ESSERE PADRI IN ITALIA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO

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ESSERE PADRI IN ITALIA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO
Corso di Laurea Triennale in
Sociologia e Politiche Sociali,
Servizio Sociale
ESSERE PADRI IN ITALIA
ALLA FINE DEL XVIII SECOLO
Relatore: Prof. Marcello Verga
Candidato: Valentina Lunardi
Anno Accademico 2013/2014
Ai miei genitori,
Rosanna e Claudio.
Ringraziamenti
Il mio primo ringraziamento è rivolto naturalmente ai miei genitori, Rosanna e
Claudio, che con il loro amore e sostegno hanno fatto in modo che io raggiungessi
questa fondamentale meta: a loro sarò riconoscente per tutta la vita.
Desidero ringraziare lealmente il Professore Marcello Verga per avermi dato
l’opportunità di lavorare a questa Tesi, per essersi reso sempre disponibile durante la
stesura di questa dissertazione, per i preziosi insegnamenti che mi ha trasmesso e per
essersi rivelato un’ottima guida.
Un ringraziamento speciale è rivolto ai miei straordinari nonni, Caterina, Rosa Anna,
Nicola e Vasco: i pilastri più importanti della mia vita.
Vorrei esprimere una particolare gratitudine ai miei zii, Stefania, Fabrizio e anche al
grande zio Marco per essermi stati sempre vicini, appoggiandomi e incoraggiandomi.
Desidero rivelare un’infinita riconoscenza alle mie cugine, Beatrice e Virginia, anche
se io le considero delle autentiche sorelle: grazie per esserci in ogni momento del mio
cammino.
Un ringraziamento colmo di amore è dedicato a Leonardo, che mi ha sempre tenuta
per mano e che con il suo valoroso aiuto ha facilitato, resa bella e affascinante
l’esperienza che ho vissuto in questi tre anni all’Università.
Un grazie sincero e caloroso alle mie compagne universitarie per l’affetto, la
collaborazione e l’amicizia dedicatomi in ogni momento di questo percorso, in
particolare grazie a Giulia M., Elena P., Giovanna F., Liuba M., Elena M., Floreana
B., Giusy P., Diletta M. e Sara F.
Ringrazio tutti coloro che con la loro presenza mi hanno onorato in questo giorno per
me significativo.
Infine vorrei ringraziare tutti voi per avermi reso la persona che sono oggi.
Indice
Introduzione
Il senso di paternità nel corso della storia ………………………………………...… p. 1
Breve storia del Tu, del Lei e del Voi ……………………………………………….... p. 6
Capitolo Primo
I.1 Amore paterno: Pietro Verri e la figlia Teresa
I.1.1 La vita di Pietro Verri ……………………………………………………...…p. 8
I.1.2 L’amore paterno di Verri per la figlia Teresa …………………………….… p. 11
I.2 Le relazioni familiari nell’Italia centro – settentrionale tra Ottocento e Novecento:
uno studio di Marzio Barbagli ...…………………………………………………...…. p. 18
Capitolo Secondo
II.1 Amore paterno: Giuseppe Bencivenni Pelli e la figlia adottiva Teresa
II.1.1 La vita di Giuseppe Bencivenni Pelli …………………………………….... p. 20
II.1.2 Le Efemeridi: i diari di una vita ……………………………………………. p. 23
Capitolo Terzo
III.1 Romanzo familiare: la figlia adottiva Teresa …………………………………... p. 26
III.2 Teresa Ciamagnini Fabbroni: lettera al padre adottivo ……………………… p. 50
Bibliografia
Sitografia
Introduzione
Il senso di paternità nel corso della storia
Nel corso della storia, il concetto di paternità e il ruolo del padre si sono modificati
notevolmente.
Capire cosa è avvenuto nella storia e quale sia oggi la concezione della paternità può essere
un buon punto di partenza per favorire la comprensione.
Fino a pochi decenni fa, la paternità, a differenza della maternità, era trascurata dalle analisi
storiche, sociologiche, psicologiche e tranne qualche eccezione, anche dalla narrativa.
Si tratta di un’ambivalenza tra amore, rispetto e autorità ciò che caratterizza i secoli che vanno
dal Cristianesimo al Rinascimento, passando per il Medioevo. Bisogna aspettare il 1693,
quando John Locke, nei suoi “Pensieri sull’educazione”, scrive: «il padre, quando suo figlio
sia cresciuto e in grado di comprenderlo, farà bene a intrattenersi familiarmente con lui e
perfino a chiederne il parere e a consultarlo in quelle cose di cui egli ha una qualche
conoscenza».
L’avvento del Cristianesimo è fondamentale nella storia della paternità: la figura di Cristo
diviene emblematica nella ricerca umana di una genitorialità divina. Il processo di
spiritualizzazione della figura paterna trova compimento nelle Confessioni di Sant’Agostino
(354-430 d.c.), Padre della chiesa latina e Vescovo di Ippona. La concezione agostiniana di
Cristo come incarnazione dell’amore paterno induce a considerare Sant’Agostino il fondatore
indiscusso di una Pedagogia della tenerezza paterna.
Nel Medioevo vi è un carattere di domiciliarità con la particolare configurazione familiare
tipica dell’epoca: il parentado. In questo periodo vi è estrema chiusura sul versante del
pubblico. Nel Medioevo il bambino non viene mai concepito come centrale. In età feudale il
figlio dovrà attendere di ricoprire una posizione sociale di prestigio prima di poter prendere
moglie, mentre la figlia sarà maritata giovanissima sia per sancire formalmente la pace tra
familiae rivali che per rinforzare eventuali e preesistenti vincoli di vassallaggio. Il tema
dell’assenza paterna appare con frequenza nel Medioevo, dove sovente la breve esistenza del
padre di famiglia si conclude in un monastero: attraverso l’abito monastico il padre si
garantiva la commemorazione filiale e la benevolenza della comunità religiosa alla quale i
parenti devolvono cospicue sostanze per edificare nuovi monasteri.
1
Nel periodo della Riforma Protestante (XVI secolo) il padre diviene detentore anche del culto
(sacerdozio universale): al centro della vita familiare vi è la lettura del Testo Sacro e le
preghiere collettive sono presiedute dal padre.
Solo nel Settecento, quando l’infanzia comincia a essere oggetto di attenzione, forse per la
prima volta l’autorità paterna vacilla, modificando i connotati psicologici e morali. In questo
periodo, la nozione giusnaturalistica della paternità che domina dai tempi dei Romani perde di
significato: il diritto di natura, infatti, non è più prerogativa del padre, ma della madre. Di
certo il diritto paterno non viene negato, ma cambia la sua origine: non più la natura, bensì il
vivere civile e le sue leggi. In tale contesto, dove ci sono casi di padri che esercitano il proprio
autoritarismo in maniera illuminata, un figlio può avere qualche speranza di sottrarsi alla
volontà paterna opponendovi la propria.
Rousseau (1712-1778) aspira al ritorno ad uno stato di natura come metafora dell’infanzia e
propone un nuovo contratto sociale come espressione della volontà generale da cui si genera
la sovranità popolare. Solo con questa è possibile l’avvento di una nuova società civile
fondata su principi egualitari. Il concetto di Rousseau è generativo di una nuova forma di
paternage: fondata sulla tenerezza del padre e sulla democraticità sostanziale. «I bambini
hanno diritto ad un buon padre, i padri devono essere umani, comprendere le necessità dei
figli e i figli devono godere della propria infanzia». Rousseau propone il pater sentiens, che
sente e che ascolta la pedagogia del futuro: «Nessun padre ha il diritto di comandare al
fanciullo ciò che non serve affatto». Per Rousseau ogni bimbo ha diritto ad un buon padre
come il suddito avrebbe diritto ad un buon sovrano che ponga al centro dei propri interessi la
volontà generale del popolo sovrano. La democraticità di Rousseau non solo apre ad una
nuova idea di Stato ma apre la possibilità concreta del paternage diffusivo: lo Stato deve
rispettare il sentire del popolo come il padre quello dei figli e coloro che sono padri sono
responsabili del futuro della nazione e per esserlo in pieno devono esercitare la pratica
dell’ascolto e per sentire veramente devono rinunciare agli interessi privatistici in favore del
bene comune.
Quindi ricapitolando, nel periodo medievale il bambino è sublimato nella figura del putto,
invece nel periodo rinascimentale compare il primo sentimento dell’infanzia nella forma del
vezzeggiamento. Durante il Seicento il bambino, in quanto fragile, ha bisogno di essere
protetto ed educato alle virtù.
2
Mentre nel Settecento il bimbo diventa il perno attorno al quale ruota la famiglia coniugale e
in questo secolo nasce il sentimento di cura come attenzione all’igiene e alla salute.
La grande novità dell’Ottocento consiste nel fatto che alle testimonianze dei ceti abbienti e
delle classi dominanti, si aggiungono quelle di padri e figli contadini, operai, borghesi. Anche
in questo secolo, però, l’ambivalenza non manca: se da un lato, infatti, cresce l’attenzione
all’infanzia e si moltiplicano testi di educazione e pedagogia, dall’altro la Restaurazione post
Illuminismo e post rivoluzioni coinvolge anche la famiglia. Si cerca, cioè, di rinsaldare la
posizione del padre e di ripristinarne l’autorità. Al tempo stesso, l’istituzione della leva
obbligatoria e soprattutto l’industrializzazione costituisce uno spartiacque importante: si attua,
come osserva Maurizio Quilici
(1)
nella sua “Storia della paternità”, lo sfaldamento della
famiglia patriarcale estesa e ha inizio la rottura antropologica tra l’uomo e la cultura maschile
preesistente. Finora il padre è stato autorità e legge, per tutti i membri della famiglia,
detentore di un mestiere, cioè di un patrimonio prezioso che viene trasmesso ai figli. Con
l’industrializzazione il padre esce dalla famiglia, lascia i figli con la madre. Lo sviluppo
industriale, inoltre, con la richiesta di manodopera, permette ai giovani di emanciparsi
andando a lavorare in città. Il paterno un po’ si svaluta, lo scontro tra padri e figli si accentua,
la figura materna aumenta la sua centralità e il suo peso in termini affettivi lascia tracce
profonde.
Con il consolidarsi della letteratura per ragazzi, poi, i genitori acquistano ruoli ben precisi: da
una parte, l’autorità severa del padre, dall’altra la dolcezza della madre, mediatrice e classica
“regina della casa”.
L’Ottocento è il secolo del padre sia come ideale regolativo che come principio autoritativo.
Questo secolo è rappresentato da un padre assente, spesso fuori per affari ma presente con la
sua autorità nei convivi familiari e nei festeggiamenti. La rilevanza del padre è tale che
uccidere il padre significherebbe uccidere la famiglia. Così come la morte del padre
significava per i borghesi, morte della famiglia, la morte del padrone per il nuovo ceto operaio
implicava l’impossibilità di sostentare la propria famiglia.
(1)
Maurizio Quilici, nato nel 1946 a Lido di Camaiore (Lucca), è fondatore e presidente
dell’ISP (Istituto di Studi sulla Paternità).
3
Nel Novecento, almeno fino al primo conflitto mondiale, se non al secondo, la struttura
familiare, nonostante contrasti e ambiguità, continua a essere patriarcale, con un padre
autoritario a cui si deve rispetto e obbedienza.
Le due guerre hanno un effetto dirompente sulla suddivisione dei ruoli: gli uomini lasciano la
famiglia per andare al fronte, le donne si ritrovano a dover fare da madri e da padri e spesso
devono lavorare, superare ostacoli e risolvere problemi. I figli stessi, rientrati dal fronte, non
intendono più sottostare all’autorità paterna.
Nei primi del Novecento il sostentamento della famiglia è nelle mani di entrambi i coniugi: il
modello più diffuso nelle famiglie operaie urbane d’inizio secolo è quello del lavoro salariato
del marito come fonte principale di reddito, integrato dal lavoro dipendente dei figli e del
lavoro a domicilio, saltuario o part-time della moglie. Al carattere sussidiario che si
attribuisce all’occupazione femminile e minorile si devono i bassi salari con cui vengono
retribuiti donne e ragazzi.
Nel dopoguerra la suddivisione tra i ruoli è ormai acquisita: l’immagine della madre risponde
allo stereotipo della mamma attenta, premurosa, onnipresente, mentre il marito provvede alle
esigenze della famiglia e pur restando la legge, è un padre severo, ma buono.
Fino alla contestazione del ’68, anni che Franco Ferrarotti
(2)
ha definito “dell’incubo
paterno” e che predispone un’intera generazione al “parricidio sommario”, si contesta il
potere, l’autorità, un tipo di società fondata sul principio paterno di autorità. Un periodo forte,
di rottura, che in qualche modo ridisegna i confini del nucleo familiare e i ruoli all’interno di
esso: il lavoro femminile che aumenta e movimenti come il femminismo spingono le donne
verso un obiettivo di parità che chiama in causa i padri.
Senza dubbio, a influire su un nuovo ruolo del padre sono state anche le novità in ambito
giuridico. Dopo la Legge n° 151 del 1975 che riforma il diritto di famiglia, cancellando il
concetto di patria potestà e stabilendo il principio della parità giuridica dei coniugi e della
potestà congiunta di entrambi i genitori, la Legge n° 53 del 2000 prende in considerazione i
diritti di entrambi i genitori e stabilisce tutele e opportunità sia per le madri sia per i padri.
(2)
Franco Ferrarotti, nato nel 1926 a Palazzolo Vercellese (Vercelli) è un intellettuale
poliedrico, oltre ad essere stato tra i principali protagonisti dell’istituzionalizzazione della
sociologia in Italia negli anni ’60.
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In particolare, introduce il diritto individuale al congedo parentale del padre, prevedendo per
ogni genitore sei mesi di congedo per un totale di 10 mesi totali, più un mese aggiuntivo se il
padre usa almeno tre mesi consecutivi di congedo. Il congedo, fruibile entro gli otto anni del
bambino, è retribuito solo entro il terzo anno per il 30% dello stipendio. Con questa normativa
l’Italia si colloca nella media europea rispetto sia alla durata che alla retribuzione del
congedo. Non prevede invece il congedo di paternità, inteso come congedo riservato al padre
nel periodo intorno o immediatamente dopo la nascita del figlio, istituto invece in atto in molti
Paesi europei che prevedono dei congedi di pochi giorni o di 1-2 settimane (Francia, Spagna,
Regno unito, Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia tra gli altri). Sulla carta, poteva essere
un ottimo strumento per favorire la condivisione del lavoro di cura. Invece, sono passati dieci
anni dall’introduzione del diritto paterno al congedo parentale e sembra che la Legge 53/2000
non sia riuscita a trovare il giusto incentivo al superamento di una rigida divisione dei ruoli
nella famiglia, tant’è che sono pochissimi i padri che richiedono congedi parentali e sono
ancora le donne a svolgere il maggior carico di lavoro di cura e domestico, anche se occupate.
Il primo motivo della non fruizione del congedo “maschile” è di tipo economico, ovvero
l’inadeguata compensazione finanziaria (in Italia il congedo è pagato per sei mesi al 30%
dello stipendio), che rende più difficile per la famiglia rinunciare al reddito più elevato che
spesso è quello maschile. Il secondo motivo è la paura per la carriera. Rilevante risulta inoltre
il peso dei fattori culturali e sociali per cui “i congedi parentali sono per le donne”, “mia
moglie/la mia partner lo farebbe meglio di me” e “non sarei capace di farlo”.
A livello europeo, secondo un’analisi realizzata dall'EIRO di Dublino (European industrial
relations observatory), nel 2007 sono i Paesi scandinavi gli Stati dove i congedi parentali sono
utilizzati dai padri in misura più elevata.
Con riferimento al lavoro domestico, in tutti i Paesi europei sono le donne a svolgerlo in
misura assai superiore rispetto agli uomini, indipendentemente dal fatto che siano casalinghe
o occupate. La cultura, il modello familiare dominante, l'istruzione ed i livelli salariali
determinano, infatti, la divisione di genere rispetto al tempo dedicato al lavoro domestico e al
lavoro retribuito per il mercato. La presenza di figli, specialmente se molto piccoli,
incrementa il tempo dedicato al lavoro domestico, soprattutto delle madri.
Analizzando l’utilizzo dei congedi da parte dei padri emerge come, nonostante l’aumento dei
“nuovi padri”, più attenti ai figli, sia ancora prevalente in modello culturale che accentua il
ruolo dei padri come percettori di reddito e le madri come prestatrici di cure ai figli piccoli.
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Breve storia del Tu, del Lei e del Voi
Le forme con cui, nella comunicazione quotidiana, ci rivolgiamo a un'altra persona - il tu, il
lei, il voi - hanno una storia piuttosto lunga e da un certo momento in poi, anche abbastanza
complicata. Infatti, se il tu è sempre stato usato anche se in contesti diversi, l'uso del lei o del
voi è cambiato nel tempo.
Nell'antica Roma, i romani davano del "tu " a tutti: amici, soldati e imperatori. Soltanto in un
secondo tempo, nel I sec. d.C., cominciarono a dare del "voi " agli imperatori che parlavano
con il "noi " (il cosiddetto noi di maestà).
Nel Medioevo, al tu avuto in eredità dai latini, si aggiungono anche altre forme per rivolgersi
agli altri. Dante, nella Divina Commedia, dà del tu a tutti, tranne che alle personalità
importanti ed a Beatrice, la donna amata, a cui dà del voi.
Un secolo e mezzo più tardi, in pieno Quattrocento, le cose sono diventate più complesse. Si
usa il tu con tutti, il voi con le persone importanti che "valgono per due", ma si incomincia
anche a usare la forma del lei.
Nei messaggi destinati a colleghi d'alto borgo Lorenzo il Magnifico alterna le diverse forme
ed i suoi sottoposti usano forme miste, per cui ritroviamo espressioni come "la tua, la sua o la
vostra signoria".
Dal Cinquecento, l'uso del lei formale si diffonde, anche per influenza del modello spagnolo e
nonostante esista ancora il voi tutti danno del lei e del signore a tutti.
Dal Seicento all'Ottocento, il voi e il lei sono praticamente interscambiabili, ma si usa ancora
la forma "ella" che è usata con persone di particolare riguardo.
Nel Novecento, durante il ventennio fascista, viene proibito il lei, perché è considerato un uso
di derivazione straniera e forse poco 'maschile', in contrasto con la tradizione latina. In questo
periodo, quindi, nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle cerimonie ufficiali, l'uso del voi è
obbligatorio.
Dal secondo dopoguerra in poi, finita l'epoca dei saluti romani di stile fascista, l'uso del voi è
continuato solo in pochi campi specifici, come in qualche doppiaggio cinematografico, in
alcune storie a fumetti, nella corrispondenza commerciale e in molti dialetti.
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In generale, oggi ci diamo sia del tu che del lei, invece il voi viene usato soltanto per indicare
la forma plurale, cioè per fare riferimento a più di una persona. Rispetto al passato, inoltre,
l'uso del tu è molto più esteso, come dimostra anche il fatto che si sono attenuate le
discriminazioni sociali ed è quasi del tutto scomparso l'uso asimmetrico del tu e del lei. In
passato, infatti, un superiore (un dirigente, un alto ufficiale, il padrone di casa) dava
normalmente del tu a un subordinato (un dipendente, un militare di grado inferiore, i
collaboratori domestici) e riceveva in risposta il lei. Oggi, invece, si usa reciprocamente il lei
anche in un rapporto subordinato. Il solo caso di scambio asimmetrico tu/lei rimasto è quello
determinato dall'età: solitamente un adulto dà del tu a un ragazzo, il quale gli si rivolge con il
lei. In questo caso, però, l'uso di forme diverse non implica un atteggiamento di superiorità da
parte dell'adulto: è soltanto un segno di cortesia e di rispetto nei confronti della persona
adulta.
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Capitolo Primo
I.1 Amore paterno: Pietro Verri e la figlia Teresa
I.1.1 La vita di Pietro Verri.
Pietro Verri, discendente da una nobile e importante famiglia milanese, dotato di grande
intelligenza e di una rara capacità di rinnovarsi per la sua geniale sete di conoscere e di
sapere, nacque a Milano il 12 Dicembre 1728 dal conte Gabriele, magistrato di notevole
carisma, presidente del Senato milanese negli ultimi anni della sua vita, e da Barbara Dati di
condizione aristocratica.
Compie i suoi primi studi nei Collegi dei Gesuiti di Monza e Brera e li proseguirà prima nella
scuola pubblica di sant'Alessandro, retta dai Padri Barnabiti, nel Collegio nazareno di Roma e
infine a Parma nel Collegio dei Nobili, retto dai Gesuiti. Nel 1741 nascerà il fratello
Alessandro, col quale dividerà interessi culturali vari e vasti e che lascerà una traccia
profonda nell'ambito dell'Illuminismo milanese. Tornato in famiglia nel 1748, fin dall'anno
seguente cominciano i suoi contrasti con la famiglia, soprattutto col padre, un alto funzionario
governativo, a causa della sua relazione con Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie
del duca Gabrio Serbelloni, mentre intraprende la carriera di magistrato, ottenendo l'incarico
di "protettore dei carcerati" e partecipa contemporaneamente all'accademia dei "Trasformati"
col titolo di "Abitatore Disabitato". L'anno successivo pubblica poesie satiriche dal titolo La
Borlanda impasticciata, servendosi d'un linguaggio derivante dall'uso maccheronico e
storpiato di varie lingue. Dal 1753 il padre, che era stato nominato reggente del Supremo
Consiglio d'Italia, si reca a Vienna e si fa accompagnare dal figlio nella speranza che la
momentanea lontananza potesse contribuire a troncare il legame con la duchessa Serbelloni,
ma al ritorno il suo distacco dalla famiglia si accentua perché prosegue la relazione amorosa
che diventa più intima, anche se per poco tempo ancora. Con la Serbelloni si interessa di
attività teatrali e traduce le opere di Philippe Nericault Destouches, scrivendo anche una
particolare introduzione sulla scena comica; nello stesso periodo prende posizione a favore
della riforma goldoniana. Abbandonato dalla Serbelloni nel 1754 attraversò un periodo di
crisi, durante il quale non trascurò comunque gli studi.
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Nel 1757 pubblica un almanacco dal titolo Il gran Zoroastro, ossia predizioni astrologiche per
il 1758, tratte da un manoscritto di pietra, in cui deride i vizi della società aristocratica
milanese con i suoi scandali e le sue superstizioni, con un tono ferocemente avverso al clero,
ai nobili e ai pregiudizi popolari.
Tra il 1759 e il 1760 viaggia tra Vienna, Dresda, ancora Vienna per ritornare infine a Milano,
dove pubblica un trattato Sul tributo del sale nello stato di Milano ed uno Sulla grandezza e
decadenza del commercio di Milano, allo scopo di attirare su di sé l'attenzione delle autorità
regie mostrando le sue attitudini a ricoprire un incarico nella pubblica amministrazione.
Insieme al fratello Alessandro fonda nel 1761 l'Accademia dei Pugni, che in qualche modo
continua l'esperienza degli almanacchi già pubblicati, soprattutto il primo, dato che era un
ritrovo «piuttosto insolito anche in quell'età fiorentissima di accademie e di circoli, dominato
com'era da intenzioni mondane e culturali, oziose e insieme coraggiosamente progressive», ed
era stata chiamata così proprio per rendere meglio l'idea dello spirito aggressivo e
spregiudicato che animava i suoi scritti sia nelle discussioni private che nei dibattiti pubblici.
Sempre nel 1761, in un momento di generale crisi dei periodici eruditi, fonda, insieme al
fratello Alessandro, all'abate Alfonso Longhi, a Cesare Beccaria, al matematico e fisico Paolo
Frisi, a Luigi Lambertenghi, Giuseppe Visconti di Saliceto la rivista "Il Caffè", che comincia
le sue pubblicazioni nel Giugno 1764 uscendo con una cadenza di dieci giorni e durerà fino al
Maggio 1766: due anni ricchi di animazione culturale e di contributi originali di idee. La
rivista viene così chiamata perché si finge di trascrivere le conversazioni, le discussioni e i
racconti che venivano narrati in una bottega da caffè, di proprietà di una certo Demetrio, un
greco saggio e intelligente che si era trasferito a Milano. I maggiori collaboratori saranno
proprio Pietro Verri e il fratello Alessandro, ma il più celebre è senz'altro Cesare Beccaria,
che vi pubblicherà "Dei delitti e delle pene", un trattato che gli darà risonanza europea e
verrà letto nei più famosi salotti di Parigi, di Mosca e di altre città europee.
Sul piano di una ricerca in qualche modo filosofica ed esistenziale pubblica anonimo a
Livorno un libretto, intitolato “Discorso sulla felicità” o “Meditazioni sulla felicità” , definito
come il manifesto dell'illuminismo lombardo, in cui talvolta in accordo col pensiero
illuministico francese (e di Rousseau in particolare), sviluppa il tema del contratto sociale
mediante il quale l'individuo rinuncia a parte della sua libertà per delegare allo Stato la
sicurezza della collettività, delineando un'etica laica e spregiudicata, nella quale si trova prima
di tutto l'accettazione dei propri privilegi insieme all'espressione della volontà e quasi
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all'obbligo di usarli per il bene comune; poi l'analisi dei piaceri e dei dolori su una visione
materialistica dell'esistenza, insieme all'analisi dell'"ambizione", considerata come la più
funesta ma anche la più benemerita fra le passioni. L'opera si conclude con un breve saggio
sulla storia umana, interpretata come progresso spezzato continuamente da catastrofi e periodi
di decadimento, per cui il processo di civilizzazione è da intendersi come un percorso non
indolore, anche se le esperienze accumulate devono essere interpretate come un arricchimento
dell'umanità.
Nel 1770 redige la prima stesura delle Osservazioni sulla tortura, l'opera per cui viene più
spesso ricordato, a partire da Alessandro Manzoni per la stesura della Storia della colonna
infame.
Nel 1776 sposa la nipote Marietta Castiglioni, di molti anni più giovane, dalla quale avrà
l'anno dopo la figlia Teresa. In occasione della nascita della bambina scrive i ricordi alla
figlia, confidenze privatissime, non destinate alla pubblicazione. Successivamente avrà un
secondo bambino, di nome Alessandro, come suo fratello, che morirà prestissimo, seguito
poco dopo anche dalla madre. Il 13 Luglio 1782 si risposa, prendendo in moglie Vincenzina
Melzi, che amò sempre teneramente, dalla quale ebbe "numerosa prole" che allietò gli ultimi
anni della sua vita.
Nel 1781 pubblica i Discorsi sull'indole del piacere e del dolore, in cui stabilisce la teoria
che il piacere consiste nella cessazione del dolore. Nella notte del 28 Giugno 1797, durante
una riunione nella sala della Municipalità, morirà per un improvviso attacco apoplettico
(ictus cerebrale), a sessantotto anni. La moglie gli farà erigere un monumento accanto al
sepolcro che egli stesso si era preparato nella cappella gentilizia della sua villa di Ornago.
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I.1.2 L’amore paterno di Verri per la figlia Teresa.
Molti e interessanti sono gli scritti di Verri di carattere familiare e privato, tra cui spicca un
epistolario ricco e appassionante e il "Manoscritto da leggersi alla mia cara figlia Teresa",
nel quale l'infanzia viene presentata in termini piuttosto simili a quelli dell' "Émile" di
Rousseau, con l'attenzione rivolta alla felicità dei bambini e alla loro innata ricchezza, ma
con un maggior senso (rispetto a Rousseau) della responsabilità educativa affidata alla
famiglia e alla società, in grado di distruggere o favorire le potenzialità dei ragazzi.
Molto opportuna la ristampa anastatica dell'edizione originale di pagine fra le più
intensamente private e insieme più proficuamente leggibili in chiave di documento di
un'epoca, che il nostro maturo Settecento abbia prodotto.
Fra i 47 e i 53 anni (1775-1781) Pietro Verri vive il corteggiamento e il successivo
matrimonio con la giovane nipote Maria, la nascita della figlia Teresa, la malattia e la morte
prematura per tisi della moglie. Di tali esperienze lascia testimonianza in questo
"Manoscritto" destinato a Teresa, che comprende un diario quasi giornaliero della sua
fanciullezza, un insieme di "ricordi" (osservazioni e precetti) e un fascicoletto di "notizie"
sulla madre.
Il tentativo di attuare nel quotidiano i principi ideologici del più avanzato Illuminismo
costituisce il filo conduttore dell'intelligente e partecipata lettura che Gennaro Barbarisi
(3)
propone nell'ampia introduzione: dal matrimonio contratto più per affettuoso calcolo che per
passione, alla pedagogia del libero movimento del corpo della neonata; dalle indicazioni delle
letture da farsi nei vari momenti della vita ai consigli per la donna adulta (scelta del marito,
condotta in pubblico e in privato, educazione dei figli). Ciò che emerge è l'impegno a istituire
modi nuovi di vivere gli affetti familiari, in alternativa al passato, rappresentato dai "vecchi di
casa", gli ingombranti genitori di Pietro; ciò che emoziona è l'illusione di poter governare con
la raison ogni momento e ogni sentimento. Sorprendente lo sguardo maschile su interni
domestici per tradizione femminili e originale il fatto che un padre (e non una madre) avverta
il bisogno di rivolgersi alla figlia (e non al figlio) con grande trasparenza, senza nasconderle
nulla.
(3)
Gennaro Barbarisi, nato nel 1932 a Sondrio e morto nel 2007 a Milano, fu Professore di
Letteratura italiana all’Università, consigliere comunale e regionale.
11
Nel Manoscritto per Teresa si può trovare un documento significativo del razionalismo a cui
si rifacevano gli illuministi milanesi. Verri non parla di razionalismo, ma di una
"ragionevolezza" che lui e Maria esemplificano su uno sfondo contrastante di superstizione o
passionalità e confusione. Maria «aveva idee placide ma chiare»; «niente in lei si faceva per
impeto o scossa»; l'organizzazione era la base della sua prudenza e «le virtù non sono
mai tanto sicure quanto appoggiate a simile fondamento»; i suoi sentimenti erano «affettuosi
senza nulla di romanzo». La ragionevolezza di Maria e di Pietro non è avversa alla religione:
lei resta affezionata alle monache che l'hanno educata e mantiene un confessore; lui si rifà alla
"benevolenza cristiana" e a Dio con passi che a tratti preannunciano il cristianesimo
manzoniano. Ragionevolezza vuol dire anche atteggiamento scientifico: Maria morì di tisi
dopo cinque anni di matrimonio e il Manoscritto mostra la sguardo attento con cui il marito
studia i dettagli della malattia per cercare di capirla e di combatterla con la
speranza sempre più tenue di guarire la malata. Le osservazioni sono precise, ma non
distaccate: quelle di un marito affettuoso che preferisce affidarsi all'indagine razionale del
male, piuttosto che alle reliquie e alle preghiere dei frati settecenteschi.
Scientificità ed umanità in Verri si conciliano sempre. Lo scrittore osserva la «prodigiosa
mortalità dei bambini che per metà moiono prima d'avere compiuto l'anno, mortalità che non
si vede nelle razze degli animali, prova che i metodi comunemente usati sono pessimi», e
decide di far nascere e crescere i propri figli con metodi nuovi. Maria non usa busti di balena
durante la gravidanza «perché sempre fosse libero il moto del feto». Pietro non permette che i
bambini siano lavati con acqua fredda perché «ogni scossa violenta in un corpo gracile e
infermo [...] non può essere buona». L'usanza universale «d'una cosa evidentemente mal fatta
-dice- non autorizza a farla». Gli sposi vaccinano i due figli contro il vaiolo e il padre segue la
loro salute nei giorni successivi all'innesto, concludendo con tono preoccupato che il vaccino
è utile, ma non procura «una così leggera malattia come si vuol far credere».
Nell'introduzione Barbarisi ricorda che molti scritti di Pietro Verri non erano "destinati alle
stampe ma concepiti in funzione diretta del momento". Il Manoscritto per Teresa fu redatto
per una fruizione limitata (quella della figlia) e lontana nel tempo (Teresa aveva quattro anni
quando il Manoscritto fu steso). Il tono intimo di una conversazione fra padre e figlia emerge
di continuo nella voce di Pietro che dice a Teresa quali familiari e amici lo hanno aiutato nelle
avversità e quali no, quanto è stato grande il dolore provato alla scomparsa di Maria, quali
ragioni lo hanno spinto a risposarsi e a dare alla ragazza una matrigna, quali le spese sostenute
12
in occasione del matrimonio, quale il comportamento migliore da tenere in diverse situazioni.
Per Teresa «sola lo scrissi», dice Verri del Manoscritto e aggiunge di non volere «che alcun
occhio profano esamini uno scritto che è nato da sentimenti sacri e teneri e non è fatto per altri
che per Teresa». Questa sua volontà è stata evidentemente disattesa.
Tra la fine del 1771 e i primi anni del 1772, nella casa Verri venne accolta la giovane
Maria, diciottenne, la quale, rimasta orfana a sette anni del padre Ottavio Castiglioni e a otto
anni della madre Teresa Verri (sorella di Pietro), aveva per nove anni vissuto nel monastero di
Santa Caterina alla Chiusa, resistendo alle solite pressioni di farsi monaca. Pietro aveva 43
anni ed era da poco tornato dal viaggio a Vienna, il quale aveva segnato la fine delle sue
maggiori ambizioni, anche se gli erano state riconosciute importanti funzioni nella
amministrazione del Regio Ducato di Milano: la sua personalità non era fatta per la routine
quotidiana
ed egli
quindi trovò maggiori gratificazioni negli
studi
storici nella
riflessione filosofica, riorganizzando e approfondendo quanto era venuto episodicamente
enunciando sin dai tempi del Caffè. Alla fase del massimo impegno civile e della ferma fede
riformistica subentrò un nuovo impegno speculativo, che la critica storica moderna ha talvolta
interpretato unilateralmente come un segno di decisa involuzione se non addirittura di
regresso. E' proprio in questo momento di transizione che Pietro incomincia a mettere in
discussione
anche
la
propria
vita intima: il
rapporto
con
la
sorella
di Cesare
Beccaria, Maddalena Isimbardi, irto di difficoltà contraddizioni, non gli basta più ed è per
questo che gli si affaccia il pensiero del matrimonio. Pietro continuava ad osservare la nipote
Maria e dopo due anni dal suo ingresso in casa, nel 1773, già ne parlava al fratello: era fermo
nel
proclamare la
piena
razionalità della
propria
decisione, la
cui validità era
inconfutabilmente dimostrata dalla assoluta assenza di un trasporto amoroso. Superati quindi i
contrasti
domestici di
natura soprattutto economica, il
matrimonio fu
celebrato il
21 Febbraio 1776: nonostante la forte differenza di età e di esperienza (Pietro aveva 48 anni,
mentre Maria solamente 23), fu un matrimonio felicissimo, fatto di reciproca comprensione e
dedizione, con un affiatamento e un' armonia sempre crescenti. Il 2 Marzo 1777 nacque Maria
Teresa, il 29 Giugno 1778 Alessandro Gabriele Paolo, il quale morì esattamente un anno
dopo. Intanto, la salute di Maria andava declinando, con i medici che non riuscivano
a diagnosticare la tisi e al tempo stesso contribuivano a indebolire ulteriormente il suo
corpo: morì il 27 Maggio 1781.
13
L’aveva curata il marito stesso studiando i trattati di medicina e discutendo col fratello le
proprie ipotesi, aveva lottato con lei contro la malattia e di fronte alla morte si trovò disarmato
come non gli era accaduto nei momenti più difficili della sua vita.
I mesi successivi alla morte della sua amata Maria furono di angoscia e disperazione, ma una
volta superati egli cercò in sé la forza di reagire e di riprendere il lavoro e – come era costume
diffuso – pensò presto a un secondo matrimonio. Infatti il 13 Luglio 1782 sposò Vincenzina
Melzi, orfana anche lei come Maria, di famiglia nobilissima ma in difficoltà economiche,
giovanissima (venti anni) e di ottimo carattere. Anche Vincenzina fu una moglie devotissima
a Pietro, capace di donargli affetto e serenità, ma certo la loro vita coniugale, la cui immagine
si può desumere dal carteggio col fratello, fu alquanto diversa dai cinque irrepetibili anni
trascorsi con Maria: in dieci anni nacquero nove figli. Vincenzina si rivelò «buona e
semplice», come egli voleva, ma meno aperta al nuovo, più legata ai costumi della tradizione.
Il rapporto con Maria e con la piccola Teresa rimase un’esperienza eccezionale, un tentativo
unico di calare nella vita quotidiana della famiglia i principi dell’ideologia, rompendo coi
modelli del passato, in sintonia con i movimenti più avanzati del costume europeo: in
quell’esperienza Pietro aveva impegnato la sua personalità in misura non inferiore a quella
impiegata per le sue battaglie pubbliche. Quando volle ripetere quell’esperienza col figlio
Alessandro, il tentativo non riuscì e fu subito interrotto.
Di tutto ciò Pietro era pienamente consapevole, tanto da desiderare che ne restasse
documentata memoria a chi avrebbe potuto e dovuto farne tesoro: da qui nasce l’idea del
diario rivolto alla figlia, dei consigli pratici, della biografia di Maria e del diario della
malattia, dei monumenti a Maria e infine della raccolta di ogni documento utile a far rivivere
quella personale vicenda. Un’opera composita con finalità lucidamente presenti alla mente di
Verri e un’opera costruita nel tempo, dalla nascita di Teresa nel 1777 al 1784, quindi per ben
sette anni.
All’origine di questi scritti si riconosce l’atteggiamento volontaristico dell’uomo che non si
arrende di fronte agli eventi, che sente di vivere in un’età di rottura con un passato denso di
errori, causa di infiniti mali, che si appella alla ragione e alla conoscenza quando avverte
l’inadeguatezza degli strumenti della scienza.
14
Attraverso la lettura delle pagine del “Manoscritto per Teresa” ho assistito a qualcosa di più
che alla comparsa di un personaggio poetico -la bambina- insolito nella nostra letteratura di
quell’epoca; infatti, siamo di fronte, prima ancora che a un evento letterario, al documento
eloquente di una trasformazione nella nostra società, che coinvolge la mentalità corrente, i
costumi, il modo di vivere, la concezione stessa della vita.
Nel Manoscritto ritroviamo tutti gli elementi di quella evoluzione dell’istituto della famiglia
che si può collocare tra la fine del XVII e tutto il XVIII secolo, indicandone il fondamento in
quello che egli definisce un «incremento dell’affetto»: la scelta soggettiva della moglie,
l’abbandono della vita galante e il rifiuto della doppia morale, un menage quotidiano tipico
della borghesia mercantile più che dell’aristocrazia (non a caso il linguaggio di Verri è più
analogo a quello di certi personaggi goldoniani portatori di buon senso ed inoltre egli si
richiama al modello inglese), la pace familiare contrapposta ai doveri pubblici. Si trattava di
un fenomeno diffuso in tutta l’Europa illuministica, che nel quadro complessivo delle riforme
rivolte al «pubblico bene» assumeva particolare rilievo per le conseguenze dirette sul
processo educativo dei figli. Locke nella lettera dedicatoria dei Pensieri sull’educazione
aveva affermato: «L’educar bene i propri figli è tale dovere e tale preoccupazione per i
genitori e il benessere e la prosperità della nazione ne dipendono talmente, che io vorrei che
tutti prendessero la cosa seriamente a cuore». Al principio dell’autorità assoluta venivano
subentrando i valori della libertà e dell’amore, al dovere di correggere i figli fin dalla nascita
il dovere di amarli, come era espressamente sancito nel Codex Theresianus e come Maria
Teresa stessa dimostrava nelle sue lettere ai figli e con l’immagine dell’imperatrice-madre da
lei sempre proposta ai propri sudditi.
La Di Rienzo, bene illustrando la svolta che si attua nella storia del diritto di famiglia in questi
anni, ha opportunamente citato proprio il Beccaria e i fratelli Verri come esempi di rottura
traumatica
nei
confronti
della
concezione
tradizionale
della
patria
potestà.
Accanto all’impegno pedagogico che ovviamente aveva come punti di riferimento costanti
Locke e Rousseau, assume grande rilievo per tutto il secolo la discussione sulla donna, sulla
sua educazione e istruzione, sul matrimonio, sui ruoli pubblici, sulla sua costituzione fisica,
ma mentre da un lato l’interesse si concentra sul tema sempre più dominante della parità,
dall’altro emerge la consapevolezza della sua posizione insostituibile all’interno della
famiglia, come sostegno della personalità del marito e soprattutto come prima responsabile
dell’educazione dei figli.
15
Questi cinque anni di vita familiare vissuti con tanta intensità e impegno, anche materiale da
parte di Pietro, non solo sono strettamente collegati con l’attività speculativa del medesimo
periodo e con i suoi ideali civili generali, ma sono anche il risultato di una lunga preparazione
culturale e di un interesse profondo per il progresso della società in tutte le sue istituzioni.
In questi scritti gli elementi di novità non mancano, anzi sono di rilievo. Ciò che dà il tono a
tutto il Manoscritto è il bisogno di un padre -non di una madre-, il bisogno inoltre di rivolgersi
alla figlia neonata -non adulta-, donna e -non uomo- per farle rivivere dal vivo alcune grandi
esperienze come la propria infanzia e la perdita prematura della madre, senza nasconderle
nulla, nemmeno le cose sgradevoli, perseguendo sempre la verità, ma ispirandosi nel
colloquio a quell’ideale della douceur et politesse (gentilezza e cortesia) che persino
Francesco di Lorena
(4)
additava al figlio Pietro Leopoldo
(5)
nell’«instruction» a lui diretta
come uno dei grandi valori da perseguire.
I piani del discorso di Verri sono diversi: la scrupolosa utilizzazione di ogni minimo dato
dell’esperienza (il sensismo si fa norma di vita), la lotta della ragione contro la natura (il
diario della malattia di Maria è la rara testimonianza di un tentativo ostinato e disperato di
razionalizzare ciò che sembra sfuggire al controllo dell’uomo), il culto della memoria (le
lettere, gli esercizi di ortografia, i vestiti, i ritratti) come strumento unico di sopravvivenza
della persona perduta, l’autoanalisi liberatoria, l’ottimismo della fiducia nell’efficacia
dell’insegnamento e nella forza della volontà.
Ma il tema costantemente dominante rimane la ricerca della felicità, che per un genitore
significa prima di tutto, come ha insegnato Locke, assunzione di responsabilità senza riserve
di varietà, già nel momento in cui viene deciso di mettere al mondo un nuovo essere: le lettere
di Verri nei mesi precedenti il parto sono dense dei preparativi per ben accogliere e allevare la
bambina, sempre prevalente la consapevolezza dell’importanza del proprio compito.
(4)
Francesco di Lorena, nato a Nancy (Francia) nel 1708 e morto a Innsbruck (Austria) nel
1765, fu Sacro Romano Imperatore con il nome di Francesco I, dal 1745 alla morte.
(5)
Pietro Leopoldo, nato a Vienna (Austria) nel 1747 e morto ivi nel 1792, fu Granduca di
Toscana con il nome di (Pietro) Leopoldo I di Toscana dal 1765 al 1790, Imperatore del Sacro
Romano Impero e re d’Ungheria e Boemia dal 1790 al 1792.
16
Si potrebbe dire senza dubbio che tutto il quadro della piccola famiglia che Pietro costruisce
intorno a sé sia concepito in funzione della bambina, quasi in applicazione al precetto inglese
secondo cui «la felicità è il clima migliore per i bambini», che per lui, impegnato com’è a far
corrispondere i fatti concreti alle premesse filosofiche, significa evitare alla neonata ogni
possibile sofferenza, favorire un armonico sviluppo delle qualità sensitive, aiutarla nel lento
processo di arricchimento delle cognizioni di cui la massa più imponente si accumula proprio
nei primi mesi, quando l’uomo è «un pezzo di carne» e tutto dipende dalle cure dei genitori. Il
valore primario dell’educazione, infatti, è continuamente ribadito ed è sentito come un
necessario correttivo del roussoianesimo, a sua volta assunto tuttavia come valida
contestazione di ogni forma di coercizione sia fisica che morale.
Nei suoi scritti, non c’è argomento, anche difficile o imbarazzante in un dialogo fra padre e
figlia, che Pietro non osi affrontare, con un atteggiamento quasi anticonformistico ed
energico; la finalità delle argomentazioni, inoltre, facendo propria la teoria settecentesca del
pudore come specifico femminile, non perde mai di vista l’utile, a cui deve «politicamente»
tendere ogni nostra azione, che non significa negazione dei veri affetti e dei valori del
sentimento, ma anzi una loro affermazione più profonda e duratura.
Morta Maria, Pietro trascorre molto tempo con Teresa, ormai bambina, tenuta all’oscuro della
morte della madre: la piccola parla, lo riempie di domande e ragiona con lui, il quale la segue
con amore e non perde occasione per osservare compiaciuto il suo animo gentile.
Teresa cresce in famiglia, ha avuto un’educazione tipica, presto sente parlare dei primi
pretendenti e il 13 Ottobre 1795 sposa Giuseppe Langosco
(6)
, conte di Gambarana, ma dopo
poco più di un anno si divise da lui e passò il resto della sua esistenza con la famiglia di una
sorella, nata dal secondo matrimonio di Pietro.
Dal carteggio tra Pietro e Alessandro Verri si può capire che nel Marzo 1796 il padre dava al
figlio la notizia che Teresa era incinta.
Fra le tante sventure, come quella di aver perso la figlia appena nata, non è difficile dedurre
dalle parole di Pietro che Teresa conservò nei confronti del padre un atteggiamento di rispetto
ma anche di distacco e orgoglio, a costo di reciproche sofferenze, come era nel carattere di
entrambi.
(6)
Giuseppe Langosco nacque a Voghera (Pavia) il 14 Gennaio 1763 e morì a Bologna il 20
Gennaio 1823.
17
I.2 Le relazioni familiari nell’Italia centro-settentrionale tra Ottocento e
Novecento:
uno studio di Marzio Barbagli.
Sotto lo stesso tetto, di Marzio Barbagli (7), rappresenta il più importante studio delle relazioni
familiari nell’Italia centro-settentrionale nell’età moderna e contemporanea.
Secondo l’autore, nell’età moderna le relazioni interne hanno avuto a lungo in tutte le famiglie
importanti caratteristiche comuni. Il potere di decisione era concentrato nelle mani del
maschio capo-famiglia. Fra marito e moglie non c’era solo una relazione di autorità
asimmetrica, ma anche una rigida segregazione dei ruoli: anche quando non lavoravano essi
trascorrevano la maggior parte del tempo non insieme, ma con altre persone. I genitori
addestravano i figli fin da piccoli alla sottomissione, li tenevano a distanza, non davano loro la
minima confidenza, affinché imparassero a sentirsi diversi e inferiori. E dunque per quanto li
amassero, evitavano di esprimere in modo troppo evidente i loro sentimenti, di baciarli e
coccolarli. Dopo aver dominato per secoli, il modello patriarcale entrò in crisi tra gli ultimi
decenni del Settecento ed i primi dell’Ottocento. In questo periodo, le relazioni tra marito e
moglie, tra i genitori e figli cambiarono profondamente ed emerse a poco a poco un nuovo
modello di famiglia: la famiglia "coniugale intima". Anche se il padre continuava ad essere la
figura preminente, la distanza sociale fra lui e la moglie e tra genitori e figli si ridusse. La
separazione dei ruoli tra marito e moglie diventò meno netta ed aumentò il tempo che essi
trascorrevano insieme. Mutò il comportamento riproduttivo della coppia e diminuì il numero
dei figli, cambiarono i metodi di allevamento e di educazione dei figli e crebbe la quantità di
tempo che i genitori dedicavano a ciascuno di essi. La famiglia coniugale intima emerse
prima nelle città rispetto alle campagne. Fu al vertice della scala sociale che iniziò la crisi del
modello patriarcale e si affermò il nuovo modello di relazioni familiari. Prima di tutto nella
borghesia intellettuale, quel ceto colto e agiato che, quando l’Ancien Régime entrò in crisi, si
pose alla testa del cambiamento nell’ambito dei comportamenti domestici. La famiglia
coniugale intima si diffuse ben presto anche fra l’aristocrazia.
(7)
Marzio Barbagli, nato a Montevarchi (Arezzo) il 16 Giugno 1938, è un sociologo, fa parte
della European Academy of Sociology.
18
Tra la maggior parte della popolazione, in città come in campagna, prevaleva però il modello
patriarcale di relazione familiari. Il processo di diffusione di nuove modalità relazionali
all’interno della famiglia prosegue nell’Ottocento e nel Novecento.
La ricerca condotta da M. Barbagli su un campione di 801 donne nate in Toscana, Emilia,
Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino e Friuli ha permesso di giungere alle seguenti
conclusioni:
A. Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo i comportamenti tipici della famiglia
coniugale intima si diffondono dai ceti urbani superiori al resto della società.
B. Tale processo ha luogo soprattutto tra i ceti urbani, mentre, ancora nel primo Novecento,
nelle famiglie di mezzadri e coltivatori affittuari o proprietari appoderati si riscontra ancora
una significativa presenza del modello familiare patriarcale, caratterizzato dal ruolo di potere
del maschio adulto e dalla scarsa espressione dell’affettività nel rapporto genitori-figli.
C. Il livello di istruzione del capofamiglia è un importante indicatore della diffusione di
rapporti familiari fondati su un maggiore equilibrio tra un uomo e una donna e sull’intimità
delle relazioni domestiche: i dati raccolti da Barbagli mostrano che, quanto più cresce il
livello d’istruzione, tanto più facile è incontrare, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del
Novecento, le modalità relazionali tipiche della famiglia coniugale intima. Minori differenze
tra i diversi ceti sociali si osservano rispetto alla segregazione dei ruoli nel lavoro tra uomo e
donna, molto marcata ad ogni livello della scala sociale, sia nell’ambiente urbano che in
quello rurale.
19
Capitolo Secondo
II.1 Amore paterno: Giuseppe Bencivenni Pelli e la figlia adottiva Teresa
II.1.1 La vita di Giuseppe Bencivenni Pelli.
Giuseppe Bencivenni già Pelli, esponente di spicco dell’Illuminismo toscano, accademico
georgofilo, censore e successore di Giovanni Lami alla direzione delle prestigiose «Novelle
letterarie», il periodico di cultura e di informazione bibliografica fondato a Firenze nel 1740
proprio da G. Lami, è una delle figure più interessanti della Toscana del secondo Settecento.
Le sue opere a stampa riflettono una versatilità intellettuale e una pluralità di attitudini
assolutamente peculiari. A preoccupazioni prettamente letterarie e storico-artistiche, Pelli,
fornito di una solida preparazione classica, unisce una spiccata attitudine per gli studi
economici, giuridici, demografici, che darà luogo a molteplici traduzioni, prefazioni e
commenti a opere di rilievo scientifico.
Nella multiforme attività del Pelli si distingue quella dell’inesausto estensore delle Efemeridi,
un diario dall’eccezionale valore documentario e che è da considerare un unicum della
memorialistica settecentesca, così ricco di centri di interesse da sollecitare l’attenzione di
studiosi di diverso orientamento. E proprio l’essere in grado di attrarre su di sé interessi
multidisciplinari, ha naturalmente determinato, specie nel corso degli ultimi anni, un processo
di decisiva rivalutazione del personaggio.
La fisionomia intellettuale del Bencivenni, già ampiamente definita nella sua attività pubblica,
non si arricchisce di alcun elemento nuovo nell'opera sua certamente più importante,
quelle Efemeridi inedite, nelle quali usava annotare quotidianamente le sue impressioni di
lettore avidissimo, le sue riflessioni e varie divagazioni sugli avvenimenti del giorno e sui
temi morali a lui più congeniali.
Ultimo rappresentante di una nobile famiglia fiorentina, Giuseppe Pelli, nato a Firenze nel
1729, compiuti gli studi giuridici presso l’ateneo pisano, svolge un’intensa attività di
amministrazione granducale. Avviata nel 1758 con un incarico presso la Segreteria di Stato, la
sua carriera burocratica prosegue col mandato di segretario del Consiglio e Pratica segreta per
gli affari di Pistoia e Pontremoli, finché nel 1763 gli viene conferita la nomina di censore.
Nella Toscana leopoldina il censore è una «figura chiave»: si trattava di promuovere una
nuova trasparenza sull’operato di governo, di rischiarare il pubblico dei lettori sui temi
principali del dibattito contemporaneo.
20
Se gli incarichi amministrativi di Pelli rivestono un’importanza strategica, il culmine della sua
carriera di alto funzionario viene raggiunto con la Direzione della Real Galleria degli Uffizi,
mandato impegnativo ma assai gradito, ricoperto dal 1775 al 1792. Seguendo il diario nel suo
progressivo svolgimento diacronico, si nota come, proprio a partire dal 1775, l’opportunità di
approfondire i propri interessi artistici prepari il diarista a una sorta di conversione di carattere
psicologico in grado di risollevarlo da un’attitudine melanconica e di spingerlo verso
un’inedita capacità di estroversione. La preoccupazione di assolvere al meglio il proprio
compito di tutore del patrimonio artistico granducale, spinge il neofita, pur dotato di una
naturale sensibilità artistica, a colmare una mancanza formativa rifornendosi di un adeguato
bagaglio di conoscenze e competenze tecniche.
Pelli è un personaggio sui generis, che riversa nel diario i tratti singolari della sua formazione,
della sua psicologia e del suo temperamento, una figura che mostra di agire in autonomia e
che si ritrova sola con se stessa dinanzi alla pagina di diario, a tentar di vagliare nel modo più
razionale possibile la portata delle proprie idee in rapporto a quelle del gruppo filosofico
(coterie philosophique).
Le caratteristiche più implicanti del Pelli non lo vedono come un modesto conservatore e
nemmeno, secondo la definizione di Salvatore Rotta «uno scialbo, diluitissimo Montaigne»(8),
ma un personaggio versatile e complesso che, annotando non solo la cronaca ma i propri
sentimenti ed emozioni, conferisce al proprio diario la «fisionomia di un’esperienza tesa di
continuo a rimarcare la propria irriducibile singolarità».(9)
La partecipazione del Bencivenni all’attività riformatrice risulta minima e adescata nel
dilemma tra una incerta tensione filantropica e le forti simpatie per gli interessi della
possidenza toscana. La preoccupazione filantropica declinò in modo decisivo, almeno in sede
di politica economica, anche per il sopraggiungere di una circostanza esterna che non dovette
essere poco influente. L'adozione nel 1770 di Teresa Ciamagnini, che nel 1789 sposerà il noto
scienziato ed economista Giovanni Fabbroni, lo legò infatti a uno degli esponenti più in vista
del primo liberismo italiano, alla cui diretta influenza non è difficile ricondurre il passaggio
del Pelli a un orientamento economico appunto di tipo liberista.
(8)
Salvatore Rotta, “L’Illuminismo a Genova”.
(9)
Renato Pasta, “Ego ipse … non alius”.
21
La curiosità del Bencivenni, ampia e svagata come si addiceva alla sua vocazione erudita e la
precisione dell'informazione spesso di prima mano, fanno delle Efemeridi una fonte di buona
attendibilità che può riuscire di giovamento agli studiosi del Settecento italiano, a condizione
di non assumere le personali reazioni dello scrittore come specchio dell'ambiente riformatore
toscano. La sostanziale fedeltà del Pelli alla vecchia tradizione intellettuale italiana e il livello
sempre modesto della sua riflessione, lasciano filtrare infatti solo echi molto tenui e sfocati
delle tendenze politiche e degli orientamenti culturali del riformismo leopoldino, che contava
certamente esponenti ben altrimenti impegnati e rappresentativi.
D'altronde, la definizione più autentica della sua personalità morale e intellettuale la offrì egli
stesso in un'annotazione autobiografica alla data del 20 Aprile 1789:
«Se fra cento o centocinquanta anni alcuno metterà mai gli occhi sopra queste Efemeridi, e
troverà che io fui religioso senza superstizione, per non dire buon credente soltanto, che
stimavo i filosofi quando non combattevano la religione, i frati quando non erano fanatici,
Roma quando era più coerente a sé; che senz'amare la metafisica, e la teologia ero attaccato
alle verità; che il Papa mi pareva una persona necessaria ed utile ad onta dei giansenisti, senza
esser gesuita; che vedevo con disgusto l'incredulità dilatarsi ecc., forse mi befferà osservando
che ai suoi giorni le prediche di Voltaire averanno fatti troppi proseliti, e che i colpi di Cesare
Giuseppe averanno fatti crollare dei gran colossi. Sia ciò pure, a me questo non preme, e lo
stesso re di Prussia prevedeva che per una coppia di secoli ancora, quelle che chiamava
assurdità si sarebbero sostenute, quantunque l'oroscopo di qualche inglese la loro durata
l'avesse fissata al termine del secolo presente, onde il mio lettore del 1900 o del 1930 non
averà forse luogo di trionfare affatto, e di ridermi in faccia. Ma sia comunque si vuole, gli
apostoli dell'irreligione hanno a mio tempo stiamazzato assai, e niente meno di Calvino, e di
Lutero. Ma se Lutero, e Calvino non sono prevalsi sopra la Chiesa, ho da supporre che
Voltaire, che Cesare Giuseppe prevarrà. Non mi giova il supporlo, e perciò voglio morire
nella mia credenza, sicuro di andare all'altro mondo niente più infelice di loro, e di quanti con
loro se la intendono, e questi prendendo io a scherno, quanto essi prenderanno me gonfi nel
loro errore, come i fanatici bonzi possono mai esserlo in quello, che patrocinano in faccia ai
loro indiani dalla schiavitù, e dalla miseria nel più bel clima tiranneggiati. Se mai mi sarò
ingannato non ne pagherò la pena, come la pagheranno per il loro inganno quei geni subblimi,
che dei simili a me si saranno risi, che al mio secolo il secolo della filosofia averanno prestato
il nome, che attorno a me mille bestemmie, mille nonsensi averanno spacciati con applauso di
pochi, e con scandolo di molti buoni benché oppressi dall'autorità, e da un fanatismo opposto
a quello, che i campioni della miscredenza perseguitavano. Verranno i miei tardi nipoti, e
combineranno questi scritti con tanti altri, i quali sopra un altro stile declamarono, e diranno
in cuore chi avesse ragione. Allora delle mie Efemeridi decida chi vuole, e come vuole.» Serie
II, Volume XVII, p.3315v-3317.
Giuseppe Bencivenni Pelli morì il 31 Luglio 1808, a Firenze.
22
II.1.2 Le Efemeridi: i diari di una vita.
Innanzitutto vorrei spiegare l’etimologia del termine Efemeride, anche nominato con
Effemèride o Efemèride. Esso deriva dal latino ephemĕris –ĭdis ed a sua volta dal
greco ἐϕημερίς -ίδος «diario», comp. di ἐπί «sopra» e ἡμέρα «giorno».
Esaminata e consultata finora da appassionati studiosi, è custodita nella Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze un’opera di sorprendente interesse letterario, così ponderosa nella sua
mole e talmente carica di tensioni etiche, psicologiche e esistenziali da renderne assai difficile
un’esaustiva valutazione critica e quindi una giusta valorizzazione.
Le Efemeridi del Pelli, un libro destinato ad accompagnare tutto il corso della vita in un
intreccio singolarissimo tra scrittura e esistenza, sono in grado di inserirsi a pieno titolo in un
orizzonte più vasto che non quello della Toscana lorenese, infatti dilatano felicemente il
circoscritto dominio del diarismo settecentesco italiano.
Il diario manoscritto si articola in una prima serie di trenta volumi di piccolo formato (dal
Settembre del 1759 sino al Febbraio del 1773) e in una seconda serie di ponderosi in folio
organizzati annalisticamente.
Le Efemeridi sono conservate quasi interamente presso la Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze, inoltre è disponibile l’edizione elettronica della prima serie del diario, consultabile in
rete attraverso il sito della BNCF.
Proprio la convinzione della centralità dell’io, il rovello introspettivo -non disgiunto
dall’intento di dar testimonianza sul proprio tempo- i riflessi personali e intimistici che
pongono agli storici interrogativi sulla effettiva rappresentatività delle Efemeridi, sono a
renderle degne di essere considerate un importante contributo alle scritture autobiografiche
del Settecento italiano. È il diario come testimonianza autobiografica e come luogo di
estrinsecazione di una scrittura modernamente intimistica a decretarne la straordinaria
importanza nel panorama letterario dell’epoca.
Considerate finora quasi esclusivamente come preziosa fonte storica e documentaria, le
Efemeridi si configurano quale capitolo tutt’altro che secondario delle scritture
autobiografiche settecentesche, sia dal punto di vista della consapevolezza formale dell’autore
(che sa cosa significhi scrivere un diario, giorno per giorno e che riempie le sue pagine di
numerosi “patti autobiografici”, stipulati tra sé e il suo diario), sia sotto il profilo del
progressivo formarsi di una coscienza autobiografica.
23
Se inizialmente attribuisce la tendenza introspettiva alla propria indole malinconica, arriva poi
a riconoscerne appieno il valore, liberandosi di quei pregiudizi che trasparivano dalle pagine
del diario offuscandone in parte le ricche potenzialità autoanalitiche.
Nelle Efemeridi scorgiamo i tratti del libero lettore che, desideroso di confrontarsi con la
privatissima dimensione della coscienza interiore, svincolato dalle normative che intendevano
regolare la fruizione dei testi, «non riconosce altro giudice delle opinioni che la propria
ragione». Sempre più consapevole cronista di se medesimo, vorace lettore di romanzi
contemporanei, Pelli compie la propria formazione servendosi di tutte le scritture
autobiografiche fruibili alla sua epoca.
L’irrealizzabile proposito di «dire tutto», dando finalmente «luogo alla verità», risponde a
una genuina esigenza di autenticità che si riflette del tutto sullo stile e sulla lingua di Pelli.
Plasmate sulla prosa dei modelli francesi antichi e contemporanei, ma rispettose
tesaurizzatrici della migliore tradizione linguistica nazionale, le Efemeridi mirano a mostrarsi
quale peculiare declinazione dello “stile lombardo” degli ammiratissimi Verri e Beccaria.
Affascinato dalla «fluida, armoniosa e dolce» maniera dei classici del tempo, se da una parte
il diarista si rimprovera una sostanziale mancanza di originalità ed energia espressive,
riconoscendosi uno stile «piombato e ferrugineo, arido e infecondo, secco e incolto», si
dichiara dall’altra, convinto sostenitore della «dicitura concisa, serrata, vibrata, animata che
in pochi colpi di pennello dipinga le idee con precisi colori».
Il diario di Pelli mette in campo una ricca problematica esistenziale e documenta una ricerca
di identità non finalizzata all’elaborazione di una compiuta autobiografia, ma che fa del diario
il luogo d’elezione di una tenace e singolare vocazione autoconoscitiva. Una ricerca di
identità, un percorso non lineare, di autorivelazione a se stesso, che solo il libero dinamismo
della scrittura diaristica poteva consentire.
Si predilige la naturalezza, l’aleatorietà, l’apertura del percorso diaristico all’artificiosa e
volontaristica ricostruzione autobiografica.
Pelli, diarista autentico, intende la propria attività come problematica, interrogativa e non
smette mai di riflettere sulla funzione autoconoscitiva attuata con la scrittura quotidiana,
riconoscendone realisticamente limiti e benefici. Il diario è un garde-mémoire (cura della
memoria), che aiuta chi lo redige a ricordare tutto di sé e a rendere visibile tutto il corso della
propria vita. Spicca la tendenza a riempire le pagine di patti autobiografici attraverso i quali è
l’autore stesso a offrire una chiave di lettura della propria opera.
24
Le dichiarazioni di veridicità si alternano a quelle di fedeltà al proprio impegno di quotidiana
redazione, mentre la ribadita autodestinazione del diario si fonde con le problematiche del
destinatario e della periodica autorilettura.
Se la forma del diario e la sua diversa logica strutturale contraddicono ogni prestabilita
armonia, un nuovo modo di percepire il tempo sopraggiunge a rafforzare la sensazione
d’interna scissione e di precarietà: il metodo del giorno dopo giorno, producendo una ritmicità
discontinua e seriale, umorale e metodica, difforme e eguale, costringe chi lo pratica a un
confronto continuo con l’idea di temporalità. Non si tratta solo di fare tesoro dello scorrere dei
giorni, di salvare dei momenti fuggevoli attraverso la scrittura, ma di rendersi consapevoli e
di assaporare appieno la propria esistenza in virtù di un sentimento del tempo che cresce
proporzionalmente all’attenzione a esso riservata. L’autenticità del diario consiste nel
poggiare sul presente, sulla giornata in corso, nel conformarsi rigorosamente all’ordine del
giorno.
Il diario di per sé non esclude un ritorno al passato né il delinearsi di una peculiare
dimensione retrospettiva: «le journal est remémoration». Ma se le modalità di scrittura messe
in atto nel diario non ostacolano il processo di rievocazione, l’attitudine del diarista rispetto al
proprio passato tende naturalmente a differenziarsi dalla particolare «réminiscence
autobiographique». Ora come o diversamente da allora, il passato vive solo nella prospettiva
di relazionarsi al momento attuale.
Nell’appuntare diligentemente una nuova operazione di rilettura delle Efemeridi si evidenzia
come amareggi il diarista l’immagine complessiva che un ipotetico lettore potrebbe farsi
dell’autore. Spesso, infatti, la rilettura delle Efemeridi costringe a un confronto virtuale col
destinatario ed è proprio l’evocazione della ipotetica figura di un lettore esterno a indurre il
diarista, convinto che nessuno possa valutarsi meglio di se stesso, verso un nuovo tentativo di
bilancio di sé, condotto rigorosamente in proprio.
Il ripetersi ossessivo di uno schema breve e conciso, che imposta un semplificante confronto
fra passato e presente, stretto fra i limiti imposti dai due marcatori temporali, allora … ora,
enfatizza un tipico meccanismo del pelliano processo di elaborazione del ricordo. Anche
quando si svolgono al passato, le Efemeridi mettono in scena il presente: sono i pensieri
dell’oggi, le affettività inconfutabili, dolorose o teneramente consolatorie a guidare la
ricognizione dei tempi trascorsi.
25
Capitolo Terzo
III.1 Romanzo Familiare: la figlia adottiva Teresa
Dall’ambito rassicurante e segreto delle scritture familiari, Pelli, appassionato di erudizione
storica e attento ricostruttore di alberi genealogici, avrebbe potuto trarre vantaggio
l’indirizzarsi verso il diario quale forma ideale di quella crono-bio-grafia cui mostrava
naturalmente di tendere.
Segnale di questa capacità di fare tesoro della memoria familiare per connetterla a una pratica
di scrittura che, senza cambiare l’impianto, si mostrasse più congeniale, è il riferimento
esplicito nelle zone marginali del diario al libro di famiglia di un antenato del sedicesimo
secolo.
La strategica collocazione del riferimento nelle pagine che precedono il frontespizio del primo
volume delle Efemeridi, generalmente riservate a citazioni e sentenze, intende offrire una
sorta di ulteriore autorizzazione alla stesura di un diario privato, legittimando l’operazione
autobiografica con la necessità di farsi continuatore e garante della memoria storica di
famiglia. Se esiste dunque un legame con la tradizione familiare, essa, divenendo operativa
solo in un secondo tempo, non dovrà intendersi causa diretta dell’evoluzione verso il diario.
Se non è dato riscontrare una lineare evoluzione dal libro di famiglia al diario, è vero piuttosto
il contrario, cioè che saranno le Efemeridi stesse, accogliendo scrupolosamente le notizie
relative al casato dell’autore, ad assumere anche la natura del libro di casa.
L’amore per la data e l’imposizione che dà a se stesso di scandire gli avvenimenti nel tempo
trovano conferma anche nelle scritture extradiaristiche di Pelli. Tra gli spazi vuoti del
calendario di anniversari, spicca la registrazione di ricorrenze significative (la morte dei
genitori, la partenza dalla casa paterna, le tappe della carriera professionale) che, se ordinate
cronologicamente, potrebbero costituire lo scheletro di un romanzo autobiografico. Le date,
invece, isolate nello spazio della pagina e prive di annotazioni marginali, mostrano di valere
per se stesse, esaltate nella loro essenziale qualità di monito per la memoria.
Scorrendo le pagine delle Efemeridi ho potuto trovare ed evidenziare tre parti significative, in
cui inizialmente Pelli prende la decisione di adottare una bambina, dopo qualche tempo spiega
26
nel suo diario chi ha deciso di adottare, cioè la piccola Teresa ed infine descrive con molta
naturalità il momento in cui la vede per la prima volta.
Nel 1770 Pelli aveva 41 anni e da ben undici aveva iniziato a scrivere il suo imponente diario
giornaliero. Venerdì 28 Settembre di quello stesso anno Pelli sta scrivendo il XXVI volume
della prima serie delle Efemeridi e dichiara di aver preso la fermissima decisione di prendere
con
sé
una
bambina
ed
allevarla
come
se
fosse
sua
figlia,
in
casa
sua.
In questo stesso giorno Pelli spiega che questa scelta è stata presa per compensare il suo
infruttuoso celibato, per confortarlo nella sua solitudine e magari per avere un giorno un
possibile erede dei suoi beni.
Pelli alla fine della scrittura di questa giornata, confessa anche che forse questa sua
determinazione potrà arrecargli dei dolori, ma egli non crede più nella solitudine e nel
matrimonio.
«A dì 28 detto venerdì. La risoluzione fermissima in cui sono di non mi accasare mi ha
determinato ad un passo che in breve si effettuerà, essendo il tutto disposto, e
preparato. Questo è di prendere ad allevare come mia figliuola una bambina in mia casa, la
quale compensi il mio infruttuoso celibato, mi sia di conforto nella mia solitudine, mi presenti
una possibile erede delle mie sostanze, e profitti della disposizione che ho di giovare al
prossimo in vita. Quello che a ciò mi ha condotto è che di poco peso, e valore è ogni atto di
carità fatto in morte, quando necessitati dalla natura ci spogliamo dei nostri averi; che a mille
contrasti, e dubbiezze litigiose sono soggette le testamentarie disposizioni; che non ho alcun
erede necessario, e neppure persona la quale derivi dal mio sangue, eccettuate quattro sorelle
monache assai maggiori di me. […] Concepisco che questa mia determinazione mi può
arrecare dei dolori, ma non credo più della solitudine, o del matrimonio, ed almeno non è cosa
insolubile l'obbligazione che sono per prendere con la persona che sceglierò, ed in quel modo
che dichiarerò presto.» Serie I, Volume XXVI, p. 136-139 – Settembre 1770.
Dopo solo pochi giorni, il 3 Ottobre 1770, Pelli spiega e nomina per la prima volta chi ha
deciso di adottare: Maria Teresa, nata il 13 Febbraio 1763 a Grosseto, figlia del Maggiore
Roberto Ciamagnini di Campiglia e di Maria Caterina del fu tenente Giuseppe Lazzeretti.
Pelli precisa però che non inizierà a conoscere la bambina se non dopo le ferie.
27
Infine noto nuovamente nel Pelli una specie di preoccupazione riguardo alle conseguenze nei
pensieri altrui che potrà avere la sua decisione di adottare Teresa.
«A dì 3 detto mercoledì. […] In questa sera ho in casa il signor Luigi Guglielmo de Cambray
Digny. Concluso quello che di sopra accennai p. 137 e seg. con soscrivere un'obbligazione di
cui tengo copia fra i miei fogli concernenti i miei interessi. La ragazza che ho scelta è la
signora Maria Teresa del fu Roberto Ciamagnini di Campiglia, maggiore della guarnigione di
Grosseto, e della signora Teresa Maria Caterina del fu tenente Giuseppe Lazzeretti di detta
città, nata ivi il dì 13 Febbraio 1763, la quale però non incomincerà a conviver meco che
doppo le ferie. Il signor pievano Lastri con detto padrone di casa, ch'è il protettore della
madre, sono stati i testimoni. Non trascrivo le condizioni, e le mie promesse, perché non
occorre qui il farlo. Mi protesto che spontaneamente senza preghi, senza passioni, senza
vedute indirette ecc. mi sono portato con meditazione a quest'atto per fare un'opera buona,
anche con qualche mia soddisfazione in vita. Certe persone morigerate mi loderanno, e i
mondani mi biasimeranno, e crederanno, o che mi voglia fare una moglie a mio modo, o che
si celi qualche storia segreta in questo fatto. Io starò a sentire, e mi soddisfarò delle voci della
mia coscienza.» Serie I, Volume XXVI, p. 144-145 - Ottobre 1770.
Il Maggiore Ciamagnini, padre di Teresa, comandava la guarnigione di Grosseto per
Francesco I. La sua famiglia un tempo era provvista di beni, ma ad un tratto ne era stata
privata a causa di una sanzione penale. Ridotto in quelle condizioni, quasi come un
“mendicante”, fu costretto a diventare un militare: il grado che aveva raggiunto attesta la sua
grande capacità e la sua non ordinaria intelligenza. Di conseguenza egli sposò in età matura,
quando cioè i profitti della carica potevano sostenere un onesto mantenimento della famiglia.
Rimasta figlia unica, a causa della morte di un fratello venuto a mancare in tenera età, erano
riunite tutte su Teresa le cure della madre, che di educarla si prefiggeva secondo il suo cuore,
e le cure del padre, che amava la figlia con una tenerezza che somigliava all’adorazione.
Il padre di Teresa morì nel 1769 e così la moglie, trovandosi in miseria ed essendo ancora
molto giovane, abbandonò Grosseto per andare a Firenze. L’unico sollievo in tante angustie
era per Caterina quella cara figlia, che all’età di soli cinque anni le faceva sperare le più felici
disposizioni di mente e cuore. Vivace senza eccesso, semplice senza freddezza, tenera e
compassionevole per le miserie degli altri, non conoscendo quelle che la minacciavano e
dotata di una prontezza di spirito, formava la consolazione nelle miserie della madre che fu
all’improvviso assalita da una pericolosa e feroce malattia.
28
Un caro amico della madre di Teresa, Marco Lastri
(10)
, quando seppe della malattia della
vedova Ciamagnini, condusse uno dei suoi più dotti e cortesi amici, il Patrizio Fiorentino
Giuseppe Bencivenni Pelli, a conoscere Caterina e la figlia: rimase subito colpito dalla
bellezza e dalle gentili maniere della bambina. Ogni volta che il Pelli andava a fare visita
all’amica del Lastri, il cuore senza accorgersene gli si riempiva di tenerezza e compassione,
nel vedere la piccola Teresa.
Secondo Giovanni Rosini (11), autore del libro “Elogio di Teresa Pelli Fabbroni”, scritto per
onorare la memoria di questa donna, a cui era molto legato, ogni giorno che il Pelli andava a
trovare Teresa e la madre si formava un anello di quella catena che con dolci e pure legami li
ha poi legati per sempre.
M. Lastri si accorse dell’attitudine che il suo amico Pelli aveva verso la bambina e dato che il
Bencivenni aveva già quaranta anni, gli propose di prendere in adozione la bambina, la quale
sarebbe rimasta orfana quando la mamma, come potevano temere, fosse venuta a mancare.
Probabilmente, sostiene G. Rosini, il Pelli aveva già considerato questa proposta in cuor suo,
infatti la accolse subito con entusiasmo e compiacimento.
Quando il Lastri parlò con la madre di Teresa della possibilità di fare adottare la bambina,
inizialmente non fu d’accordo, ma avanzando di giorno in giorno la malattia, la vedova
acconsentì a questo doloroso, ma necessario sacrificio. Inoltre non c’erano dubbi riguardo a
chi dovesse affidare una così preziosa creatura: il Pelli «versato nella patria e nella latina
favela, erudito al di sopra di molti, amando e coltivando le lettere non per vanità ma per
diletto, filosofo senza jattanza, dotto senza pedanteria, e accoppiando a una retta ragione un
cuore tenero e generoso, se una tal quale ruvidezza nelle maniere teneva celati a prima giunta
i rari pregi dell’animo». (12)
L’adottò quindi il 3 Ottobre del 1770 con «privato istrumento», obbligandosi a tenerla presso
di sé ed a darle conveniente educazione.
(10)
Marco Lastri nacque a Firenze il 6 Marzo 1731, fu un ecclesiastico e un poligrafo, visse a
Signa e a Firenze; morì nel 1811.
(11)
Giovanni Rosini nacque a Lucignano (Arezzo) il 24 Giugno 1776, fu un letterato e un
Professore di eloquenza italiana nell'Università di Pisa; morì a Pisa il 16 Maggio 1855.
(12)
“Elogio di Teresa Pelli Fabbroni” di G. Rosini.
29
Nel diario del 17 Novembre 1770 il primo aggettivo che Pelli utilizza per descrivere il
momento tanto atteso di approfondire la conoscenza di Teresa è “tenero”, riferendosi
soprattutto al distacco della bambina dalla madre e apprezzando il coraggio della piccola per
la separazione da Maria Caterina.
«A dì 17 detto sabato. […] È venuta in questa sera in mia casa la bambina accennata sopra a
p. 144 e la scena è stata tenera ancora per me nel vedere il distacco della madre, e nel
considerare il coraggio con cui cercava di vincersi. Povera umanità! Dio benedica questa mia
risoluzione, giacché vede il mio interno, ed il mio fine.» Serie I, Volume XXVI, p. 174 –
Novembre 1770.
Teresa, con il tempo, ritrovò in lui l’affetto di un ottimo padre, le cure di un precettore ed i
consigli di un amico.
Solamente tre giorni dopo aver adottato Teresa, Pelli le dedica una pagina di diario, in cui si
possono già scorgere sentimenti affettivi reali verso la sua bambina. “La mia bambina”: è in
questo modo che la chiamerà sempre, ovvero ogni volta che parlerà di lei in queste Efemeridi,
da questo momento fino ai prossimi tre anni.
«A dì 20 detto martedì. […] Sono assai contento della mia bambina, perché mi riesce di
ottima indole, e carattere, da esser preso però con placidezza. Il vedere svilupparsi queste
anime innocenti, e naturali è un piacere per me nuovo, ma vero, e tenero per chi ha il cuore
ben fatto, e sento che si cattivano l'amore a proporzione che la natura le ha felicemente dotate.
Ancora senza esser padre riesce d'amare quelle creature sopra le quali si prende interesse.
Vedremo in seguito se si manterrà questa mia interna soddisfazione. Non mi soglio pentire di
ciò che faccio, ma se mai di questo mio straordinario capriccio lo facessi, sono disposto a
dirlo per insegnare agli altri che avessero la follia d'imitarmi.» Serie I, Volume XXVI, p.176 Novembre 1770.
Circa un mese dopo aver adottato Teresa, nel corso dell’impegno costante e dedito del Pelli
riguardo l’educazione e la disciplina della piccola, esprime il suo interesse circa lo studio
dell’uomo e dei fenomeni che in esso accadono. Confessa però che questi avvenimenti sono
ancora troppo difficili da spiegare per lui.
30
«A dì 14 detto venerdì. […] Nell'educare, e nel regolare la mia bambina studio profondamente
l'uomo, ed osservo i fenomeni che in questa creatura succedono, ma non gli so spiegare, e non
voglio punto fabbricar sistemi, o castelli in aria, perch'è molto tempo che la mia scienza si
limita ai fatti, ed io non amo né di sognare, né di beccarmi il cervello nelle cose che hanno più
aspetti, e che possono alimentare eterne dispute. » Serie I, Volume XXVII, p.1 – Dicembre
1770.
Ben presto il Pelli inizia ad educarla alle lettere, non per farle ambire l’onore rischioso di
scrivere, ma perché egli sapeva che le lettere sono proprio l’ornamento della gioventù, il
sollievo delle avversità e le compagne più fedeli nella vecchiaia.
I primi tempi furono spesi dal Pelli nel formarle il cuore, ovvero nel perfezionare in esso
quelle inclinazioni e quelle attitudini che la sua buona madre aveva fatto nascere e
nell’inspirare soprattutto nella mente di le il desiderio e la curiosità di sapere e di
comprendere, cioè i principali fondamenti di ogni migliore educazione.
In una giornata di forte maltempo, Pelli si diverte con tranquillità leggendo i libri e giocando
con la piccola Teresa.
«A dì 22 detto sabato. Tempo piovoso specialmente nella sera, nella quale si sono sentiti dei
grossi tuoni, onde io placidamente mi sono trattenuto in casa baloccandomi con i libri, e con
la bambina. […]» Serie I, Volume XXVII, p.7-8 - Dicembre 1770.
Avendo avuto l’opportunità di leggere buona parte delle Efemeridi, ho notato che Giuseppe
Pelli ogni ultimo giorno dell’anno elabora una sorta di resoconto dell’anno appena concluso.
Nel diario del 31 Dicembre 1770 l’unica nota positiva è la presenza di Teresa nella sua vita.
«A dì 31 detto lunedì. […] Ecco finito l'anno 1770 del quale ho notate alcune notizie
meterologiche, ma un cattivo lunario, che ho avuta la disgrazia di rivedere in fretta, darà le
cose stesse più precisamente, benché senza esattezza fisica. Del rimanente io mi sono voltato
addietro rinchiuso nel mio gabbinetto, ed ho veduto tutto l'anno trascorso in cui... La prudenza
mi fa tirare il sipario sul passato, e mi fa tacere sopra tutto quello che oggi ho riveduto nella
mia solitudine di falsi, e sciocchi amici, di vanità, di capricci sconnessi, di prevenuti giudizi
ecc. ecc. ecc., per riprincipiare ad osservare le cose stesse nell'anno futuro, se io vivo. La mia
bambina sarà l'unico innocente mio balocco di cui non mi pentirò, se riuscirà come vorrei.»
Serie I, Volume XXVII, p.15-16 - Dicembre 1770.
31
L’educazione di Teresa è una delle tematiche più sviluppate nelle Efemeridi: leggendo questo
diario di una vita si può capire che Teresa è la persona più importante nella vita del Pelli e di
conseguenza anche la sua crescita fisica e morale, la sua formazione ed i suoi valori sono per
lui aspetti quotidianamente fondamentali. Questa pagina di diario penso che sia quella che al
meglio spieghi il rilevante impegno del Pelli nella sua missione.
«A dì 18 detto venerdì. […] Io mi prendo grandissima cura dell'educazione della mia
bambina, ed attendo al fisico, ed al morale, perché la vorrei formare una femmina secondo le
mie massime, piacevole, virtuosa, e senza pregiudizi, e frivolezze. A questo effetto cerco
d'insinuargli gli ammaestramenti più solidi, di domare la sua fierezza, di fargli prendere stima
delle cose che lo meritano, di coltivare il suo corpo acciò sia sano, e pulito, ma non
soverchiamente delicato, e donnesco, di prepararla a star meno male nel mondo che sia
possibile, di alimentare in fine questa pianta, come vorrei che fosse stata coltivata la mia.»
Serie I, Volume XXVII, p.31-32 – Gennaio 1771.
Sono trascorsi tre mesi dall’adozione di Teresa e Pelli in poche righe riesce a riconoscere un
sentimento che prova per sua figlia adottiva. Si sente quasi stupito di sentire un “interesse
sincero” per lei, pur non avendola generata.
«A dì 8 detto venerdì. […] Senza esser padre vedo che si prende un interesse sincero per i
figliuoli che si sono scelti, e che il mio cuore è capace di tutti quei moti che prova per un
figlio chi lo ha generato. I dolori anche in questa parte sono compensati però dai piaceri, e la
mia bambina, se mi dà di quelli, mi procura ancora di questi.» Serie I, Volume XXVII, p.54 –
Febbraio 1771.
Riflettendo sulla tematica dell’insegnamento per sua figlia, Pelli vorrebbe consigliare ad altri
padri che oltre a leggere e scrivere, dovrebbero insegnare ai loro figli “il fare di conto e la
scrittura”, dato che lui si è trovato poco preparato in questo.
«A dì 2 detto sabato. […] Se mai avessi padri da consigliare direi loro che doppo il leggere, e
lo scrivere insegnassero ai loro figliuoli il far di conto, e la scrittura, mentre io mi sono trovato
assai male della mia ignoranza, sopra di ciò, e vedo che coloro i quali hanno tale scienza, la
lavorano in forma che un povero ignorante o nulla intende, o è pregiudicato. L'esperienza
attuale mi risveglia questa massima, la quale spesso insinuo a chi parlo.» Serie I, Volume
XXVII, p. 68/b-69 – Marzo 1771.
32
Nello scorrere le pagine delle Efemeridi si ha l’impressione che la lettura di Jean-Jacques
Rousseau alimenti di nuova ispirazione il proposito già da tempo maturato dell’osservazione
quotidiana di sé. L’affannosa ricerca della felicità, considerata in stretta correlazione alla
capacità di conformarsi alle esigenze del proprio temperamento, continua ad assediare il
diarista che si trova ad operare una sintomatica distinzione tra vivere ed esistere, godere la
vita e semplicemente “campare”.
Filosofo e scrittore ginevrino, nato nel 1712, Rousseau è molto seguito e osservato in quegli
anni dal Pelli, soprattutto per quanto riguarda il problema educativo individuale nell’Emilio.
Émile ou De l’éducation è un noto e diffuso romanzo pedagogico scritto dall’autore francese e
pubblicato nel 1762. Rousseau propone ai lettori un’originale fusione di narrazione e
riflessione filosofica e pedagogica fondata sul principio che “l’uomo è naturalmente buono”,
ma è la società che lo corrompe. Nella sua opera precedente, "Il contratto sociale", egli
sostiene che bisognerebbe rinnovare la società anche da un punto di vista politico ma con
"L'Emilio" intende sottolineare che nulla si può fare se non si parte dall'educazione che serve
a creare uomini nuovi in una società nuova. L'opera è divisa in cinque parti corrispondenti alle
cinque fasi fondamentali che ripercorrono l’educazione del giovane Emilio, allievo
immaginario, seguito da un precettore che è interpretato dallo stesso Rousseau.
Rousseau assume la vita del giovane Emilio come un modello pedagogico. L’educazione del
ragazzo si svolgerà a contatto con la natura, lontano dagli influssi della vita sociale.
L’educazione di Emilio durerà venticinque anni, durante i quali il precettore gli
presenterà una serie di esperienze con lo scopo di fargli raggiungere la maturità. Il precettore
dovrà adeguare il sapere alle diverse età del ragazzo e cercherà di far raggiungere ad Emilio la
capacità di avvertire in modo naturale i propri limiti. Il precettore potrà lasciarlo libero solo
nel momento in cui sarà convinto che Emilio sarà un buon precettore per la sua prole ed un
modello per i suoi cittadini.
Coscienza autobiografica e consapevolezza formale sembrano procedere di pari passo negli
anni successivi alla lettura che il Pelli fa del primo volume delle “Confessioni”. Mentre si
accresce la fiducia nelle capacità autoritrattistiche del diario che, superando il contrasto tra
vita vissuta e vita di carta, si mostra suscettibile a restituire un quadro fedele di una
personalità plasmata dall’esperienza, la ricognizione del passato non può non convergere sul
presente della scrittura. È così che Pelli compie un fondamentale esame di se stesso in luce
retrospettiva e accosta l’incursione nel passato a convinte dichiarazioni circa le peculiarità
formali del diario.
33
Il bilancio della propria esistenza, occasionato dalla ricorrenza del compleanno, approda al
ritratto di sé quale diarista. Il fatto che egli, nel tentativo di trattare un insidioso senso di
smarrimento, preferisca trovare ristoro nelle opere teologico-metafisiche, non sembra
vanificare l’ipotesi di un approfondimento della sensibilità e della coscienza autoanalitiche in
coincidenza con la comparsa della prima parte delle Confessioni rousseauiane.
“Le confessioni” (o Confessioni) è il titolo di un'opera autobiografica di Jean-Jacques
Rousseau. Oggi incluse negli “Scritti autobiografici”, uscirono a stampa solo postume (la
prima parte nel 1782 e la seconda nel 1789). Esse raccontano i primi 53 anni di vita
dell'autore in 12 libri. La redazione delle Confessioni iniziò nel 1764; Rousseau ne redasse i
primi otto libri a Wootton, dopo la rottura dell'amicizia con David Hume e ne continuò la
scrittura durante il suo rientro a Parigi. Nel 1771, Louise d'Épinay, appoggiata da Denis
Diderot, chiese alla polizia di far interrompere le letture pubbliche che Rousseau ne stava
facendo. La prima parte, con Preambolo e 6 capitoli, ricopre gli anni 1712-1740: sono gli anni
di formazione, dalla nascita a Ginevra all'arrivo a Parigi, quando l'autore ha 28 anni. La
seconda parte, dal capitolo 7 in poi, ricopre gli anni 1741-1765: la sua introduzione negli
ambienti della capitale che si dedicano a musica e filosofia, con la pubblicazione delle opere e
gli attacchi subiti dopo aver scritto “Emilio o dell'educazione” e la conseguente fuga in
Svizzera. Il titolo indubbiamente si rifà alle “Confessioni” di Agostino d'Ippona (meglio noto
come sant'Agostino), scritte in latino nel IV secolo.
Qui di seguito ho riportato la pagina di diario in cui meglio si può capire l’opinione che il
Pelli ha riguardo l’educazione proposta da Rousseau.
«A dì 7 detto domenica. […] Sento che a Parigi da molti si allevano i figli sul gusto
dell'Emilio di Rousseau, e che vi si conteranno da 5.000 ragazzi educati appresso a poco
fisicamente su tal modello. Io penso che ciò sia generalmente bene per la robusta costituzione
della loro macchina, ma non vorrei che troppo si spingesse in là il metodo, come alcuni fanno,
e che così si accrescesse la difficoltà di regolare il morale di questi individui. Indugiando
troppo a combattere le loro passioni, ed i loro desideri, non usando mai le riprensioni, ed i
piccoli gastighi, questi saranno a senso mio troppo vigorosi nell'età più matura e più
indomabili. Mi si dice che ne' corpi deboli le passioni sono più forti. Ancora non ho raccolte
bastanti osservazioni per persuadermene.» Serie I, Volume XXVII, p.185-186 – Luglio 1771.
34
Chi ha un figlio, secondo il Pelli, ha già molto da occuparsi perché un figlio esige l’intera
attenzione da parte di un padre.
«A dì 31 detto mercoledì. […] Chi ha un figliuolo pare che abbia bastantemente da occuparsi,
perché un fanciullo esige tutta intiera l'attenzione di un padre. Gedeone, ch'ebbe 71 figliuoli, e
molti altri, che si contano ricchissimi di prole, come facevano ad educarla? Desidererei che mi
fosse spiegato.» Serie I, Volume XXVIII, p.17 - Luglio 1771.
Pelli, in questa pagina di diario, fa un’importante considerazione: l’educazione e la riflessione
sono due strumenti così potenti da riuscire a cambiare la mente degli uomini, ma non il loro
cuore.
«A dì 17 detto martedì. […] Bisogna crederlo. La mente degli uomini, non il cuore si può
mutare coll'educazione o con la riflessione. Un collerico sarà sempre tale, ed educato che sia
non commetterà dei delitti, ma inquieterà i famigliari, ed i sottoposti. Un flemmatico farà per
riflessione qualche cosa, ma non uguaglierà mai uno che sia naturalmente sollecito. Per questo
dico, anzi predico, che la mia bambina sarà donna un poco ineguale, timida, e soggetta a dei
capriccetti. Lo vedranno quelli che la conosceranno in età matura. Procuro di togliergli questi
difetti, ma diffido di riuscirvi.» Serie I, Volume XXVIII, p.58-59 - Settembre 1771.
Qui di seguito ho riportato un altro suggestivo esempio del pensiero del Pelli riguardante
l’educazione della figlia Teresa. Nello specifico, egli è felice di essere presente attivamente
nel percorso formativo di Teresa, in modo da conoscere allo stesso tempo anche il suo
carattere. Il diarista la accompagna nello studio con dolcezza, dato che ancora non è capace di
utilizzare “una severa attenza vigilanza”. La speranza del Pelli è quella che Teresa diventi una
donna saggia, colta, onesta e istruita e, a tal fine, vorrebbe educarla con i suoi principi e le sue
regole.
«A dì 12 detto martedì. Quanto mi diverto ad attendere all'educazione della mia bambina,
altrettanto conoscendo il fondo del suo carattere riflessivo, vedo con impazienza che non
sempre con eguale ardore al mio si presta a seguire la mia istituzione benché nel morale sia
buona. Non stimando il rigorismo, senza essere amico dell'Emilio, uso della dolcezza, ed ella
averebbe bisogno di una severa attenta vigilanza continova, la quale ancora io non potrei
adoperare attesi i miei impieghi, ed i miei imbarazzi. Non conto di formarla altro che una
donna savia, onesta, e di qualche cultura, e per questo gli fo leggere dei classici, gl'inspiro
35
sentimenti di virtù maschile, l'esercito nell'imparare a mente la nostra santa legge, e delle
buone poesie, e parlandoli un linguaggio naturale, mi affatico di cancellare i difetti del suo
sesso, acciò viva in tutte l'età un poco più felice delle altre femmine, sia buona moglie, e
buona madre. In fatti la dissuado dal rinchiudersi, e per quanto sarà possibile voglio fino al
fine educarla sotto i miei occhi, con i miei principi, con le mie regole. Altri giudicherà cosa
sia riuscita. La figlia del dottor Cocchi, poi moglie del consiglier Tavanti, fu educata
filosoficamente, ma è riuscita affettata, insofferente, di carico a sé, ed agli altri, scontenta
nella felicità, vana, disobbligante ecc. Questo è il carattere di quella che si disse la Fanciulla
mugellana. Questo esempio mi fa temere per la mia, e per ciò non curo che impari tanto
quanto ad essa fu insegnato. […]» Serie I, Volume XXIX, p.56-57 - Maggio 1772.
Durante il periodo pasquale, Teresa è stata accostata al sacramento della prima Confessione
dal padre ed oggi ha ricevuto la Cresima.
«A dì 7 detto domenica. Pentecoste. […] Nei passati santi giorni della Pasqua feci confessare
la mia bambina; oggi gli ho fatto avere il sacramento della Cresima. Bramo che sia religiosa,
ma non intendo di farla austeramente devota. La voglio una buona femmina, un'onesta, e
virtuosa ragazza, un'ottima moglie, ed una madre affezionata, ma sempre libera dai
superstiziosi, e sciocchi pregiudizi volgari.» Serie I, Volume XXIX, p.89 – Giugno 1772.
In questa pagina di diario, il Pelli è preoccupato perché molti giovani sono prematuramente
avviati a conoscere ciò che dovrebbero invece sapere solamente da adulti. Per questo motivo,
a sua figlia fa leggere unicamente cose “delicate”, in modo da conservare i suoi sentimenti
tenui.
«A dì 28 detto martedì. […] Non sono giansenista, ma non amo che i giovani sieno troppo
presto iniziati in ciò che devono sapere in età matura. Almeno gli oggetti gli devono esser
dipinti con i loro veri colori. Sono troppo disposti a rincararli, e da certi libri attingono il
veleno, quando ancora ha accanto il suo antidoto. Alla mia bambina gli fo leggere cose galanti
per conservarli il cuore delicato, ma mi guarderò di farli vedere dei romanzi, e dei libri che
fomentino le sue passioni troppo decisivamente. […]» Serie I, Volume XXIX, p.144-146 –
Luglio 1772.
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E’ la prima volta che Pelli confida di essere turbato, inquietato e quasi mortificato per aver
rimproverato con autorità e fermezza la sua piccola Teresa. Spiega però che l’ha fatto perché
la dolcezza non sempre può essere utile nell’educazione dei figli.
«A dì 4 detto martedì. […] Sono tanto sturbato dal dovermi inquietare, che mi fa male fino il
dover gridare, ed ammonire con severità la mia bambina. Pure lo faccio, perché la
piacevolezza non basta molte volte a condurre gli uomini di qualunque età, di qualunque
sesso, di qualunque nazione ecc.» Serie I, Volume XXIX, p.153 – Agosto 1772.
Dopo quasi due anni dall’adozione di Teresa, secondo me questa è una delle più emozionanti
e caratteristiche confessioni del puro amore paterno che Pelli prova per la figlia.
«A dì 31 detto lunedì. […] Non posso celare che le baie, i vezzi, le carezze che mi fa la mia
bambina non muovino la mia tenerezza, e non mi dieno sovente un piacevole ristoro nella mia
solitudine. Questo compensa qualche dispiacere che incontro nel regolare i suoi moti, le sue
inclinazioni, i suoi capriccetti, e nell'aver cura della sua educazione, onde concludo che la
figliolanza ancora è una materia nella quale il bene, ed il male è mischiato, come in tutte le
altre cose della vita. Io ne faccio una specie di sperimento fuori della paternità, sperimento
non dimeno bastantemente sicuro per conoscere quello ch'è nella paternità, perché mi sono
formato con questa mia allieva un vincolo di convenzione, che non si scioglierà se non per
indocilità, o ingratitudine della beneficata, di che non credo che sia per esserne capace.» Serie
I, Volume XXIX, p.184 – Agosto 1772.
E’ la prima volta che il Pelli decide di fare, nelle sue Efemeridi, un resoconto molto
dettagliato della sua quotidianità, dal quale io ho estrapolato solamente gli espliciti riferimenti
a Teresa. Dalla descrizione puntuale di questa settimana, ho potuto notare che Giuseppe Pelli
dedica alla sua bambina un momento giornaliero per la sua educazione scolastica oppure per
il gioco, sempre con funzione di insegnamento.
«A dì 18 detto venerdì. Voglio per 8 giorni scrivere un giornale esatto della mia vita. […]
Dalle 11 e mezzo alle 12 e mezzo ho visitata la madre della bambina, ove ho trovato il mio
amico Lastri. Verso l'un'ora sono tornato a casa, ed ho fatta un breve scuola alla bambina. […]
A dì 19 detto sabato. […] All'1 ora a casa ove doppo aver fatta scuola alla bambina ho
desinato. […]
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A dì 20 detto domenica. […] Alle 10 e tre quarti ho visitata la madre della bambina, che va a
prendere aria. […]
A dì 21 detto lunedì. […] Sono ritornato a casa alle 12 e tre quarti, ho dato delle istruzioni alla
bambina, e mi sono posto a tavola all'1 e mezzo ove ho pranzato. Alle 2 e un quarto mi sono
baloccato con la bambina dandoli degl'insegnamenti. […]
A dì 22 detto martedì. […] Verso l'1 ora mi sono rimesso in casa: ho letta la gazzetta, ho
invigilato sopra la bambina, ed all'1 e mezzo sono andato a tavola.
A dì 23 detto mercoledì. […] Alle 12 e mezzo sono andato da un amico, ed all'1 e un quarto
sono tornato a casa per pranzare al solito, doppo aver presa cura della bambina per
assicurarmi che il maestro faccia il suo dovere.
A dì 24 detto giovedì. […] Tornato a casa, e fatta scuola alla bambina. […]
A dì 25 detto venerdì. […] Verso le 2 ho pranzato, poi mi sono occupato con la bambina con
scandagliarli il cuore. […] Ecco fatte l'Efemeridi di 8 giorni. Cosa ne ritraggo? Che faccio una
vita metodica, che perdo del tempo, e che non debbo vantarmi di essere gran cosa importante
al genere umano. È vero che per fissar tutto converrebbe scrivere anche il giornale dell'anima,
mentre il sopra notato è il giornale del corpo, ma questo sarebbe ancora più ridicolo.» Serie I,
Volume XXX, p.9-20 – Settembre 1772.
Teresa sta trascorrendo un po’ di tempo dalla madre naturale e il padre adottivo sente molto la
sua mancanza: secondo lui, la madre non le dà le attenzioni che Teresa invece meriterebbe.
Inoltre egli sente la sua assenza soprattutto in quei momenti in cui i due solitamente stavano
insieme per divertirsi e passare il tempo.
«A dì 21 detto sabato. […] L'assenza della mia bambina ancora mi dà disgusto, perché so che
dalla madre non ha quell'attenzione che merita, e perché mi dà qualche svago in certe ore.»
Serie I, Volume XXX, p.70-71 – Novembre 1772.
Dopo quindici giorni di lontananza, la bambina è finalmente tornata a casa e Pelli è
addolorato perché sia Teresa sia la madre piangevano nel salutarsi e questo il diarista lo
avrebbe voluto volentieri evitare.
«A dì 24 detto martedì. […] Mi è ritornata la bambina quando meno l'aspettavo, doppo essere
stata 15 giorni in campagna con la madre, la quale quanto prima parte per la Maremma, non
trovando che l'aria di Firenze nell'inverno li si confaccia. Il nuovo distacco è costato delle
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lagrime ad ambedue, le quali volevo risparmiare. […]» Serie I, Volume XXX, p.72-73 –
Novembre 1772.
In questa pagina di diario si può comprendere la capacità empatica del Pelli nei confronti della
figlia, la quale è molto addolorata perché sua madre non sta bene, di conseguenza anche il
diarista si sente avvolto da una sensazione di sconforto.
«A dì 8 detto martedì. Alle 10 e mezzo questa mattina è partita per Grosseto la signora
Caterina Lazzeretti vedova Ciamagnini madre della mia bambina in cattivo stato di salute,
onde non conto molto, concorrendovi pure altri motivi, di rivederla. Le circostanze di questa
donna sono infelici. La figlia ha sparse molte lagrime, le quali alla fine hanno anche in me
risvegliato la tenerezza, e mi hanno gettato in quel patetico languore, che non è un stato di
dispiacere per un'anima sensibile, richiamandomi alla memoria molte situazioni della mia
vita, nelle quali ho provati dei dolori, mi sono illuminato sopra il cuore umano, ho veduto
tutto il prospetto di me medesimo. Ah! l'esser sensibile è un bel dono. Ah! che la nostra
interna virtù è una molla deliziosa. Ah! che non ostante noi dobbiamo diffidare di noi stessi, e
degli altri, compassionare, piangere, e conchiudere che la povera innocenza è soggetta nel
mondo a molti mali, che bisogna che noi siamo teneri per gli altri, che le nostre stesse buone
qualità non sempre ci garantiscono da delle disgrazie, e che col vivere si acquista una durezza,
che ci dispiace, e ci costa cara assai. Se questa bambina sarà quale la vorrei, dolcemente
passerò con essa i miei giorni, ed ella non risenterà tutto il peso delle sventure che l'hanno
circondata nei primi momenti del suo nascere. […]» Serie I, Volume XXX, p.85-87 –
Dicembre 1772.
Da questo momento in poi, quando Pelli parlerà di Teresa, la chiamerà frequentemente “la
mia ragazza”. In particolare, nel Maggio del 1773 a Pelli viene l’idea di redigere per Teresa
un Dizionario di varie nozioni, con lo scopo di plasmare in lei un concetto preciso riguardo
alle tematiche più importanti per formarle la mente e definirle l’abilità di giudizio.
«A dì 12 detto mercoledì. Dizionario delle nozioni primitive. Mi era venuto nel pensiere mesi
addietro di compilare per uso della mia ragazza un Dizionario delle più comuni, e necessarie
nozioni, il quale servisse a formarli un' idea precisa, ed esatta delli oggetti sopra i quali deve
avere occasione di fermarsi, e ciò per accomodarli la mente, e schiarirli il giudizio. […]
Stando in questa perplessità, ho veduto che il mio disegno è stato eseguito, e che appunto si è
stampato a Parigi, non è molto, in quattro volumi in 8°, un Dizionario delle nozioni primitive;
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ma ho il dispiacere di leggere nella Gazzetta Letteraria dei Due-Ponti, al num. 33, che non è
quale si poteva desiderare, ma inesatto e pieno di errori nella fisica, nella storia naturale ecc.,
talmente che non comparisce che una compilazione sotto la mediocrità, in cui si smentisce la
pompa del titolo che porta. Adunque l'opera potrebbe tuttavia ritentarsi, e sarebbe una specie
di enciclopedia per i fanciulli utile ancora agli adulti. Senza delle figure però, secondo l'idee
altre volte spiegate, non credo che si arriverebbe a fare alcuna cosa di buono. […]» Serie II,
Volume I, p.57v-58 – Maggio 1773.
Nel primo giorno di Giugno del 1773, Pelli riceve la triste notizia della morte di Caterina
Ciamagnini, la mamma di Teresa. Oltre ad onorare la sua memoria in questo diario, Pelli dà
un primo accenno di preoccupazione riguardo la possibile reazione della figlia.
«A dì 1° detto martedì. Caterina Ciamagnini, nata Lazzeretti, sua morte. Per la posta ho
ricevuta oggi l'infausta nuova che la notte di sabato scorso, 29 del caduto, terminò di vivere
consunta dalle sue infermità la signora Caterina Ciamagnini, madre della mia ragazza. Ella
poteva avere poco più di 33 anni salvo. L'elogio che gli feci nella Novella del caso è vero nel
suo totale, benché oratoriamente esagerato.
Aveva della bontà di cuore, delle virtù, e
dell'estro nel suo carattere. È vissuta infelice ed è morta poverissima raccolta in casa da un zio
materno commissario delle saline di Castiglione della Pescaia. Nelle sue disgrazie ci ha
infinitamente cooperato la sorte. Non era bella, m'aveva dello spirito, e delle buone maniere.
Ha finito etica doppo un inviluppo di altri mali. Gli sono stato attaccato ma non mi ha fatta
passione. Vedremo cosa sarà la figlia.» Serie II, Volume I, p.82 – Giugno 1773.
Dopo due giorni Teresa viene informata dal padre adottivo della morte di sua mamma: la
reazione prevista di dolore si è verificata, ma dopo essersi sfogata un po’ con suo padre è stata
meglio.
«A dì 3 detto giovedì. […] Quest'oggi ho studiato il tenero cuore della mia bambina a cui ho
comunicata l'infausta nuova della morte di sua madre. Ella l'ha sentita con molto dolore, ha
pianto, ha desiderato di andarli dietro, ed alternandosi le idee nella sua immaginazione, è
ritornata sopra questa sovente, anche doppo essersi sfogata in un dirotto pianto non breve. Età
felice! Anche i dolori cedono presto in essa, ma in un'anima sensibile ripullulano più le forti
impressioni che in una alquanto stupida.» Serie II, Volume I, p.83-83v – Giugno 1773.
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Giuseppe Pelli è molto dispiaciuto perché sta notando nel carattere della bambina dei tratti
negativi, come ad esempio l’”ostinata caparbietà”. Egli ha paura che Teresa diventi una
persona diversa rispetto a quella da lui cresciuta ed educata. Fortunatamente, in una nota
inserita successivamente al 1789, il diarista specifica che si egli era sbagliato perché Teresa
negli anni si è rivelata piena di gratitudine nei suoi confronti, quei segni di cattività che aveva
intravisto nella bambina sono scomparsi col tempo.
«A dì 5 detto giovedì. […] Ogni tanto vedo nella mia bambina dei risalti di ostinata
caparbietà, i quali mi danno del dispiacere, perché non mi fanno augurar bene sopra la
riuscita di lei. L'obbligazione che mi ha, l'attenzione che gli uso, la tenerezza che gli dimostro,
non la rendono docile in certi punti, e facile a smontarsi dalla sua volontà, e dal suo capriccio
ancor quando è dalla parte del torto, onde sono con rincrescimento portato ad usare il rigore.
Che ne avverrà non ostante? E siamo tanto infelici che le nostre virtù ancora ci abbiano da
produrre dei dolori! [Ella portò poi la sua gratitudine molto in là, si mutò ecc., onde dovetti
godere di essermi ingannato. Questa è un’aggiunta autografa successiva al 1789] Pur
ritorniamo in noi in questi momenti, e consoliamoci con la nostra coscienza, che ci paga in
contracambio con un dolce sentimento della nostra condotta.» Serie II, Volume I, p.125v –
Agosto 1773.
Il Pelli convertiva l’istruzione in diletto e così facendo induceva in Teresa la curiosità, da cui
di conseguenza nasceva il desiderio di apprendere. In questo modo Teresa imparava
facilmente tante cose.
Nel 1781, all’età di 18 anni, Teresa era un portento di bellezza e di grazia e G. Rosini nel suo
“Elogio di Teresa Pelli Fabbroni” la descrive in questo modo: «Maturate e perfezionate si
erano le di lei belle forme, lunghissimi e biondissimi capelli cadeano sovra spalle d’avorio:
serena era la sua fronte non oscurata quasi mai da benché leggiera nuvolata: gli azzurri suoi
occhi placidi e composti si animavano meravigliosamente quando favellava e le gote e le
labbra facevano accorti che i colori che brillano sul volto d’una donzella sono i più ridenti e
soavi della Natura. Le braccia, le mani, il petto ed i fianchi erano quali a dignitosa e gentil
matrona perfettamente convengono. Avea molta grazia e facilità ne’ movimenti, ma non
quella mollezza voluttuosa, che offre tante segrete lusinghe all’ardine: ella era tale in somma,
che ogni madre desiderata l’avrebbe per figlia, ogni padre per nuora.»
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Un anno emblematico dell’acuta reattività del diarista toscano nei riguardi delle
problematiche più intense della scrittura di sé è il 1782. Offrendo nuove tracce per la
costruzione di questo tormentoso romanzo familiare che vede l’adorata figlia adottiva Teresa,
quale protagonista, il diario del 1782 disegna uno schema assai variabile dell’intimismo
pelliano, alternando l’assenza della composizione approfondita alla potente riemersione
dell’autobiografismo.
Adottata dal Pelli nel 1770, Teresa, che nel 1782 si unirà in matrimonio col celebre
economista e scienziato Giovanni Fabbroni, è destinata a divenire un punto di riferimento
importante nella vita culturale fiorentina. Come ricorda Renato Pasta, «Il talento di Teresa
Fabbroni e il suo indubbio fascino trasformarono la casa paterna in un punto di ritrovo
secondo soltanto al “salotto del Lungarno” della contessa d’Albany». (13)
Una grande ambizione del Pelli, più volte ripetuta all’interno delle sue Efemeridi, è quella di
risparmiare a Teresa i dolori e le ingiustizie che la vita spesso riserva: un desiderio che
accomuna tutti i genitori e il Pelli, pur non essendolo biologicamente, farebbe di tutto, anche
disseminare i suoi averi, pur di trovare la serenità per sua figlia.
«A dì 6 detto mercoledì. […] Sarei al punto di disastrare il mio patrimonio per comprarmi la
quiete. Tanti alla mia età si sono arricchiti con i colpi di fortuna, con l'industria, con le
oppressioni, o con l'ingiustizie, ed io sarei sul punto di fare un grosso sacrifizio di una parte di
mia fortuna per risparmiare alla Teresa dei dolori, per risparmiare a me delle atroci
inquietudini, ma mi manca di trovare il nume a cui porgere le mie vittime. […]» Serie II,
Volume X, p. 1750v - Febbraio 1782.
Come sostiene Giovanni Rosini, la vita di Teresa, trascorsa in mezzo ai più stimabili fra i suoi
concittadini, ha mostrato che le cure del padre non potevano avere un effetto migliore. La
prima e la più importante prova che ella gli ha offerto fu la scelta dello sposo, che lasciò
interamente all’arbitrio del padre. E il matrimonio che il Pelli le fece contrarre con la persona
di cui Teresa formò la sua intera felicità, non fu il minore dei benefici di quel padre tanto
amoroso.
(13)
Renato Pasta “Scienza, politica e rivoluzione. L’opera di Giovanni Fabbroni, 1752-1822,
intellettuale e funzionario al servizio dei Lorena” Firenze, Olschki, 1989, p.152.
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Pelli è felice ed emozionato nello scorgere l’amore che sta nascendo tra Teresa e colui che
sarà il suo futuro marito: Giovanni Fabbroni. (14)
«A dì 2 detto sabato. […] La tenera gratitudine stessa, che trovo nella Teresa, le carezze che
gli vedo fare, e ricevere dal presunto suo sposo, mi riempiono l'anima di un patetico, che mi
spreme a forza le lagrime, le quali trattengo per non colpirla, nel mentre, che mi ripiomba sul
cuore tutta la perfidia del fanatico suo seduttore.» Serie II, Volume X, p.1762 - Marzo 1782.
Se le riflessioni sull’amore e l’universo femminile, amareggiate dall’ombra dell’episodio del
segreto accordo matrimoniale fra Teresa e Antonio Maria Chelli, insinuano valutazioni
evidenti della situazione personale del diarista, un tortuoso senso di disinganno circa gli
uomini e il mondo sembra renderlo incline al bilancio della sua vita, tant’è che nelle note del
5 Marzo 1782, comincia a prendere corpo il timido tentativo di delineare una prospettiva
principalmente autobiografica attraverso uno sforzo di selezionata ricapitolazione del vissuto.
La delicata situazione psicologica del momento induce Pelli a elencare in ordine
rigorosamente cronologico i tre episodi più dolorosi della propria vita: l’abbandono della casa
paterna, la soppressione della Pratica Segreta e la subdola seduzione di Teresa da parte di
Chelli.
«Facendo l'esame della mia vita passata trovo che tre sono stati i periodi più dolorosi, che
abbia sofferti ai miei giorni: il primo quando di 14 anni dovetti abbandonare la casa paterna, e
rivendicarmi con una lunga lite il mio patrimonio; il secondo quando negli ultimi tempi
divenne tropo tumultuoso il magistrato della Pratica Segreta, onde restò soppresso; il terzo
quando svelatasi l'empia nascosta trama del Chelli cominciò quel corso di cose, che ancora mi
tormenta da undici mesi in qua. Ne' fratempi il bisogno, l'amore, la noia ecc. mi ha fatti
passare dei giorni dolorosi, ma le piaghe non erano né tanto maligne, né tanto profonde
quanto sono state in detti tre periodi, dei quali dovrò ricordarmi con spasimo se vivessi ancora
cento e più anni. Questa rimembranza penosa non so poi mitigarla con la memoria di periodi
eguali di contentezze, mentre i piaceri che ho goduti in 52 anni in circa sono stati sempre
brevi, e interrotti.
(14)
Giovanni Valentino Mattia Fabbroni, uomo politico e poligrafo, nato a Firenze il 13
Febbraio 1752, morto ivi il 17 Febbraio 1822.
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Ma per concludere il calcolo di cui ho scritto altre volte anni addietro, bisognerebbe
raccogliere gli elementi dei piaceri, e dei dolori, poiché, quantunque questi fossero stati
intensi, e di più lunga durata potrebbero uguagliare quelli o nella somma, o nel valore, la qual
cosa però, per quanto soddisfacesse alle mie idee già spiegate sopra la parità degli uni, e degli
altri nel periodo del nostro vivere, nondimeno lascerebbe sempre aperto il campo a poter dire
con verità che molto ho sofferto, che molto soffro tutt'ora, che i godimenti passati o poco
scemano o nulla diminuiscono i patimenti presenti, e che possiamo essere all'estremo infelici,
benché siamo stati all'estremo felici. Il momento attuale punge i volgari, ma punge ancora i
filosofi, per quanto la riflessione corra in loro soccorso a ritenere i pianti, le strida, le
disperazioni.» Serie II, Volume X, pag. 1763v-1764 – Marzo 1782.
Lo stato di souffrance (sofferenza) che attanaglia il diarista è destinato a conoscere una tregua
all’indomani della soluzione della vicenda Chelli – Teresa, in coincidenza della quale si apre
una fase di radicale mutamento di disposizione d’animo.
Ricondotta a casa Teresa, dopo un periodo trascorso presso il monastero fiorentino delle
Mantellate, Pelli è in grado di assaporare un periodo di relativa serenità, che lo vede tutto
concentrato sulle cose che lo circondano. La soddisfazione di avere ottemperato al proprio
impegno nel ricondurre «alla felicità una sfortunata innocente» pacando la voce della
coscienza, lo «trattiene in una deliziosa estasi, che riempie la sua vita presente di un contento
raro e virtuoso sopra del quale non caderà mai il dolore del rimorso».
La vita familiare è, pertanto, al centro delle preoccupazioni del diarista, che, tutto rivolto a
prospettive matrimoniali, mentre medita sulle varie specie di amore, raccoglie partecipazioni
di matrimonio, progetta un trattato sul bacio e un dizionario delle cose che non si sanno,
riflette sulla felicità e sulla tolleranza, approdando peraltro anche a meno nobili
considerazioni sui costi non metaforici ma concretamente monetari seguiti all’adozione di
Teresa, con relativo elenco dettagliato delle spese sostenute.
In questa pagina di diario, Pelli rivela il suo desiderio di far unire in matrimonio i due amati il
prima possibile. Si sente un uomo diverso da quello che era prima: ora è euforico ed
esuberante all’idea di aver creato lui stesso una nuova famiglia.
« A dì 9 detto sabato. Finalmente mi trovo altro uomo da quello, ch'ero, mi sento sgravato da
un gran peso, godo in seno un contento delizioso, ed inesprimibile. Un tenero colloquio con la
ragazza avuto questa mattina mi ha dato un piacere straordinario. Domani la conduco a
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desinare a casa, e vi resterà se vuole, altrimenti la riprenderò fra qualche giorno prima della
Pasqua, bramando passarla più placida, che non la passai nell'anno scorso. Ho fatto un debito
per medicare questo male, un altro ne farò per il corredo, pensando di stringere gli sponsali
più presto che sia possibile col Fabbroni della suddetta. Il "corto poi resterà da' piedi", ed io,
messe in sistema le cose, averò per unico pensiere quello di ammainare le vele in seno di una
famiglia creata da me per esser custodito nelle ultime ore soltanto. Questa brama è
irragionevole, delittuosa, troppo ardita, lontana dalla convenevolezza?» Serie II, Volume X,
p.1766v - Marzo 1782.
Queste pagine delle Efemeridi dimostrano la felicità e il compiacimento che Pelli prova nel
vedere Teresa e Giovanni Fabbroni insieme. Li osserva esternamente e percepisce una grande
gioia nel vedere un ritratto così perfetto dell’amore vero.
«A dì 17 detto domenica. […] Mi occupo a veder la Teresa nella sua calma scherzare senza
riserva con lo sposo. Vi è quadro più interessante, e più vero? Il pennello di un pittore
potrebbe colorirlo con più spirito, e con più energia? L'anima di due amanti si abbozza, non si
dipinge, e resta sempre qualche cosa per imprimere quella verità, che dona la natura ne' suoi
moti, nelle sue espressioni, e ne' suoi tocchi a chi vuol delinearla e chi è sensibile trova delle
bellezze di dettaglio che l'arte non sa dare.» Serie II, Volume X, p.1769 - Marzo 1782.
In questo giorno di fine Marzo 1782 Pelli si diletta a illustrare il carattere del futuro sposo di
Teresa. Confessa che nel farlo, riuscirebbe perfino a scrivere un romanzo, ma probabilmente
non sarebbe creduto ed è per questo che decide di delineare le qualità di G. Fabbroni in poche,
ma significative, parole.
«A dì 22 detto venerdì. Se io potessi descrivere il carattere del nuovo sposo della Teresa, e
disegnare certe scene che seguono comporrei un romanzo, e non sarei creduto, quantunque mi
giustifichi con delle lettere originali. Un orgoglio nobile, un'onestà che si offende del dubbio,
una passione superiore alla credenza lo rende un uomo di una tempera singolare. Io vorrei
conformarmi alle regole comuni, mi trovo sconcertato nel modo di concludere questo
matrimonio, la ragazza si trova colpita da certi sentimenti, che non sono nell'uso, e questa
straordinaria perplessità produce dei colpi di scena nuovi a quei medesimi che hanno una
massima pratica del mondo, e del sesso. Se si fissano le cose faremo un terzetto tanto raro,
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quanto la fenice, né lo crederà se non chi ne sarà bene al fatto. […]» Serie II, Volume X,
p.1771 - Marzo 1782.
Pelli annuncia con grande naturalità che il matrimonio di Teresa avverrà il prossimo
Settembre. Si intuisce da parte sua una certa tranquillità riguardo l’evento, questo perché
conosce già Giovanni Fabbroni ed i sentimenti sinceri che prova per sua figlia.
«A dì 24 detto. Domenica delle Palme. […] Sono stabilite le nozze della Teresa per il
prossimo settembre, e questo matrimonio averà degli accidenti curiosissimi, giacché ella è
un'originale, ed il Fabbroni un altro, ma tutti e due virtuosi, sensibili, e pieni di vivacità. Non
occorre, che individui i sentimenti dello sposo, benché lo meritassero per conservar la
memoria di qualche cosa singolare, e straordinaria, perché ho delle lettere che gli spiegano, ed
a suo tempo prenderò memoria delle condizioni di questo sposalizio che appariranno insolite,
e fuori dell'uso. Anzi se si potessero fare senza scrivere un verso si farebbero. Già il giovane
si è dichiarato legato, ma non vuole che sia obbligata a lui la ragazza lasciandola sempre fino
all'ultimo giorno nella sua libertà.» Serie II, Volume X, p.1772 - Marzo 1782.
Il giorno prima del matrimonio, alla presenza di testimoni e dell’avvocato, è stata fatta la
“scritta” dei futuri sposi. Pelli è contento che finalmente i due siano arrivati a questo
momento importante: il suo desiderio più grande sta per avverarsi.
«A dì 20 detto venerdì. […] Finalmente stasera in privato è stata fatta la scritta della Teresa
col signor Giovanni Fabbroni alla presenza dei signori abate Giulio Perini ed avvocato
Michele Niccolini testimoni con dote di scudi 300 in abiti, e biancherie, dichiarandosi che il di
più che alla medesima sopravenisse sieno suoi stradotali. La ragazza memore del passato, e
conscia vivamente dello stato, che va a prendere, benché non manchi di amore per lo sposo, il
quale è di lei più del credibile invaghito, e più di quello che il suo carattere, e la sua vita che
ha fatta nel mondo viaggiando l'Italia, la Francia, e l'Inghilterra, faceva sperare, ha dati dei
forti segni di estrema sensibilità, ma si è poi tranquillizzata. Io ho solo il piacere di veder
prossima l'ultimazione dei miei desideri, e sono quasi ristabilito del mio incomodo. » Serie II,
Volume X, p.1867 - Settembre 1782.
Il 21 Settembre 1782, con grande gioia da parte del padre, è arrivato il giorno del matrimonio
tra Teresa e Giovanni Fabbroni. È stato un matrimonio svoltosi in forma strettamente privata.
Il Pelli, con stupore e consolazione, ha potuto notare che sua figlia era molto tranquilla e
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serena. Il diarista pronuncia una preghiera personale, con la speranza che gli sposi siano uniti
e comprensivi l’uno con l’altra e che egli stesso sia in quiete e armonia. La figlia e il genero
danno prova della loro gratitudine e del loro attaccamento verso il Pelli e di questo egli ne è
fiero. Allo stesso tempo però egli è già timoroso riguardo il futuro degli sposi: spera che essi
siano felici, perché solo in questo modo potrà esserlo anche lui.
«A dì 21 detto sabato. […] Effettuazione degli sponsali della Teresa Ciamagnini. Stasera
privatissimamente si è sposata in Santo Stefano ad Portam Ferream mia cura, la Teresa, e si è
portata più ferma di quello, che non credevo, cosa che mi ha consolato, vedendo alla perfine
tutto finito in quiete, e che i coniugi sono andati a sacrificare ad Amore lieti, e contenti.
Queste nozze si dovevano fare nella villetta di San Francesco di Paola, che mi prestava il
senator Giovanni Federighi, ma il mio incomodo lo ha impedito, e lo sposo era scontento
dell'indugio. Un pranzo domattina a poche persone terminerà la festa. I testimoni sono stati i
medesimi che quelli della scritta. Dio feliciti questo matrimonio. Egli vede il mio cuore, vede
quello degli sposi. Conceda ad essi concordia, a me pace. Essi mi danno per ora tutte le
maggiori prove di gratitudine, e di attaccamento. Se me lo conserveranno, se si ameranno sarò
ricompensato di tante asprissime pene cocenti sofferte per quasi 18 mesi continovi. Altrimenti
non potrò sperare ricompensa se non da Dio. So ch'Egli è giusto, e lo sento, e lo intendo più di
quello, che intendo me. Se il cuore degli sposi è puro, come mi lusingo, goderanno loro stessi
della mia felicità. Se non lo è, o se non si manterrà tale averanno dei rimorsi, o prima, o poi,
ma questi rimorsi non daranno a me piacere, perché aborro la vendetta, anco quando la
malizia me la dipinge nel più dolce aspetto. Forse sono troppo timoroso, ma il timore mi ha
prodotti, e mi ha tolti dei mali. Se dovessi tornar da capo, che farei? Sapendo la fine delle
cose, poche se ne principierebbero. Dunque ha fatto bene la Provvidenza a gettare un velo
sull'avvenire, e tutto ciò che si principia con buona idea contenta questa rimembranza
assaissimo sempre.» Serie II, Volume X, p.1867v-1868 - Settembre 1782.
Pochi giorni dopo il matrimonio, i neo sposi e il Pelli sono a pranzo insieme ed egli è
entusiasta nel vedere i due che si adulano e che scherzano. È commosso nel vedere il loro
autentico amore: paragona perfino i due alle colombe.
«A dì 24 detto martedì. […] È un piacevole, e tenero spettacolo, il vedere, al pranzo
specialmente vezzeggiarsi scherzando gli sposi, e con dolci modi spiegarsi i loro sinceri
affetti, ed i loro amorosi sentimenti come fanno le colombe lussureggianti. Questi loro vezzi
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cadono sul mio cuore dolcemente vedendo l'attenzioni che mi usano, ed il massimo riguardo
che hanno per me. […]» Serie II, Volume X, p.1869v-1870 - Settembre 1782.
Teresa, divenuta libera in qualche modo dall’autorità paterna, non cambiò per questo motivo
il suo tenore di vita: fu sempre vista in compagnia del padre, ai teatri, alle feste oppure
passeggiando insieme.
Dopo quasi un anno esatto dal matrimonio, Teresa dà alla luce un maschietto: il piccolo
inizialmente non ha dato segni di vita e per questo motivo lo hanno subito battezzato. Pelli in
quei minuti ha avuto molta paura e quando il bimbo si è ripreso, egli si è sentito molto
sollevato. Ora spera soltanto che le conseguenze del parto siano buone.
«A dì 23 detto martedì. Primo parto della Teresa. Finalmente doppo le tante la Teresa ha
partorito alle dodici e tre quarti di questa mattina un maschio molto grosso, e forte, il quale è
stato subito battezzato perché per alcuni minuti non ha dati segni di vita. Essendosi Sua
Altezza Reale degnato di accettare di tenere al sacro fonte questo parto, bisognerà ora
attendere di Pisa le sue disposizioni prima di condurlo a San Giovanni. Io mi sono sentito
sollevare da un gran timore. Mi lusingo che le conseguenze del parto saranno felici. Il
suddetto dottor Moscati era volontariamente venuto con molta grazia in aiuto, essendo il
Vespa di Milano. […]» Serie II, Volume XI, p.2072 - Settembre 1783.
La preoccupazione del diarista accresce perché la figlia non sta molto bene. In questi momenti
di timore il Pelli si immagina cosa potrebbe succedere se perdesse Teresa.
«A dì 25 detto giovedì. La mia inquietudine si aumenta perché la Teresa è in qualche pericolo.
Se mai... che tetra scena si aprirebbe per me! La perdita di lei in questa età, ed in questa mia
situazione, di lei che mi costa tanti dolori, e tante pene, doppo essermela formata con delle
virtù, e con della tenera gratitudine verso di me; le smanie furiose del marito vivo, e
innamorato alla follia della sua sposa; lo sconcerto del mio piano di famiglia; l'educazione
della prole superstite sono tanti mali tormentosi che mi si dipingono vivamente
all'immaginazione per combattere la mia costanza, e la mia filosofia, per farmi sentire la
grandezza del male, l'imbarazzo in cui mi getterebbe l'assalto che dovrei soffrire. Dio voglia
risparmiarmi sì dolorosa disgrazia che fino d'adesso mi spreme le lagrime, quantunque deva
spiegare sicurezza, ed illarità. […]» Serie II, Volume XI, p.2072v-2073 - Settembre 1783.
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Il padre prova conforto e sollievo nel sapere che Teresa finalmente sta meglio e quindi ora
non è più in pericolo.
«A dì 28 detto domenica. […] La Teresa è migliorata assai» Serie II, Volume XI, p.2074v Settembre 1783.
Dopo sei giorni dal parto, il piccolo è stato battezzato e per lui è stato scelto il nome di Pietro
Leopoldo Giuseppe Alberto. Il Granduca Leopoldo, che amava e stimava il Pelli ed il
Fabbroni, volle egli stesso tenere al sacro fonte il bimbo. (15)
«A dì 29 detto lunedì.
Oggi a nome di Sua Altezza Reale e per ordine del medesimo comunicato dal suo archiatro ho
tenuto al sacro fonte il figlio della Teresa, al quale sono stati imposti i nomi di Pietro
Leopoldo Giuseppe Alberto, e domani darò discarico a Pisa dell'esecuzione dei sovrani
comandi. Tutto è andato bene, ed ora resta che la puerpera possa allattare la sua prole com'è
risoluta di fare. La medesima è andata alla chiesa senza fasce, la qual cosa, benché non sia
affatto nuova, ha suscitata della sensazione nel popolo spettatore. […]» Serie II, Volume XI,
p.2074v-2075 - Settembre 1783.
Grazie alla testimonianza di Giovanni Rosini, sappiamo che in quegli anni Teresa conduceva,
fra le mura domestiche, una vita felice e tranquilla: amatissima dal marito, adorata dal padre,
teneramente rispettata dal figlio, ammirata dai conoscenti e carissima agli amici.
Secondo Rosini nessuno poteva essere più fortunata di lei.
(15)
Leopoldo II d'Asburgo-Lorena, nato a Vienna il 5 Maggio 1747 e morto ivi il 1º Marzo
1792, fu Granduca di Toscana con il nome di (Pietro) Leopoldo I di Toscana dal 1765 al 1790
e Imperatore del Sacro Romano Impero e Re d'Ungheria e Boemia dal 1790 al 1792.
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III.2 Teresa Ciamagnini Fabbroni: lettera al padre adottivo
Nel 1802, trent'anni dopo essere adottata, Teresa esprime nelle sue lettere per il padre
un’affezione profonda, un’identificazione empatica con il suo “benefattore”: “L’amare per
gratitudine è un sentimento di dovere - scrive -, ma l’amare per istinto, l’amare … tu
m’intendi caro babbo, io so sentire, ma non so definirmi”.
La costruzione del rapporto paterno da Pelli immaginato e tenacemente perseguito era ormai
conclusa.
Teresa, progressivamente animata da un'autentica passione filiale, aveva accettato di
contenere le sue aspirazioni e la sua soggettività nei limiti da lui voluti.
«Lunedì, alle otto della mattina, 17 Maggio 1802.
Buongiorno mio caro babbo, tu sei la dolce immagine che si affaccia alla mia fantasia e che
scende subito al mio cuore, appena che io apro i lumi al giorno. Mi rammento che spesse volte
mi hai detto che questo serve di pietra di paragone per conoscere il vero dal falso amore.
Credi tu mio buon babbo che l'amor filiale non abbia come l'altro gli stessi sintomi? Secondo
di me tutto ciò che affetta l'anima deve assomigliarsi e se l'ultimo ha un carattere più
tranquillo, egli ha molta più intensità dell'altro e deve averlo per la purità e l'innocenza del suo
principio. Ah, babbo mio, che felicità è per me l'amarti. Senza amar te non potrei esistere o
l'esistenza mi diverrebbe a carico. Tu hai sviluppato la mia anima, tu gli hai fatto conoscere le
forze che aveva in essa, tu gli hai fatto distinguere il buono dal bello e attaccando al primo
l'hai resa virtuosa. Oh babbo mio, tu sei per me un nuovo creatore. Guarda quanto immensi
siano gli obblighi miei; io amo a rammertarli e non posso farlo senza che delle dolci lagrime
scendino sul mio volto. Oh dimmi babbo mio, possiamo essere noi mai infelici? No, certo.
Perché nessuno può toglierci la nostra scambievole tenerezza. Ringraziamo la provvidenza: tu
per il piacere che hai avuto nel formarmi buona e io perché ho avuto in te il migliore e
l'ottimo dei babbi.
Alle sette del giorno.
Mio caro babbo,tutti i momenti son per te, tu hai tutti i miei pensieri. Mi sveglio con te,
m'addormento con te e finalmente la tua immagine non mi lascia un momento.
Avrei mille altre cose da dirti, ma Nanni si lagnerebbe se io non gli scrivessi.
Ti lascio per trattenermi un momento con lui, ma prima t'abbraccio ben mille volte, mio caro
babbo.»
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Bibliografia
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– Bari, 2006.
BARBAGLI Marzio, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al
XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2000.
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Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2006.
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Figlie, Il Poliografo, Padova, 2010.
PASTA Renato, Scritture dell’io tra pubblico e privato, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma, 2009.
ROSINI Giovanni, Elogio di Teresa Pelli Fabroni, Co’ caratteri di Firminio Didot, Pisa,
1813.
VERRI Pietro, Manoscritto per Teresa, Serra e Riva Editori, Milano, 1983.
Sitografia
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