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Marco Aime
Essere nomadi ieri e oggi
Secondo incontro in preparazione al tema della sesta edizione
di Pistoia - Dialoghi sull’uomo: “Le case dell’uomo. Abitare il
mondo” (22-24 maggio 2015)
Incontro con gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado
mercoledì 25 febbraio 2015, ore 11.00 - Teatro Manzoni, Pistoia
Marco Aime insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Ha condotto ricerche
sulle Alpi e in Africa Occidentale (Benin, Burkina Faso, Mali). Oltre a numerosi articoli
scientifici, ha pubblicato favole per ragazzi, saggi e testi di narrativa, tra cui: Le radici nella
sabbia (EDT, 1999 e 2013); La macchia della razza (elèuthera, 2012); Il primo libro di
antropologia (2008), Il dono al tempo di Internet (con A. Cossetta, 2010), L’altro e l’altrove
(con D. Papotti, 2012) per Einaudi; Verdi tribù del Nord (Laterza, 2012); African graffiti
(Stampalternativa, 2012); Gli specchi di Gulliver (2006), Timbuctu (2008), Il diverso come
icona del male (con E. Severino, 2009), Gli uccelli della solitudine (2010), Cultura (2013)
per Bollati Boringhieri; I piccoli viaggi di Beppe Gulliver (Emi, 2014); All’Avogadro si
cominciava a ottobre (Agenzia X, 2014); L’oltre e l’altro (AA.VV., Utet, 2014); Etnografia
del quotidiano (elèuthera, maggio 2014). La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei
riti di passaggio (Einaudi, 2014); Je so' pazzo. Pop e dialetto nella canzone d'autore
italiana da Jannacci a Pino Daniele (Visconti Emiliano, 2014); Tra i castagni
dell'Appennino. (Utet, 2014); L’arte della condivisione (AA.VV.,Utet, febbraio 2015).
Sull’argomento
«Quando provammo a iscrivere Khellìl a scuola obiettarono che era troppo grande. «È
troppo tardi» dissero. Troppo tardi per un bambino che ha la vita davanti a sé? Ma la
gente immobile si annoiava talmente che contava il tempo per piccole frazioni della
giornata, proprio come io sgrano le perle del mio rosario per pregare! Mettevano i limiti al
tempo così come costruivano muri per limitare i loro passi. Se si andava al di là, se si
usciva dal loro tempo imprigionato, dicevano “è troppo tardi”». Così scrive Malika
Mokaddem, algerina, discendente di una famiglia di nomadi. Così l’anziana Zohra, la
protagonista del libro, percepiva la vita della “gente immobile”. Al contrario i nomadi, visti
dall’immobilità di una casa, ci appaiono sfuggenti, fuori luogo, precari sempre, come se
mancasse loro qualcosa. Eppure il sedentario ha bisogno del nomade per definire se
stesso e, viceversa, il nomade ha bisogno di lui.
Alberto Salza, antropologo, paleontologo e amante della provocazione, sostiene che noi
possiamo camminare per delle ore, mantenendo lo stesso assetto. Al contrario non
riusciamo a stare seduti per lo stesso tempo, senza cambiare almeno un po’ posizione
sulla sedia. Di qui la dimostrazione che siamo tendenzialmente nomadi.
In un’epoca in cui l’arrivo di stranieri dall’esterno causa drammi umani, crisi politiche,
battaglie ideologiche, è importante riflettere sul fatto che non solo l’uomo è nomade da
sempre, ma anche che l’apporto dei nomadi alla costruzione di quelle che oggi chiamiamo
“civiltà” è stato fondamentale. L’uomo nasce dal viaggio, dal suo camminare che ne
modella il corpo e lo trasforma in bipede eretto. La tendenza al movimento fa sì che arrivi
ad addomesticare animali per il trasporto e a inventare la ruota, e sono ancora popoli
nomadi che danno vita alle tre grandi religioni monoteiste del Medio Oriente: ebraismo,
cristianesimo e islam.
«Avremmo sospettato di tutto, tranne che di essere cominciati dai piedi» scrive il grande
paleontologo André Leroi-Gourhan e prosegue affermando che la storia dell’umanità è
fatta con i piedi. Già perché se così non fosse, saremmo ancora tutti nella torrida
depressione di Afar in Etiopia, dove è nato l’Homo sapiens da cui tutti discendiamo. Un
osservatore venuto da un altro pianeta non faticherebbe molto a capire che la storia degli
esseri umani è fatta di migrazioni e di movimenti. Siamo una specie irrequieta, con buona
pace del filosofo francese Blaise Pascal, il quale sosteneva che gran parte dei problemi
dell’uomo nascono dal fatto che non è capace a starsene chiuso nella sua stanza.
Nonostante a partire dal Neolitico (circa tredicimila anni fa) in molte aree del mondo
iniziasse a diffondersi l’agricoltura, che portò la maggior parte degli umani a
sedentarizzarsi, troviamo in tutte le epoche tracce di gruppi che rifiutavano la stanzialità.
Rifiuto che talvolta appare inevitabile, come nel caso, per esempio, di molte popolazioni
attuali del Sahel, la fascia semi-desertica a sud del Sahara. In un ecosistema fragile come
quello della fascia subsahariana, il nomadismo è una strategia di salvezza, che consente a
queste genti di sopravvivere.
Il sistema saheliano poggiava tradizionalmente su delicati equilibri, costruiti sulla
“leggerezza” delle popolazioni che lo abitavano. I nomadi solcavano le pianure con le loro
mandrie, come ancora oggi capita di vedere lungo le piste del Sahel, in un continuo
movimento in cerca di pascoli più verdi. La grande disponibilità di terre consentiva agli
agricoltori di non chiedere troppo ai loro campi e di lasciarli riposare per lunghi periodi.
Proprio ciò che venne a mancare quando a dettare le regole del gioco non furono più le
popolazioni locali, ma i nuovi padroni dell’Africa.
L’arrivo delle prime truppe coloniali, negli ultimi anni del XIX secolo, segnò una svolta
nell’ecologia saheliana. Iniziò infatti l’epoca dello sfruttamento pesante della terra. La pax
coloniale, imposta dai nuovi governanti, rese più sicure le pianure, un tempo teatro di
scontri e razzie, e già nei primi anni di questo secolo si assistette a una nuova
occupazione delle terre, incentivata dagli amministratori europei, e al passaggio a un tipo
di agricoltura intensivo. Le colture tradizionali, come miglio e sorgo, soccombettero e
lasciarono via via il posto a cotone e arachidi, piante che deteriorano i terreni, accelerando
il processo di erosione e inaridimento. Così la rivoluzione agricola in epoca coloniale fallì. I
contadini non trovarono redditizio cambiare sistema e dedicarsi a un’agricoltura intensiva,
che non portava grandi entrate nelle loro tasche e limitava la produzione di alimenti di
sussistenza. Non è quindi solo il mutamento climatico a essere imputato per il crollo del
Sahel, anche gli uomini hanno dato una mano a peggiorare la situazione.
L’introduzione forzata di nuovi sistemi di coltivazione ha causato un deterioramento non
soltanto del suolo, ma anche del tessuto sociale. L’agricoltura tradizionale estensiva
praticata dalle genti del Sahel, prevedeva lunghi periodi di maggese necessari al riposo
dei campi. Tali periodi concedevano, e concedono tuttora, anche se in forma minore,
molto tempo libero ai contadini, che potevano intrattenere un’intensa vita sociale. La
nuova agricoltura intensiva al contrario non permise più il maggese con un conseguente
stravolgimento delle relazioni sociali.
A volte le popolazioni del Sahel hanno compiuto scelte anacronistiche, se lette con occhi
occidentali, come, per esempio, in epoca coloniale, il rifiuto dell’aratro e di ogni
innovazione che portava all’intensificazione dell'agricoltura, inutile in spazi ampi come
quelli saheliani. Oppure il mantenimento persistente di un’esistenza seminomade, malvista
da qualsivoglia governo locale e continuamente disincentivata. Eppure, grazie a queste
strategie “leggere” la gente ha saputo sopravvivere, sfuggendo alle persecuzioni del clima.
Le popolazioni del Sahel sono un modello di leggerezza e le loro società sono fondate su
di un investimento minimo, un elemento, questo, che ha permesso loro di sopravvivere.
La caratteristica principale del nomade è la leggerezza, il suo poco gravare sull’ambiente:
eppure i nomadi generalmente non sono amati. I governi sono solitamente fatti da
sedentari, che non vedono di buon occhio questi gruppi così sfuggenti. Vale per tuareg del
Sahara, come per i rom di casa nostra. È significativo come nel simbolo della FAO,
l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei problemi alimentari del mondo, compaiano
due spighe di grano, a ricordare l’agricoltura, ma non due corna, che rimandino
all’allevamento, attività spesso segnata dal nomadismo, che pure fornisce la sussistenza a
molta umanità.
Ritroviamo forme di nomadismo in diversi angoli del pianeta: dai Lapponi che migrano con
le loro renne, ai Tuareg del Sahara, dai Rabari dell’India ai Nukak dell’Amazzonia. Ma se
poi andiamo a vedere bene più vicino a noi le migrazioni, il turismo, i movimenti imposti
dalla globalizzazione non sono forse forme moderne di nomadismo?
Tutto questo ci costringe a riflettere sulla nostra visione, solitamente evoluzionista, che
vede il nomadismo come un residuo del passato. Tale visione ha ormai talmente
colonizzato il nostro immaginario, da impedirci di vedere quanto, in fondo, siamo nomadi
anche noi.