LA RISOLUZIONE. PREMESSA Sappiamo che un contratto valido

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LA RISOLUZIONE. PREMESSA Sappiamo che un contratto valido
LA RISOLUZIONE. PREMESSA
Sappiamo che un contratto valido può non produrre effetto, o per ragioni che
sussistono sin dal momento in cui lo stesso viene concluso (ad es. la condizione sospensiva), o per ragioni sopravvenute.
La risoluzione del contratto è legata a questa seconda evenienza e si verifica
quando la convenzione non è più in grado di soddisfare gli interessi dei contraenti. Tale inidoneità può dipendere dal comportamento tenuto delle parti o da
eventi esterni, non prevedibili o non imputabili alle parti medesime, che producono uno squilibrio tra le diverse prestazioni contrattuali corrispettive. La risoluzione mira ad eliminare detto squilibrio.
Risoluzione significa scioglimento: se il contratto viene risolto, le parti sono
sciolte dal vincolo contrattuale che in precedenza le legava e pertanto possono
evitare di eseguire le prestazioni ancora da effettuare e devono restituire quanto
già conseguito dalla controparte. Se il contratto è ad esecuzione continuata o
periodica, l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.
Varie e tra loro eterogenee sono le figure di risoluzione regolate dalla legge (v.
ancora il Manuale, capitolo 7, paragrafo 18). Qui prendiamo rapidamente in esame la risoluzione per inadempimento e la risoluzione per impossibilità sopravvenuta.
LA RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO
1) La parte che subisce l’inadempimento della controparte ha un potere di scelta: può chiedere l’adempimento del contratto o la risoluzione dello stesso (art.
1453 c.c.). Può chiedere la risoluzione, allo scopo di eliminare gli effetti del contratto; ovvero può chiederne l’adempimento, all’opposto fine di attuare, per
quanto possibile, l’originario intento.
2) La legge fissa dei presupposti per l’uno e l’altro rimedio (risoluzione e adempimento).
Per chiedere l’adempimento occorre unicamente che il contratto risulti non adempiuto dalla controparte.
L’altro rimedio ha presupposti più rigidi: per chiedere la risoluzione, occorre infatti che l’inadempimento raggiunga un certo livello di gravità (v. sotto).
3) Inoltre:
- Se in un primo momento chiedo l’adempimento, posso in seguito chiedere la
risoluzione. Ciò perché magari agisco quando ritengo l’adempimento ancora ricuperabile e intraprendo l’azione proprio allo scopo di indurre la controparte ad
eseguire la sua prestazione; ma se le cose vanno per le lunghe e la stessa controparte non si decide ad adempiere, allora mi è consentito di rivedere la mia
scelta iniziale e potrò chiedere la risoluzione.
- Se da subito chiedo la risoluzione, non mi è consentito successivamente tornare indietro e chiedere l’adempimento.
Qui si protegge l’interesse della controparte: a seguito della mia domanda di risoluzione, questa deve essere libera di operare con altri soggetti, diversi da me,
e non può vedersi costretto, un domani, a dover ancora effettuare la prestazione a mio favore.
4) In ogni caso, a prescindere dal rimedio scelto la vittima dell’altrui inadempimento potrà comunque agire per il risarcimento dei danni subiti.
(SEGUE) PRESUPPOSTI PER LA RISOLUZIONE
Il primo presupposto è l’inadempimento, cioè la mancata o difettosa attuazione
della prestazione contrattuale dovuta. Pertanto chi agisce in giudizio per la risoluzione avrà l’onere di provare la sussistenza di tale inadempimento.
L’inadempimento, per legittimare la richiesta di risoluzione, deve essere ingiustificato. Se l’inadempimento è giustificato, la risoluzione è negata. Ad es., se il
convenuto inadempiente eccepisce che l’attore, cioè colui che agisce in risoluzione, a sua volta non ha adempiuto la prestazione cui era tenuto, la domanda
di risoluzione viene respinta. È la c.d. eccezione di inadempimento (art. 1460
c.c.).
(SEGUE) LA GRAVITA’ DELL’INADEMPIMENTO
Altro presupposto dell’inadempimento è indicato dall’art. 1455 c.c.: “Il contratto
non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza,
avuto riguardo all’interesse dell’altra”.
La risoluzione è infatti un rimedio assai forte, e sarebbe dunque ingiusto applicarla quando l’inadempimento non è grave. Ma in base a quali criteri si può dire
che l’inadempimento ha scarsa importanza?
a) Un primo parametro è oggettivo, e va quindi riferito alla funzione e al peso
che la prestazione assume nel contratto [es. compro un auto e non mi vengono
consegnati i documenti di circolazione e proprietà, senza i quali non posso utilizzare l’automezzo].
b) Un secondo parametro è soggettivo, ed è fondato sull’interesse della vittima
dell’inadempimento a conseguire la prestazione inadempiuta.
(SEGUE) RISOLUZIONE GIUDIZIALE E DI DIRITTO
La risoluzione può essere giudiziale (cioè pronunziata dal giudice) e di diritto
(cioè senza la necessità della decisione del giudice).
I. La prima si realizza appunto attraverso la sentenza del giudice, nell’ambito di
un processo introdotto da una domanda di risoluzione. La sentenza del giudice
accerta la sussistenza dei presupposti di legge e scioglie il contratto (per questo
si dice che ha natura costitutiva). Gli esempi sin qui fatti presupponevano appunto questa forma di risoluzione.
II. Ad essa si contrappone la risoluzione di diritto, che si attua al di fuori del processo. Essa opera in tre situazioni:
II.a. quando la parte che subisce l’inadempimento rivolge all’inadempiente una
diffida ad adempiere, e nonostante ciò l’inadempimento persista
[più precisamente, la parte che subisce l’inadempimento può diffidare, cioè intimare alla controparte di adempiere entro un congruo termine. Se
l’inadempiente non provvede, il contratto è risolto di diritto. Il rimedio implica la
sussistenza di tutti i requisiti previsti in generale per la risoluzione:
l’inadempimento ingiustificato, di non scarsa importanza.];
II.b. quando nel contratto sia inserita una clausola risolutiva espressa
[con la clausola risolutiva espressa inserita in un contratto le parti convengono
che questo si risolverà se una data obbligazione sarà inadempiuta. La clausola
non richiede forme particolari, ma la volontà deve risultare in modo “espresso”,
cioè non può ricavarsi per implicito, indirettamente o da fatti concludenti. Le obbligazioni il cui inadempimento provoca la risoluzione devono essere specificamente indicate (cioè: la clausola risolutiva va riferita all’inadempimento non già,
genericamente, di tutte le obbligazioni nascenti dal contratto, ma di alcune specifiche obbligazioni). Quanto ai requisiti dell’inadempimento, esso deve essere
ingiustificato; non si richiede che esso sia altresì grave, come è invece previsto
in via generale dall’art. 1455 c.c., questo perché la legge consente alle parti di
valutare autonomamente l’importanza dell’inadempimento. L’inadempimento
non determina in via automatica la risoluzione: se l’interessato vuole la risoluzione ha l’onere di dichiarare all’inadempiente che intende valersi della clausola, e solo per effetto di tale dichiarazione si verifica la risoluzione di diritto.];
II.c. quando l’inadempimento consiste nel ritardo per inosservanza di un termine essenziale
[il contratto si risolve di diritto quando scade il termine iniziale stabilito per
l’esecuzione della prestazione, senza che questa sia stata eseguita. La parte
interessata però può evitare l’effetto risolutivo se, conservando interesse alla
prestazione, dichiara, entro tre giorni dalla scadenza, che vuole ancora averla.
L’essenzialità del termine può essere vista sotto un primo profilo oggettivo: se
affitto una terrazza per veder passare il giro d’Italia per il giorno in cui la corsa
attraversa la città, non saprei cosa farmene della terrazza il giorno successivo,
quando l’evento ormai ha avuto luogo. Esiste poi un secondo profilo, soggettivo,
legato alla specifica previsione delle parti, che qualificano come essenziale il
termine della prestazione, in funzione delle loro concrete esigenze].
Nelle ipotesi descritte (diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa, termine essenziale) il contratto si scioglie per il fatto stesso dell’inadempimento, al di
fuori del processo. Se però le parti litigano circa la sussistenza dei presupposti
per la risoluzione di diritto, anche qui la questione dovrà essere risolta dal Giudice. Con una sostanziale differenza, però, rispetto alla risoluzione giudiziale:
che la sentenza del Giudice si limiterà in questo caso ad accertare l’avvenuta
risoluzione, e avrà quindi efficacia dichiarativa e non costitutiva.
Sulla diffida ad adempiere, la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale, v. anche il Manuale, capitolo 7, paragrafo 18.
RISOLUZIONE PER IMPOSSIBILITÀ SOPRAVVEUTA
Ai sensi dell’art. 1256 c.c., la parte tenuta alla prestazione è liberata se la prestazione diventa impossibile per causa ad essa non imputabile. Di qui l’ulteriore
conseguenza, che la parte liberata non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto – secondo le norme sulla ripetizione
dell’indebito: v. art. 1463 c.c. Ciò significa che il contratto si risolve.
La giustificazione della norma è chiara: le prestazioni dei contraenti tra loro sono connesse e interdipendenti, se una diventa impossibile, cade anche l’altra
(ad es., viene stipulato un contratto di locazione con cui il locatore si obbliga a
concedere al conduttore la disponibilità di un suo immobile per cinque anni; dopo due anni, a seguito di un’alluvione l’immobile viene distrutto: in questo caso
la prestazione del locatore diviene impossibile e neppure il conduttore è più tenuto a rispettare il contratto, che infatti si risolve, in quanto il pagamento del canone di locazione presuppone il godimento dell’immobile, ora non più esistente).
Sopravvenuta l’impossibilità, la risoluzione opera di diritto. In caso di contestazione, la sentenza che pronuncia la risoluzione per impossibilità sopravvenuta
ha natura dichiarativa.
Questa forma di risoluzione non è rilevabile d’ufficio dal giudice e può essere
invocata:
- sia dalla parte che doveva ricevere la prestazione divenuta impossibile, per
liberarsi dall’obbligo della controprestazione;
- sia dalla parte impossibilitata, normalmente come eccezione alla richiesta di
adempimento proveniente dalla controparte.
(SEGUE) L’IMPOSSIBILITÀ E I SUOI CARATTERI
Come accennato sopra, l’impossibilità che risolve il contratto ai sensi dell’art.
1463 c.c. è la stessa impossibilità che estingue l’obbligazione ai sensi dell’art.
1256 c.c. I caratteri che l’impossibilità deve presentare per essere risolutoria
sono dunque gli stessi elaborati in tema di obbligazioni, e vengono qui estesi alla disciplina della risoluzione del contratto.
- L’impossibilità deve essere non imputabile al debitore. Se fosse imputabile al
debitore, si avrebbe inadempimento dell’obbligazione e non risoluzione del contratto (v. art. 1218 c.c. – sul tema v. il Manuale, capitolo 6, paragrafo 4).
- L’impossibilità deve essere sopravvenuta. Se fosse originaria, cioè esistesse
già al momento della stipula del contratto, essa inciderebbe sulla validità del
contratto stesso (ricordiamo che l’oggetto, elemento essenziale del contratto,
deve essere possibile, lecito, determinato e determinabile) e non sui suoi effetti.
- L’impossibilità, in base a un primo orientamento, deve essere oggettiva e assoluta. Per evitare di essere ritenuto responsabile, il soggetto obbligato deve
dimostrare che l’impossibilità è tale non solo per sé ma per qualunque altro
soggetto, e costituisce un ostacolo che non può essere vinto neppure con uno
sforzo estremo.
Un altro orientamento, invece, fa coincidere l’impossibilità con l’inesigibilità della
prestazione secondo buona fede, nel senso che non sarà sanzionabile il debitore che dimostri di aver adottato con la dovuta diligenza tutte le misure che avrebbero potuto evitare l’impossibilità della prestazione, che però poi in concreto si è verificata. In questo senso per impossibilità dovrebbe piuttosto intendersi
la eseguibilità della prestazione mediante sforzi eccedenti l’ordinaria diligenza.
- L’impossibilità deve essere definitiva, deve cioè essere irreversibile. Ove essa
sia temporanea, non comporta la risoluzione del contratto, ma esclude la responsabilità per il ritardo del contraente tenuto alla prestazione (“sospensione”,
non risoluzione del contratto). Ad esempio, a seguito di un’alluvione si deve
sgomberare per un certo periodo di tempo una casa data in locazione, dunque
la prestazione del locatore diviene impossibile temporaneamente, per il tempo
necessario a compiere le dovute riparazioni. Il locatore, che assume l’obbligo di
far godere l’immobile al conduttore, non è considerato inadempiente finché dura
l’impossibilità, e il conduttore non è tenuto, per il corrispondente periodo, ad eseguire la controprestazione. L’esecuzione dell’intero contratto rimane così sospesa per un certo periodo di tempo, per il locatore e per il conduttore.
Tuttavia il contraente creditore può recedere dal contratto se l’impossibilità dura
per così tanto tempo che viene meno il suo interesse alla prestazione della controparte (nell’esempio precedente, il conduttore può nel frattempo aver trovato
un’altra abitazione). Il momento in cui l’impossibilità diviene definitiva va valutato volta per volta, in relazione alla natura e all’oggetto della prestazione (v. art.
1256 c.c.).
(SEGUE) L’IMPOSSIBILITÀ PARZIALE
Quando la prestazione di uno dei contraenti è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta e può anche recedere dal contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Così dispone l’art. 1464 c.c., che si differenzia rispetto alla corrispondente norma in tema di obbligazioni in generale, l’art. 1258 c.c., in base alla quale il debitore deve comunque adempiere la prestazione per la parte rimasta possibile,
senza possibilità di esserne liberato. Ciò si spiega alla luce della interdipendenza delle prestazioni contrattuali caratterizzante la disciplina della risoluzione per
impossibilità sopravvenuta. Interdipendenza che la legge non prende in considerazione nel caso generale dell’art. 1258 c.c., riguardante tutte le obbligazioni,
comprese quelle non contrattuali.
In caso di recesso, la dottrina, diversamente dal caso dell’impossibilità totale,
ritiene comunque necessaria la sentenza del giudice, che verifichi l’effettiva
mancanza di interesse ad un adempimento parziale – sentenza che sarà quindi
costitutiva e non meramente dichiarativa.
Sulla impossibilità sopravvenuta nei contratti traslativi, v. ancora il Manuale, capitolo 7, paragrafo 18.