L`Ospedale psichiatrico di Mombello: cronache milanesi di “poveri
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L`Ospedale psichiatrico di Mombello: cronache milanesi di “poveri
L’Ospedale psichiatrico di Mombello: cronache milanesi di “poveri matti” Mombello nasce da un’urgenza. Fu l’epidemia di colera del 1865 a porre fine a discussioni e dibattiti circa come e dove costruire un nuovo manicomio a Milano. Perché La Senavra, primo nucleo manicomiale cittadino, non bastava più. E nemmeno rispondeva alle esigenze della moderna psichiatria che in Italia si sviluppò grazie soprattutto al processo di unificazione del Paese. Che la psichiatria non potesse esistere senza il manicomio era stato il medico francese Philippe Pinel, “padre fondatore” della psichiatria moderna, a sentenziarlo: nel Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale o la mania, pubblicato emblematicamente nel 1800, aveva infatti dichiarato che il suo metodo per curare la follia (il “trattamento morale”) poteva funzionare solamente in un “ospizio ben organizzato”, come lui stesso lo chiamava, e cioè: il manicomio. “Occasione colera”, dunque, a Milano nell’estate del 1865. I malati vennero trasferiti e mandati nella Villa Pusterla-Crivelli che nel 1797 aveva ospitato i Bonaparte. Nell’ottobre del 1867, al termine dei lavori di adeguamento e ristrutturazione, i ricoverati nella succursale di Mombello erano 300: 150 donne e 150 uomini, rigorosamente divisi. Cesare Castiglioni (esponente di spicco insieme ad Andrea Verga e Serafino Biffi, della “scuola milanese” di psichiatria, fondatrice, tra l’altro, del primo periodico specialistico italiano, l’«Archivio italiano per le malattie nervose e mentali») volle organizzare Mombello come colonia agricola per malati tranquilli e non bisognosi di “cure insistenti”. Si trattò dunque di una nascita “in sordina”. Nel giro di un decennio, però, Mombello divenne il manicomio di Milano, e La Senavra venne abbandonata perché ritenuta “lurido e orrendo ospizio”. Nel 1878, a seguito di nuovi interventi di ampliamento, i ricoverati erano più di mille, cifra destinata ad aumentare costantemente nei decenni successivi (si pensi che nel 1918, complice la guerra, saranno 3.500). Nella seconda metà dell’Ottocento il manicomio era un luogo di cura, ma soprattutto che cura, un luogo di studio e anche di custodia. Nel bene e nel male, un luogo di vita e talvolta di morte. Evento, quest’ultimo, anch’esso oggetto di studio. Il Regolamento interno del 1873 prescriveva infatti che “si conservassero i pezzi [dei cadaveri] più interessanti”. Qualche decennio più avanti Mombello ospiterà un originalissimo Museo degli imbalsamati. Di come nacque e cosa contenesse lo racconta Rosario Ruggeri in Fra malati di mente: pubblicato da Garzanti nel 1949, questo “libro di vita vissuta” – come lo definì l’allora direttore Riccardo Bozzi nella prefazione – s’inscrive a pieno titolo nella tradizione tutta italiana degli psichiatri scrittori raccontata da Valeria Babini in Liberi tutti (il Mulino, 20112). All’interno dell’universo manicomio trovavano posto, oltre ai reparti degenti, anche gabinetti scientifici, biblioteche, laboratori di sartoria e piccolo artigianato, giardini e spazi coltivabili. Costruito “a villaggio”, Mombello ospitava pure un teatro per le rappresentazioni dei ricoverati, che ebbero luogo fin dal 1879. Dei due scherzi comici Fanfan il saltimbanco e Un’ordinanza Ufficial per mezz’ora, messi in scena il 21 e 22 febbraio 1883, si parlò sulla stampa milanese: invitati ad assistere allo spettacolo, alcuni giornalisti scrissero infatti articoli laudativi su «La Perseveranza», il «Pungolo» e il «Corriere della Sera». Gaetano Rinaldini, primo direttore di Mombello, volle poi affidare 25 malati alle esercitazioni musicali del maestro Giovanni Pavia: fu così che nacque la Banda di Mombello. A completare il quadro dell’attività artistica interna vi fu poi “l’angolo dei pittori”, che nel 1931 il giornalista Antonio Curti definirà la Brera di Mombello. Tra gli artisti ricoverati, il pittore e disegnatore Gino Sandri (i cui disegni realizzati in manicomio saranno esposti al pubblico il prossimo 5 agosto presso la sede della Soprintendenza archivistica di Corso Magenta). A Mombello esisteva poi un Reparto fanciulli, voluto all’inizio del ’900 da Edoardo Gonzales (il quale, tra le altre cose, fece costruire un acquedotto che riforniva acqua non solo al manicomio ma a tutto il paese di Limbiate). Il Reparto fanciulli aveva una scuola che, per favorire autonomia e libertà di movimento dei bambini, venne arredata con “tutto il prezioso materiale Montessori” - la quale, va ricordato, fu psichiatra in manicomio prima che pedagogista. Tra i laboratori scientifici presenti a Mombello nei primi decenni del Novecento trovavano posto il laboratorio di psicologia sperimentale diretto da Giuseppe Corberi (in Italia – è bene precisare – i primi laboratori di psicologia nacquero nei manicomi e non nelle università), nonché l’istituto neuro-biologico e anatomo-patologico diretto da Ugo Cerletti, il futuro “inventore” dell’elettroshock. Durante la Prima guerra mondiale Mombello destinò due padiglioni alla cura dei militari impazziti al fronte, diventando così ospedale militare di riserva. Qui i soldati vennero sottoposti a “un trattamento psicoterapico di prim’ordine”, di cui clinoterapia (terapia del riposo), libertà (i militari godevano di no restraint assoluto) e un regime dietetico “ricostituente” (che causò aumenti di peso fino a 10-15 Kg) costituivano gli ingredienti fondamentali. Come la maggior parte dei ricoverati, anche i militari internati vennero messi “al lavoro”, tant’è che costruirono una strada per collegare il padiglione di vigilanza (estremo angolo sud-est) ai cosiddetti “padiglioni della pineta”. Ma i militari non furono gli unici “ricoverati speciali” durante la Grande guerra. Quando, a seguito della disfatta di Caporetto, la Sanità militare diede ordine di sgomberare i manicomi di Venezia, l’allora direttore di Mombello, Giuseppe Antonini, creò il “padiglione Veneto” per ospitare 250 “alienate profughe”. Una vocazione all’accoglienza degli sfollati, questa, che si ripeterà anche in occasione della seconda guerra mondiale e in seguito all’alluvione del Polesine del 1951. Come capitò in molti manicomi italiani, da Mombello partirono diversi medici, infermieri e impiegati per andare al fronte; e non mancò chi in quest’occasione trovò la morte. È il caso dello psichiatra Gaetano Perusini, passato alla storia per aver collaborato con Alzheimer all’osservazione e descrizione di quella speciale forma di demenza, ribattezzata appunto “morbo di Alzheimer”. E neppure mancò una curiosa inchiesta giornalistica. Antonio Curti, storico, poeta dialettale e pittore, amico tra gli altri di Tranquillo Cremona, oltre che di Giuseppe Antonini, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia visitò come suo solito Mombello per sapere cosa gli internati pensassero della guerra. Le risposte furono pubblicate su «La Perseveranza» del 5 marzo 1915 (e in seguito anche come opuscolo a parte). Negli anni del fascismo, Mombello fu teatro di una vicenda tristemente nota. Nel 1935 venne internato Benito Albino Mussolini, figlio “segreto” del Duce e Ida Dalser, che qui morirà sette anni più tardi. Un “delitto di regime”, come qualcuno lo ha definito, che rivela il “lato oscuro” dell’internamento manicomiale. Elisa Montanari