Untitled - Rizzoli Libri

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ÉDOUARD LOUIS
FARLA FINITA
CON EDDY BELLEGUEULE
Traduzione di Fabrizio Ascari
I GRANDI TASCABILI
BOMPIANI
Louis, Édouard, En finir avec Eddy Bellegueule
Copyright © Éditions du Seuil, 2014
First published in 2014 by Éditions du Seuil
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
ISBN 978-88-452-7981-2
© 2014/2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano
I edizione Tascabili Bompiani ottobre 2016
A Didier Eribon
Per la prima volta il mio nome pronunciato
non è soltanto un nome.
Marguerite Duras,
Il rapimento di Lol V. Stein
LIBRO 1
Piccardia
(fine anni novanta – inizio anni duemila)
Incontro
Della mia infanzia non serbo alcun ricordo felice. Non
voglio dire che durante quegli anni io non abbia mai provato un sentimento di felicità o di gioia. Semplicemente,
la sofferenza è totalitaria: fa scomparire tutto ciò che non
rientra nel suo sistema.
Nel corridoio sono comparsi due ragazzini, il primo alto,
dai capelli rossi, e l’altro basso, dalla schiena curva. Quello
alto dai capelli rossi ha sputato Prenditelo in faccia.
Lo sputo mi è colato lentamente sul viso, giallo e denso,
come quei catarri sonori che ostruiscono la gola degli anziani o dei malati, dall’odore forte e nauseabondo. Le risate
acute, stridenti, dei due Guarda ha la faccia piena questo figlio di puttana. Mi cola dall’occhio fino alle labbra, entrandomi anche in bocca. Non ho il coraggio di asciugarlo. Potrei farlo, basterebbe il rovescio della manica. Basterebbe
una frazione di secondo, un gesto minimo perché lo sputo
non entri in contatto con le mie labbra, ma non lo faccio,
nel timore che si sentano offesi, nel timore che si arrabbino
ancora di più.
Non immaginavo che lo avrebbero fatto. Eppure la violenza non mi era estranea, anzi. Ricordo da sempre di aver
visto mio padre ubriaco azzuffarsi all’uscita del caffè con altri ubriachi, spaccando loro il naso o i denti. Uomini che ave11
vano guardato mia madre con troppa insistenza e mio padre,
in preda ai fumi dell’alcol, che sbraitava Chi ti credi di essere
per guardare mia moglie così, sporco bastardo. Mia madre cercava di calmarlo Calmati caro, calmati ma le sue esortazioni
cadevano nel vuoto. Gli amici di mio padre, come di consueto, a un certo momento finivano per forza con l’intervenire; voleva dire anche questo essere un vero amico, un buon
amico, gettarsi nella mischia per separare mio padre e l’altro,
la vittima della sua ubriacatura dalla faccia ormai coperta di
ferite. Quando una delle nostre gatte metteva al mondo dei
piccoli, vedevo mio padre infilare i micini appena nati in un
sacchetto di plastica del supermercato e sbatterlo contro un
bordo di cemento finché si riempiva di sangue e i miagolii cessavano. L’avevo visto sgozzare dei maiali in giardino,
berne il sangue ancora caldo che faceva colare per farne del
sanguinaccio (il sangue sulle labbra, sul mento, sulla maglietta) È questo il sangue migliore, appena uscito dalla bestia che
crepa. I gridi del maiale agonizzante quando mio padre ne
tagliava la trachea si potevano udire in tutto il paese.
Avevo dieci anni. Ero appena entrato alle medie. Quando sono comparsi nel corridoio non li conoscevo. Non
sapevo nemmeno come si chiamavano, il che non era frequente in quel piccolo istituto scolastico di appena duecento alunni, in cui tutti imparavano a conoscersi in fretta.
Avevano un’andatura lenta, erano sorridenti, non sprigionavano alcuna aggressività, tanto che in un primo momento ho pensato che venissero a fare conoscenza. Ma perché
i grandi venivano a parlare a me che ero nuovo? Il cortile della ricreazione funzionava come il resto del mondo: i
grandi non frequentavano i piccoli. Mia madre lo diceva
parlando degli operai Noi piccoli non interessiamo a nessuno, soprattutto non ai ricchi.
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Nel corridoio mi hanno chiesto chi ero, se ero proprio
io Bellegueule, quello di cui tutti parlavano. Mi hanno fatto
questa domanda che mi sono ripetuto in seguito instancabilmente, per mesi, anni,
Sei tu il frocio?
Pronunciandola, l’avevano impressa in me per sempre
come uno stigma, il marchio a fuoco o inciso col coltello
con cui i greci bollavano gli individui devianti, pericolosi
per la comunità. L’impossibilità, dunque, di disfarmene.
Sono rimasto sorpreso, anche se non era la prima volta che
mi dicevano una cosa simile. Non ci si abitua mai all’insulto.
Un senso d’impotenza, di perdita dell’equilibrio. Ho
sorriso e la parola frocio mi risuonava, mi esplodeva nella
testa, palpitava in me alla frequenza del mio ritmo cardiaco.
Ero magro, dovevano aver ritenuto scarsa, quasi nulla,
la mia capacità di difendermi. A quell’età, i miei genitori mi
chiamavano spesso Scheletro e mio padre ripeteva sempre
le stesse battute Potresti passare dietro un manifesto senza
scollarlo. In paese, il peso era una caratteristica tenuta in
grande considerazione. Mio padre e i miei due fratelli erano obesi, come parecchie donne della famiglia, e si diceva
spesso È meglio non lasciarsi morire di fame, è una bella
malattia.
(L’anno dopo, stanco dei sarcasmi della famiglia sul
mio peso, decisi d’ingrassare. Compravo sacchetti di patatine all’uscita da scuola con il denaro che chiedevo a
mia zia, perché i miei non avrebbero potuto darmene, e
m’ingozzavo. Io che fino ad allora, proprio per paura di
diventare come mio padre e i miei fratelli, avevo rifiutato i
piatti troppo grassi che preparava mia madre, portandola
all’esasperazione: Non ti tapperà mica il buco del culo, di
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colpo iniziai a mandare giù tutto quello che mi capitava
sotto mano come quegli insetti che si spostano a nugoli
e fanno sparire intere coltivazioni. Misi su una ventina di
chili in un anno.)
Dapprima mi hanno spinto con la punta delle dita, senza troppa brutalità, sempre ridendo, sempre con lo sputo
sulla mia faccia, poi sempre più forte fino a farmi sbattere la testa contro il muro del corridoio. Non dicevo nulla.
Uno mi ha afferrato le braccia mentre l’altro mi prendeva
a calci, sempre meno sorridente, sempre più serio nel proprio ruolo, con un’espressione di concentrazione, di collera e di odio crescenti. Mi ricordo: i colpi nel ventre, il
dolore provocato dallo sbattere della testa contro il muro
di mattoni. È un elemento cui non si pensa, il dolore, il
corpo all’improvviso sofferente, ferito, contuso. Davanti a
questo tipo di scena, voglio dire guardandola dall’esterno,
si pensa all’umiliazione, all’incomprensione, alla paura, ma
non si pensa al dolore.
I colpi nel ventre mi bloccavano il respiro, mi soffocavano. Aprivo la bocca più che potevo per far entrare l’ossigeno, gonfiavo il torace, ma l’aria sembrava non voler entrare;
avevo l’impressione che i polmoni si fossero riempiti all’improvviso di una linfa compatta, di piombo. Li sentivo a un
tratto pesanti. Il mio corpo tremava, sembrava non appartenermi più, non rispondere più alla mia volontà. Come
un corpo senescente che si affranchi dalla mente, ne venga
abbandonato, rifiuti di obbedirle. Il corpo che diventa un
fardello.
Ridevano quando la faccia mi diventava rossa per la
mancanza di ossigeno (l’indole delle classi popolari, la sem14