Dipingono la luce “-Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il

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Dipingono la luce “-Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il
Dipingono la luce
“-Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo.
-Impressione, sole nascente.
-Impressione, ne ero sicuro. Ci dev'essere dell'impressione, là dentro.”
Louis Leroy, Le Chiarivari, 25 aprile 1874, "L'esposizione impressionista"
Rouen, 1892.
A Parigi svetta, fra tutte, la cattedrale di Notre Dame: in francese significa “nostra signora”. Parigi non è
tuttavia l’unica città francese a possedere una chiesa così chiamata: anche a Rouen ce n’è una; e di fronte,
nell’800, come a guardarla, c’era una casa: probabilmente fu abbattuta o distrutta, siccome oggi non è più
possibile trovarla; chissà poi da quale evento: magari un incendio, o la costruzione di qualcosa di nuovo,
forse l’inquilino addirittura perì lì dentro, o forse all’epoca dei fatti la casa era già disabitata. Nel 1892,
comunque, era in piedi: dalla finestra un pittore ritraeva la cattedrale come se fosse una donna, una signora
tutta sua. Era giunto lì qualche mese prima con un’idea in testa: dipingere la luce.
Ci aveva già provato, nella sua lunga vita, e ci era anche riuscito: aveva venduto alcuni quadri e ne aveva
ricavato una cospicua fortuna che aveva investito in un giardino: fra tutti i pazzi eccentrici e ricchi lui era il
più eccentrico, perché all’occhio del povero dovette sembrare uno spreco, o per meglio dire, una follia, ma
c’era della poesia, in tutto quello: un giardino regala giochi e ombre di luce come nessun altro luogo, e lui lo
sapeva.
-L’ho fatto apposta- diceva alla moglie.
-Ora posso dipingere tutta la luce che voglio- diceva fra sé. E sorrideva.
In effetti, fra tutti i mestieri che uno si sceglie, quello del pittore è il più assurdo: nell’800 c’era ancora
speranza, diciamo, forse perché giustamente tutti si ostinavano a seguire una strada, un’idea, a morire anche,
per quella, di fame o di altro. Quell’uomo, seduto ad una finestra a ritrarre una cattedrale, non era certo un
idiota: anche lui, come tanti, aveva seguito la strada delle sue convinzioni, aveva lottato per rivoluzionare
quelle degli altri e ci era riuscito, anche patendo la fame: il premio ottenuto era un giardino e una sedia
vicino ad una finestra. A lui andava bene così, altrimenti, è ovvio, non sarebbe arrivato in quella città
suscitando la curiosità degli abitanti con le sue tele sotto braccio e l’aria sorridente; alcuni l’avevano
riconosciuto, il sindaco aveva in casa una sua tela.
-L’ho visto ad una mostra a Parigi nel ’74, aveva dipinto un quadro impressionante.
-Io ho un suo dipinto in salotto.
-È un pittore famoso, nella capitale.
-Ha dipinto i miei covoni di fieno per mesi.
-Non erano i tuoi, stupido.
-Se non tutti, almeno un paio.
L’uomo prese alloggio nella casa di fronte alla cattedrale.
-Quindi, signor Claude, per quanto tempo intende restare qui a Rouen?- chiese il proprietario.
-Un paio d’anni, più o meno.
-Si troverà bene, vedrà.
-Ne sono certo.
E sorrise.
Si ritorna così a quell’ometto barbuto e pelato che dipingeva una cattedrale: detta così può sembrare pure
stupida, come cosa, ma c’era del genio, anche se invisibile e sottile -un po’ come il trucco di un prestigiatore,
o qualcosa di simile, che c’è ma non si vede.
L’idea di Claude era ritrarre la luce: nella sua testa era l’obbiettivo più alto che potesse raggiungere. In effetti
sono capaci tutti di ritrarre una donna, o un sobborgo o, come fece lui anni prima, un porto: lui voleva
dipingere la luce perché era l’unica cosa al mondo irrappresentabile. Esempio: il vento. Per quanto sia
invisibile, basta disegnare un albero piegato e l’erba che si muove ed ecco il vento: non si vede, ma c’è. La
luce è diversa: non basta disegnare una mela con un’ombra per avere la luce: la luce cambia, la luce si
trasforma, si adatta. Per quanto il vento possa mutare di direzione è sempre vento, cioè aria che tira e cose
che si piegano o volano via (magari si piegano o volano via in direzioni diverse, ma è tutto lì); la luce no: una
mela a mezzogiorno sopra un ceppo non è la stessa mela sullo stesso ceppo alle due, o al tramonto, perché la
luce l’ha trasformata, l’ha cambiata: in un certo senso, metaforicamente, l’ha invecchiata. E, al contempo,
ritraendo quella mela nelle varie parti del giorno si ritrae anche il tempo, e la vita.
Claude credeva possibile fare tutto ciò, e infatti lo fece dipingendo covoni. Un po’ al mattino, un po’ alla
sera, un po’ sulla destra, un po’ sulla sinistra: lo fece per mesi. Quando finì mise le tele una vicina all’altra e
le guardò a lungo. Poi disse:
-No.
Li vendette e ci fece qualche soldo: probabilmente ampliò il giardino o comprò qualcosa di elettrico. Però
non era ancora soddisfatto: c’era della luce, lì, era vero, ma non quella che voleva lui. I covoni erano diversi
fra loro, si vedeva, nessuno avrebbe creduto che erano gli stessi e che quella luce fosse la stessa luce che
cambiava nel giorno e nel tempo, per quanto probabilmente tutti si fermavano increduli quando Claude
diceva che aveva dipinto fieno per giorni e giorni. Aveva bisogno di qualcos’altro, qualcosa che, sì,
cambiava con la luce del giorno, invecchiava lentamente, ma che al contempo fosse ferma, sempre uguale
nella stessa posizione: quando aveva dipinto i covoni aveva cambiato spesso campo e covone, e se capitava
nello stesso luogo sistemava altrove il cavalletto rispetto alla volta precedente: la situazione perciò cambiava
anche per colpa sua, o magari, chissà, il contadino stesso o qualche cane aveva spostato il soggetto. Ecco
perché Claude scelse la cattedrale: quella non l’avrebbe sposata nessuno; ed ecco perché scelse quella casa e
quella finestra: neppure quella l’avrebbe spostata nessuno, non con lui dentro, almeno.
Rimase lì per due anni, poi ci tornò ancora e completò il lavoro.
Agli occhi di chiunque, ma non a quelli di Claude -e questo è importante-, quella serie di cattedrali tutte
uguali poteva sembrare uno scherzo.
-Ma sì, dai,- avrebbero detto –ci stai prendendo in giro. Almeno i covoni variavano un po’.
Sta di fatto che sapeva perfettamente che quel lavoro era per lui e basta, solo per lui; era riuscito a fare ciò
che da sempre desiderava: dipingere la luce, dipingerla per davvero, senza modifiche, o cambiamenti
impercettibili: la cattedrale non era certo cambiata, in quegli anni; lui sì, era vero, però era cambiato con il
tempo, era invecchiato, la stessa cosa che fa la luce, poeticamente parlando, con l’avanzare del giorno. In un
certo senso aveva dipinto la vita, la vita che scorre, e l’aveva fatto in una cattedrale, simbolo di vita eterna,
più o meno; aveva dipinto il tempo, forse anche la morte. Quando aveva fatto i covoni, un po’ tutti diversi,
era come aver rappresentato tante vite tutte diverse; con la cattedrale no: era una vita sola, quella, la sua,
dopotutto.
Ma, di tutto questo, non disse niente a nessuno. Insomma: lui cercava la luce e la luce aveva trovato, questo
bastava; tutto il resto era fortuna, e significato profondo.
E se qualcuno gli avesse chiesto cosa rappresentava quella serie, lui avrebbe semplicemente risposto:
-Mah, direi la luce. È abbastanza chiaro.
In cuor suo sapeva però che non era solo quello, perché la pittura, e l’arte, non si fermano ai colori incrostati
sopra la tela senza scendere in profondità; la luce era solo un pretesto per dire qualcos’altro, e quel
qualcos’altro era la vita. Del resto lo sanno tutti: la luce è vita, la morte è buio; è così chiaro…