La manutenzione delle norme nell`Antico Regime. Ragioni pratiche

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La manutenzione delle norme nell`Antico Regime. Ragioni pratiche
FRANCESCO DI DONATO
STUDI
parlamentari
e di politica
costituzionale
Anno 43 – N. 170
4° trimestre 2010
La manutenzione delle norme
nell’Antico Regime.
Ragioni pratiche e teorie
giuspolitiche nelle società
pre-rivoluzionarie
“Les meilleures lois se
corrompent avec le temps” (1).
1.
Polisemie lessicali e polivocità giuridiche
Derivata dal latino medievale manutentiōne(m), variante composta del
latino manu (con la mano) e tenēre, la parola “manutenzione” indica il “mantenimento” e la “conservazione in buono stato, in condizioni di efficienza e
funzionalità” di un bene, nonché “il complesso delle operazioni che si devono eseguire a tale scopo” (2). Nelle principali lingue europee la semantica
non ha sempre seguito la radice originaria: in francese l’idea della cura di
un oggetto o di una proprietà immobiliare è resa con un sobrio entretien (la
stessa parola che sta per “colloquio”); l’inglese, com’è di regola nelle parole della lingua colta, segue il francese antico e risolve con maintenance, che
significa anche “sostentamento”, “aiuto” e “sostegno”. Lo spagnolo, invece,
ha tre forme: una, manutención, simile all’italiano, che significa anche “mantenimento” e “conservazione”; un’altra simile al francese, entretenimiento,
(1) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, LGDJ, Paris, 1997 (ristampa dell’ed. Loysel, Paris, 1988), p. 211.
(2) G. DEVOTO, G. C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, ediz. 1990; T. DE MAURO,
Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 2000.
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che significa anche “divertimento”, “passatempo” e “mantenimento di persone”; e una terza più rara, affine all’inglese, mantenimiento, che significa
per lo più “sostegno”, “alimento” e, al plurale, “viveri”, “vettovaglie”; ha
poi anche il verbo manutener.
Nel linguaggio strettamente tecnico-giuridico, specialmente nel campo
del diritto civile, la “manutenzione” è propriamente “il diritto di reagire
contro una molestia che incide sul possesso legittimo di un bene” (3). Essa
manifesta quindi la volontà di un soggetto proprietario di conservare un
bene-oggetto e di prendersene cura difendendo tale proprietà e possesso
dalla rivendica giudiziale o dal tentativo altrui d’impossessarsene per le vie
di fatto. Intrinseco al termine è dunque un senso di movimento, un darsida-fare utilizzando tutti i mezzi legittimi per impedire la degenerazione di
una situazione favorevole in una sfavorevole. E così nella “manutenzione”
vi è anche – sottesa – l’idea di prevenzione, l’idea cioè che sia necessario
anticipare gli effetti negativi che possono derivare dall’invecchiamento di
un sistema attraverso una previsione ragionata e il più possibile razionale
tanto dei processi degenerativi quanto dei rimedi che possono essere utilmente adottati per farvi fronte.
Nella lingua italiana pura, mentre vi sono alcuni sostantivi e aggettivi
derivati (“manutentore”, “manutentivo”), non esiste il verbo corrispondente
(“manutenere”), che invece compare nei dizionari dell’uso (4), il che indica
un’esigenza predicativa crescente nella vita quotidiana in ordine all’attività di
cura: un segno, nella società dell’indifferenza, dell’espansione sommersa dell’heideggeriano “prendersi cura” come dimensione esistenziale e qualificativa
del Dasein (5), nell’infinito sottobosco delle relazioni affettive ed effettive (6)?
Lasciamo in sospeso questa domanda e spostiamo l’attenzione su un
altro piano concettuale, peraltro inevitabilmente collegato al “peso semantico” appena delineato (7): se riferita al diritto e in particolare alla produzione delle norme giuridiche (il life-cycle of regulation (8)), l’idea della
“manutenzione” assume un immediato ed evidente significato (teor)etico e,
(3) Ibid.
(4) Ibid.
(5) L’idea dell’esperienza esistenziale umana intesa come “cura” (Sorge), “aver cura [di persone]”
(Fürsorge) e “prendersi cura [di cose]” (Besorgen), fu elaborata, com’è noto, da M. HEIDEGGER, Essere e tempo
[1927], trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, VI edizione, spec. pp. 81, 227 ss., 365 ss.
(6) Per questo concetto, fondamentale nel campo delle scienze sociali, di “relazioni effettive”, cfr. R.
MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento,
a cura di chi scrive, Napoli, Esi, 2002, pp. 5, 7 e 153.
(7) Sulla stretta interdipendenza tra “peso semantico” e analisi dei concetti, cfr. G. SARTORI, Logica,
metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 83-86 e soprattutto pp. 143-214.
(8) Cfr. M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, Bologna, Il Mulino, 2011,
pp. 47ss.: 50-53 e 198.
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nel contempo, politico sotteso all’indispensabile veste tecnico-giuridica.
Prendersi cura di un ordinamento giuridico implica, infatti, l’idea che i
sistemi normativi di questo tipo non vivono – come le piante grasse nel
deserto – senza una continua e paziente opera di aggiornamento (9); il che
implica, come nel lavoro dei campi, rinnovamento dei germogli, soppressione dei rami secchi ed estirpazione dei rovi e delle erbacce, potatura
periodica, piantagione di nuove sementi e scelta (politica, ossia discrezionale) di quali debbano essere e dove debbano essere piantate.
Ora, se la vita degli ordinamenti giuridici è pari a quella di ogni materia
organica, ciò non solo implica l’idea di una dinamica transeunte ed evolutiva,
ma comporta anche la negazione di ogni Verbum definitivo, di ogni ontologismo normativo, in definitiva di ogni idea di Verità. Se il diritto vive mutando,
come ogni corpo vivente, bisogna ammettere che esso può morire e anzi che
di regola morirà un giorno seguendo il suo ciclo naturale. Le sue cellule (le singole norme) sono sottoposte alla legge della “grande catena dell’essere” (10),
in base alla quale al ciclo vitale di una segue la sua fine e la sua sostituzione
con altre cellule-norme nuove che a loro volta saranno soggette alla caducità
progressiva. Chiunque operi nel campo giuridico sa perfettamente, perché lo
sperimenta nell’attività diuturna, che a dispetto del suo intrinseco e naturale
rigore – indispensabile per diffondere nella psicologia sociale l’idea della certezza giuridica e, nelle società democratiche, il senso dell’eguaglianza dinanzi
alla legge – il diritto è in realtà un “flessibile diritto” (11).
Questo significa, in definitiva, due cose: per un verso, che la “manutenzione” delle norme ha come scopo ultimo e fondamentale l’eliminazione
o quantomeno la riduzione del rischio di eterogenesi dei fini nel percorso
che va dalla formulazione della norma alla sua attuazione concreta, con la
produzione di effetti che possono non corrispondere all’intenzione del legislatore e per certi versi possono addirittura essere del tutto opposti a quella (12). Per un altro verso, il discorso appena delineato implica che l’idea stes(9) Ivi, pp. 197-198: la “concezione di manutenzione” delle norme giuridiche è ormai generalmente
intesa non più come un “rimedio (rispetto a una patologia, come l’impossibilità di accedere alle regole, la
necessità di correggerle, la necessità di riformarle)”, ma piuttosto come una “vera e propria funzione (parte
essenziale del ciclo della regolazione)”.
(10) Mutuo l’espressione dal classico di A. O. LOVEJOY, La grande catena dell’essere, trad. it. di L.
Formigari, Milano, Feltrinelli, 1966.
(11) Cfr. J. CARBONNIER, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, trad. it. di A. De Vita,
Milano, Giuffrè, 1997.
(12) Sull’eterogenesi dei fini e il suo impatto sul fenomeno giuridico, mi sia consentito rinviare al mio
La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, Il
Mulino, 2010, ad indicem. Molto opportunamente M. DE BENEDETTO, Manutenzione delle regole, in M. DE
BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 101, sottolinea come la manutenzione
abbia “lo scopo di assicurare specificamente la persistente adeguatezza della regola rispetto agli obiettivi
della regolazione”; altre considerazioni molto acute sul punto ivi, pp. 197 ss. Su questo punto, cfr. infra, nota
36 e testo corrispondente.
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sa di “manutenzione” delle norme e dei sistemi che le raggruppano (13)
determina il superamento della fallacia idealistica e richiede l’accettazione
(tutt’altro che semplice per i giuristi) dello sfasamento tra fatti e valori, tra
essere e dover (o voler) essere, tra realtà e normatività (14). A questo medesimo discorso è sottesa altresì l’idea che il diritto è orientato per sua natura a
delineare un mondo diverso da quello che esiste, poiché la volontà nomotetica che lo alimenta ritiene lo status quo (sia quello della realtà sociale sia quello della realtà giuridico-normativa) sempre insoddisfacente e perfettibile (15).
2.
La tensione essenziale delle norme: valori contro fatti
Senonché quest’idea del mutamento perenne contrasta radicalmente
con l’esigenza che sta al fondo del fenomeno giuridico: la necessità di dare
un ordine stabile al caos delle relazioni umane (16). Antropologicamente il
diritto nasce come strumento normativo determinato dall’esigenza di stabilire delle regole riconosciute da tutti e che servano per garantire certezza alle
relazioni sociali. E così è indispensabile che il sistema giuridico debba “mantenere una qualche rigidità per assolvere al proprio ruolo”, perché “occorre
dare certezza ai cittadini. E dar loro insicurezza sotto forma di norma giuridica non sarebbe una buona soluzione, tradirebbe la loro fiducia. In effetti, il
diritto non può permettersi di riflettere l’incertezza della realtà sociale” (17).
(13) Sui quali, più utili di molti trattati giuridici sono le pagine di L. V. BERTALANFFY, Teoria generale dei
sistemi, trad. it. di E. Bellone, Milano, Mondadori, 1983 (ed. utilizzata Oscar saggi, 2004), spec. pp. 25-61 e
285-311.
(14) Di “sfasamento tra norma e fatto” parla esplicitamente M. DE BENEDETTO, op. cit., p. 199, che connette questo problema al “rapporto fra regole e tempo”.
(15) L’idea stessa della “manutenzione” di un ordinamento comporta l’abbandono di ogni messianismo politico e la definitiva rinuncia al cognitivismo etico in ogni sua forma. La filosofia politica che meglio
si addice alla pratica della manutenzione è un esistenzialismo realista con forti propensioni riformistiche.
Questa Weltanschauung si fonda sull’idea basilare secondo la quale la realtà non ha in sé delle oggettività
fisse e immutabili, ma consiste in un divenire cangiante che lo sforzo razionale degli uomini deve continuamente interpretare, cercando, il più possibile, d’indirizzarlo ai suoi fini e interessi (auspicabilmente pacifici ed egualitari). Sul concetto di “fallacia idealistica”, cfr. R. AJELLO, Formalismo medievale e moderno, Napoli,
Jovene, 1990, pp. 104-136 e ss.; sul problema della sfasatura fatti/valori e il suo impatto sugli ordinamenti
giuridici, cfr. ID., Dalla ‘Scientia juris’ alle esperienze giuridiche: le dimensioni storiche; e ID., Continuità e trasformazione dei valori giuridici, entrambi in ID., Epistemologia moderna e storia delle esperienze giuridiche, Napoli,
Jovene, 1986, rispettivam. pp. 1-49 e 51-80.
(16) Cfr. A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. I. Il concetto di diritto, Milano, Giuffrè, 1979, pp.
5-29: 12 (dove recupera e sviluppa un’idea di H. Lévy-Bruhl, secondo il quale nessuna società potrebbe esistere senza un minimo di organizzazione giuridica che dia stabilità a regole condivise) e 16 (“il mondo è
ovunque retto da leggi”); N. ROULAND, Anthropologie juridique, Paris, PUF, 1995; F. TERRÉ, Le droit, Paris,
Flammarion, 1999, pp. 15-22: 16, che ben sottolinea la “non-intemporalità e non-universalità” del diritto; A.
SUPIOT, Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du Droit, Paris, Seuil, 2005, pp. 37 ss. (dove sviluppa l’idea della “constitution normative de l’être humain”).
(17) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX.
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L’istituzione di regole rigide è dunque coessenziale all’idea (e all’esigenza) di stabilità e quest’ultima è condizione fondativa della società; è,
propriamente, ciò che determina il passaggio dalla semplice comunità (di
singoli, di famiglie o di gruppi) alla società organizzata. Secondo l’antico e
fin troppo noto brocardo romano, il diritto è costitutivo della società al
punto da identificarsi con essa: ubi societas, ibi jus; reversibile nel chiasmo:
ubi jus, ibi societas (18). Del resto, la radice originaria dei termini “istituzione”, “costituzione” e “Stato” è comune; ed è rinvenibile nell’indoeuropeo
stā o st∂ che contiene in sé due idee concentriche: quella di “disporre”,
”ordinare” e quella di “dimorare nel tempo”, ”durare” (anche la parola
“stabilità” contiene la medesima radice etimologica) (19).
La domanda in nuce al nostro tema è allora: come si può conciliare l’idea di fondo cui s’ispira il senso stesso del diritto, la sua ragion d’essere
(quella della stabilità e della certezza delle regole), con l’altra idea opposta
di mutamento continuo insita nella “manutenzione” dell’ordinamento giuridico (20)? E come hanno affrontato il problema le società che hanno preceduto la nostra attuale?
La domanda contiene in sé un paradosso logico: nessuno darebbe credito a regole che non si vogliano – e nel contempo che non siano generalmente
considerate – eterne, cioè valide in se stesse e indipendentemente dal contesto al quale sono destinate. Un jus percepito come disgiunto dal justum non
susciterebbe alcun rispetto, e potrebbe essere osservato solo per la minaccia
della pura forza, cioè per costrizione, come acutamente intuì Pascal nel noto
aforisma 298 delle Pensées dedicato al rapporto tra “giustizia” e “forza” (21).
A maggior ragione nessuno obbedirebbe a una norma che nel momento stesso in cui disponga il suo comando affermi anche la sua provvisorietà
(18) Cfr. A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano [1949], Napoli, Jovene, 1990, V edizione, pp. 97
ss.; M. TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, Milano, Giuffrè, 2001, p. 1, che parla di “correlazione
biunivoca” tra l’organizzazione sociale e l’ordinamento giuridico; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto
in Occidente, Torino, Einaudi, 2005.
(19) Sul punto, cfr. G. MIGLIO, “Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’”, in Stato e senso
dello Stato oggi in Italia, Atti del 51° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Pescara, 20-25 settembre 1981, Milano, Vita e Pensiero, 1981, pp. 66-86, ora in ID., Le regolarità della politica, 2 voll., Milano,
Giuffrè, 1988, II, pp. 799-832: 804-5.
(20) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX: “Come conciliare la flessibilità […] con la certezza del
diritto? […] La flessibilità si situa all’interno di una certa rigidità conforme alla natura stessa del diritto, intesa a dare sicurezza ai consociati”. Per l’insigne A. la soluzione sta in primo luogo nelle “possibilità di opzione. Ad esempio, su determinati fatti il sistema giuridico offrirà sfumature molteplici di regolamentazione,
fra cui gli interessati sceglieranno”.
(21) B. PASCAL, Pensieri, trad. it. di M. Ferrario Barilli (sull’ed. Brunschvicg), Milano, Bietti, 1965, p. 197:
“La giustizia senza forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. […] Bisogna quindi unire la giustizia e la forza; e per giungere a ciò occorre che quel che è giusto sia forte, o quel che è forte sia giusto […
Ma finalmente] non s’è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha
detto che essa è ingiusta, e solo la forza è giusta. Non potendo, pertanto, far sì che quel ch’è giusto sia forte,
s’è fatto in modo che quel ch’è forte sia giusto”.
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e/o relatività o (peggio ancora) la sua inadeguatezza o parzialità. Aristotele
“codificò” questo principio nella Crematistica: il mutamento delle leggi è un
male in sé poiché mutandole si screditano e con esse si scredita l’autorità
che le ha poste (22). A distanza di venti secoli, fu Rousseau – e ciò è tanto
più sorprendente in un grande innovatore come lui – a riprendere quel concetto e a rilanciarlo: “Le leggi sono rese sante e venerabili soprattutto dalla
loro grande antichità”, scrisse il genio ginevrino nel celebre Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, e perciò “il popolo presto dispregia quelle leggi che vede mutarsi da un giorno all’altro e, abituandosi a trascurare le vecchie usanze con il pretesto di fare meglio, si
introducono spesso dei grandi mali per correggerne dei minori” (23).
Il cardine di ogni diritto – come ben comprese Hans Kelsen, che costruì
proprio su questo assunto, di chiara matrice ebraico-monoteistica, la sua teoria della Grundnorm (24) – è il comandamento primo che vi è sott(int)eso:
“Non avrete altro Diritto al di fuori di me”. Ogni diritto custodisce quindi in
sé il valore dell’assolutezza, senza la quale non risulterebbe né sufficientemente autorevole né credibile. Senza questo valore intrinseco nessun diritto
(come nessun Dio) acquisirebbe la necessaria perentorietà, fondamento di
ogni prescrittività, perdendo così la connotazione stessa di diritto (25).
Con riferimento specifico a una società come quella di Antico Regime,
tutta fondata sull’idea di fondo dell’immutabilità e dell’aeternitas dei valori,
occorrerebbe tout-court concludere – prim’ancora d’iniziare il discorso – che
essa escludeva a priori ogni idea di “manutenzione” delle norme. Il diritto
era la quintessenza dell’idea di stabilità, espressa in una massima che ebbe
molto successo in tutto l’Occidente cristiano: “Quod semper, quod ubique,
quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur” (26). Il criterio per giudicare della
(22) ARISTOTELE, La politica, Bari, Laterza, 1969, IV edizione, lib. II, § 3, pp. 53-54. È per questo che le
legislazioni moderne hanno inventato l’istituto mitigante della deroga. Quest’ultima intende conciliare,
infatti, l’esigenza di mantenere l’auctoritas della norma (e del potere che l’ha statuita) con la necessità di bloccarne o temperarne gli effetti giuridici in alcuni casi. Tuttavia il suo abuso è un rimedio peggiore del male.
(23) J. J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza [1755], trad. it di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 2004, VIII
edizione, p. 19. È molto significativo altresì che questa frase di Rousseau sia stata posta in esergo alla raccolta delle leggi francesi realizzata da A. J. L. JOURDAN, DECRUSY, F. A. ISAMBERT, Recueil général des anciennes
lois françaises, depuis l’an 420 jusqu’à la Révolution de 1789…, 29 voll., Paris, Belin-Leprieur e Plon, 1821-1833,
t. I, Prolégomènes (par Isambert), p. 1.
(24) Su cui cfr. M. TROPER, Cos’è la filosofia del diritto, trad. it. di R. Guastini, Milano, Giuffrè, 2003, pp.
27-32 e 36-41; C. M. HERRERA, La philosophie de Hans Kelsen, Quebec, Presses Univ. de Laval, 2004, pp. 49-51.
(25) Su questo filone, restano limpide e profonde le riflessioni sviluppate da A. ROSS (a mio avviso il
maggiore teorico del diritto del Novecento), Critica del diritto e analisi del linguaggio, trad. it. di A. Febbrajo e
R. Guastini, Bologna, Il Mulino, 1982.
(26) Espunta da un padre del V secolo d. C., Vincent de Lérins (Vincenzo di Lerino), che l’aveva elaborata nel confronto con testi di autori classici precedenti (Seneca, Tertulliano, S. Agostino) e “codificata”
nella sua opera Commonitorium, scritta alcuni anni prima del Concilio di Efeso (450 d.C.), questa massima
attraversa pressoché tutta la storia del cristianesimo e della Chiesa, tanto da essere stata ancora oggetto di
vivaci discussioni al Concilio Vaticano I.
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validità di un’innovazione stava dunque nella compatibilità della “novità”
con la Tradizione, con ciò che sempre, ovunque e da parte di tutti si fosse
ritenuto giusto. Il che, a ben vedere, costituiva un paradossale controsenso:
una novità compatibile con la Tradizione è, infatti, una falsa novità, una
novità solo apparente. La Traditio era, di per sé, la manifestazione del Verbo
divino, cristallizzato nell’uniformità dell’obbedienza passiva e perennemente rinnovata in forme tipizzate alla parola del Creatore.
Ora, si comprende agevolmente come l’applicazione di questa linea
teorica al campo giuridico comportasse un’immobilità di fondo dell’ordo
juris o quantomeno una grande difficoltà a determinare una sua evoluzione. Nella monarchia assoluta legittimata dal diritto divino, le norme giuridiche, attraverso la volontà del re, esprimevano la Volontà del Creatore.
Essendo questa Volontà immutabile per definizione, ne derivava l’idea che
anche il diritto – come Dio, avrebbero scritto un Bossuet o un De Maistre –
era considerato immutabile.
Possiamo fidarci di questa visione ontologistica, così inflessibile e rigorosa, che è poi quella – teorica e assiologica – che quel tipo di società nel suo
complesso aveva istintiva tendenza a rappresentare (27)? Quanto le rappresentazioni sociali della propria identità risultano attendibili, e quanto le
volontà e le intenzioni espresse descrivono l’effettiva realtà e non piuttosto
l’interesse appunto a “rappresentarsi” in un certo modo? L’abito – lo sappiamo bene noi italiani – non fa il monaco (o lo fa raramente). Deve allora
l’osservatore storico credere sempre alle fonti dottrinali, quelle cioè che
“codificavano” nell’astrazione concettuale i connotati teorici e assiologici di
quella società, o non deve piuttosto sottoporre quelle elaborazioni a una
rigorosa indagine critica condotta in comparazione con i dati reali? Che
cosa conta di più per comprendere e descrivere un assetto socio-politico e il
suo diritto: i programmi e le dottrine o i fatti? Le idee e gli auspìci o la dura
res della storia concretizzata, della realtà così com’è (stata)?
Se scegliessimo il metodo idealistico-normativistico, adottato dalla prevalente storiografia giuridica, dovremmo concludere che l’analisi del piano
ideale è esaustiva: nomina sunt res. Applicando questo metodo al nostro
tema, se ne dovrebbe concludere che la società di Antico Regime non conosceva – e non poteva in alcun modo conoscere – il concetto di “manutenzione delle norme”, poiché questa era negata in adjecto, come avrebbero
asserito i giuristi di quell’epoca, dai valori costitutivi ossia dalle qualità
intrinseche del corpo sociale.
(27) Su questa sfasatura tra realtà e rappresentazione come elemento costitutivo della dimensione
sociale, cfr. S. MOSCOVICI, Le rappresentazioni sociali, trad. it. di V. L. Zammuner, Bologna, Il Mulino, 2005
(estratto da R. M. FARR, S. MOSCOVICI (a cura di), Rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1989); ID. (a cura
di), Psycologie sociale des rélations à autrui, Paris, Colin, 2006. Cfr. anche G. MEAD, Mente, sé e società [1934],
trad. it. di R. Tettucci, Firenze, Giunti, 1966 (ult. ediz. 2010); H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà [1975], trad.
it. di R. Cordeschi, Milano, Adelphi, 1987 (2004, III edizione).
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3.
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La tensione essenziale della realtà: fatti contro valori
I giuristi di Antico Regime, misoneisti ab imis fundamentis, si attennero
scrupolosamente a questo principio. Nelle loro dottrine essi manifestarono
sempre totale aderenza al cardine concettuale secondo cui il diritto non
può e non dev’essere modificato dal potere, altrimenti quest’ultimo assume il connotato sinistro di tirannia e di arbitrio. Un sovrano che volesse
palesemente innovare l’ordo juris era screditato come despota e per i giuristi era prima di tutto colpevole di empietà, poiché non avendo timore d’intaccare i nuclei essenziali del diritto, eterni per definizione, mostrava non
solo l’impudenza di violare la “costituzione del regno”, ma – a monte – di
non avere quel timor di Dio, da cui tutto il diritto, imperniato sull’Ordine
Universale, derivava. Il re innovatore (o, se si preferisce, “manutentore”) si
macchiava perciò del peggiore dei crimini, quello della lesa-maestà divina.
E un re definito “cristianissimo” o “cattolico”, come rispettivamente erano
i sovrani francese e spagnolo, non avrebbe potuto infrangere quel limite
sacro, senza conseguenze di assoluta gravità (28).
Spesso, quando si parla di “monarchia assoluta”, si resta prigionieri di
luoghi comuni e non si tiene conto dei contesti ideologici nei quali i protagonisti di quel mondo operavano. Trovando la sua causa prima nella divina Voluntas, il diritto dei re era, sul piano assiologico, intangibile. Neppure
un re avrebbe potuto modificarlo nelle sue strutture portanti (cioè “costituzionali”), poiché la sua volontà era pari a quella degli altri re suoi predecessori, e la volontà di tutti e di ciascuno di essi non era che il riflesso
della Volontà di Dio. L’assolutismo monarchico si fondava proprio su questo principio, che si potrebbe definire teosofico-politico: poiché Dio aveva
investito il re, quest’ultimo diventava “l’Unto del Signore” nella sacra e
scenica rappresentazione dell’incoronazione. Da quel momento il re faceva
le veci di Dio in terra e lo rappresentava nella sua onnipotente sovranità.
Nel giuramento che pronunciava in quella solenne cerimonia, egli s’impegnava davanti a Dio a “rispettare i privilegi della Nazione”, il che, in una
società di ordini, di status e di corpi, dove tutti (chi più chi meno, ma tutti)
avevano dei privilegi, significava di fatto riconoscere una potente limitazione del proprio raggio d’azione (29).
La parola del re era dunque parola di Dio e di conseguenza non pote(28) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, trad. it. di
chi scrive, Roma-Bari, Laterza, 1998 (III ediz. inalterata 2002), pp. 41-2; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., pp.
119-123. Sulle conseguenze dell’empietà dei sovrani, si pensi solo allo sviluppo delle teorie monarcomache
secondo le quali era legittimo per qualunque suddito uccidere il re sacrilego e non timoroso di Dio.
(29) Cfr. M. DAVID, La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXe au XVe siècle,
Paris, Dalloz, 1954, pp. 154-8 e 183-9; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 306.
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va essere smentita da alcuno. Essa aveva la stessa pesanteur della parola
divina. Era in teoria un potere illimitato. Ma in pratica no. Proprio per il
fatto di rappresentare Dio in terra, il comportamento del re era incanalato
entro una dimensione ben precisa e invalicabile. Ciò che Dio non avrebbe
mai fatto, non avrebbe certo potuto fare il re. Egli incarnava il Bene e quindi ogni atto riprovevole alla coscienza cristiana non poteva compierlo (30).
Nei fatti, l’azione del re era quindi ben delimitata. Il re, si diceva, è sì assoluto, ma “per far regnare la giustizia” (31). E il concetto di giustizia era eminentemente legato al valore del senso cristiano della parola.
Alcuni storici del diritto, fondandosi sull’analisi delle sole dottrine prodotte dalla letteratura politica filo-assolutistica, hanno creduto invece all’idea che l’assolutismo monarchico fosse veramente tale (32) e che di conseguenza fosse concettualmente e istituzionalmente opposto al regime costituzionale (che avrebbe poi trionfato nella Rivoluzione) (33). Ma è un grave
errore di metodo, distorsivo della realtà, dar credito solo all’elaborazione
dei teorici e, men che meno, considerare solo l’aspetto formale delle norme
e dei princìpi e non (soprattutto) la loro applicazione concreta, la loro declinatio nella complessa e difficile vita delle “relazioni effettive”.
(30) Fu proprio questo l’argomento base (noto come “teoria dei freni”) utilizzato da Claude de Seyssel
nel suo celeberrimo trattato La monarchia di Francia pubblicato nel 1519: D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni,
cit., p. 44: “Questi ‘freni’ sono anzitutto gli obblighi di coscienza del re fissati nei comandamenti divini”. Sul
punto, cfr. E. SCIACCA, Le radici teoriche dell’assolutismo nel pensiero politico francese del primo Cinquecento (14981519), Milano, Giuffrè, 1975, pp. 87 ss.: 117 ss.
(31) Rinvio, per un approfondimento sul punto, al mio La rinascita, cit., pp. 191 e 196-199.
(32) Ad esempio, B. VONGLIS, L’État c’était bien lui. Essai sur la monarchie absolue, Paris, Éditions Cujas,
1997; ID., La monarchie absolue française. Définition, datation, analyse d’un régime politique controversé, Paris,
L’Harmattan, 2006. Analisi di questo tipo, basate sul dover essere programmatico e non sulla descrizione
dell’essere così com’è, portano dritto a disegnare una dimensione fantastica (magari assai più affascinante e
colorita), ma non una realtà storica (per definizione sempre più cruda e dura dei valori formali che esprime). Per realizzare invece un’analisi seria di una data società in un dato momento storico non bisogna limitarsi solo all’ordine dei discorsi formali (al cui novero appartengono tanto programmi e proclami politici
quanto le norme giuridiche), ma bisogna guardare piuttosto a come quei discorsi e quelle norme sono, attraverso una determinata mentalità sociale e individuale, applicati e realizzati e soprattutto sentiti dalla maggioranza delle persone nella vita vissuta. Il che, tra l’altro, è molto più faticoso da ricercare e da trasfondere
in una ricostruzione storiografica ordinata e comprensibile.
(33) Al contrario, la monarchia assoluta fu, fin dalla sua genesi tardo-medievale (dal XIII al XV secolo), un regime fondato su un “blocco costituzionale, tanto scritto quanto consuetudinario”, come da ultimo
ha mostrato, con esemplare chiarezza di stile, gran solidità di metodi di ricerca e poderosa costruzione storiografica, A. RIGAUDIÈRE, “Les fonctions du mot constitution dans le discours politique et juridique du bas
Moyen Âge français”, in Revista Internacional de los Estudios Vascos, Cuadernos, 4, 2009, pp. 15-51: 17; del
medesimo A. si veda soprattutto Penser et construire l’État dans la France du Moyen Age. XIIIe-XVe siècle, Paris,
Comité pour l’Histoire économique et financière de la France, 2003. Sul punto (ormai oggetto di una copiosa letteratura), cfr. almeno J. PH. GENET (a cura di), L’État moderne: Genèse. Bilans et perspectives, “Actes du
Colloque tenu au Cnrs à Paris”, 19-20 sett. 1989, Paris, Éditions du Cnrs, 1990; J. KRYNEN, L’empire du roi. Idées
et croyances politiques en France. XIIIe-XVe siècle, Paris, Gallimard, 1993; molti spunti in R. MOUSNIER, La costituzione, cit., passim. Resta attestata sulla posizione di un “Medioevo senza Stato” larga parte della storiografia giuridica italiana, esemplarmente racchiusa nell’opera di P. Grossi, la cui interpretazione al riguardo è
sintetizzata in ID., L’Europa del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 16.
44
FRANCESCO DI DONATO
La storia del diritto e delle istituzioni non dev’essere solo una storia
delle dottrine e del pensiero giuridico, non deve interessarsi solo alla ricostruzione di norme e istituti che sono esistiti in un dato ordinamento, ma
deve qualificarsi piuttosto come storia dell’esperienza giuridica e perciò osservare e descrivere non solo il piano ideale e deontico del diritto formale, bensì
i “nessi che legano i processi evolutivi delle produzioni ideologico-scientifiche [= norme e dottrine] alla prassi umano-sociale e alla storia reale” (34).
Norme e istituti non possono certo essere estranei all’atelier de l’histoire du droit, ma vanno intesi e descritti nella loro “realtà effettuale”, ossia
inquadrati nel contesto dinamico e nella dimensione di “precomprensione” entro la quale acquistano il loro valore e la loro concreta qualificazione (35). Nell’evoluzione della realtà, è fin troppo noto, rientrano le distorsioni eterogenetiche – più o meno intenzionali – produttive di effetti che
possono essere anche molto lontani e talvolta persino del tutto opposti alle
rationes juris iniziali (36).
4.
Il trionfo della prassi giurisdizionale:
la manutenzione interpretativa
Nella società di Antico Regime il fondamento metafisico-religioso rendeva dunque l’idea stessa di “riforma”, e quindi di “manutenzione”, del
tutto inimmaginabile. La parola “riforma” era impronunciabile da parte del
giurista, che la percepiva come uno dei peggiori disvalori possibili (37).
(34) La sfera dell’“esperienza”, infatti, contiene anche le fonti formali del diritto intese nel suo ambito come “fatto normativo”, mentre non si può dire l’inverso. Sulla definizione dell’“esperienza”, come fondamentale concetto del metodo scientifico, restano molto utili le pp. di G. PRETI, Praxis ed empirismo, Torino,
Einaudi, 1957, recentem. rist. a cura di S. Veca, Milano, Bruno Mondadori, 2007; e, sulle cause della refrattarietà italiana a questo elementare paradigma al quale tutto il pensiero moderno delle società avanzate si è
attenuto dalla rivoluzione scientifica in poi, cfr. M. ALCARO, La crociata anti-empiristica, Milano, Franco
Angeli, 1981 (dal quale è tratta la citazione nel testo: p. 11).
(35) Sulle strutture di precomprensione e la necessità di ricostruirne il senso e la forza d’influenza
sulle produzioni culturali, cfr. P. BOURDIEU, Spiriti di Stato. Genesi e struttura del campo burocratico, trad. it. di
R. Ferrara in ID., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995 (nuova ediz. 2009), pp. 89-131: 91-93 e 112-113.
(36) A questo proposito, un libro che i giuristi (tanto i positivisti quanto gli storici) dovrebbero leggere (e che non mi è mai capitato invece di vedere citato e discusso nella trattazione di temi consoni alle loro
discipline) è quello di T. K. MERTON, E. G. BARBER, Viaggi e avventure della serendipity. Saggio di semantica sociologica e sociologia della scienza, , trad. it. di M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 2002.
(37) Una testimonianza eloquente in proposito è quella di Niccolò Fraggianni, uno dei più colti e raffinati giuristi del Settecento italiano, per il quale le “riforme” costituivano “torbide novità” frutto di “capricciosi progetti che tuttodì si eccitano e si fanno da […] teste ripiene di entusiasmi e di visioni”; l’attività riformatrice dell’ordo juris produceva quindi un enorme rischio per la tenuta del “sistema totale”; di conseguenza, tutti coloro che si ponevano tra le fila dei “riformatori” non erano per lui che demolitori dell’interesse
generale alla stabilità; occorreva perciò senza tentennamenti combattere e “biasima[re] coloro che colle
nuove opinioni vogliono singolarizzarsi, et intorbidare la tranquillità dello Stato”: cfr. F. DI DONATO,
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
45
Nella lingua francese si usava un’espressione, réformation, capace
appunto di distinguere l’attività di semplice ritocco della legislazione dalla
réforme, percepita come uno stravolgimento profondo degli assetti consolidati. La réformation era quindi “una cosa completamente diversa dall’innovazione” e anzi ne era “l’esatto contrario”. Nessun re cercò “nel cambiamento radicale dei princìpi il vero progresso legislativo”, ma l’obiettivo
della corona fu costantemente “il ritorno ai princìpi primigèni delle istituzioni, princìpi che il tempo aveva corrotto”. Anche quando le “circostanze
nuove imponevano continui ritocchi, degli aggiornamenti e dei perfezionamenti”, queste operazioni “dovevano essere fatte nel senso degli antichi
princìpi, nella linea della tradizione” (38).
Il “modo di pensare” di quel mondo prevedeva un corpo sociale strutturato ab imis fundamentis “in ranghi fissi e immutabili, in quanto considerati come elementi di un grande disegno permanente della natura regolata
secondo ritorni ciclici che traducono in un divenire stabile le leggi naturali
e la volontà di Dio” (39). Di fronte alla figura e al potere innovativo del re
stava insomma – com’è stato scritto con una formula assai appropriata – la
“Nazione organizzata” (40). E questa “organizzazione” consisteva prima di
tutto in un’incondizionata difesa delle tradizioni coutumières.
In un contesto di questo tipo la mentalità imperante era quindi l’esatto opposto della nostra attuale: l’innovazione e il cambiamento erano visti
con sospetto e negatività, mentre tutto ciò che era tradizionale, antico e
stabile era considerato positivamente e con interesse (41). “Noi siamo ben
lontani – recita una regia Déclaration del 24 agosto del 1780 che riassume,
anche retrospettivamente, la questione – dal determinarci troppo facilmente ad abolire le leggi antiche e legittimate da un lungo uso” (42). In
ottemperanza di questo principio considerato sacro, né il re né i suoi ministri potevano “introdurre un diritto nuovo che sconvolgerebbe i princìpi
conducendo gradualmente a innovazioni pericolose” (43).
Il mutamento del diritto – tanto negato in teoria quanto, come in ogni
organizzazione socio-giuridica, indispensabile nella pratica e segnatamente
Esperienza e ideologia ministeriale nella crisi dell’Ancien Régime. Niccolò Fraggianni tra diritto, istituzioni e politica,
2 voll., Napoli, Jovene, 1996, pp. 52, 78-79, 323 e 508-509.
(38) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 213.
(39) Cfr. R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto, cit., p. 47.
(40) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 222; si veda, al riguardo anche R. MOUSNIER, “La Nation
organisée”, in Réaction, n. 1, 1991, pp. 73-91.
(41) Ivi (ultime tre opp. citt.), passim; cfr. F. DI DONATO, La rinascita, cit., p. 466.
(42) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211.
(43) Ibidem.
46
FRANCESCO DI DONATO
nell’attività di governo – passava quindi attraverso un altro canale. La legge,
che non poteva essere innovata e di fatto nemmeno abrogata (44), poteva
però essere interpretata dagli esegeti autorizzati a questa delicatissima attività alla quale nessun altro, neppure i re, aveva accesso poiché richiedeva la
juris peritia della quale soltanto i sacerdotes juris erano investiti.
Ciò che era consentito ai sovrani era la modifica o la creazione delle
norme “transeunti” ossia quelle che attenevano alla sfera superficiale degli
“accidenti”, mai a quella delle “sostanze” o, come si diceva con il linguaggio
della scolastica aristotelica, delle “quiddità”. I rispettivi preamboli di due ordinanze regie (una di Carlo VIII sulla riforma delle giustizia, emanata nel luglio
del 1493; l’altra di Luigi XII del marzo 1498) ci spiegano alla perfezione questo
principio di fondo secondo il quale la “varietà” delle situazioni e il “mutamento dei tempi” potevano spingere i sovrani a intervenire sui testi di legge
esistenti, ma mai per stravolgerli bensì solo per “aggiungere o diminuire”
qualche aspetto di dettaglio e sempre per un palese e ineludibile bisogno di
adattare le leggi alla realtà “per il bene della giustizia e dei nostri sudditi” (45).
Tuttavia, anche su quelle norme (si pensi, ad esempio, alla materia
fiscale, per definizione e necessità soggetta a continui mutamenti) i sovrani
e i loro governi dovevano ottenere il consensus populi. E naturalmente anche
in quest’àmbito i giuristi trovarono il modo d’interporre la loro mediazione
patriarcale, ricorrendo al raffinato artificio del consensus gentium (46): il consenso del popolo (al mutamento legislativo) era presunto, a condizione di
essere “delibato” dagli organi giurisdizionali che di quel consenso e dei
valori che esso veicolava si sentivano gli esclusivi depositari (47).
(44) Su questa difficoltà all’abrogazione palese della legge nell’Antico Regime, cfr. ivi, p. 210, dove
l’A. considera questo “un principe général de conservation” dell’ordinamento vigente “très net: le roi respecte,
autant qu’il est possible, les lois de ses prédécesseurs” e pertanto egli è “en principe hostile aux nouveautés”. Sul
medesimo punto, cfr. il mio La rinascita, cit., cap. 3, pp. 153-230, e spec. § 5.3 (pp. 187-192), § 5.5 (pp. 194-199)
e § 5.6 (pp. 199-206), dedicati rispettivamente ai problemi della “gerarchia delle norme di rango equivalente”, alla “legge prigioniera della legge” e alla gerarchia normativa come “spada di Damocle sospesa sulla
testa del re”. Cfr., inoltre, F. DI DONATO, La revisione costituzionale in una prospettiva storico-istituzionale. Il problema del mutamento giuridico in relazione al mutamento sociale e culturale, in S. GAMBINO, G. D’IGNAZIO (a cura
di), La revisione costituzionale e i suoi limiti. Fra teoria costituzionale diritto interno esperienze straniere, Milano,
Giuffrè, pp. 555-578: 569-573.
(45) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211.
(46) Cfr. D. LUONGO, Consensus Gentium. Criteri di legittimazione dell’ordine giuridico moderno, 2 voll.: I.
Oltre il consenso metafisico; II. Verso il fondamento sociale del diritto, Napoli, Arte Tipografica Editrice, rispettivamente 2007 e 2008.
(47) L’obiezione secondo la quale l’espressione del consenso ai provvedimenti fiscali spettava agli
Stati generali e non ai parlamenti s’infrange contro lo scoglio della realtà per cui gli Stati non vennero più
convocati dal 1614-15 fino al 1789. In questo vuoto totale i giuristi-magistrati s’incunearono abilmente ed elaborarono la dottrina della sostituzione del Parlamento agli Stati in quanto unico organo (questo era il linguaggio usato) “rappresentativo della Nazione”: cfr. F. MAZZANTI PEPE, “Le aspirazioni del Parlamento di
Parigi a una funzione sostitutiva degli Stati generali (1715-1771)”, in Annali della Facoltà di Scienze politiche
dell’Università di Genova, I, 1973, pp. 609-650. Sulla complessa relazione tra corona e magistratura in ordine
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
47
Fu questa la via attraverso la quale i giuristi-magistrati di Antico
Regime diventarono i veri padroni occulti della politica regia. La procedura legislativa che prevedeva la “registrazione” obbligatoria (in Francia l’enregistrement parlementaire) fu intesa come un vero e proprio diritto di veto
opposto al sovrano e ai suoi governi ministeriali. Molto spesso questo
potentissimo strumento d’influenza politica servì a trasformare la jurisdictio
in potere sovrano, non foss’altro che per la pratica della negoziazione che
necessariamente si apriva tra la corona e la magistratura al fine di garantire l’approvazione di provvedimenti ritenuti indispensabili all’azione governamentale (48). E altrettanto spesso fu utilizzato dalla magistratura come
barrage alla “manutenzione” legislativa tentata, spesso non senza razionalità, dai ministri regi e dai loro attrezzati uffici.
In tal modo, all’ideale dichiarato dai giuristi di far coincidere potestas e
jurisdictio corrispose nei fatti il tentativo, spesso riuscito, di far trionfare la
legge interpretata (dai supremi organi giurisdizionali) (49). Il perno di questa linea giuspolitica era costituito dalla dottrina secondo la quale la volontà
del re era priva di ogni effetto se non fosse stata rivestita della forma giuridica che
solo l’approvazione dell’alta magistratura (in Francia il Parlamento) poteva conferire ai provvedimenti legislativi.
Per questo, se non ci si sofferma solo all’esame delle astratte dottrine e
si analizzano attentamente le pratiche del sistema, non si tarda ad accorgersi
che i giuristi investiti della funzione giurisdizionale furono spesso nelle
monarchie “assolute” i veri sovrani. Con una ineguagliabile subtilitas, essi
assicurarono così la continuità formale dell’ordo juris, realizzando nel contempo i cambiamenti possibili e gl’interventi “manutentivi” ritenuti utili e
non incompatibili con l’assetto consolidato del sistema; nel quale il perno era
costituito dal potere esegetico dei grandi organi magistratuali che attraverso
la giurisdizione riuscivano spesso ad arrivare al nucleo della sovranità politica, orientando le scelte d’indirizzo o quantomeno riuscendo a imporre al
governo un negoziato che le influenzava, non di rado anche sensibilmente.
La tendenza dei giuristi a oltrepassare la funzione meramente applicativa delle norme per ambire alla funzione nomotetica e d’indirizzo politico è
dunque una costante della loro vicenda storica e mille sono i rivoli di questo
alla politica fiscale, si veda il bel libro di A. ALIMENTO, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV.
Dalla ‘‘taille tarifée’’ al catasto generale, Firenze, Leo S. Olschki, s.d. [1995].
(48) Su questo cruciale problema della formazione effettiva della legge nella pratica del sistema di
Antico Regime, è in corso uno studio monografico, fondato su ricerche archivistiche di prima mano, indirizzate e dirette da chi scrive, ad opera di G. Ambrosino, dottorando di ricerca presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e presso l’Università di Messina.
(49) Per lo sviluppo di questi temi, cfr. F. DI DONATO, L’ideologia dei robins nella Francia dei Lumi.
Costituzionalismo e assolutismo nell’esperienza politico-istituzionale della magistratura di antico regime (1715-1788),
Napoli, Esi, 2003, spec. pp. 326-336.
48
FRANCESCO DI DONATO
fiume carsico che scorre senza interruzione nei sottofondi delle società occidentali (e oggi non solo occidentali (50)). La “manutenzione” (occulta) dell’ordo juris fu uno dei principali strumenti attraverso i quali la magistratura
riuscì ad assicurarsi quel potere. Nell’Italia contemporanea le leggi vengono,
in gran parte dei casi, scritte o ispirate da magistrati distaccati negli uffici
legislativi dei ministeri o consultati riservatamente da ministri e uomini politici. Nelle società di Antico Regime, variatis variandis, la situazione non era
molto diversa. Nella Francia “assolutistica”, come in quasi tutti gli altri Paesi
europeo-continentali che a quel modello – chi più chi meno – s’ispiravano, i
giuristi-magistrati non si limitavano affatto ad applicare norme precostituite,
ma partecipavano attivamente alla formazione e alla manutenzione delle
leggi: in primis scrivendole materialmente (pensiamo solo al lavoro svolto in
Francia dai maîtres des requêtes), poi influendo sui loro contenuti attraverso la
procedura di registrazione (con le annesse negoziazioni a latere dell’iter formale e gli accordi sous-table con il ministero), e poi ancora interpretandole nell’ordinaria attività giurisdizionale, dove avevano sempre buon gioco a “piegarle” ai significati più graditi a seconda della convenienza corporativa dettata dalle contingenze storico-politiche (51). In quest’ultima attività si realizzavano quegl’interventi di “manutenzione”, ossia quegli “aggiustamenti”
progressivi, che sul piano legislativo erano interdetti dalla fissità assiologiconormativa, ossia dal carattere “ontico” del diritto (52). Colmo del paradosso,
erano gli stessi magistrati a difendere accanitamente questo ontologismo
giuridico, perché ciò consentiva loro di arginare il potere legislativo della
sovranità politica della corona e dei suoi governi ministeriali, aprendo così
spazi di manovra immensi per la jurisdictio. La manutenzione era, in tal
modo, bloccata sul piano della funzione nomotetica esercitata dal potere
politico e nel contempo era realizzata per via giurisprudenziale.
(50) Cfr. C. N. TATE E T. VALLINDER, The Global Expansion of Judicial Power: the Judicialization of Politics,
New York, New York Univ. Press, 1995.
(51) Persino uno storico ultraregalista come F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 212, dové ammettere – anche se la formula adottata appare alquanto vaga e blanda – che la corretta traduzione in pratica delle
leggi doveva fare i conti con “la négligence des officiers chargés de veiller à leur application”; era questa una “sorte
de fatalité à laquelle le roi se résigne”.
(52) Questo carattere del diritto, proveniente dall’ordine giuridico del Medioevo, sopravvive come
“eredità” nell’Età moderna, attraverso la forma mentis dei giuristi e specialmente dei magistrati. La definizione del diritto medievale come diritto “ontico”, cioè costituito da un “ordine scritto nelle cose […] fisiche
e sociali” e che attraverso l’interpretatio “può essere letto e tradotto in regole di vita” è di P. GROSSI, L’ordine
giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 14, 30 e passim; ID., Assolutismo giuridico e diritto privato,
Milano, Giuffrè, 1998, pp. 285-286 e passim; ID., L’Europa, cit., pp. 14 e passim; ID., Nobiltà del diritto: profili di
giuristi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 242. Per la più acuta disamina critica degli effetti (a)sociali determinati da
questa onticità (in questa prospettiva definita “ontologismo”), cfr. R. AJELLO, Epistemologia, cit., pp. 9 e 13-16;
ID., L’esperienza critica del diritto. Lineamenti storici. I. Le radici medievali dell’attualità, Napoli, Jovene, 1999, passim e spec. 119-159: 129-132, 185-189 e 355-364; ID., “L’asociale cordialità. Contributo alla storia delle mentalità in Italia”, in Frontiera d’Europa, anno XIII, n. 1, 2007, pp. 5-72 e da ultimo ID., Eredità medievali paralisi giudiziaria. Profilo storico di una patologia italiana, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2009, passim e spec. pp. 90-95.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
49
Si pensi ancora, a tal riguardo, al potentissimo strumento, utilizzato a
piene mani dai parlamenti, delle “sentenze regolamentari” (gli arrêts de règlement), attraverso i quali l’alta magistratura dettava legge e – come si disse
durante la Fronda di uno dei più potenti robins del tempo, il presidente
Lamoignon – “faceva il bello e il cattivo tempo a Parigi e in Francia” (53).
Questo tipo di provvedimenti – giurisdizionali solo in apparenza, in realtà
veri e propri atti legislativi – servirono al corpo giudiziario per realizzare
una manutenzione controllata dell’ordinamento che fosse sempre vantaggiosa in primo luogo per la magistratura (54).
5.
La manutenzione giurisprudenziale, strumento arcano
del governo politico del giureconsulto
La manutenzione giurisprudenziale – l’unica possibile nei fragili e precari equilibri politico-istituzionali dell’Antico Regime – realizzava, dunque,
segretamente, una delle indispensabili funzioni connesse alla vita evolutiva
degli ordinamenti giuridici. La pratica del diritto giurisprudenziale rendeva possibile ciò che la teoria e l’impalcatura formale del sistema impedivano (55). Si può dire allora che gli interventi manutentivi si realizzavano tutti
all’interno degli arcana juris nella dimensione del potere occulto che, in una
sorta di anonimato istituzionale permanente, proteggeva i suoi autori materiali dalla responsabilità degli effetti prodotti.
A dispetto delle vantate perfezioni formali dell’ordo juris, si realizzava
così nella vita giuridica concreta un paradosso assurdo: i princìpi di fondo
del sistema erano salvaguardati nel momento stesso in cui incisivamente si
violavano. In tal modo si otteneva una perfetta coincidentia oppositorum: si
assicurava all’ordo juris una indiscussa fissità assiologica nelle sue strutture
formali ritenute (e propagandate come) perfette in quanto riflesso della
Volontà divina e nel contempo si operava occultamente per realizzare il suo
aggiornamento pressoché costante.
(53) Sugli arrêts de règlement, cfr., per rapidi ed essenziali ragguagli, D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., pp. 29-30; e, per l’analisi approfondita e documentata, P. PAYEN, Les arrêts de règlement du Parlement
de Paris au XVIIIe siècle. Dimension et doctrine, Paris, Puf, 1997; ID., La physiologie de l’arrêt de règlement du
Parlement de Paris au XVIIIe siècle, Paris, PUF, 1999.
(54) La possibile obiezione che l’efficacia degli arrêts de règlement fosse limitata solo al ressort di ciascuna
corte di giustizia è superata innanzitutto dal fatto che il circondario del Parlamento della capitale comprendeva
un vastissimo territorio dell’esagono e in secondo luogo dal legame circolare stabilito tra i diversi parlamenti;
un legame che nel Settecento sarebbe stato addirittura teorizzato da Louis-Adrien Le Paige, leader della robe parlementaire, con la famosa tesi dell’union des classes, secondo la quale tutti i parlamenti non erano che le molteplici espressioni sul territorio (“classi”, cioè sezioni) di un unico grande organo giuspolitico, il Parlement appunto.
(55) Si veda al riguardo l’ormai classico studio di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 1967 (rist. inalt. 1975), spec. pp. 79-199.
50
FRANCESCO DI DONATO
In questo senso e per quel che riguarda l’Antico Regime, la “manutenzione” dell’ordine giuridico dev’essere considerata uno dei principali strumenti del
potere arcano della magistratura attraverso il quale la jurisdictio era convertita
occultamente in sovranità politica. Per diversi secoli i giudici si tramandarono
questa forma mentis e questo savoir faire: saper fare negando di farlo. Ne
furono gelosi custodi; e stroncarono con minuzioso accanimento ogni tentativo di rendere palese la funzione manutentiva.
Ne è prova la vicenda toccata in sorte all’autore di uno dei più bei trattati giuridici del Cinquecento francese (che, almeno a mia conoscenza, non
è stato pressoché mai considerato dagli storici del diritto) nel quale la pratica della manutenzione era tematizzata palesemente e suggerita come tecnica legislativa capace di gestire ordinatamente il caos legislativo.
Quest’opera è il Legum abrogatarum et inusitatarum tractatus di Philibert
Bugnyon, che pagò di persona, con una carriera stentatissima e relegata nell’oscurità della provincia profonda, il suo ardire per aver pubblicato quel
volume (uscito prima in francese nel 1563 con il titolo Traicté des loix abrogées et inusitées e poi successivamente tradotto in latino, perché lingua universale (56)). L’establishment magistratuale lo considerò una grave violazione del segreto e un serio e pericoloso tentativo d’incrinare il sistema degli
arcana juris. L’opera ebbe invece un certo successo tra i giuristi pratici che vi
trovavano un utile strumento di lavoro in grado di favorire una qualche
comprensione del diritto vigente nella nebbia alzata dal coacervo di normesrefrein o di norme contraddittorie (57). Così come, per motivi politici evidenti, l’autore riscosse simpatia negli ambienti ministeriali, arrivando a
suscitare la stima e la considerazione del cancelliere Michel de l’Hôpital.
In questo trattato Bugnyon tracciò le linee di una implicita tecnica legislativa di manutenzione delle leggi, prendendo in considerazione ed elencando tutte le norme dell’ordinamento francese che erano state abrogate o
erano state ritenute desuete. Questo enorme lavoro fa, tra l’altro, luce sui
motivi per i quali i giuristi-magistrati di Antico Regime preferirono sempre
la desuetudine all’abrogazione come strumento principe ritenuto idoneo a
realizzare la manutenzione (58). L’attività abrogativa, infatti – in questo
aspetto un istituto eminentemente moderno volto alla semplificazione dell’ordinamento – toglie potere interpretativo al giurista e nel contempo
inchioda il politico, autore dell’atto abrogativo, alle sue palesi responsabi(56) P. BUGNYON, Traicté des loix abrogées et inusitées en toutes les Cours du royaume de France…, Lyon,
chez B. Molin, 1563 (= Bibliothèque Nationale de France, F. 11616 e F. 17956).
(57) Il volume conobbe diverse edizioni tra il 1563 e il 1578 e fu poi continuamente aggiornato e commentato (nell’ediz. del 1602 da Pierre Guésnois) fino al 1702, anno dell’edizione apud Petrum de Dobbeleer,
Bruxelles, che è la più importante e aggiornata e reca il titolo latino: Legum abrogatarum et inusitatarum in
omnibus Curiis, Terris, Jurisdictionibus et Dominiis regni Franciae tractatus.
(58) Cfr. F. DI DONATO, La rinascita, cit., p. 198.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
51
lità d’indirizzo legislativo. L’abrogazione è pratica netta e dal momento in
cui è messa in atto tutti possono sapere che una legge non è più in vigore.
La manutenzione per desuetudine, invece, comporta l’infinita possibilità
che il giurista-interprete eserciti un arbitrio che, più che libero, può considerarsi illimitato, poiché nel momento in cui egli abbia interesse ad applicare una legge desueta può sempre “ripescarla” dal mare magnum dell’ordinamento, asserendo la sua vigenza formale (omnia in corpore iuris inveniuntur: “nel corpo del diritto si può trovar tutto”). Alla desuetudine (59) –
istituto flessibile quant’altri mai – si può assimilare poi la semi-desuetudine, sapendo che la gamma delle sfumature può qui divenire infinita nelle
abili mani di una subtilitas raffinata e tecnicamente ineccepibile, producendo effetti estremamente vantaggiosi per l’élite degli interpreti autorizzati.
Con l’abrogazione questa pratica sarebbe invece impossibile, poiché la
legge abrogata non è in alcun modo recuperabile. I morti non resuscitano; i
malati invece (anche se gravi) talvolta, se adeguatamente curati, possono
guarire e ristabilirsi. Al momento opportuno attraverso la desuetudine, il
giurista-esegeta poteva riuscire a far rivivere norme che si trovavano in
stato di quiescenza, che morte del tutto quindi non diventavano mai.
L’ordinamento giuridico di Antico Regime non era un ordinamento come
noi lo conosciamo oggi, e cioè una struttura formata da norme che possono
essere ordinariamente cambiate e che scaturiscono da organi assembleari
democraticamente eletti e quindi mutevoli in archi temporali relativamente
brevi. Nel mondo prerivoluzionario vigeva una regola fondamentale: che siccome era Dio il creatore della società, quest’ultima era un organismo dato non
costruito. I valori sui quali l’ordinamento si fondava erano comunicati direttamente da Dio al magistrato che doveva applicarli. Quindi il diritto era, propriamente, un diritto divino-naturale, che di conseguenza non era modificabile se non attraverso l’escamotage della manutenzione giurisprudenziale.
6.
Storia della follia reiterativa: un tentativo governamentale
di arginare la tirannia degli apparati giurisdizionali
La manutenzione propriamente legislativa (ad opera del potere politico) era dunque molto difficoltosa nell’Antico Regime; e ciò tanto nel sistema giuridico quanto nell’assetto politico-istituzionale, ossia (si potrebbe
dire con il linguaggio del diritto attuale) tanto nelle norme di relazione
quanto in quelle di azione. Una delle pratiche che maggiormente testimonia
di questa difficoltà è quella della reiterazione delle leggi (un po’ alla stregua
di quanto accade oggi in Italia con la prassi – palesemente incostituzionale,
eppur frequentissima – della reiterazione dei decreti-legge).
(59) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., pp. 409-410.
52
FRANCESCO DI DONATO
Molto spesso accadeva nell’Antico Regime che una stessa legge venisse
reiterata più volte, talvolta addirittura con un intervallo di pochi mesi. Basta
anche solo sfogliare, per rendersene conto, i repertori delle leggi (60) o i manoscritti degli atti parlamentari, nei quali i provvedimenti legislativi erano
costantemente richiamati (61). Possedendo immensi archivi, dei quali erano
gelosissimi custodi (era qui, del resto, il nerbo del dépôt légal), i magistratiinterpreti riuscivano a costruire un complesso reticolato di precedenti attraverso cui potevano flettere il senso delle disposizioni normative inserendole in
un contesto legislativo di lunga durata. Agli occhi dei giuristi-interpreti era
questo il senso pregnante dell’ordo juris, cosa ben diversa da un insieme,
ancorché strutturato e coordinato, di norme. L’ordo juris era un ordine dato e
fisso, che solo la juris peritia del magistrato aveva il munus di rivelare.
L’interpretatio del giudice, come l’ago dell’infinita tela di Penelope, faceva e
disfaceva continuamente quell’ordine, adattandolo alla realtà attraverso la
propria mediazione, con una flessibilità di fatto pari solo alla rigidità assoluta
del sacro oggetto (il diritto) ipostatizzato. L’attività esegetica dei giuristi-interpreti era dunque attività “patriarcale”, “sacerdotale” e “sapienziale” (62).
In un contesto di questo tipo, la pratica della reiterazione delle leggi, che
di primo acchito sembra un’attività irragionevole e priva di sensata spiegazione, si comprende invece perfettamente pensando all’elevato tasso di disapplicazione che le leggi subivano. La reiterazione (renouvellement législatif)
deve dunque essere messa in stretta relazione con la desuetudine (63). Nella
convinzione (in realtà più che altro una pia speranza) che repetita juvant, il
governo regio riproponeva con frequenza la stessa legge noncurante dell’apparente insensatezza del gesto istituzionale.
In realtà, la reiterazione delle medesime disposizioni normative era un
razionale (e disperato) tentativo da parte del potere politico-ministeriale di
arginare la dilagante espansione della giurisdizione togata che utilizzava la
tecnica della desuetudine e della disapplicazione come formidabile arma
per ampliare a dismisura l’influenza della magistratura sulle affaires d’État.
Reiterando le stesse norme se non altro s’impediva alle corti di giustizia di
(60) A. J. L. JOURDAN, DECRUSY, F. A. ISAMBERT, Recueil général des anciennes lois françaises, cit.
(61) Una magnifica fonte archivistica, a mia conoscenza mai studiata, utilissima nel senso al quale si
fa qui riferimento, è l’Extrait des Registres de Parlement custodito presso la Bibliothèque Municipale de Dijon,
mss. 1496-1501. Questi documenti, da me personalmente consultati, sono di grande importanza per varie
ragioni tra cui, non ultima, la copertura di un ampio arco temporale che va dal 1515 al 1693, cosa che rende
particolarmente attendibile e significativa la campionatura della casistica classificata.
(62) I primi due aggettivi riflettono il pensiero di R. AJELLO, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento
italiano, Napoli, Jovene, 1976, passim; il terzo quello di P. GROSSI, L’ordine, cit., spec. pp. 125 ss.; ID., L’Europa,
cit., pp. 37 ss. e 52. È evidente che nel diverso uso di questa, tutt’altro che neutrale, aggettivazione è racchiuso un differente giudizio critico nei confronti del ceto giuridico e dell’esperienza giuridica medievale e
moderna.
(63) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 410.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
53
considerarle eo ipso desuete. Quand’anche lo fosse stata nell’inosservanza
pratica, una legge promulgata di fresco non poteva essere giudicata “desueta”. Sarebbe stato un nonsenso, nella logica ordinaria prima che nella tecnica esegetico-giuridica. Lo impediva, tra l’altro, la mentalità formalistica
imperante: se una legge esisteva nei suoi aspetti formali esisteva tout-court.
La desuetudine (come, del resto, la consuetudine) richiede tempi lunghi e la
tecnica della reiterazione interrompe la continuità dell’oblio, segmentando
una precisa volontà di riaffermare tali o talaltri contenuti dispositivi (64). La
reiterazione aveva dunque lo stesso effetto giuridico dell’interruzione della
prescrizione (65).
Il giudizio sulla reiterazione delle norme come pratica insensata e folle
risente inevitabilmente del nostro contesto dal quale noi osserviamo e giudichiamo. Agli occhi dei legislatori di Antico Regime, invece, la pratica
della reiterazione non sembrava affatto illogica e irrazionale. Per loro, anzi,
quella della reiterazione era una misura “manutentiva” necessaria, e persino indispensabile, per tentare di avvicinare il più possibile la realtà sociale
al diritto, ossia per ridurre le distanze tra l’essere (sociale) e il dover essere
(giuridico), in definitiva tra fatti e valori. Questa era una delle conseguenze
più rilevanti dell’idealismo assiologico e del rigore formalistico, di cui la
mentalità giuridica in primis era portatrice.
Naturalmente, che l’ordinamento potesse evolvere per via legislativa,
saltando a pié pari la mediazione patriarcale delle corti di giustizia, era
poco più di una vacua aspirazione da parte del potere sovrano, poiché ciascuna legge, ancorché reiterata mille volte, doveva, o prima o poi, giungere
al redde rationem del momento applicativo; e a quell’ineludibile varco l’attendeva l’interpretatio dei giuristi-magistrati. La forma mentis dei sacerdotes
juris era una struttura psicosociale consolidata in lunghi secoli, a partire da
quella grande fucina di metodi esegetici e di mentalità che era stato il
Medioevo italiano (66), nel quale i giuristi avevano maturato l’idea che la
loro tecnica interpretativa potesse essere una formidabile arma politica (67).
Questa visione del mondo si radicò a tal punto che, malgrado le grandi differenze di contesto e le molteplici e variegate vicissitudini storico-politiche
attraversate, il grand corps de l’État dei magistrati continuò sempre a mante-
(64) Ibidem.
(65) Secondo un principio giuridico già presente nel diritto romano e poi sancito nel diritto civile di
vari ordinamenti europei, l’atto interruttivo della prescrizione fa iniziare ex novo il calcolo del periodo temporale utile per potersi dichiarare la medesima (nell’ordinamento italiano vigente, art. 2945 c.c.).
(66) Cfr. P. GROSSI, L’ordine, cit., pp. 162-182: 165, che mette in luce, come meglio non si potrebbe, il
“rilevante” potere “che dà all’interprete la possibilità di vanificare l’autorità della norma”.
(67) Cfr. P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433),
Milano, Giuffrè, 1969; R. AJELLO, L’esperienza critica, cit., spec. pp. 323-326: 325.
54
FRANCESCO DI DONATO
nere il medesimo atteggiamento istituzionale nei confronti della royauté (68).
Si spiega così il rassegnato eufemismo del milieu regalista espresso, come
più chiaramente non si sarebbe potuto, nelle lettere patenti del luglio 1606: “Il
tempo annienta tutte le cose e in assenza della pratica e dell’esercizio delle
migliori leggi e ordinanze, esse si revocano da sole” (69). Di qui la scelta di
reiterarle, adattandole, ove possibile e necessario, in qualche dettaglio a
nuove situazioni di fatto venute nel frattempo a determinarsi. Proprio su questi “dettagli” si appuntavano i tentativi ministeriali d’inserire, nel tronco della
vecchia legislazione, elementi di rinnovamento più o meno estesi e penetranti. I quali, tuttavia, non sfuggivano mai all’occhio vigile dei magistrati, che nel
procedimento di “verifica” (vérification) operavano non solo un controllo di
“legalità” formale, ma anche un controllo di “opportunità” e di “equità” (70).
Questa situazione, cristallizzata nel tempo lungo della storia dello Stato,
era oggettiva. Era cioè indipendente dai mutamenti dinastici e dalla personalità, più o meno forte, di questo o di quel sovrano. Qui viene in evidenza
il problema di fondo implicito nel tema della “manutenzione” dell’ordinamento giuridico, nel momento cruciale del mutamento al vertice del potere
che si attuava nella successione da un re a un altro. Che cosa accadeva all’ordo juris quando, morto un re, vi era l’ascesa al trono, l’”avvento” (événement)
come si diceva, di un altro sovrano? Quale momento sarebbe stato più propizio per realizzare tutti gli interventi manutentivi ritenuti più opportuni e
urgenti? Poteva il nuovo re cambiare ad libitum l’ordinamento vigente ritenuto da lui e dai suoi ministri parzialmente inadeguato? Poteva il nuovo
sovrano “manutenere” le norme a suo modo, cioè intervenendo con atti di
pura volontà per cambiare le norme già esistenti, aggiornandole, modificandole incisivamente in parte o abrogandole del tutto? Poteva egli mutare,
esplicitando la sua semplice volontà personale, l’assetto ordinamentale del
regno in base al principio romano quidquid principi placuit legis habet vigorem?
Secondo la dottrina della monarchia assoluta il nuovo re poteva fare
benissimo tutto ciò, poiché la sua volontà era per l’appunto sciolta dalle
leggi vigenti (a legibus soluta). Era il sovrano a comandare e la sua volontà di comando si traduceva eo ipso nella legge dello Stato (rex est lex, lex
est rex) (71). Ma questa – come si è visto (72) – era, appunto, la teoria, non
la pratica dello Stato assoluto, era il valore non il fatto (73).
(68) Cfr. F. AUTRAND, Naissance d’un grand corps de l’État. Les gens du Parlement de Paris 1345-1454, Paris,
Publications de la Sorbonne, 1981.
(69) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 212.
(70) Sul significato in concreto di questi diversi tipi di controllo, cfr. D. RICHET, Lo spirito, cit., p. 28; e,
per riferimenti più approfonditi, il mio La rinascita, cit., p. 199, nota 118.
(71) Cfr. G. FLORIDIA (a cura di), Lex facit regem, rex facit legem, Teramo, Arkè, 2005.
(72) Cfr. supra, nota 32 e testo corrispondente.
(73) Sulla pratica del sistema, cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., pp. 61 ss.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
55
Per avvalorare l’idea, invero piuttosto rudimentale, che il monarca
dello Stato assoluto potesse effettivamente qualsiasi cosa volesse (quasi un
moderno re Mida), la mente corre a frasi celebri tramandate di bocca in
bocca per intere generazioni e ancora di larga fruizione popolare, come
“L’État c’est moi” di Luigi XIV. Ma il re-sole non disse mai nulla del genere. La frase esatta che egli pronunciò sul letto di morte e che fu regolarmente documentata ha un significato inequivocabilmente opposto: “Io
vado via, ma lo Stato resterà sempre” (74). Nella storia del cosiddetto
“Stato assoluto”, a dispetto dei proclami propagandistici e delle dottrine
giuspolitiche dei royalistes (che le elaboravano e le diffondevano proprio
perché esse non trovavano corrispondenza nella realtà, altrimenti non se ne
sarebbe avvertito un così impellente bisogno), nessun re dimenticò mai,
nella pratica effettiva dell’azione governamentale, i limiti costituzionali al
suo potere (75).
Nella pratica costituzionale dello Stato assoluto quello del re fu un
“duro mestiere” (76), nel quale le delusioni e le amarezze furono assai più
frequenti e numerose delle gioie e dei piaceri. In Francia, la figura del re
fu sempre sostanzialmente subordinata a quella dello Stato-Nazione.
Tanto che per evitare contrapposizioni deleterie per l’interesse generale si
ricorse alla metafora del “matrimonio tra il re e la Respublica” (77). Il re
francese non poteva dunque volere qualsiasi cosa. La sua volontà legislativa non consisteva in una discrezionalità illimitata, ma s’identificava piuttosto con una disposizione a confermare più che a modificare. Ciò per
almeno due ragioni. Prima di tutto perché, come ci ha mostrato la notissima teoria dei “due corpi del re” (78), quello che moriva era solo il corpo
(74) Cfr. R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 135.
(75) Ibid. Secondo Mousnier, Luigi XIV fu l’unico sovrano che tentò di modificare il tradizionale equilibrio politico-istituzionale attraverso “una deliberata violazione della costituzione consuetudinaria” del
regno, ma “fallì” l’obiettivo (ivi, p. 107). È davvero sorprendente come molti manuali scolastici di storia diffondano ancor oggi questa favola fossilizzata nella celebre (e apocrifa) frase messa in bocca al re-sole: “Lo
Stato sono io”, segno di quanto sia difficoltoso estirpare gli errori nel contesto di una società scolastica non
votata alla ricerca, all’innovazione, all’aggiornamento e allo sviluppo del senso critico. Perfino l’Enciclopedia
dei Ragazzi, Roma, Ist. dell’Enc. It. Treccani, 2005, vol. V, pp. 175-176: 176 (voce: “Luigi XIV il simbolo dell’assolutismo monarchico”) accredita questo falso storico; ivi, vol. II, p. 267 (voce: “Assolutismo”) si asserisce nell’occhiello che la monarchia assoluta era “un potere privo di vincoli e di controlli”, e nel testo che in
quel regime il re era “libero di fare e di cambiare le leggi”, anche se poi si aggiunge poco oltre che il medesimo “sovrano era tenuto a rispettare, in obbedienza al comune sentire e ai valori condivisi, le leggi divine
e naturali e le leggi fondamentali del regno a partire da quella della successione al trono” (entrambe le voci,
nel complesso equilibrate e dense di utili ed essenziali notizie, sono firmate da M. L. Salvadori).
(76) Cfr. M. ANTOINE, Le dur métier de Roi. Études sur la civilisation politique de la France d’Ancien Régime,
Paris, Puf, 1986, eccellente lavoro frutto di un profondo e amplissimo scavo archivistico di prima mano.
(77) Cfr. R. DESCIMON, “Les fonctions de la métaphore du marriage politique du Roi et de la
République. France, XVe-XVIIIe siècles”, in Annales E.S.C., n. 6, nov.-déc. 1992, pp. 1127-1147.
(78) Di derivazione medievale e oggetto di studio del capolavoro di E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del
re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, trad. it. di G. Rizzoni, Torino, Einaudi, 1989.
56
FRANCESCO DI DONATO
fisico di un sovrano, mentre il corpo spirituale restava, reincarnandosi
senza soluzione di continuità in ogni successore. Ciò significava che “il
[vero] re non moriva mai” (79) e che quindi il potere regale sussisteva
in un continuum perfetto che non subiva alcuna cesura. Fu questa la
linea che, con puntigliosa coerenza, i giuristi regalisti a lungo difesero
(un nome per tutti, quello di Bernard du Haillan, che si protese in articolate dimostrazioni sulla continuitas che caratterizzava la sovranità
regale indipendentemente persino dalla cerimonia dell’incoronazione).
In secondo luogo, perché – proprio in conseguenza dell’immortalità
del corpo spirituale del re – la Voluntas sovrana doveva rispecchiare
fedelmente questa continuità della Traditio. Se fosse stato lecito per un
sovrano contraddire la volontà di un suo predecessore allora sarebbe
venuta meno la continuità del regno. E questo era impossibile stante
proprio il carattere “ontico” del diritto e la natura “essenziale” dello
Stato.
Il re non poteva quindi arbitrariamente decidere tutto ciò che voleva,
poiché, come si è visto, egli era “re-cristianissimo” e la sua parola coincideva con la stessa parola di Dio che egli rappresentava in terra. Da questo
punto fermo discendeva tutta una serie di conseguenze di enorme rilevanza giuridica e istituzionale. Prima tra tutte l’idea che il re non poteva affatto agire come voleva, senz’alcun limite, ma doveva farlo nel rispetto di
quella Traditio consolidata in un corpus normativo che era indicato con il
nome di “costituzione del regno” e che comprendeva, oltre i sacri e intangibili princìpi di fondo dello Stato assoluto (quali, ad esempio, la tutela
della sicurezza e della proprietà dei sudditi e la tuitio regni la difesa del territorio nazionale (80)), le cosiddette “leggi fondamentali” (81) e tutte le disposizioni normative emanate (sempre nel nome di Dio) dagli altri re che lo
avevano preceduto (82). Infatti, siccome anche i suoi predecessori erano
stati nella medesima condizione di rappresentanti del Verbum divinum, la
loro parola pesava tanto quanto quella del re attuale (lo schema è il mede-
(79) R. GIESEY, Le roi ne meurt jamais: les obseques royales dans la France de la Renaissance, con prefazione
di F. Furet, Paris, Flammarion, 1987.
(80) D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 53.
(81) Nell’ampia bibliografia sul tema mi limito a ricordare: A. LEMAIRE, Les lois fondamentales de la
monarchie française, d’après les théoriciens de l’Ancien Régime, Paris, Fontemoing, 1907, rist. anast. Genève,
Slatkine, 1975; E. CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la constitution française au XVIIIe siècle, Paris,
PUF, 1927, rist. anast. Genève, Slatkine, 1970; B. BASSE, La constitution de l’ancienne France. Principes et lois fondamentales de la royauté française, Liancourt, Presses Saint-Louis, 1973; C. SAGUEZ- LOVISI, Les lois fondamentales au XVIIIe siècle. Recherches sur la loi de dévolution de la couronne, Paris, PUF, 1983; A. VERGNE, La notion de
constitution d’après les cours et assemblées à la fin de l’Ancien Régime (1750-1789), Paris, De Boccard, 2006;
RIGAUDIÈRE, Les fonction du mot constitution, cit..
(82) Cfr. supra nota 44.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
57
simo delle asserzioni infallibili del papa che parla ex cathedra (83)). Un
sovrano, perciò, non poteva disattendere questo principio senza violare lo
stesso fondamento costitutivo della monarchia di diritto divino, che reggeva anche se stesso, legittimando il proprio potere.
7.
La svolta rivoluzionaria e la sua lunga preparazione
ideologica: dalla manutenzione giurisprudenziale
alla manutenzione legislativa
Se guardiamo in questa prospettiva, il problema della manutenzione
delle norme nell’Antico Regime ci appare di grandissima complessità, perché si fonda su un paradosso apparentemente insolubile: il re è “assoluto”,
ma di fatto non dispone di un potere sufficiente per effettuare un’ordinaria
manutenzione dell’ordinamento giuridico, cristallizzato nelle forme immutabili della sua natura metafisico-sacrale.
Già a metà del Cinquecento, Jean Bodin, il maggiore teorico della politica e del diritto francese del suo tempo, comprese la centralità di questo
problema: si trattava di conciliare la sovranità assoluta (identificata con l’indivisibilità del potere legislativo) e la necessità di garantire stabilità e certezza al diritto vigente. L’impasse fu superata ricorrendo all’abile formula –
risolutiva tanto sul piano teoretico quanto (soprattutto) sul piano praticopolitico – della conferma delle leggi “per tacita tolleranza” (par souffrance)
(84). Questa espressione significava che, salendo al trono, il nuovo re confermava eo ipso, per silenzio-assenso, le norme giuridiche vigenti al tempo
del suo predecessore. Fu una geniale finzione giuridica che permise il consolidamento del systema juris della monarchia assoluta e, sul lungo periodo,
consentì di garantire la stabilità dell’ordinamento giuridico. Fu definitivamente sancita l’idea che lo Stato monarchico-assoluto era uno Stato strutturato su un fondamento giuridico (85). E fu un passaggio decisivo nell’evoluzione costitutiva dello Stato moderno (86), che venne allora qualificandosi sempre più come “Stato di diritto” (87). Il contributo del pensiero giuri(83) Cfr. B. TIERNEY, Origins of Papal Infallibility. 1150-1350. A Study on the Concepts of Infallibility,
Sovereignty and Tradition in the Middle Ages, Leyden, E. J. Brill, 1972.
(84) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 23.
(85) Cfr. G. G. ORTU, Lo Stato moderno. Profili storici, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 139 ss.
(86) Cfr. A. TENENTI, Stato: un’idea, una logica. Dal comune italiano all’assolutismo francese, Bologna, Il
Mulino, 1987; O. BEAUD, La potenza dello Stato, trad. it. di L. Tullio, Napoli, Esi, 2002, spec. pp. 19-188.
(87) Secondo la sintetica ed efficace definizione di M. TROPER, Per una teoria giuridica dello Stato, trad.
it. di A. Carrino et alii, Napoli, Guida, 1998, pp. 170-171: “Lo Stato non è altro che il nome che si dà al potere politico quando si esercita in una certa forma, la forma giuridica”.
58
FRANCESCO DI DONATO
dico a questa costruzione politico-istituzionale fu dunque di enorme rilevanza (88). Questa “logica” di fondo inevitabilmente (per eterogenesi dei
fini) legittimò il peso di ciò che più tardi Montesquieu avrebbe definito il
dépôt légal negli affari di Stato. Questo passaggio significò, di fatto, un’abilitazione al potere interpretativo-politico dei giuristi-magistrati e alla loro
azione “manutentiva” dell’ordinamento, realizzata in condizioni di quasi
esclusività.
Lungi dall’essere un aspetto puramente tecnico-specialistico, confinato
a un’attività tipica del giurista subordinato, quella della manutenzione delle
norme giuridiche, insomma, è una vicenda politico-istituzionale il cui ruolo
nella dinamica evolutiva dello Stato moderno è rilevantissimo e la cui complessità è difficile da racchiudere in una sintesi esaustiva e coerente. Se è
fuor di dubbio che la soluzione bodiniana della tacita conferma preparò da
lontano la svolta rivoluzionaria del 1789 (un classico caso di “spirito rivoluzionario prima della Rivoluzione” o di sue “origini lontane” (89)), in
quanto pose il diritto nazionale al di sopra del re, è innegabile altresì che
essa finì col mettere la funzione manutentiva totalmente nelle mani del ceto
magistratuale, l’unico potere strutturato capace di assolvere all’indispensabile funzione di aggiornamento dell’ordo juris.
È appena il caso di notare, en passant, come, salvo qualche pionieristica
eccezione (90), la storiografia giuridica nel suo complesso non ha prestato la
dovuta attenzione a questo aspetto capitale degli ordinamenti europei e
soprattutto non ha inteso né valorizzare né analizzare la logica politico-istituzionale che vi è sottesa. Cosicché, anche quando singulatim sono stati pro(88) Cfr. A. PADOA SCHIOPPA, “Il ruolo del diritto nella genesi dello Stato moderno: modelli, strumenti,
princìpi”, in AA.VV., Studi di Storia del Diritto, Pubbl. dell’Ist. di St. del Dir. It. dell’Univ. di Milano, Fac. di
Giurispr., vol. II, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 25-77, ora in ID., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, Il
Mulino, 2003, pp. 315-363. In ordine a questo punto, si attesta su una linea interpretativa completamente diversa da quella di chi scrive, M. FIORAVANTI, “È possibile un profilo giuridico dello Stato moderno?”, in L.
BARLETTA, G. GALASSO (a cura di), Lo Stato moderno di Ancien Régime, Atti del Convegno di Studi, San Marino,
6-8 dicembre 2004, Università degli Studi della Repubblica di San Marino, Scuola superiore di studi storici, San
Marino, Aiep Editore, 2007, pp. 185-195, sulla cui impostazione rinvio alle mie considerazioni critiche nel cap.
V del mio La rinascita, cit., passim, e spec. pp. 368 ss., 384 ss., 395 ss., 401 ss., 423 ss.
(89) Un affascinante tema di ricerca, questo, che ha dato ottimi risultati nel campo della storia delle
idee politiche e religiose (a partire dallo studio di F. ROCQUAIN, L’esprit révolutionnaire avant la Révolution.
1715-1789, Paris, Plon, 1878), ma nessuno, che io sappia, nel campo della storia più specificamente giuridica: cfr. D. RICHET, “Autour des origines idéologiques lointaines de la Révolution française: élites et despotisme”, in Annales E.S.C., n. 24 (1), janv.-févr. 1969, ora in ID., 1991, De la Réforme à la Révolution. Études sur la
France moderne, Paris, Aubier, 1991, pp. 389-416; W. DOYLE, Origins of the French Revolution, London-GlasgowNew York, Oxford Univ. Press, 1980; D. MORNET, Le origini intellettuali della Rivoluzione francese (1715-1787)
[1933], trad. it. di E. Di Rienzo, Milano, Jaka Book, 1982; R. CHARTIER, Les origines culturelles de la Révolution
française, Paris, Seuil, 1990 ; D. K. VAN KLEY, The Religious Origins of the French Revolution. From Calvin to the
Civil Constitution, 1560-1791, New Haven and London, Yale University Press, 1996.
(90) Cfr. M. ASCHERI, Tribunali, giuristi e istituzioni. Dal Medioevo all’Età moderna, Bologna, Il Mulino,
1989; ID., Istituzioni medievali, Bologna, Il Mulino, 1994; I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’Età moderna, Torino, Giappichelli, 2002.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME
59
dotti contributi pregevoli, si è spesso mancato d’inquadrarli nel contesto
ampio dell’esperienza statuale e socioistituzionale, prevalendo quindi l’ottica restrittiva del tecnicismo esegetico delle fonti normative (91).
Proprio sul tema della manutenzione, questo metodo tradizionale della
storiografica giuridica viene a trovarsi in gravi difficoltà, poiché un’analisi
esegetica, ancorché minuziosa e accurata, delle fonti normative, delle dottrine giuridiche o degl’intenti programmatici non darà alcun risultato utile
a comprendere l’effettivo svolgimento delle pratiche “manutentive” nel
concreto funzionamento del sistema.
Ad esempio, è vero che ogni sovrano rivendicò – ciascuno con il suo
stile e la sua forza caratteriale – la prerogativa di fare le leggi sans dépendance
et sans partage, come affermò (un po’ troppo perentorio per essere credibile)
Luigi XV nel famoso discorso detto (per ironia, dai giuristi-magistrati) della
“flagellazione”, pronunciato nella séance royale del 3 marzo 1766 (92). Ma
questa dichiarata volontà di realizzare un totale dominio sull’ordinamento
restò sempre una promessa, un “sogno” che non si realizzò mai (com’è stato
giustamente ricordato (93)), se non – paradossalmente – con la caduta della
monarchia assoluta e l’avvento della Rivoluzione e dell’impero napoleonico. E, a scavare a fondo, a dispetto di ogni apparenza neppure allora i nuovi
assetti giuridici, politici e istituzionali riuscirono a mutare in profondità la
forma mentis dei giuristi-esegeti, che restò (come resta tutt’ora, soprattutto in
Italia, con tutti gl’innegabili progressi che pur si son fatti) improntata al
metodo di origine medievale dell’interpretatio (94).
La realtà è molto spesso (se non quasi sempre) assai diversa dalle aspirazioni, dai “sogni” e dalle linee programmatiche espresse da chi compete
per la conquista del potere e persino da chi riesce a ottenerlo. In Francia le
(91) Per la critica più penetrante e – ça va sans dire – non condivisa dai diretti interessati, delle immutabili categorie metodologiche della storiografia giuridica specialmente italiana, arroccata a difesa del suo
“specifico” e chiusa quindi all’interdisciplinarietà, cfr. R. AJELLO, Arcana juris, cit., passim e spec. pp. 3 ss., 109
ss. e 273 ss.; ID., “Problemi e prospettive dell’insegnamento in Italia. ‘Storia del diritto italiano’: articolazioni disciplinari vecchie e nuove”, in P. GROSSI (a cura di), L’insegnamento della storia del diritto medievale e moderno. Strumenti, destinatari, prospettive, Atti dell’incontro di studio, Firenze, 6-7 novembre 1992, Milano, Giuffrè,
1993, pp. 61-102; ID., Il collasso di Astrea. Ambiguità della storiografia giuridica italiana medievale e moderna,
Napoli, Jovene, 2002.
(92) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 159. L’ironia consisteva nel fatto che secondo i robins
il re aveva in quel discorso “flagellato” gl’innocenti giudici del Parlement proprio come era stato flagellato il
Cristo prima della crocifissione! Scritto dal cancelliere e guardasigilli Maupeou che, essendo stato consigliere
e poi primo presidente del Parlamento, i suoi ex colleghi consideravano un infame traditore, il discours de la flagellation è assurto a una sorta di manifesto ideologico del carattere assoluto del potere regio, mentre al contrario è propriamente l’urlo d’impotenza di un re disperato per l’impossibilità di farsi obbedire dai suoi officiers.
(93) A. RIGAUDIÈRE, “Un rêve royal français: l’unification du droit”, in Académie des Inscriptions et des
Belles-Lettres. Comptes rendus des séances de l’année 2004, nov.-déc., fasc. IV, 2004, pp. 1553-1567.
(94) Cfr. U. PETRONIO, “L’analogia tra induzione e interpretazione. Prima e dopo i codici giusnaturalistici”, in C. STORTI (a cura di), Il ragionamento analogico. Profili storico-giuridici, Napoli, Jovene, 2010, pp. 183-292.
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FRANCESCO DI DONATO
“leggi del re” così ben descritte nei loro più dettagliati aspetti formali e
strutturali (95), non riuscirono sempre a dispiegare tutti gli effetti che i loro
autori e ispiratori intendevano realizzare. Nel complesso gl’interventi
manutentivi sull’ordinamento in via legislativa restarono improntati a una
sostanziale souplesse da parte dei governi regi (96). È vero che contribuirono a strutturare il sistema istituzionale e la civilisation étatique, ma quanto
all’effettiva incisività sul systema juris non arrivarono mai a realizzare quegli ideali di “coerenza, chiarezza e comprensibilità” che sono oggi indicati
come gli elementi tipici di una corretta opera di manutenzione (97). Il diritto francese restò, fino alla rottura rivoluzionaria, un diritto composto da
materiali eterogenei, con molteplici e varie influenze (98) e sottoposto all’enorme e costante pressione giurisprudenziale dei parlamenti, che realizzarono un’attività di “manutenzione” spesso assai più incisiva degl’interventi legislativi, arrivando perfino a governare i territori e le città attraverso un
uso politico-amministrativo minuziosissimo della giurisdizione (99).
Occorse, appunto, la cruenta cesura del 1789 per determinare il passaggio da una manutenzione giurisprudenziale a una manutenzione legislativa,
collegata alla responsabilità politica e alla trasparenza del potere (100).
(95) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit..
(96) Ivi, p. 214.
(97) Cfr. M. DE BENEDETTO ET AL., La qualità delle regole, cit., p. 102.
(98) Cfr. V. PIANO MORTARI, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè,
1962; ID., “La formazione storica del diritto moderno francese. Dottrina e giurisprudenza del secolo XVI”, in
AA.VV., La formazione storica del diritto moderno in Europa, Atti del Terzo Congresso internazionale della Società
Italiana di Storia del Diritto, I, Firenze, L. S. Olschki, 1977, pp. 195-219; ID., “Tradizione romanistica e tradizione
giuridica europea nella Francia del secolo XVI”, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea, Perugia,
Libreria universitaria, 1980; ID., “L’ordo juris nel pensiero dei giuristi francesi del secolo XVI”, in Clio – Rivista
trimestrale di studi storici, 1989, ora tutti in V. PIANO MORTARI, Itinera juris. Studi di storia giuridica dell’Età moderna, Napoli, Jovene, 1991, rispettivam. pp. 111-144, 67-78 e 245-267. Si veda anche il bel saggio di V. GUIZZI, “Il
diritto comune in Francia nel XVIII secolo”, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis - Revue d’histoire du droit,
Groningen, XXXVII, 1969, pp. 1-46.
(99) Gouverner la ville à travers la juridiction è appunto il titolo di un mio prossimo saggio che costituisce lo sviluppo di una relazione svolta al Congresso internazionale Pouvoirs publics (Etat, administration) et
ville en France, Italie et Espagne de la fin du XVIIe siècle à la fin du XVIIIe siècle, tenutosi il 15 ottobre 1999 presso l’Université “Paul Valéry” di Montpellier.
(100) Su questo tema, rinvio al mio saggio in corso di pubblicazione: “La Costituzione fuori del suo
tempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella lunga durata”, in Quaderni costituzionali, n. 4, 2011; e a un
contributo monografico di prossima pubblicazione che verterà sul tema “i giuristi e la Rivoluzione francese”.