delitto di una notte di mezza estate
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delitto di una notte di mezza estate
delitto di una notte di mezza estate gianluca spera ad est dell’equatore © 2016 ad est dell’equatore vico orto 2 80040 pollena trocchia, napoli www.adestdellequatore.com [email protected] Ogni riferimento a cose e persone è puramente casuale. Le vicende raccontate sono esclusivamente frutto della sua fantasia. Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti. Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo Ai nostri giorni futuri [primo tempo] Napoli, 3 luglio 1990, 23:15 Maradona aveva appena infilato con un sinistro impertinente l’angolo basso alla destra di Zenga. Disorientato dalle finte di Diego, il portiere si era tuffato sul lato opposto del tiro dal dischetto e aveva potuto soltanto osservare con la coda dell’occhio destro il pallone ormai alle sue spalle. Risultato: una delle più grandi delusioni della storia del calcio italiano e una nazione intera in lutto. In quello stesso istante il telefono squillò in casa di Fabrizio Orlando. Con le immagini di giubilo dell’Argentina ancora impresse negli occhi, impiegò qualche secondo prima di rispondere. Col trascorrere dei minuti stava maturando in lui uno spontaneo e irrefrenabile sentimento di appartenenza per la squadra sudamericana. La carismatica presenza del Pibe de oro, idolo di Fuorigrotta, era riuscita a conquistare le simpatie di buona parte della tifoseria napoletana. Fabrizio era tra questi. Dall’altro capo del telefono, la voce spazientita del caporedattore dello sgangherato quotidiano dove buttava il sangue tutta la settimana e per il quale era reperibile in ogni istante della giornata. «Orla’, alza il culo dalla poltrona. Finisci di guardare ‘sta 8 partita di merda e preparati ad uscire. Mò mò!», ordinò il capo con la voce impastata di birra e tabacco che lo avevano condannato all’alitosi cronica, alla perdita di un incisivo e di un paio di molari. «Capo, dove mi mandi a quest’ora?», disse Fabrizio con tono arrendevole. «Hanno trovato il corpo di una tizia, la segretaria di un’agenzia immobiliare. Ammazzata, forse stuprata, in un palazzo a via Aniello Falcone. Era scomparsa dall’ora di pranzo. La notizia è altamente confidenziale. Ce l’abbiamo solo noi, Orla’. Portati nei pressi di quel bar per chiattilli, di quelli che ti piacciono tanto, vicino alla pompa dell’Agip. A fianco c’è un cancello. Se nessuno ti apre, scavalca e passa per il viale fino all’interno del cortile. Ci sono tre o quattro palazzine uguali, quella che ci interessa sta di fronte al viale. Entra, al primo piano ci sono degli uffici, trovali e vacci a ficcare il naso. Forza, al lavoro! Facimme ambress’!». Agganciò senza dargli né tempo di replicare né il numero civico o il nome della società dove lavorava quella ragazza. Come al solito, si doveva arrangiare da solo. Tra i pensieri di Fabrizio ancora rivolti all’albiceleste in festa si fece largo qualche bestemmia. Sapeva bene che, quando il suo capo gli affidava un incarico in apparenza interessante, da qualche parte si nascondeva una fregatura colossale. Come quella volta che fu costretto a setacciare le campagne del nolano alla ricerca di un pericoloso latitante che pare si nascondesse in un casolare isolato. Non trovarono nulla, tantomeno il casolare. Era il 10 maggio 1987 e mentre il resto della città sfilava lungo le strade per celebrare la vittoria del primo scudetto, Fabrizio era fermo in un’osteria di Marigliano a mangiare in compagnia di due carabinieri esausti per il caldo e le vane ricerche. 9 In quella sera di mezza estate dove s’erano infrante le speranze dei tifosi italiani di sollevare al cielo la Coppa del Mondo, Fabrizio era consapevole che un suo rifiuto gli sarebbe costato il posto, precario e mal pagato, nella redazione de “La voce di Napoli”. Niente di cui andare fieri, eppure si era affezionato a quella vita randagia, trascorsa in sudici bar, quartieri malfamati, tra tossici e delinquenti, scippi e omicidi. Aveva la chiara sensazione che, prima o poi, gli sarebbe capitato tra le mani “il” caso, quello che avrebbe fatto notare a tutti il suo talento e imposto la sua scrittura nel panorama dell’editoria campana e nazionale. Carico di aspettative, affrontò la notte con insolita impudenza a bordo del suo “Sì” Piaggio blu, inatteso regalo della nonna per il suo diciottesimo compleanno. Ci scorrazzava da un paio d’anni per le strade di Napoli e provincia a caccia di notizie, come altri suoi colleghi alle prime armi. Non poteva immaginare che il feroce assassinio di Nicoletta Ammaturo, una segretaria, come lui poco più che ventenne, bella e disinvolta, fatalmente ingenua o abilmente raggirata, avrebbe solo peggiorato la sua già traballante situazione professionale e innescato un’imprevedibile sequenza di avvenimenti che lo avrebbero costretto a decisioni che mai avrebbe immaginato di prendere. Arrivò in via Aniello Falcone sgusciando dagli ingorghi di auto e moto che si erano formati nelle adiacenze dello stadio San Paolo e sulle principali arterie che conducevano verso il centro. Il motore appena elaborato del “Sì” lo spinse agilmente fuori dalle vetture incolonnate, schiere di pedoni, bandiere argentine sventolanti e tricolori ammainati. Sfidò il buio e lo smog della galleria di Piedigrotta, si arrampicò per il corso Vittorio Emanuele, tagliò per via Tasso e per un attimo si fermò ad osservare il disordine edilizio, i palazzoni che la rampante 10 borghesia napoletana aveva ammucchiato sulla collina con la complicità di amministratori collusi. “Un saccheggio in piena regola” pensò. Sentì mancare l’aria. Si trovò a riflettere sul “giornalismo d’inchiesta” ridotto a inciucio e chiacchiericcio al servizio dei soliti potenti. Eppure confidava nel bisogno dei lettori di sapere come stanno davvero le cose. “Le persone sono curiose, si chiederanno sempre il perché. E se faccio bene il mio lavoro − pensava − prima o poi troverò il mio spazio”. Giunto alla meta, avvertì un’insopprimibile trepidazione mista a impazienza, ansia, timore. Sentiva quella come l’occasione della vita, forse irripetibile. Sfilò il casco e si guardò intorno: nei pressi del cancello aperto che conduceva all’elegante palazzina bianca dove era stato rinvenuto il cadavere non c’era anima viva. Avanzò. Nessun movimento di poliziotti, nessuna ambulanza in vista, nessun addetto delle pompe funebri, uno straccio di medico legale, un giornalista nei paraggi o una targa con il nome della società immobiliare. Attorno, calma sospetta e silenzio rotto solo dallo scrosciare dell’acqua di una fontana sormontata da colonne e statue di leoni che, sfidando il buon gusto, occupavano il centro del cortile. Interdetto, anziché avventurarsi decise di tornare sui suoi passi ed entrare nel bar adiacente. Anche lì tutto era insolitamente tranquillo. All’interno, il titolare e un paio di avventori che bevevano rhum e fissavano il fondo del bicchiere come in un malinconico dipinto di Hopper. Presentandosi, provò a chiedere informazioni. Un tipo annoiato e visibilmente alticcio gli rivelò il nome della società immobiliare, “Lupo & C. Srl”, senza aggiungere altro. Il barista sembrava ancor meno incline alla conversazione; rispose mostrando il proprio sconforto per la sconfitta della nazionale italiana, aggiungendo che aveva solo 11 visto la partita in televisione senza notare nulla di anormale per tutta la giornata. “Eppure il bar era aperto ininterrottamente dalle 7 del mattino − pensò Fabrizio − possibile che questo imbecille non abbia visto o sentito niente?”. Fece qualche passo guardandosi attorno: il terzo uomo, accasciato in un angolo, si era addormentato con le braccia intrecciate sul tavolo e il viso tra le mani. Tornò verso il banco. Il barista intuì che Fabrizio non era intenzionato a desistere e gli fece una smorfia. «Se non ti serve altro io devo lavorare», troncò. Fabrizio capì che non avrebbe ricavato nulla da quella bizzarra combriccola e in particolare dal proprietario, dapprima sfuggente poi fin troppo ostile. La faccia da delinquente, le mezze parole pronunciate con tono cupo e aggressivo lo convinsero a non insistere ed evitare guai. Frustrato, uscì dal bar e tirò un calcio a un sasso con tutta la forza che aveva in corpo. Pensò a uno scherzo di Vincenzo Iodice, il suo capo, poi si ricredette. Non era il tipo da burle. Aveva tanto intuito quanto poco senso dell’umorismo e, nonostante la madornale approssimazione, una capacità innata di “stare sul pezzo”. La professionalità lasciava invece a desiderare, ma questo era un altro discorso. Tornò verso la palazzina senza sapere nient’altro che il nome della società immobiliare. Si avviò verso il portone. «Si allontani, per favore!». La voce baritonale di un individuo grosso e robusto appena sceso da una berlina ferma a poca distanza dall’edificio lo fece trasalire. «È sordo? Vada via. Lei qui non può stare». I contorni dell’omaccione apparivano sinistramente nitidi man mano che si avvicinava. Fabrizio d’istinto restò immobile come gli animali quando avvertono la minaccia troppo vicina per darsi alla fuga. La figura mastodontica non tardò a piombargli addosso.