazione non muove l'uomo e la donna ad unirsi nel dono di sé: non ha come fine proprio il dono di sé. Biologicamente intesa, ha come fine proprio quello di porre le condizioni del concepimento di un nuovo individuo della specie umana; psicologicamente intesa ha come fine proprio quello di giungere ad una soddisfazione di un bisogno. In questo senso, così intesa, la natura della persona umana non è principio e fondamento del matrimonio. Bisogna dunque concludere che il significato (realizzazione della persona nel dono) è imposto del tutto estrinsecamente ad un dato del tutto neutrale ed informe? Sarebbe l'errore contrario al primo. Totaliter ab intrinseco o totaliter ab extrinseco: per usare il modo con cui S. Tommaso qualifica questi due opposti errori (13). La verità è che l'inclinazione bio-­‐psichica in quanto inclinazione umana chiede di essere ispirata e governata dalla inclinazione spirituale della persona, ed in quanto il corpo è corpo umano possiede l'attitudine ad essere espressione della persona umana nella sua dimensione spirituale: il modus rationis (14) non è semplicemente, totalmente imposto ab extrinseco, ma è la modalità propriamente umana con cui l'inclinazione bio-­‐psichica all'unione dei sessi deve essere realizzata. E' da notare infine, ma non dammeno, che la persona nella sua dimensione spirituale, in quanto soggetto spirituale è naturalmente inclinata al bene: naturalmente significa precedentemente all'elezione della sua libertà. Come scrive S. Tommaso: "in ratione hominis insunt naturaliter quaedam principia naturaliter cognita tam scibilium quam agendorum, quae sunt quaedam seminalia intellectualium virtutum et moralium; et ... in voluntate inest quidam naturalis appetitus boni quod est secundum rationem" (15). Ripercorriamo ora brevemente il cammino teoretico fin qui percorso. Principio e fondamento del matrimonio e della procreazione è la natura della persona umana unità sostanziale di corpo e spirito, in quanto il matrimonio, inteso come unione fra uomo e donna costituito dal dono di sé, realizza nella loro unità le inclinazioni sia di ordine biologico-­‐psichico che di ordine spirituale inscritte nella persona umana in quanto uomo-­‐donna. Brevemente: principio e fondamento del matrimonio è la persona umana stessa in quanto uomo-­‐donna. La naturalità del matrimonio consiste in questo: nel suo essere il fine dovuto (finis debitus) della reciproca inclinazione-­‐
attrazione fra la persona umana-­‐uomo e persona umana-­‐donna. L'humanitas della comunità coniugale e familiare non è esaustivamente riconducibile alla libera autodeterminazione degli individui, poiché essa (humanitas) ha un suo contenuto costituito dalla natura della persona umana in quanto uomo-­‐donna, e dall'unità delle sue inclinazioni sia di ordine biologico-­‐psichico che spirituale. Mi restano ora da fare alcune precisazioni concettuali e terminologiche, a modo di corollario. Primo corollario. La Cost. past. Gaudium et Spes insegna: "Intima communitas vitae et amoris coniugalis, a Creatore condita suisque legibus instructa" (48,1; EV 1/1471). Le leggi proprie di cui parla il Concilio sono costituite dalla natura della persona umana in quanto uomo-­‐donna e dall'unità delle sue inclinazioni bio-­‐psichiche e spirituali. L'affermazione del matrimonio come istituzione la cui intima configurazione non dipende dalla libera determinazione di chi si sposa, è la conseguenza necessaria della fondazione del matrimonio nella natura della persona umana. Secondo corollario. La comunità coniugale non è un mero dato di fatto che rimane fino a quando la libera autodeterminazione delle parti la fa esistere. Essa è un fatto dovuto ( un dover-­‐essere) al bene della persona umana che liberamente ha voluto istituirla, porla in essere. Come ancora 169 insegna il VaticanoII: "hoc vinculum sacrum intuitu boni, tum coniugum et prolis tum societatis, non ex humano arbitrio pendet" (17). E' in ragione del bene della persona (intuitu boni) che la comunità coniugale è esigita, e non semplicemente a causa del fatto che è voluta e fin che è voluta. E' questo il significato ultimo della fedeltà e quindi della indissolubilità. In questo sta la differenza sostanziale dalle "convivenze o unioni di fatto". E' la struttura della relazione stessa come tale che è diversa. Ed è in questa direzione che deve muoversi lo Stato: le due relazioni sono diverse e non possono essere in alcuna maniera equiparate. "Le relazioni civili (civili in quanto produttive di civiltà, e non nel senso di appartenenti al civis, cioè al cittadino in quanto individuo che appartiene ad una comunità politica) hanno i loro diritti para e meta-­‐
politici (cioè che vengono prima e vanno oltre la cittadinanza statuale), i quali sono costitutivi della identità della famiglia, e attraverso di essa, della persona.... Per questo, ad esempio, una relazione provvisoria non ha gli stessi diritti di una stabile" (18). Terzo corollario. La relazione coniugale e familiare non può essere pensata nei termini di una "relazione pura". Essa non si riduce alla ricerca del bene utile della persona: si fonda sul bene onesto della persona (19) honestum dicitur quod propter se appetitur appetitu rationali, qui tendit in id quod est conveniens rationi: ad 1um). VIDETUR QUOD NON: LE OPPOSIZIONI La riduzione completa della humanitas del matrimonio e della famiglia alla libera autodeterminazione degli individui sembra essere oggi largamente prevalente nella cultura occidentale. Questa prevalenza pone problemi di ordine sia pratico che teoretico. Mi voglio ora fermare sui secondi. Nel corso della riflessione precedente ho usato più volte l'espressione "il matrimonio inteso come comunione nel dono reciproco fra uomo e donna per il dono della vita", quando ho cercato di dimostrare la fondazione del matrimonio così inteso nella natura della persona umana. Ma è proprio in questo passaggio teoreticamente decisivo che si nasconde il nodo teoretico centrale di tutta la nostra discussione. Cercherò di esprimerlo nei suoi termini essenziali. Che cosa significa "il matrimonio così inteso"? Significa che la definizione del patto coniugale e del matrimonio quale è data dal Concilio Vaticano II in Gaudium et Spes (20)e nel Codice di Diritto Canonico Can. 1055, §1 e 1057, §2 è deducibile dalla natura stessa della persona umana e dall'unità delle sue inclinazioni, mediante l'uso della ragione (21). La "costruzione" che la ragione fa della definizione di matrimonio, è una costruzione che è opera della ragione, ma di una ragione che è testimone di una realtà (quella della persona umana uomo-­‐donna) che attraverso l'esercizio della ragione si svela, e che non è posta in essere dalla ragione stessa. Nell'attuale crisi dell'istituzione matrimoniale è giunta alla luce piena la divaricazione teoreticamente radicale fra un'antropologia coniugale secondo la quale "l'esperienza rivela la libertà dell'uomo e l'uomo stesso come autodipendenza del rendersi dipendente dalla verità che non dipende da lui",(22) ed un'antropologia coniugale che presuppone "un'antropologia che presenta la libertà dell'uomo e l'uomo stesso come autodipendenza pura, ossia come il potere di determinare la verità su di sé, e dunque il potere di costituire la sua propria essenza, la sua natura" (23.). È possibile dimostrare la infondatezza ed illegittimità della seconda posizione, mostrando come essa conduca alla riduzione completa della humanitas del matrimonio e della famiglia alla libera autodeterminazione degli individui sacrificando progressivamente dati basilari dell'esperienza -­‐ conoscenza che l'uomo ha di sé. Questo "sacrificio" ha assunto la figura di successive espulsioni da ciò che si definiva la pura forma dell'umanità; la figura di separazioni progressive. Vorrei ora percorrere brevemente questo percorso: esso porta al matrimonio come flatus vocis. 170 La prima separazione, di gran lunga la più grave, è stata la separazione della sessualità dalla persona, causata dalla separazione del corpo dalla persona. Il risultato di questa separazione è stato che la sessualità ha perduto ogni serietà: ha cessato di essere "un caso serio" per trasformarsi progressivamente in gioco. Il processo della separazione del corpo dalla persona è stato un processo lungo e complesso. Mi devo limitare solo ad alcuni accenni. La tesi tomista dell'unità sostanziale della persona umana è rimasta isolata nella cultura occidentale. Di fatto, essa non è risultata vincente nei confronti di una visione di lontane ascendenze agostiniane, secondo la quale il corpo manteneva pur sempre una completa divisione dalla persona. Una divisione sempre ambiguamente pensata in termine e/o metafisici e/o etici. Più semplicemente: l'innegabile esperienza di una scissione che ciascuno vive in se stesso era interpretata non solo in chiave diciamo congiunturale, ma anche tendenzialmente strutturale. A causa di questa ambiguità di fondo, il principio fondamentale dell'oggettività posto a base della scienza moderna, non trovò alcuna resistenza ad imporsi anche nella considerazione del corpo umano. Si innescò così un processo di oggettivazione del corpo in forza della quale la persona ha fondamentalmente nei confronti del corpo la stessa relazione che ha colla natura. La considerazione naturalistica del corpo, la sua spersonalizzazione ha comportato la negazione che la sessualità abbia in sé e per sé un suo senso proprio, possedendo solo quel senso che le viene attribuito dalla libertà creatrice della persona. E qui si innesta una grave ambiguità, che è l'ambiguità presente nel rapporto uomo-­‐natura, (ed ormai la corporeità appartiene alla natura) quale si è venuto configurando in questa cultura che chiamerei della disintegrazione. Potrei esprimere questa ambiguità con una formulazione molto sintetica: o la ragione-­‐libertà umana è una ragione-­‐libertà senza natura o la natura è una natura senza ragione-­‐libertà umana. Mi spiego. Poiché la sessualità è un fatto eticamente in sé insignificante, posso fare di essa ciò che voglio. L'unica esigenza è che se nell'esercizio della sessualità è coinvolto un altro, questi deve liberamente consentirvi. Non è vero che solo l'etero-­‐sessualità è un esercizio umanamente degno: l'esercizio omosessuale ha la stessa dignità e merita lo stesso riconoscimento. E qui si innesta una precisa corrente dell'ideologia femminista. Essa si costruisce precisamente su due affermazioni. Il rapporto originario fra l'uomo e la donna non è un rapporto di reciprocità nell'assoluta uguaglianza della dignità, ma è un rapporto di conflitto nell'affermazione dell'uno contro l'altro. E secondo: la vocazione originaria della donna non è né la sponsalità, né la verginità, né la maternità. La donna non deve essere né sposa, né vergine, né madre. Ecco ciò che significa nell'ambito umano di cui stiamo parlando la ragione-­‐libertà umana è una ragione-­‐libertà senza natura. Ma esiste anche una visione opposta. La sessualità è pura natura che deve semplicemente essere seguita, pena l'infelicità dell'uomo. In linea di principio, ogni "regola" dell'esercizio della sessualità è da considerarsi contraria alla felicità dell'uomo, una indebita oppressione. Il relativismo della prima posizione si abbraccia coll'istintivismo naturalista della seconda e generano quel permissivismo sessuale che è caratteristico della nostra cultura. La rottura della connessione fra sessualità e persona legittima ormai qualsiasi esercizio della sessualità, escluso quello che pensa la sessualità come dono definitivo di sé, aperto al dono della vita; escluso cioè l'esercizio coniugale della sessualità. La seconda separazione procede sempre più all'interno della regione umana e rompe l'unità fra eros ed amore, fra psiche e spirito. Il terreno su cui questa separazione ha potuto impiantarsi e crescere, è stato l'ingresso nel nostro ethos occidentale di quella visione utilitaristica dell'uomo, che formulata coerentemente e compiutamente per la prima volta da T. Hobbes è risultata di fatto vincente. Per visione utilitaristica intendo quella concezione dell'uomo secondo la quale l'uomo non dispone di una 171 ragione egemone capace di misurare e ordinare i suoi desideri secondo specifiche virtù. Al contrario: l'uomo è portatore di desideri, passioni, interessi, alla cui soddisfazione la ragione è posta al servizio. Richiamarsi ad una verità scoperta dalla ragione e quindi ad un bene intelligibile secondo cui guidare desideri e passioni, è di fatto una indebita ed infondata limitazione dell'uomo. Nonostante le apparenze, questa proposta antropologica anziché liberare l'uomo, lo ha ridotto ad un'esistenza senza libertà che non fosse quella di seguire i propri istinti. Lo ha cioè fatto rinunciare alla sua inesauribile e naturale tensione alla verità, al suo desiderio di bene, di bellezza, di giustizia. Ha decapitato la ragione umana. Nel campo della sessualità significò e significa la espulsione della sua comprensione di ogni riferimento alla verità del dono, cioè dell'amore. Rimane solo la dimensione erotica come dimensione egemone. La separazione dell'eros dall'amore ha così legittimato una visione edonista della sessualità. Ora non c'è dubbio che una visione prevalentemente o esclusivamente edonista lavora nel senso di una separazione della sessualità dal matrimonio e, quindi del matrimonio dalla famiglia. Per quale ragione? perché una visione edonista della sessualità de-­‐responsabilizza profondamente la persona nei confronti della propria sessualità medesima: è un esercizio individualista. Resta comunque un fatto che nella sua "testardaggine" si rifiutava di essere integrato in questa antropo-­‐doxia, in questa illusione sull'uomo: il fatto biologico della capacità procreativa insita nella sessualità umana. Il grave dibattito attorno allaHumanae Vitae quindi è un momento centrale dello scontro fra le due posizioni antropologiche. La terza separazione ha rotto il rapporto fra le due capacità insite nella sessualità, quella unitiva e procreativa, in una duplice direzione. La "nobilitazione" della contraccezione ha separato nella coscienza (non solo nel comportamento) la capacità unitiva dalla capacità procreativa. La "procreatica artificiale" ha separato la capacità procreativa dalla capacità unitiva. E così il cerchio si è chiuso. L'amore coniugale non è più orientato al dono della vita sia perché si è pensato possibile un amore coniugale vero e nel contempo deliberatamente chiuso alla vita, sia perché esiste un modo di "produrre" la vita, che prescinde completamente dall'amore coniugale, frutto solo del desiderio. Per capire la portata culturale di questa distruzione del concetto di maternità-­‐paternità , vorrei richiamare la vostra attenzione su due fatti accaduti in questi anni. Il ricorso alla procreazione artificiale era stato presentato come rimedio ad una sterilità inguaribile, all'interno di una coppia legittima. Esso è andato progressivamente configurandosi come la possibilità offerta a chiunque ne sentisse il bisogno, di avere un figlio. È appunto la logica del "dominio" sulla natura per il soddisfacimento dei propri desideri. L'altro fatto, solo all'apparenza contrario, sul quale vorrei attirare la vostra attenzione è la nobilitazione della contraccezione. Se non esiste, se non è inscritto nella sessualità umana l'orientamento, la destinazione alla comunione interpersonale fra l'uomo e la donna per il dono della vita, sarà conquista di libertà avere la possibilità di togliere dalla sessualità umana la capacità procreativa. Le due attitudini, "il figlio ad ogni costo" e "il figlio come il male da evitare", nascono dallo steso spirito: la paternità-­‐la maternità non sono dimensioni costitutive dell'amore coniugale. Vale a dire: paternità-­‐maternità, amore coniugale e sessualità umana sono tre grandezze non connesse da alcuna unità interna. Arrivati a questa tappa del nostro percorso, la riduzione dell'humanitas del matrimonio e della famiglia alla libera auto-­‐determinazione degli individui, è un avvenimento completamente accaduto. Se il matrimonio è "l'unione legittima di uomo e donna per il dono della vita", la separazione di "dono dalla vita" dalla unione legittima e dalla sessualità umana ha distrutto la naturalità di matrimonio e famiglia. 172 Logicamente si è giunti al fatto forse più decostruttivo del rapporto matrimonio-­‐famiglia: la progressiva legittimazione-­‐equiparazione al matrimonio e alla famiglia di qualsiasi tipo di convivenza, anche fra omosessuali. In vari paesi sono già stati riconosciuti diritti legati alle unioni fra omosessuali, di conseguenza si sta promuovendo anche il diritto di quest'ultimi ad avere figli mediante precisamente procreazione artificiale. La sessualità non implica la definitività perché non è dono della persona. La sessualità non implica alcuna responsabilità dell'uomo verso se stesso e l'altro. La sessualità è unitiva e procreativa solo di fatto, non di diritto. Dunque: ci può essere una unione solo per gioco o piacere; ci può essere una unione omosessuale che ha lo stesso valore di quella coniugale; sessualità -­‐ amore -­‐ procreazione non sono connessi. Cioè: ogni legame fra matrimonio e famiglia che non sia un legame puramente di fatto è semplicemente negato. La naturalità del matrimonio e della famiglia così come l'intimo legame fra matrimonio e famiglia si è oscurato. CONCLUSIONE La ricostruzione della comprensione del matrimonio e della famiglia, fondati sulla natura della persona umana è un'operadel pensiero in primo luogo non più procrastinabile. Questa ricostruzione può essere fondata sull'antropologia della persona e del dono come sua unica realizzazione piena, ed anche su un approfondimento dei criteri della communio personarum. La ricostruzione è opera dell'educazione delle persone. Questa dimensione dell'impegno può essere fondata su una profonda teoria dell'atto educativo come atto che introduce la persona nella realtà: una teoria che la comunità cristiana sembra oggi non possedere in misura sufficiente. La ricostruzione è opera della testimonianza della santità nel matrimonio. Questa dimensione della ricostruzione è opera di coloro che vivono nel matrimonio, guidati ed aiutati dai pastori della Chiesa. 173 (1) Ecco come egli descrive la relazione pura: "Una situazione nella quale una relazione viene costituita in virtù dei vantaggi che ciascuna delle parti può trarre dal rapporto continuativo con l'altro. Una relazione pura si mantiene stabile fintanto che entrambe le parti ritengono di trarre sufficienti benefici come per giustificarne la continuità". GIDDENS A.,La trasformazione dell'intimità-­‐sessualità, amore e matrimonio nelle società moderne, Bologna: Il Mulino, 1995: 68. (2) Ibid. p. 72. (3) Su questa problematica si veda DONATI (a cura di), Identità e varietà dell'essere famiglia. Il fenomeno della pluralizzazione, Milano: San Paolo, 2001: 323-­‐324. (4) GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor, n.50. (5) Ibid. cf. ID., in Enchiridion delle Encicliche, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II (1979-­‐
1998), Bologna: EDB, 1998, 8: 1531. (6) Il termine procreazione sarà sempre inteso come l'unione sessuale di un uomo e una donna uniti in legittimo matrimonio, capace di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana. (7) In che senso parlo di spiritualità dell'inclinazione sessuale risulta evidente dalla riflessione seguente. (8) Secondo la fede cattolica nello stato di giustizia originale fra i doni preternaturali di cui era dotata la persona umana vi era anche la integrità, armonia fra le varie dimensioni della persona umana secondo la loro gerarchia ontologica. (9) Al termine dominio va attribuito il significato etico, non tecnologico. (10) GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor. (11) S. TOMMASO D'AQUINO, Contra Gentes, III, 112, 2856. (12) Mi permetto rimandare al mio: CAFARRA C., Etica generale della sessualità umana, Milano: Ares,1992: 51-­‐66. (13) S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, 1, 2 q. 63, a. 1. (14) Ibid., 2,2, q. 14, a. 3. (15) Ibid., 1, 2, q. 63, a. 1. (16) CONCILIO VATICANO II, Gaudium et Spes, n. 48, in Enchiridion Vaticanum, Bologna: EDB, 1993, 1: 1471. (17) Ibid. (18) DONATI, Identità e varietà dell'essere..., p. 479. (19) Cf. S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, 2,2, q. 145, a. 3. (20) CONCILIO VATICANO II, Gaudium et Spes, n. 48. (21) "Aliquid dicitur naturale dupliciter: uno modo sicut ex principiis naturae ex ncessitate causatum , ut moveri sursum est naturale igni etcet; et sic matrimonium non est naturale, nec aliquid eorum quae mediante libero arbitrio complentur. Alio modo dicitur naturale ad quod natura inclinat, sed mediante libero arbitrio completur sicut actus virtutum dicuntur naturales, et hoc modo etiam matrimonium est naturale, quia ratio naturalis ad ipsum inclinat...", (S. TOMMASO D'AQUINO, Sent., IV, dist. 26, q. 1, a. 1.). (22) STYCZEN T., Essere se stessi e trascendere se stessi, in WOJTILA K., Persona e atto, Milano: Rusconi, 2000: 725. (23) Ibid. 174