Fin che la barca va..... - Formazione

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Fin che la barca va..... - Formazione
aprile 2013
“Fin che la barca va…”
di Anna de Marziani
“C’è un momento nella vita degli individui in cui essi si schierano (…). E’ qualcosa di
simile a quello che accade nell’equipaggio di una barca a vela quando si rompe una
gomena. (…)Nessuno aspetta gli altri e nessuno intralcia il lavoro degli altri. C’è un che,
nei marinai, che sgorga dall’insieme...” (W. Erhard)
“… lasciala andare!” diceva un vecchio motivetto, specchio di un tempo in cui le cose
sembravano filare più lisce ed il mondo appariva più semplice rispetto ad ora. In realtà,
anche il marinaio più scarso sa che in mare, pur se c’è bonaccia, è meglio tenere sempre
un atteggiamento vigile, perché lo scenario può radicalmente cambiare da un momento
all’altro e quindi è bene essere pronti. La metafora della barca è davvero molto calzante
per i tempi odierni, sempre in preda a mutamenti e capovolgimenti di prospettive; eppure
stavo riflettendo su come, almeno nella formazione esperienziale, sia stata dimenticata con
troppa facilità, sia dagli utenti finali (le aziende) sia da noi fornitori: solo un decennio fa era
tutto un fiorire di “cazza la randa” e “fissa i terzaroli” ed ora su quel lessico è piombato il
silenzio. Colpa dei budget ormai poveri per la formazione? Forse, ma in realtà i
finanziamenti un po’ di fiato lo danno. Colpa dei tempi ristretti, delle esigenze di ridurre e
parcellizzare i momenti formativi? Può darsi, ma in fondo io aule di otto ore ancora le faccio
e per “assaggiare” la vela non è necessario molto di più. E allora?
Un paio di mesi fa nel gruppo di discussione LinkedIN della Community sull’Apprendimento
Esperienziale la responsabile Daniela Fregosi ha lanciato un quesito provocatorio ma a mio
parere illuminante: non è che noi formatori, che diciamo di basare la nostra docenza
sull’esperienza, ci stiamo dimenticando dell’ambito principe in cui l’esperienza viene fatta,
ossia la natura?
Non è che con la scusa della crisi stiamo tornando a lasciare le persone nelle loro “zone di
comfort” (e noi nella nostra, beninteso) rinunciando a portarle, secondo un modo di dire a
me caro, non solo fuori dalle aule ma soprattutto fuori dagli schemi?
Non sarà tutta questa richiesta di metafore “eno-culinar-teatrali” da parte del cliente un
prodotto della nostra perduta forza di proporre esperienze veramente lontane dal vissuto
dei nostri partecipanti per dare loro la reale possibilità di sperimentarsi in “mondi altri”?
Ovvio che non ho risposte facili, ma vorrei proporre innanzitutto a me stessa un tentativo
di riscoperta dei “perché” è utile utilizzare l’esperienza della barca – ed in particolare della
barca a vela – come metafora formativa, a prescindere dalla nostra passione per il mezzo e
dalle mode del momento:
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perché la barca a vela è la quintessenza del CAMBIAMENTO: salire in barca significa
cambiare mondo (non più la terra – ferma – ma il mare – mosso, a volte!), cambiare
lingua (non più “corda” ma “scotta”), cambiare abitudini (non più letto ma cuccetta),
cambiare vestiti, cambiare orari … e quindi potenzialmente apre possibilità di
cambiamento anche di mentalità, opinioni, punti di vista o quanto meno possibilità di
metterli in discussione;
perché la barca a vela è veramente un MONDO COMPLESSO: il tempo meteorologico
cambia rapidamente, così come il vento, la sua forza, così come le onde, possono cullare
o far venire la nausea. In barca anche i rapporti interpersonali sono complessi: lo spazio
è ridotto, le interazioni continue, ognuno deve davvero fare la sua parte altrimenti,
letteralmente, ci si arena. Tenere la rotta, poi, è una faccenda complessa, non si va
dritti, ma a zig-zag …
perché la barca a vela è fondamentalmente un ELOGIO DELL’ESSENZIALE: c’è tutto, ma
tutto è disposto in maniera diversa a quella a cui siamo abituati. Anche la
comunicazione in barca diventa essenziale: ci si parla per dirsi le cose importanti, ci si
abitua al silenzio;
perché in barca il DIVERTIMENTO E’ UNA CONQUISTA: arriva, se arriva, alla fine
dell’esperienza, quando ognuno è sceso a patti con questo nuovo ambiente, con gli altri
e con se stesso e ha capito davvero qual è il suo ruolo.
Ci sarebbe anche dell’altro, ma il bello è proprio questo: che alla fine ognuno trova
nell’esperienza qualcosa di suo, un racconto di un suo Sé diverso da quello a cui è abituato.
Arriva a conoscere o riconoscere qualcosa in più su di lui, magari trovando altre possibili
identità che non riuscivano ad emergere perché nascoste e mai prese in considerazione.
Capire chi siamo non è un processo che si compie stando in meditazione sulla cima di un
monte … a volte anche così, ma non basta, c’è bisogno della pratica, di misurarsi con la
realtà: sperimentando nuove attività, entrando a far parte di nuovi gruppi, trovando
modelli di ruolo alternativi e rielaborando quanto ci sta accadendo mentre ci confrontiamo
con chi ci sta intorno.
Come dice Maria Cristina Bombelli: “il cambiamento riguarda un se’ poco noto, e
soprattutto poco esplorato e nessun esperto può espropriarci della sperimentazione
necessaria per comprenderlo”.
Cerchiamo allora di fare la nostra parte per non espropriare questo diritto ai partecipanti ai
nostri corsi, osando proporre strumenti magari passati di moda ma non per questo meno
efficaci.
Note sull’autore
Anna de Marziani, Laureata in Economia Aziendale presso l’Università Bocconi di Milano –
indirizzo di Organizzazione del Lavoro – con una tesi sulla formazione manageriale
sull’utilizzo in Italia dell’outdoor training, ha frequentato il Master ISMO “Formare
Formatori”, corsi di specializzazione per animatori sociali sulle dinamiche di gruppo e
seminari sulla comunicazione e sull’interculturalità. Dal 1995 si occupa di formazione
manageriale in campo organizzativo e comportamentale, utilizzando prevalentemente
metodologie esperienziali (giochi d’aula, outdoor training, teatro, musica, performance
artistiche e circensi).
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