Potrebbe essere la prima volta

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Potrebbe essere la prima volta
ANSIA DA PRESTAZIONE
Potrebbe essere la prima volta.
Deve per forza essere la prima volta.
Non ci pensare, maledizione.
Se ci pensi è la fine.
Ragiona. Respira.
Quanto l’ho aspettata, la prima volta.
L’ultimo ad arrivarci, il più timido, goffo e imbranato della compagnia.
Forse ci siamo, dai che ci siamo.
Ragiona, organizzati, pensa. Il pensiero razionale ci salva sempre, o quasi.
Allora: ristorante prenotato, mazzo di fiori, tavolo a lume di candela con vista sul mare, doppio
menu, il suo senza il prezzo. Soldi in tasca: ci sono. Si spera che bastino. Mentina per l’alito: c’è.
Preservativo: eccolo, in una tasca ben nascosta, che non spunti per sbaglio a svelare i miei turpi
intenti. Bene, i fondamentali ci sono. Passiamo al reparto igiene.
Fatto doccia, barba, bidè intensivo, crema corpo, deodorante, profumo, orecchie pulite, dentifricio,
collutorio, eliminato i peli del naso, lavato gli occhiali più e più volte, triplo lavaggio dei capelli con
shampoo antiforfora.
Maledizione, è la prima volta, è la prima volta.
Mani sudatissime, ci metto del borotalco, magari servirà. Due fazzolettini sotto le ascelle per
fermare la traspirazione.
Giacca, cravatta, gemelli, pantaloni con la piega, scarpe lucide, sembro un pinguino, le piacerò?
Alle donne piacciono i pinguini? Deve essere così, altrimenti perché venderebbero questi completi
da uomo che sembrano buoni solo per farsi seppellire, con le braccia incrociate e una rosa in mano?
Dunque, è quasi l’ora, ricontrolliamo tutto da capo.
Soldi-mentina-preservativo-fiori-orecchie-bidè, barba-doccia-occhiali-shampoo-borotalco-giaccacravatta in quest’ordine. Inverto l’ordine per vedere se mi sono dimenticato qualcosa. Cravattagiacca-borotalco eccetera. Starò mica diventando ossessivo?
Mi gira la testa. Prendo qualche goccia di valeriana per calmarmi, non posso fumare, lei non fuma,
il mio alito non può sapere di sigaretta, oggi. Maledizione. Devo fumare.
Ahhh, ora va meglio.
Mi tocca fare un altro triplo giro di dentifricio-colluttorio-mentina, un po’ di deodorante sui vestiti,
sui capelli, si sentirà il fumo? Di cosa parleremo? Ci saranno silenzi? Si annoierà?
Ma soprattutto, dopo cena, mi chiederà di salire con lei?
Ho fissato apposta il ristorante a due passi da casa sua, così è tutto più semplice, più familiare.
L’anno prossimo ne compio ventotto, non posso arrivarci vergine, non posso, è una questione di
vita o di morte, me la deve dare, me la deve dare per forza, smetti di pensarci, Antonio, smetti di
pensarci sennò è peggio, devi essere spontaneo, farla ridere, ascoltarla.
Empatia, ci vuole, empatia, perdio!
Ok, e se poi non me la dà? Ci ho messo due anni a rimediare un appuntamento decente, altri due
anni e ne compio trenta, vergine a trent’anni, ti rendi conto, meglio se mi ammazzo prima!
Basta.
Non mi posso vedere vestito da pinguino, meglio cambiarsi.
Sarebbe stato meglio mettersi una camicia bianca, jeans, pulito, semplice, rassicurante, capelli un
po’ spettinati. Ma ormai è troppo tardi anche per cambiarsi.
Tentiamo almeno di imparare un sorriso birichino, un po’ da lestofante, ma simpatico.
Prova sorriso birichino allo specchio: cinque minuti.
Mi sembra di avere una faccia da cretino e basta, altro che birichino.
Più birichino, cristo.
Ecco, così va un po’ meglio, se mi tengo sempre un po’ di tre quarti dovrebbe funzionare.
Dai che ce la fai, Antonio, coraggio, alla pugna, e fai vedere a tutti che non sei un codardo, uno
smidollato.
Le palle, tira fuori le palle.
Con e senza metafora, stavolta.
Sono davanti al ristorante, il mazzo di fiori in mano, l’aspetto impettito come una guardia di
Buckingham Palace. Antonio, rilassati un pochino, metti su una posa decente, appoggiati al muro,
fingi di mandare un messaggio al telefonino, fai qualcosa, qualunque cosa ma non fumare,
soprattutto non fumare. Maledizione. Che voglia di una sigaretta.
Ahh. Ora va meglio. Fanculo al dentifricio, alle mentine e a tutto il resto.
Anzi, quasi quasi visto che lei è in ritardo entro dentro, mi metto a sedere e mentre l’aspetto mi
scolo un bel bicchiere di vino bianco. Perfetto. Comincia a funzionare.
Un altro, grazie. Mi sto rilassando finalmente. E anche un’altra sigaretta.
La cravatta mi ha scocciato, me la tolgo, la metto in tasca. E la camicia, fuori dai pantaloni.
Un altro bicchiere, grazie. Mi sembra che non sia più così importante, tutta questa storia.
E che sarà mai, alla fine? Prima o poi ci sono passati tutti.
Eccola.
Bellissima.
Elegante.
Stellare in un completo bordeaux, gonna lunga, tacchi a spillo.
Mi guarda dall’alto in basso, diffidente: “sei già a tavola?”
Dardeggia con gli occhi sui tre bicchieri vuoti davanti a me, sul pacchetto di sigarette sul tavolo.
Le porgo il mazzo di fiori prendendolo per un tulipano, cadono foglie e fiorellini di campo. Glielo
passo come se le stessi vendendo un cespo di radicchio, ci manca che le chieda “Glielo incarto,
signorina?”. Mi alzo e me ne vado, lasciandola lì come una deficiente: “scusa devo andare a
fumare”. Cominciamo bene.
Poi, per fortuna, le cose migliorano. Per merito suo, naturalmente. Lo capisci solo dopo, che
decidono loro, e lei ha deciso di portarmi a letto. Nonostante tutto, anzi, nonostante me.
Probabilmente ha le sue ragioni, che non voglio e non so indagare.
Insomma, la mia conversazione è ributtante, la voce trema, parlo di politica interna ed economia,
tento di essere empatico e divento antipatico, di essere ironico e divento catatonico, cerco di farla
ridere ottenendo occhiate perplesse. Un paio di volte la scopro a guardare verso l’uscita con
desiderio, ma il fatto è che la sua determinazione batte la mia idiozia.
Quando l’accompagno alla porta di casa dopo una serata in cui abbiamo mangiato male, bevuto
troppo (io, almeno) e pagato un sacco (oltretutto dividendo a metà, perché i miei soldi non
bastavano nemmeno per il vino e mi ero dimenticato il bancomat), sto già per girarmi e andarmene
a capo chino, strascicando i piedi, ho già la sconfitta scritta in faccia ma lei mi sorride, il primo vero
sorriso della serata, e pronuncia le parole magiche. “Vuoi salire”?
È il caso di dirlo: lo sventurato rispose.
E fu così che mi arrampicai per le scale, che venni tacitato con un bacio in bocca mentre cercavo
ancora di cianciare su qualche argomento che non interessava a nessuno dei due, che lanciammo i
nostri vestiti qua e là nell’ingresso di casa, che ci tuffammo sul primo letto disponibile.
Dev’essere stato questo, l’errore.
“Questa è camera dei miei genitori” bofonchia lei, cercando di togliermi le mutande, che si sono
incastrate in maniera complicatissima tra camicia e canottiera. Per un po’ non ci penso, inizio una
decorosa penetrazione, sto vincendo, Antonio trionfante vola verso la meta… poi la sua frase mi
riecheggia più profondamente da qualche parte intorno al basso ventre.
La mia mente comincia subito a immaginare i suoi genitori intenti a baccanali turpi e rugosi,
indicibili coiti tra anziani, dentiere nei bicchieri, ansiti arrochiti dall’enfisema, pancere usate come
gadget erotici… va da sé che il desiderio, com’era venuto, svanisce.
Il mio alter ego che abita sotto la cintura cerca di resistere per un po’ alle deprimenti immagini che
la mente gli propone, prova a concentrarsi sulla piacevolissima fanciulla che ha di fronte, ma il
cervello vince sempre, anche contro l’evidenza e la convenienza.
Ci arrabattiamo tristemente per un po’, mentre tento di immaginare scenari sensuali in paradisi
tropicali e orge invereconde disegnate da Milo Manara, ma per qualche ragione mi viene in mente
solo l’attempato docente di storia contemporanea dell’università.
Nudo. Anzi, con un perizoma leopardato.
È la fine.
La signorina s’impegna, le prova tutte, ma non c’è più niente da fare.
Mi resta solo la via di fuga meno onorevole.
“È la prima volta che mi succede”, piagnucolo.
Lei mi guarda con l’occhio di chi ha trovato uno scarafaggio nel lavandino: “non ne dubito”, è la
sua risposta. A una cosa sola le servivo, ho fallito, non ha più nessun motivo di essere gentile.
Nel suo “non ne dubito” ritrovo la piena consapevolezza che la mia verginità è un fatto di dominio
pubblico, una barzelletta a uso e consumo del popolo, probabilmente ci sono dei cartelli, delle
scritte sui muri che ne parlano qua e là per il quartiere.
Si sta rivestendo, non mi guarda nemmeno.
“Vattene, che ho sonno”, mormora, guardando ostentatamente altrove.
Raccatto i miei vestiti da pinguino depresso, mi rivesto saltellando goffo su un piede solo nel
mettermi i calzoni. Mi sembra di sentire una musica triste in sottofondo, una musica di fallimenti e
rimpianti. Con un ultimo scatto di orgoglio, mi volto verso di lei, tento la carta più bieca.
“Mi sa che non mi piaci abbastanza”.
Lei mi guarda come se non mi vedesse nemmeno, e si mette a ridere.
Ride come una pazza, non riesce più a fermarsi, si rotola sul letto, quasi in lacrime.
Mi precipito giù per le scale per non sentirla, ma è inutile, la sua risata sgorga dai lavandini, dalla
tromba delle scale, dalle finestre del palazzo, dai tombini della via.
Nella mia testa, sta ancora ridendo.