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MUSICLETTER
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INTERVISTA
SIMONA GRETCHEN
© ML 2011 - FREE
Musica & altri percorsi | La prima non rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VII - Update N. 77
MUSICA THE PAINS OF BEING PURE AT HEART, CHARLES BRADLEY, LOW, HOT TUNA,
YO YO MUNDI, THE SAND BAND, AA.VV. (DIRTY WATER: THE BIRTH OF PUNK ATTITUDE),
CAMILLO PACE & CONNIE VALENTINI, THE VACCINES, ACID HOUSE KINGS, LAMBCHOP,
COCTEAU TWINS, OVO, MICHAEL MONROE, RIPPINGTONS, WHITESNAKE, BEN HARPER,
CESARE BASILE, WOVENHAND, THE BLACK CROWES, JULIAN COPE, THE DEL FUEGOS,
THE STOMACHMOUTHS, BOB MARLEY & THE WAILERS, GIOVANNI LINDO FERRETTI,
AEROSMITH SPECIALI SPARKLEHORSE, JAMES BROWN RUBRICHE SIDEWAYS,
SOGNATORI DI FRODO, 10.000 WATT DAL SOTTOSUOLO FRAMMENTI DI CINEMA
RIMOSSO SEDICESIMA PARTE
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chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
Pasquale Boffoli
Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
Nicola Pice
Gianluigi Palamone
Stefano Bon
Stefano Sciortino
Costanza Savio
Rossella Spadi
Marco Tudisco
Alessandro Cardinale
Alessandro Busi
Domenico Marcelli
Laura Carrozza
Antonio Anigello
Valerio Granieri
Matteo Ghilardi
Luigi Lozzi
Alessandro Grainer
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copertina update n. 77 / 2011-04-24
SIMONA GRETCHEN | photo by Jacopo Lorenzini
ML 02
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update n. 77
sommario
MUSICA | SPECIALE INTERVISTA
04 SIMONA GRETCHEN (2011) by Jori Cherubini
MUSICA | RECENSIONI
08 THE PAINS OF BEING PURE AT HEART Belong (2011) by Nicola Pice
10 AA. VV. Dirty Water: The Birth of Punk Attitude (2011) by Franco Dimauro
11 CHARLES BRADLEY No Time For Dreaming (2011) by Nicola Guerra
12 LOW C’mon (2011) by Domenico De Gasperis
13 THE SAND BAND All Throught The Night (2011) by Luca D’Ambrosio
14 ACID HOUSE KINGS Music Sounds Better with You (2011) by Nicola Pice
15 CAMILLO PACE & CONNIE VALENTINI Uhuru Wetu (2011) by Luigi Lozzi
16 THE VACCINES What Did You Expect From The Vaccines? (2011) by Luca D’Ambrosio
17 YO YO MUNDI Munfrà (2011) by Luigi Lozzi
18 MICHAEL MONROE Sensory Overdrive (2011) by Manuel Fiorelli
19 HOT TUNA Steady As She Goes (2011) by Luigi Lozzi
21 RIPPINGTONS feat. RUSS FREEMAN Cote d’Azur (2011) by Luigi Lozzi
22 WHITESNAKE Forevermore (2011) by Manuel Fiorelli
23 OVO Cor Cordium (2011) by Antonio Anigello
24 CESARE BASILE Sette Pietre Per Tenere il Diavolo a Bada (2011) by Franco Dimauro
25 WOVENHAND The Threshingfloor (2010) by Luigi Lozzi
26 BEN HARPER Diamonds On The Inside (2003) by Laura Carrozza
28 LAMBCHOP Nixon (1992) by Luca D’Ambrosio
29 THE BLACK CROWES he Southern Harmony (2011) by Franco Dimauro
30 JULIAN COPE Saint Julian (1987) by Franco Dimauro
32 THE STOMACHMOUTHS Something Weird (1986) by Franco Dimauro
31 THE DEL FUEGOS Boston, Mass. (1985) by Franco Dimauro
31 COCTEAU TWINS Treasure (1984) by Franco Dimauro
35 BOB MARLEY & THE WAILERS Exdous (1977) Franco Dimauro
36 AEROSMITH Toys in the Attic (1975) by Franco Dimauro
MUSICA | SPECIALI
37 SPARKLEHORSE (2011) by Nicola Guerra
39 JAMES BROWN (2011) by Luigi Lozzi
MUSICA | LIVE REVIEW
42 GIOVANNI LINDO FERRETTI 03.02.2011 Estragon (Bologna) by Jori Cherubini
RUBRICHE
43 10.000 WATT DAL SOTTOSUOLO by Jori Cherubini
46 SOGNATORI DI FRODO by Stefano Bon
50 SIDEWAYS by Marco Archilletti
FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO |
SEDICESIMA PARTE
52 A CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO Elio Petri (1971) by Nicola Pice
55 SACCO E VANZETTI Giuliano Montaldo (1971) by Nicola Pice
56 SAN MICHELE AVEVA UN GALLO Paolo e Vittorio Taviani (1971) by Nicola Pice
© ML 2005-2011
BY L UCA D’AMBROSIO
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update n. 77
speciale intervista
SIMONA GRETCHEN
Una ragazza in un paese per vecchi
© 2011 di
Jori Cherubini
Non succede tutti i giorni di imbattersi in una
giovane cantante di alto spessore artistico.
Simona
Gretchen
rappresenta
una
significativa eccezione in una "scena" che
purtroppo guarda troppo all'età anagrafica.
Qualcuno potrebbe ribadire: "È la gavetta
bellezza", ma se di gavetta si tratta, Simona
sembra avere bruciato molto in fretta tutte le
tappe dell'apprendistato e i suoi ventitré anni
- ventidue al momento della pubblicazione di
quello che per adesso rimane il suo unico
disco, "Simona Pensa Troppo Forte" del 2010
- lo dimostrano in maniera lampante. Buona
lettura!
A soli ventidue anni hai pubblicato il tuo disco d'esordio "Gretchen pensa troppo forte",
ricevendo numerosi apprezzamenti da parte della stampa specializzata e del pubblico
"indie". Ti aspettavi questo clamore?
No, speravo in qualche buona risposta, ma si è decisamente verificata una situazione che non
avevo previsto.
Simona Darchini è il tuo vero nome, perché "Gretchen"?
Volevo citare "Gretchen am Spinnrade", lied di Schubert il cui testo porta la firma di Goethe.
Gretchen è una figura femminile che accompagna le vicende del "Faust", e che in questo lied
diventa protagonista.
Parlami della gestazione del disco.
I brani sono stati scritti nel 2008, in pochi mesi. Solo Alpha Ouverture e Fockus sono entrati
nell'album in fase di registrazione (luglio 2009).
Quando hai capito che cantare sarebbe stata la tua strada; come hai proceduto per
realizzare il tuo sogno?
La mia strada? Magari non è neppure cantare. È buffo come appena pubblichi un disco si pensi
automaticamente che la tua realtà (artistica e soprattutto non) non ruoti che intorno a questo. È
una proiezione molto distante dalla realtà, in molti casi. Per risponderti senza andar troppo fuori
tema: il punto non è il canto. Certo è che la musica da dieci anni è una costante per me, e che ho
suonato in varie band prima che nascesse Gretchen. Stavolta ho voluto aggiungere un tassello:
scrivere testi e cantarli io stessa. Ci ho provato. A volte vuoi semplicemente sperimentare una
cosa e stare a vedere l'effetto che genera su te e sugli altri. Tutto qui.
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speciale intervista: simona gretchen
I
testi
sono
forti,
pensanti,
viscerali
e
talvolta riflessivi, la tua voce arde come un
fuoco
acceso:
da
dove
scaturisce
tanta
energia?
Dal fatto che ero appena riemersa dal fondo, in un
certo senso. Era un momento insieme di rabbia e
lucidità ritrovata.
Gli
strumenti
che
hai
usato
per
le
registrazioni sono principalmente chitarre,
pianoforte e basso. Non si trovano buoni
batteristi in giro?
Non se ne trovano così tanti, ma ce ne sono di
straordinari! No, in questo disco non c'è la batteria
per un preciso intento: concentrarsi su altri aspetti
e lasciare l'aspetto "ritmico" alle linee di basso o
alla declamazione. Questo non è però da prendersi
come una sorta di marchio di fabbrica, già nel
singolo in uscita a maggio la batteria c'è eccome, e le sonorità sono distanti da quelle di
"Gretchen pensa troppo forte".
Cos'è per Simona il successo, e quando puoi dire di averlo raggiunto in un paese come il
nostro che dal punto di vista musicale dipende dalla diffusione di fatiscenze televisive
come “Amici”?
Esistono livelli diversi di successo. Quello cui posso aspirare io è di nicchia, in ogni caso. E mi sta
benissimo. Se gente come me scrive non lo fa certo pensando alla fama (e non sono mai stata
povera come ora, tanto per dirne una). Circa le "fatiscenze televisive" credo siano quel che ci
meritiamo. Chi non le merita nello specifico non se ne cura e guarda avanti.
Leggendo le molte recensioni sparse per il web succede sovente di imbattersi nel nome
di Cristina Donà o di Ferretti (epoca "Fedeli alla Linea"). Io tirerei in ballo anche Nada.
In realtà, quali sono i dischi che hai ascoltato fino alla nausea e la musica con la quale
sei cresciuta?
Sono molto più legata a Nada che a Ferretti o a Cristina Donà, per quanto abbia apprezzato molta
parte del loro percorso, ma Nada ha qualcosa di
speciale. Non è un caso che la citi spesso,
insieme a PJ Harvey e Nico, quando mi si chiede dei miei riferimenti al femminile. Dischi che ho
ascoltato fino alla nausea sono stati per esempio quelli di Radiohead, Melvins, Leonard Cohen,
Sonic Youth, Doors, Patti Smith.
I testi sembrano più maturi dei tuoi vent’anni, come funziona la fase di scrittura e
quanto tempo le dedichi?
Fockus l'ho scritta in venti minuti, musica compresa. Altri brani hanno raggiunto una loro
"stabilità" dopo un paio di mesi. Non c'è una risposta a questa domanda: ogni testo ha davvero
una storia a sé.
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update n. 76
speciale intervista: simona gretchen
Allora ti faccio una domanda di routine sulla
situazione musicale (indipendente) italiana: se
si può parlare di "scena" chi ne fa parte e chi,
di conseguenza, ne viene escluso. Quali artisti
preferisci?
Critica e pubblico decidono se ne sei parte o meno;
ti legittimano o no come artista. Tu non fai altro che
presentare la tua "lettura" della situazione, dei
tempi, delle tensioni e dei sentimenti che respiri
nell'aria. Mi piacciono molto i live degli Aucan, per
esempio, chi osa con ironia come i Mariposa, chi
sfoggia perizia tecnica senza mai prendersi troppo
sul serio, come gli Zeus!, Enrico Gabrielli, Bologna
Violenta.
Trovo
Grazian
un
ottimo
autore
e
arrangiatore e trovo che gli Zen Circus e Capovilla
siano nati per stare sul palco. Samuel Katarro è
talmente avanti per questo paese per vecchi che
non è apprezzato un decimo di quanto meriterebbe.
C'è molto di buono nella scena indipendente.
Durante la scorsa edizione del M.E.I ti è stato consegnato il premio "Fuori dal Mucchio",
riservato al miglior esordio italiano dell'anno. Riconoscimento che in passato è stato
assegnato a gruppi che poi sono diventati importanti come, per citarne alcuni,
Baustelle, Luci della Centrale Elettrica e Offlaga Disco Pax. Lo vedi come un buon
auspicio?
Si prova una bella sensazione; e sto senza dubbio in buona compagnia. Ma preferisco pensarci il
meno possibile e concentrarmi su cosa farò dei miei prossimi dieci minuti.
Dimmi qualcosa dei tuoi concerti, come ti avvicini emotivamente al palco e come
reagisce il pubblico?
Il live per me ha un fine fondamentalmente catartico, più riesci a essere fuori da te stesso più
forti sono la sensazione e l'effetto che ne derivano. La reazione del pubblico è ovviamente una
delle prime concause, quando si raggiunge un buon risultato. Su quella si ha ben poco potere. Ho
visto dalle venti persone perplesse alle tre o quattrocento ben sintonizzate. Guai se tutti
impazzissero per me, sarebbe un pessimo segno. Quel che cerco di fare è garantire un buono
spettacolo in qualsiasi circostanza, indifferentemente dalla risposta della gente o dal mio stato
psicofisico.
Ultimamente succede di accendere la tv e vedere artisti apparentemente indissolubili e
provenienti dall'underground, come Afterhours o La Crus, calpestare con nonchalance il
palco dell'Ariston. Se ti va puoi parlarmi male del Festival e tra dieci anni cambiare idea
e andare a Sanremo.
Io non sono gli Afterhours o La Crus. I quali fanno quel che ritengono più opportuno per loro,
immagino.
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update n. 76
speciale intervista: simona gretchen
Passiamo a un’altra domanda. Come organizzi il lavoro con
Nicola Manzan, Gianluca lo Presti e in generale con i tuoi
collaboratori e musicisti?
Con Lorenzo Montanà e Gianluca Lo Presti collaboro da un paio d'anni,
sono persone con cui spero di continuare a lavorare e di cui mi fido.
Nicola Manzan è un musicista che ammiro moltissimo e un amico, ha
collaborato agli arrangiamenti di Gretchen pensa troppo forte e nel
caso capitassero occasione e possibilità mi farebbe solo felice riaverlo
in studio in un prossimo lavoro.
A maggio darai alle stampe un sette pollici contenente un brano inedito intitolato "Venti
e tre" e la cover di "Venus in furs". Oltre al suddetto singolo cosa dobbiamo aspettarci
in futuro da Simona Gretchen?
O un secondo disco o la lotta armata, al momento mi sembrano le due ipotesi più ragionevoli.
Scherzi a parte, torno ora da quattro giorni di pace e buona conversazione sull'isola di Krk
(Croazia, ndr), e al momento ho un'unica spinta: apprendere nuove cose e metterle a frutto.
Vedrò se sarà possibile farlo anche nella musica. Per ora buon "Venti e tre" a tutti, esce a metà
maggio.
SIMONA GRETCHEN: www.myspace.com/simonagretchen
Foto di Alessio Cavallucci (pag. 4 e 6) e Jacopo Lorenzini (pag. 7)
Intervista di Jori Cherubini | www.musicletter.it
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musica
ARTIST: THE PAINS OF BEING PURE AT HEART
TITLE:
Belong
LABEL:
Fortuna Pop/ Play it again Sam
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.thepainsofbeingpureatheart.com
MLVOTE: 10/10
Quali sono gli ingredienti necessari per rendere un disco indimenticabile? Domanda che
probabilmente ogni discografico si pone per motivazioni puramente commerciali se non fosse che
nell’era della libera (e digitale) fruizione musicale (non sappiamo, però, fino a quando visti i
sempre più numerosi tentativi di ingabbiare la rete in una serie di divieti censori sotto le mentite
spoglie di una regolamentazione impossibile da realizzare nei fatti) promuovere un disco è
semplice e veloce ma farne un prodotto di successo ad alto numero di copie vendute è impresa
titanica, legata a motivazioni sfuggenti che, nella maggior parte, dei casi attengono la sfera
dell’aleatorietà modaiola. Bisognerebbe anche intendersi, poi, sul significato del parola “successo”
per non rimanere delusi dagli esiti successivi dell’opera. È più importante, infatti, che un disco
abbia un buon riscontro commerciale o che, piuttosto, lasci un segno nelle coscienze del pubblico,
indicando magari una strada sonora da seguire? O le due opzioni, in realtà, sono strettamente
connesse? Un musicista si preoccupa dell’impatto che avranno i suoi brani sugli ascoltatori ma,
senza dubbio alcuno, è mosso principalmente dall’urgenza creativo-compositiva e dalla necessità,
dopo, di comunicare al pubblico il frutto del suo lavoro: vendere una copia in più o in meno può
essere importante per chi ha deciso di fare della musica il suo lavoro ma nell’internet-era è un
problema ormai marginale. Anche i Pains Of Being Pure At Heart, siatene certi, avranno
pensato solo a scrivere canzoni e a migliorarsi complessivamente come musicisti: una piccola
band di formazione indie-pop, infatti, può sperare mai in una penetrazione commerciale su larga
scala? E, dunque, non è dato sapere se Belong – che segue l’omonimo esordio del 2009 – scalerà
qualcuna delle innumerevoli classifiche di qualche paese ma è incontrovertibilmente un disco
“indimenticabile”. Le motivazioni sono misteriose (e questo risponde al quesito iniziale) e, ad
avviso di chi scrive, attribuibili ad una concatenazione di eventi fortuiti. Certamente la sontuosa
produzione – affidata a Flood, già collaboratore di Depeche Mode e Smashing Pumpkins tra
gli altri, e ad Alan Moulder (The Jesus And Mary Chain e My Bloody Valentine) – ha giocato un
ruolo importante nella definizione di un sound dal sapore particolarissimo ma la maturazione di
Kip Berman (voce, chitarra), Peggy Wang (tastiere, voce), Alex Naidus (basso) e Kurt
Feldman (batteria) è stata determinante e del tutto evidente. I Pains Of Being Pure At Heart
hanno confezionato, infatti, un disco che con maestria impasta in un wall of sound di feedback
dolcissimi e, al contempo, energici, le melodie sognanti delle british band più shoegazing degli
anni ’80 e ’90 con il twee pop della Sarah Records, la new wave eighties al college rock americano
in una mescola finale che miracolosamente ci offre una sorta di nuova via alla musica alternativa
in cui l’indie pop (più mieloso) convive con l’indie rock (più rumoroso) e fluisce senza sbavature
accontentando gli estimatori dell’uno e dell’altro genere.
ML 08
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musica: the pains of being pure at eart
L’apertura che dà il nome al disco - Belong - è la dimostrazione eloquente della sua eccezionalità:
un melànge di robusti riff e tastiere malinconiche che evocano i fantasmi di Mellon Collie and
The Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins, evidente fonte d’ispirazione per la band
americana soprattutto nell’approccio chitarristico e nel drumming. Una stratificazione mirabile che
funge da biglietto da visita sonoro a cui segue Heaven’s Gonna Happen Now in cui le dolcezze
vocali alla Field Mice sono strapazzate da distorsioni in puro stile Pixies per lasciare il campo a
Heart In Your Heartbreak e alla sua ritmica new wave che rimanda ai Cure di Wish. Le ubbie
esistenziali di The Body sono spalmate con tastiere di matrice New Order e feedback alla Jesus
and Mary Chain (altro feticcio per i musicisti americani) mentre Anne with an E (come pure Too
Tough più in là nel disco) è fedele all’antico background indie pop della band, molto simile alle
sonorità che resero celebre quella piccola casa discografica di Bristol, un tantino più satura grazie
a geometrie chitarristiche un po’ Ride un po’ Lush. S’arriva, quindi, a Even in Dreams, ottimo
esercizio pop speziato indie rock, che prepara il campo a My terrible friend, il brano kick in the
teeth dell’anno, dove le vocine candide di Kip (e forse di Penny tra i reverberi?) usignoleggiano su
emulsioni ritmiche new wave e schitarrate elettroacustiche come se i “Cure” di “ Close to me”
tentassero di imitare i New Order. Poco più di tre minuti che rimangono nelle orecchie a lungo e
che la velocità garage di Girls of 1000 Dreams e la delicatezza dream pop di Strange non sono
sufficienti a scacciare. Rimane alla fine del disco una sensazione di piacevole e soddisfatto
inebetimento sonoro, la consapevolezza d’aver ascoltato un disco di assoluta bellezza che alla
qualità musicale eccelsa unisce una profondità di scrittura notevole che lo rende un piccolo
compedio di malinconie post-giovanili, la storia del faticoso percorso che tra amori infranti e
precarietà assortite ci porta ad essere (forse) uomini e donne. Rimane alla fine dell’ascolto la
certezza che Belong sia un capolavoro, il disco più bello dell’anno. Rimane e non va più via.
Nicola Pice
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musica
ARTIST: AA. VV.
TITLE:
Dirty Water: The Birth of Punk Attitude
LABEL:
Fantastic Voyage
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.futurenoisemusic.com
MLVOTE: 9/10
È il 1977 quando Tony Stratton-Smith consegna nelle mani di Kris Needs il suo magazine, in
realtà fondato da Pete Frame nel 1969 in pieno fermento studentesco e civile. Stratton-Smith
aveva guidato ZigZag attraverso le strade buie degli anni Settanta, durante un quadriennio dove
la musica giovane era diventata pingue ed intellettuale: vecchia. Ma nel ’77 succede qualcosa,
qualcosa
che
tutti
adesso
conoscete,
qualcosa
che
è
stato
sviscerato,
storicizzato,
enciclopedizzato, wikipediato e anche stereotipato ma che in quel preciso momento sta
cambiando la faccia dell’Inghilterra. Di nuovo. Più della beatlemania. Con ancora più violenza, con
nessuna riverenza verso i monarchi e le autorità costituite. È il punk, che corrode tutto e sovverte
le regole del bello, dell’ utile, del dilettevole. ZigZag ha bisogno di una nuova guida. Ha bisogno di
qualcuno che sia completamente dentro quella cultura. Che ne capisca le radici, che possa
decifrarne i codici, che riesca a documentarne la forza devastatrice. Quell’uomo è Kris Needs.
Kris è uno che scrive del punk. Anzi, Kris è uno che scrive punk. È uno che sa vedere oltre.
Perché dietro i tre accordi con cui molti per comodità ingabbiano il concetto etico e stilistico del
punk c’è una vera e propria “attitudine” che rischia di passare inosservata, oscurata dalle
manifestazioni eccessive del movimento. Un’ attitudine che Needs, scavando nel suo mondo di
carta e vinile, riesce a trovare in posti, luoghi e radici diverse. Nella storia assurda di Sun Ra
come in quella depravata degli Stooges, in quella cerebrale dei Can come in quella violenta dei
Suicide, in quella volgarmente popolare dei Mott The Hoople così come in quella anarchica dei
Pink Fairies, in quella politica dei Last Poets quanto in quella rasta dei Culture o quella
restauratrice dei Dr. Feelgood. Follia e caos, audacia e immoralità, iconoclastia, trasgressione e
belligeranza. Un concetto di eversione che Kris ben riassume nel corposo libretto (76 pagine) e
nei due CD che compongono Dirty Water: The Birth of Punk Attitude, una compilation punk
senza pezzi punk. Un viaggio nei gironi dell’ Inferno del rock ‘n’ roll. E del jazz. E del reggae. E del
kraut-rock. Ecco, se distinguiamo ancora per generi e sottogeneri, allora abbiamo ancora bisogno
di dischi come questo. Abbiamo ancora bisogno di “attitudine punk”. Abbiamo ancora bisogno di
sputare dalle finestre senza guardare chi passa sotto. Abbiamo ancora bisogno di bere acqua
sporca.
Franco Dimauro
ML 10
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update n. 77
musica
ARTIST: CHARLES BRADLEY
TITLE:
No Time For Dreaming
LABEL:
Dunham Records
RELEASE: 2000
WEBSITE:
www. thecharlesbradley.com
MLVOTE: 8,5/10
La storia è di quelle che vorresti sempre sentire. Il disco in questione anche. Originario di New
York (Brooklyn), Charles Bradley (oggi più che sessantenne) viene in giovane età folgorato
sulla via di damasco da
un
live
ad Harlem di
Mr. Dinamite James Brown. Lì decide di
diventare un cantante di musica soul, costi quel che costi. Ma si sa che gli scherzi della vita
spesso sono più beffardi della vita stessa; si ritrova così con un sogno nel cassetto e una
particolare attenzione verso i lavori difficili che però fanno vivere
e
lentamente
gonfiano
l’anima. Già me lo vedo, Charles, con l’età che avanza, il tempo che scorre e la consapevolezza
di aver perso gli anni migliori. Continua così a lavorare in un ristorante e fra un piatto di
hamburger ben cotti e un caffè lungo come l’attesa accade che qualcuno che con la musica soul ci
vive scorge il classico talento nascosto. La Dunham, che lavora gomito a gomito con il laboratorio
funky/soul Daptone (fucina di talenti che cerca di portare in auge certe sonorità “calde” anni 70
in ambito black) affianca il nostro a Tom Brenneck (Budos Band e Dap-Kings) e alla maestria
della Menahan Strett Band e ciò che ne scaturisce è questo disco antico e al contempo
modernissimo e ispirato. Immaginate tutta l’esperienza accumulata negli anni, la possibilità di
poter buttar fuori sofferenze, umiliazioni, gioie e dolori e una capacità innata nell’interpretare i
tempi che furono perché vissuti realmente e intensamente. Se aggiungiamo che il cantato di
Bradley oscilla fra l’emotività di Marvin Gaye (Lovin You, Baby), la potenza di James Brown
(Golden Rule, No Time For Dreaming) e la classe sopraffina di Otis Redding e Al Green
(Heartaches And Pain, Why Is It So Hard) non possiamo fare altro che goderci questa manna dal
cielo. Che a dispetto del titolo è davvero un sogno per il quale avremmo aspettato tutto il tempo
di questo mondo.
Nicola Guerra
ML 11
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update n. 77
musica
ARTIST: LOW
TITLE:
C’mon
LABEL:
Sub Pop
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.chairkickers.com
MLVOTE: 8,5/10
In questa fase della stagione primaverile verrebbe voglia di sentire canzoni vivaci ed
effervescenti, capaci di scrollarci di dosso il torpore lasciato da un lungo e uggioso inverno. Dando
seguito a tali sentimenti sale forte il desiderio di commentare Belong dei Pains of Being Pure
at Heart, può essere il disco perfetto. Sarà per la prossima volta giacché in questo momento
l’udito e il cuore del sottoscritto sono completamente rapiti dalle ultime dieci canzoni del trio del
Minnesota. I Low rappresentano da diciassette anni qualcosa di assolutamente unico nell’universo
della musica rock. Suoni lenti e dolenti, tedio e trascendenza come celebrazione spirituale della
nostra esistenza, consapevolezza politica verso certi personaggi potenti e negativi per le sorti
dell’umanità (esplicativa in tal senso è la traduzione in italiano dei titoli degli ultimi due album: il
grande distruttore e tamburi e pistole) e una capacità rara di trasportarci in una dimensione
onirica liberandoci dai peggiori incubi attraverso una sorta di rito catartico. Una musica evocativa
e minimalista come nessun’altra e allo stesso tempo idonea a trasmettere quel senso di
benessere immateriale che solo l’arte con la “A” maiuscola è in grado di donare. In C’mon c’è
meno folk rispetto a Things We Lost in the Fire e non è grondante di quelle atmosfere depresse
e tenebrose presenti in Trust; le canzoni hanno una minore vocazione al pop e al rock se
confrontate a The Great Destroyer e scompare l’elettronica contenuta nel controverso Drums
And Guns. È sicuramente il loro album meno indie e alternativo ma la sua apparente classicità
non sfocia mai in sonorità convenzionali e stereotipate: un pozzo delle meraviglie da dove è
possibile attingere melodie solenni (Especially Me e Nothing But Heart), ballate impeccabili (Try to
Sleep), composizioni dalla profonda spiritualità (Done e Nightingale), frammenti di pop celestiale
come You See Everything e la tenerissima supplica di $20.
Con C’mon il gruppo di Duluth
realizza il capolavoro definitivo che li pone tra le migliori espressioni della musica popolare
americana degli ultimi vent’anni. Ascoltare i loro brani non riporta alla mente nessun altro se non
i Low, consolidando in questo modo un personale marchio di fabbrica prerogativa solo dei più
grandi.
Domenico De Gasperis
ML 12
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update n. 77
musica
ARTIST: THE SAND BAND
TITLE:
All Throught The Night
LABEL:
Go To Hell / Deltasonic
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.myspace.com/thesandband
MLVOTE: 8/10
All Throught The Night è il disco giusto nel momento sbagliato. Il classico album che avremmo
dovuto ascoltare o, meglio ancora, che avremmo dovuto scoprire in autunno o in inverno e non in
questo soleggiato e terso inizio di primavera. Sappiamo benissimo però che le stagioni della vita
difficilmente corrispondono a quelle astronomiche. Ecco quindi che, nel pieno del risveglio della
natura, ci si ritrova immersi nelle atmosfere malinconiche e cupe di questo fulminante esordio
sulla lunga distanza dei Band Sand, formazione di Liverpool guidata dal produttore e songwriter
David McDonnell che mette su una manciata di canzoni di una purezza melodica davvero unica.
Brani che sembrano essere usciti tanto dal repertorio dei Calexico quanto da quello di Elliott
Smith o di Sparklehorse, ma che in realtà racchiudono quell’intimità tipica di Leonard Cohen e
quegli spleen acustici cari a Mark Eitzel e a i suoi American Music Club. Di paragoni e di
riferimenti se ne potrebbero fare ancora molti, ma non è certamente nostra intenzione continuare
questo gioco perverso dei confronti e dei rimandi. Ciò che più ci preme sottolineare, invece, è la
struggente poesia di gemme come Set Free, Secret Chord, Someday the Sky e Burn This
House/Hourglass che svelano appassionatamente, sulla falsariga di Nick Drake, il lato oscuro e
catartico dell’amore. Un condensato di musica folk, pop e persino di riverberi vagamente
psichedelici da ascoltare preferibilmente in autunno o, quantomeno, col calare della notte, quando
tutto intorno smette di far rumore.
Luca D’Ambrosio
ML 3
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update n. 77
musica
ARTIST: ACID HOUSE KINGS
TITLE:
Music Sounds Better with You
LABEL:
Labrador Records
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.acidhousekings.com
MLVOTE: 9/10
La pubblicazione di un disco degli Acid House Kings costituisce per chi vi scrive un piccolo
evento dovuto non solo alla passione per la musica indie scandinava ma soprattutto alla credibilità
che questa band ha acquisto nel corso degli anni nell’ambito del panorama pop. Nel corso d’una
carriera ormai quasi ventennale “i re acidi”, infatti, hanno saputo ridefinire il senso stesso
dell’indie pop elaborando un sound che racchiude mirabilmente tutte le molteplici caratteristiche
di questo genere. Non tantissimi dischi (Music Sounds Better with You è il quinto) ma tutti
(soprattutto gli ultimi tre a chiudere una trilogia iniziata nel 2002 con l’indimenticato Mondays
Are Like Tuesdays and Tuesdays Are Like Wednesdays) confezionati con certosina cura per
il dettaglio sonoro. Reserche della perfezione che di fatto pone gli Acid House Kings al di fuori
del recinto indie in cui si pretenderebbe di collocarli. La maniacalità per gli arrangiamenti, un
sound che si offre come un unicum compatto pur nella miriade degli espliciti rimandi, il gusto per
la melodia che si incastri perfettamente nel format classico della canzone popolare (introduzione,
strofa, ritornello, strofa, ritornello) non sono certamente (o lo sono solo in parte) le caratteristiche
del lo-fi indie pop nato negli anni ’80 in Inghilterra e sviluppatosi poi nel resto del mondo (Svezia
compresa) caratterizzato da povertà produttiva e approssimazione compositiva (compensata,
però, da ispirata immediatezza). In realtà, ciò che lega la band di Stoccolma a quel mondo è nella variante twee-pop della cui estetica sono portabandiera - l’amore per i gruppi vocali degli
anni ’60 e l’attitudine, al di là della precisione, alla semplicità (anche nella scrittura) che cristallizzi
un mondo sonoro in cui i brani seguino – come nella vita – un’alternanza emotiva di allegria
contagiosa e momenti più malinconici. Music Sounds Better with You, però, supera la semplice
caratterizzazione indie-pop presentandosi come un centrifugato di tutte le sue varianti più celebri:
l’effervescenza bubblegum delle band della Siesta o della Elefant, la naivitè di Pelle Carlberg,
l’understatment autoironico di Jens Lekman, l’universo Sarah Records fino a tangere le sonorità
dei Belle & Sebastian e dei Camera Obscura, campioni scozzesi del pop indipendente degli
anni ’90 che più d’un debito vanta nei confronti della “anorak scene”. Are we lovers or are we
friends? che apre l’opera potrebbe essere il manifesto del pianeta sonoro degli Acid House
Kings: una melodia appiccicosa che con i suoi cori disegna un’atmosfera festaiola nella migliore
tradizione svedese ma che qua e là maschera un’inquietudine tipica delle bands britanniche. Il
resto del disco si presenta su questa stessa cifra sonora offrendoci, però, delle varianti
sorprendenti: l’handclapping su un tappetto di tastiere di Windshield, lo shoegazing di Under
Water, i delicati arrangiamenti d’archi e tastiere della deliziosa (I'm In) A Chorus Line, la lussuria
tanghera delle nacchere e della chitarra classica di “Where have you been”, l’uptempo di There Is
Something Beautiful, il pop folkeggiante con contorno di fiati in I Just Called to Say Jag Älskar
Dig, l’evergreen di Heaven knows I miss him now (pura stupefazione Abba). Dobbiamo essere
grati, dunque, a Niklas e Johan Angergård e a Julia Lannerheim per un disco di tale spessore
musicale, allo sforzo che ogni volta compiono (con eccelsi risultati) per regalarci qualcosa che si
avvicini alla “perfect pop song” e che, pertanto, (questa è la missione del pop) possa donarci la
felicità (sonora).
Nicola Pice
ML 14
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: CAMILLO PACE & CONNIE VALENTINI
TITLE:
Uhuru Wetu – The Music Of Bob Marley
LABEL:
Koiné/Dodicilune
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.dodicilune.it
MLVOTE: 8/10
Dal Salento giungono da tempo i segnali più importanti in fatto di novità e freschezza dei
messaggi in musica. Benemerita in questo senso l’attività dell’etichetta Dodicilune (nata nel 1995
e gestita con indubbia qualità da Maurizio Bizzocchetti) che ha raccolto intorno a sé una serie
di giovani artisti di grandi speranze e buona personalità e sta provvedendo a codificare un
linguaggio riconoscibile nell’ambito delle possibili contaminazioni tra la cultura del territorio e
musiche consolidate di estrazione altra. Molti i titoli in catalogo da qualche anno a questa parte progetti attraverso i quali si respira aria nuova e la volontà sincera di scardinare abitudini
discografiche stantie e corrive – e tra gli ultimi realizzati questo omaggio alle musiche di Bob
Marley, rivisitate in un inconfondibile abbrivio jazz, stilato dal contrabbassista Camillo Pace
assieme alla vocalist Connie Valentini. Un progetto stimolante che i due titolari hanno concepito,
modellato, portato a lungo in giro dal vivo e rifinito nell’arco di un triennio, immaginandolo ideale
per una combinazione minimalista (e senza orchestrazioni) composta da voce e basso. In sala di
registrazione (il disco è stato registrato al Sorriso Studio di Tommy Cavalieri, a Bari, e
completamente arrangiato da Camillo Pace) invece il parco musicisti si è ampliato e le sonorità
nel loro complesso si sono fatte ancor più raffinate, meglio visibili a platee più variegate. Altri
strumenti e altri artisti a ruotare intorno al nucleo di base: il trombettista Marco Tamburini, il
sax soprano Roberto Ottaviano, il chitarrista barese Nando Di Modugno, il percussionista Pippo
“Ark” D’Ambrosio, il trombettista Vincenzo Deluci, le voci afro di Nyamal Anthony Mukoko
e Likono Alexaner Ashivaka. Uhuru Wetu, letteralmente “La Nostra Libertà”, si compone di
otto suggestive tracce (per quarantadue minuti di musica) di cui sei tratte dal repertorio
dell’indimenticato artista giamaicano (I Shot the Sheriff, Get Up Stand Up, One Love/People Get
Ready, Jamming e Redemption Song, No Woman No Cry), che suonano come omaggio a Marley
e – per lo spirito che le anima - tributo al sound africano più in generale (sfumature sonore che
partono dall'Africa, attraversano l'ultimo secolo di musica e si intrecciano al jazz, al blues e al
reggae), l’unica originale, la delicata Il Volo dell’Angelo, interpretata in italiano, e la celebre
Hallelujah di Leonard Cohen. Insomma la musica che supera gli steccati e diventa elemento
distintivo di comunicazione tra culture diverse; idea primaria di libertà fra tutti i popoli. Questo il
messaggio da raccogliere all’ascolto di un disco mirabile com’è questo.
Luigi Lozzi
ML 15
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: THE VACCINES
TITLE:
What Did You Expect From The Vaccines?
LABEL:
Columbia Records
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.myspace.com/thevaccines
MLVOTE: 8/10
Di riferimenti new wave e in particolar modo post-punk dentro il debutto dei Vaccines ce ne sono
così tanti da farci girare la testa. Fortunatamente però Justin Young e soci hanno le idee ben
chiare e nel giro di poco più di trentacinque minuti riescono a metterle in ordine, realizzando
un’opera prima estremamente folgorante che va al di là del semplice esercizio di stile o del solito
revival fine anni ’70 e inizi anni ’80. What Did You Expect From The Vaccines? è difatti uno
dei più bei “dischetti” del 2011 che ci sia capitato di ascoltare, e non siamo di certo i primi a dirlo
visto che è riuscito a conquistare in pochissimo tempo classifiche e critiche positive un po’
ovunque. Trattasi infatti di roba orecchiabile e “già sentita”, tuttavia degna degli esordi di gruppi
come Strokes, Franz Ferdinand, Fanfarlo, Pains Of Being Of Pure At Heart e Motorama
ma anche dei migliori lavori a firma Interpol e National, così, giusto per farci un’idea. Quello dei
britannici Vaccines è un background culturale che affonda le proprie radici in quel fertilissimo
substrato musicale composto dai Joy Division, gli Smiths, i Jesus and Mary Chain e persino i
Clash e i Ramones, e il risultato è a dir poco sorprendente. Eccezion fatta per la traccia
fantasma Who are you (unica ballata acustica dell’intero lavoro), quelle messe in lista dalla
formazione londinese sono undici irresistibili hit da ascoltare in ogni luogo (in macchina, in casa,
in cantina, in discoteca, al pub, al bar, in metropolitana…) ma soprattutto quando avvertite il
desiderio di non pensare a una benemerita mazza. Un album che ha la capacità di liberare la
mente e il corpo attraverso canzoni di “primo pelo” che non hanno alcuna presunzione se non
quella di sputare fuori rabbia, amore e sentimento ma più di ogni altra cosa quella
“stramaledetta” voglia di suonare e di divertirsi, a partire dall’iniziale Wreckin' Bar (Ra Ra Ra)
fatta di coretti sixties, chitarre elettriche e un incalzante quanto fulminante incedere di batteria.
Un brano che schiude la strada a frammenti deflagranti come If You Wanna e Nørgaard che
difficilmente non riuscirete a canticchiare o a ballare, neanche se vi dovessero imbavagliare o
legare le mani e i piedi. Insomma, per farla breve, What Did You Expect From The Vaccines?
è un disco da tenere sempre a portata di mano e da ascoltare specialmente nei momenti di
“scazzo totale”, anche quando i vostri amici più indie vi faranno notare che lo stanno passando
mattina e sera su Virgin Radio, perché basterà dire loro: “Beh, ragazzi, cosa vi aspettavate dai
Vaccines?”
Luca D’Ambrosio
ML 16
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: YO YO MUNDI
TITLE:
Munfrà
LABEL:
Felmay/Egea
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.yoyomundi.it
MLVOTE: 8/10
Un disco ricco di melodie e timbriche, gioioso e triste, così sorprendentemente fresco che sembra
impossibile sia stato realizzato nel nostro paese. Un regalo inaspettato per chi amerebbe vedere
più prodotti originali partoriti dalle nostre italiche parti. Leggere la lista di tutti coloro (39, troppo
lungo elencarli tutti e riduttivo indicarne solo alcuni) che con la loro partecipazione in qualità di
ospiti hanno contribuito alla realizzazione di questo disco rinfranca il cuore ed apre ampi margini
di fiducia sui destini (percorribili) della nostra musica. Da tempo vado (umilmente) ribadendo il
concetto (del tutto personale, epperciò opinabile) che il rock è un genere musicale che non
appartiene alla cultura del nostro paese, ed abbracciarne i dettami è del tutto anacronistico e
fuori tempo. È dal nostro antico background popolare che vanno fatti emergere gli elementi sui
quali costruire le basi per un futuro di credibilità e di contaminazione cosmopolita. I piemontesi
Yo Yo Mundi – gliene rendiamo merito – operano in questa direzione e sappiate sono giunti, con
questo, al loro decimo album. Hanno recuperato espressioni culturali della loro terra, il
Monferrato, storie e
leggende trasformate in
canzoni
e cantate nel
dialetto originario
(raccogliendo “frammenti di racconti minimi tra gli accadimenti della storia”; sono parole dei
componendi il gruppo). Un’operazione che ricorda da vicino quella condotta molti anni fa da
Fabrizio De Andrè nei confronti della musica sarda. Nel disco, sedici brani composti e suonati dal
quintetto con una ricca partecipazione (come detto) di ospiti di prim’ordine: Hevia, Sergio
Berardo, Fabio Rinaudo, Betti Zambruno, Filippo Gambetta, Vincenzo Zitello, Stefano
Valla. La title track d’apertura è un convincente strumentale corroborato dall’utilizzo di
fisarmonica, violino, harmonium, tin whistle, ghironda e quant’altro, e stabilisce subito lo “spazio
musicale” nel quale si colloca tutto il disco. Che per molti versi (lingua a parte) si riallaccia a
sonorità e atmosfere vagamente celtiche (come in Dùma ch’andùma o Arcanssél) o a quelle
tipiche feste di paese delle quali si va perdendo la memoria. Prego, fare propria la malinconica
bellezza di “La ballata del tempo del sogno” (che ha come vocalist ospite Eugenio Finardi), in cui
si racconta della leggenda medievale di Aleramo e Alasia che ha portato alla nascita del
Monferrato. Altro momento topico del disco, sia per la musica che per il lirismo del testo, è Il
grande libro dell’ombra, un pezzo cantautorale di grande atmosfera con un testo splendido,
corroborato da sonorità irish (cornamuse e tin whistle). Il feeling tra Piemonte e Irlanda non si
esaurisce qui ma stende le sue braccia anche su Na Béla Còrba e Nìule, canzoni dedicate a Luigi
Tenco. Non è un caso che sia stata scelta la data del 21 marzo, primo giorno di primavera –
simbolicamente il “risveglio della terra” -, per la pubblicazione di Munfrà. Paolo Conte, che
questi posti li conosce bene, ha provveduto a scrivere un’affettuosa introduzione al CD.
Luigi Lozzi
ML 17
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: MICHAEL MONROE
TITLE:
Sensory Overdrive
LABEL:
Spinefarm Records
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.michaelmonroe.com
MLVOTE: 8/10
Il music business è una brutta bestia! Malgrado le sue insulse regole resto però fiducioso: un
giorno questo mondo si scomoderà abbastanza da conferire finalmente al vecchio Michael
Monroe ben più di questo stantio e ingeneroso consenso di culto. Qualora non fosse bastata una
carriera commovente con gli Hanoi Rocks, senza snobbare quella assolutamente dignitosa come
solista, ecco un disco che contribuirà fattivamente all’impresa. La line-up che anche in questa
occasione accompagna Mike è la stessa che ha firmato Live In Helsinki uscito lo scorso anno,
un combo stellare, praticamente una scintillante multinazionale dello street rock, nella quale
spiccano il vecchio compare Sami Yaffa e un Ginger in stato di grazia; chi ha amato The
Wildhearts non faticherà affatto nel riscontrare ottima farina del suo sacco tra questi solchi.
Anticipato da un efficacissimo singolo come ‘78, l’album è un susseguirsi di picchi vincenti difficili
da preferire l’uno all’altro, composizioni dirette e graffianti che il lavoro di Jack Douglas agli
Swinghouse Studios di Los Angeles ha incorniciato in un sound fresco e potente senza per questo
appesantirle con soluzioni eccessivamente moderne o inutilmente artificiali. Trick of the wrist e
Got blood? sono due rasoiate per niente indulgenti che, insieme alla già citata ‘78 (che rimanda
agli appassionanti vecchi Hanoi di Mental beat) compongono un trittico d’inizio da ko. Non che il
resto del lavoro mostri la corda, Bombs away ha un andamento iperanfetaminico mentre Modern
day miracle rivela un potenziale live illimitato grazie al suo “Shut up, stop talking” da urlare a
squarciagola sotto il palco; siamo arrivati a metà disco senza ravvisare un solo minuto superfluo o
sottotono, non è forse questo un indizio assai serio? Tanto furore rock’n’roll, anthemico e
trascinante, non soffoca però la vena più leggera e melodica che è sempre stata nel dna di Mike,
pezzi come Superpowered superfly e Gone, baby gone lo confermano con il consueto gusto e
autenticità. Non occorre dilungarsi più di tanto, in Sensory Overdrive pulsano orgogliose l’anima
indomabile degli Hanoi Rocks e la brillantezza compositiva dei Wildhearts in un concentrato
qualitativamente entusiasmante, una pietanza succulenta e irrinunciabile per gli amanti del
genere. Se pretendete qualcosa di più da un grande disco di street rock’n’roll nel 2011 siete solo
dei folli megalomani!
Manuel Fiorelli
ML 18
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: HOT TUNA
TITLE:
Steady As She Goes
LABEL:
Red House Records/ I.R.D.
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.hottuna.com
MLVOTE: 8/10
Udite! Udite! Gli Hot Tuna sono tornati con un nuovo album. Se pensate al fatto che del novero
dei gruppi che hanno caratterizzato lo splendido momento della Bay Area alla fine dei ’60
(Jefferson Airplane, Grateful Dead, Kaleidoscope & Co.) venivano considerati un po’ come i
‘fratelli minori’, ebbene questa rentrée li fa diventare – assieme ai Santana – la band più longeva
di quella irripetibile stagione musicale. Inatteso come un fulmine a ciel sereno arriva Steady As
She Goes; è il primo negli ultimi vent’anni e solamente il secondo in studio da trent’anni a questa
parte; questo dato è sufficiente ad esplicitare un paio di cose prima d’addentrarci nell’analisi del
disco: quanto grande potesse essere l’attesa dei fan, che non li hanno mai dimenticati, unita alla
considerazione che il tempo non può scalfire un tipo di musica come quella suonata da
Kaukonen, Casady & Co. In effetti si tratta di un ritorno a lungo atteso per una band che negli
anni della massima visibilità - quando Jorma Kaukonen e Jack Casady provavano a imboccare, in
un progetto a latere, una strada diversa da quella primaria percorsa dai Jefferson Airplane, del
cui nucleo erano a pieno titolo elementi importanti - è stata a ragione considerata tra le più
innovative in ambito rock blues. Una band che sapeva esprimere tutta la sua forza esplosiva
mescolando alla grande, in una tagliente cornucopia, blues (acustico ed elettrico), boogie,
psichedelia, rock, gospel, country, bluegrass, folk e jazz. Le intemperie della vita hanno segnato
nel fisico Jorma Kaukonen, oggi 70-enne, ma il tocco è quello di un tempo, a indicare che il
blues si suona con il cuore non con il cervello. Però, immaginare di ritrovare in Steady As She
Goes il fuoco che aveva imperato un tempo nell’animo della formazione e l’energia corrosiva del
loro psychedelic blues, sarebbe stata pura utopia. Bello è che i due vecchi amici – si conoscono da
cinquant’anni, dall’età adolescenziale - non si siano mai ammantati di appellativi quali “leggende
viventi” o “decani del blues”, lavorando invece sempre sotto traccia, quasi con timidezza ma con
immutata passione, badando più alla sostanza del loro impegno che non all’apparenza degli
attestati. Al di là di qualche brano che “suona” piuttosto convenzionale ce ne sono altri di indubbia
qualità, buona reminiscenza del tempo andato; in apertura, in Angel of Darkness, si coglie subito
il distintivo, tempestoso assolo chitarristico di Jorma e riconoscibilissimo è il suo timbro vocale. Un
paio di cover di Rev. Gary Davis confortano ulteriormente i nostalgici, soprattutto Mama Let Me
Lay It On You (l’altra è Children Of Zion), con al violino Larry Campbell (che dell’album,
registrato al Woodstock Studio di Levon Helm, è produttore) a ricordare le performance del
compianto Papa John Creach: il riff e l’abbrivio strumentale ci rimandano immediatamente alla
Keep on Truckin' di Burgers. Il robusto lavoro del basso di Jack Casady ha perso d’incisività e
se in qualche frangente l’intensità di una volta torna a manifestarsi (Mourning Interrupted) non è
sufficiente a colmarne il deficit lungo l’arco dell’intero disco. Jorma e Jack si accompagnano a
Barry Mitterhoff (mandolino) e Skoota Warner (batteria).
ML 19
musicletter.it
update n. 77
musica: hot tuna
Fanno bella mostra di sé la roccheggiante If This Is Love, la briosa A Little Faster, la malinconica
Second Chances, dal morbido vocalismo, “Goodbye To The Blues” che ha un riconoscibilissimo
incedere mentre Easy Now Revisited è una rivisitazione del brano già presente in The
Phosphorescent Rat del ‘74. In chiusura la strumentale Vicksburg Stomp poggia sul limpido tocco
strumentale del debutto acustico del duo nel 1970. Il vocalismo flemmatico e rilassato di Jorma è
sempre quello – magari pure migliorato - e così pure il creativo lavoro alla chitarra che sempre ne
ha contrassegnato i passi. Non un grande album ma un buon album. In effetti il repertorio
musicale degli Hot Tuna è invecchiata bene ed è per questo che il loro nuovo disco, al di là di
considerazioni critiche si fa ascoltare con autentico piacere. E visto che ci ritroviamo a parlare
anche a una generazione di lettori giovani e che non hanno avuto modo di apprezzarne la qualità
in passato, chissà quale effetto potrà far loro l’ascolto di questo.
Luigi Lozzi
ML 20
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: RIPPINGTONS feat. RUSS FREEMAN
TITLE:
Cote d’Azur
LABEL:
Peak Records/Egea
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.rippingtons.com
MLVOTE: 8/10
Sono sulla breccia da 25 anni (sebbene siano stati numerosi i cambi di formazione), i
Rippingtons, capitanati da Russ Freeman (cresciuto a Nashville e poi formatosi a Los Angeles),
molti dei quali passati on the road esibendosi dal vivo; ed è abitudine del leader quella di titolare
gli album che incide assieme ai compagni di viaggio con i nomi delle località o dei posti visitati.
Non si sottrae a questa regola neppure il disco più recente, Cote D'Azur con la sola differenza
che in questo caso ad ispirare il nome è stato il luogo dove l’ha condotto la moglie, Yaredt Leon,
di origini franco-colombiane, per fargli conoscere suo padre, appunto la Costa Azzurra francese,
di cui il chitarrista si è immediatamente innamorato. Così, per di più, i dieci brani strumentali che
compongono l’album hanno un certo qual feeling con atmosfere sonore del Mediterraneo, in
un’area in cui numerose culture si intrecciano, ed omaggiano l’immaginario pop degli anni
Sessanta in voga tra Nizza e Saint Tropez. Ascoltare per credere un pezzo come Passages To
Marseilles, ritmicamente coinvolgente ed impregnato della tipica timbrica del flamengo, cui presta
un apprezzabile lavoro chitarristico Freeman, o Bandol che suona assai tropicale. Insomma – per
dirla in breve – un sound che funziona, non troppo impegnato, di raffinato intrattenimento e mai
banale. Uno dei tratti distintivi della formazione – che poi si rispecchia anche nei dischi che incide
– è l’abile equidistanza espressiva adottata tra musica contemporanea e musica jazz. Canzoni
come Provence e Rivera Jam ne sono una testimonianza con una formula felice che combina R&B,
esotismi mediterranei, vintage, musica d’atmosfera e umori jazzy: lasciano in parte scontenti i
puristi del jazz ma conquistano consensi tra coloro che amano le contaminazioni e preferiscono
l’ascolto di musica che non venga necessariamente ingabbiata in genere predeterminati. Uno
smooth jazz che ha conquistato spazio nei club più esclusivi, nelle discoteche - e pure nelle
programmazioni radiofoniche – senza però sbracarsi.
Luigi Lozzi
ML 21
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: WHITESNAKE
TITLE:
Forevermore
LABEL:
Frontiers Records
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.whitesnake.com
MLVOTE: 8/10
Dinosauri, vecchi, ammuffiti, giurassici! Plausibilmente prevenuto, sento già riecheggiare nell’aria
certi aggettivi sibilati velenosamente da illustri modernisti “Questi sono in giro da quasi
trentacinque anni, cosa avranno mai di buono ancora da presentare?” Beh, direi nulla a parte un
disco entusiasmante e strepitoso! Torna sulle scene l’icona David Coverdale e come al solito lo
fa con un prodotto coi fiocchi; l’età avanza e la sua voce non si arrampica più alla ricerca di vette
elevatissime, i suoi registri sono opportunamente più caldi e moderati ma la classe e il feeling
restano immutati, a coronamento di una serie di composizioni che non permettono all’ascoltatore
di annoiarsi, non quando ruggiscono fiere né quando creano suadenti oasi rilassate. Steal your
heart away è un “instant classic”, la maniera migliore per stabilire alcuni punti fermi in maniera
forte e chiara: aprire un disco con piglio grandioso e rammentare a tanti “nipoti” che lo zio dal
quale hanno appreso più di una lezione è sempre pronto a darne altre. Ecco i Whitesnake del
2011, una band che, pur avendo rinnovato la sezione ritmica (con gli innesti del bassista Michael
Devin e del batterista Brian Tichy), non fatica minimamente nel dimostrare di aver
implementato e ottimizzato i già lusinghieri numeri espressi nel precedente Good To Be Bad,
grazie non solo al magnetismo catalizzatore del suo leader ma anche alla chimica incredibile che
fonde, completa ed eleva le chitarre di Reb Beach e soprattutto di un Doug Aldrich
brillantemente prolifico anche in fase compositiva. All out of luck, Love will set you free, Easier
said than done, provateci a trovare un pezzo sottotono…e in bocca al lupo. Sorvolando sui bonus
più o meno corposi offerti dalle diverse edizioni giapponesi, “Snakepack”, Deluxe ecc, l’album si
chiude
con
una
mastodontica
titletrack,
una
canzone
immensa
per
emozione,
mood,
arrangiamento, tutto, assolutamente tutto; la ascolto una volta e non mi basta, così come mi
sembrano pochi tre o quattro passaggi consecutivi, se non credete a queste parole abbiate fiducia
nel vostro stesso udito. Sessanta minuti di splendido hard, blues e indomabile impeto rock
finemente incastonati su disco; ovviamente la grande stampa ne parlerà a malapena così come le
radio si guarderanno bene dal suonarlo, tutto sembrerà indicare la via del dimenticatoio… beh,
peggio per chi non ha buone orecchie per ascoltare, io non mi faccio fregare e Forevermore lo
risuono daccapo, adesso!
Manuel Fiorelli
ML 22
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: OVO
TITLE:
Cor Cordium
LABEL:
Supernaturalcat
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.myspace.com/ovobarlamuerte
MLVOTE: 7,5/10
Come in un incubo. Mi muovo nel nero, buio profondo e perdo il contatto con tutto. È un attimo
quando dal caldo tepore di un letto mi ritrovo sbattuto nel fango, o almeno sembra tale. Il freddo
entra nelle ossa e a malapena si riesce a intravedere qualcosa. Sterpaglia, boschi danzanti, tra la
nebbia un’abitazione che sembra abbandonata. In un attimo entro impaurito, il tanfo di carne
putrefatta pervade le narici, viene da piangere. Quasi la paura paralizza, le gambe non si
muovono e dalle scale, che sembrano infinite e in risalita dagli inferi, un canto di donna, uno
strido, fanno spalancare gli occhi. Sembra posseduta e sussurrante i peggiori anatemi
pronunciabili, cavalcando striduli suoni che sulla carne creano escoriazioni appariscenti e dolorose
(Nosferatu). L’odore di morte provoca conati di vomito che occludono la gola, la disperazione e
poi le mani corrono per le tavole di legno del pavimento. Sono dolorose le schegge che entrano in
profondità. La cantilena di una bambina prima mi tranquillizza, sento una mano che mi tocca la
testa, delicatamente, le parole compongono una ninna nanna che non vuole essere consolatoria
(Marie) e le dita stringono saldi i capelli sino a staccarli dal cuoio capelluto. Le urla, di dolore e
terrore, non escono dalla bocca, come non avendo una lingua, nessuno può sentirmi, nessuno
deve sentirmi. Riesco a correre, non so come sono tra i tristi roghi all’esterno, le gambe flagellate
e le orecchie sono sanguinanti. Ritmi veloci che s’infrangono in un drone infinito mi annebbiano
anche la vista (Penumbra y caos), perdo l’equilibrio ma riesco a riprenderlo. Una strada, forse
persone. Vedo una sagoma ma non sembra umana. Enorme mi corre incontro, digrigna i denti ma
io non mi giro. Lo sento. Mi afferra schiacciandomi con peso indicibile, penetrando le mie carni
con le sue unghie animali. Una cadenza marziale e dei tempi serrati di batteria, scarni,
sonorizzano l’aggressione (La Bestia), poi tutto torna come prima. La mia bocca sputa foglie e
sangue. Continuo il travaglio. Guardo il cielo che non ha più stelle, luna o altro. Solo nero,
profondo nero. Mi distacco da quello che dovrebbe essere reale, chiudo gli occhi e li riapro,
sudato, dentro il mio letto. Come in un incubo e gli OVO sono la naturale colonna sonora.
Antonio Anigello
ML 23
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: CESARE BASILE
TITLE:
Sette Pietre Per Tenere il Diavolo a Bada
LABEL:
Urtovox
RELEASE: 2011
WEBSITE:
www.myspace.com/cesarebasile
MLVOTE: 6,5/10
Cesare Basile canta il dolore, da sempre. Lo canta con parole dure. Ossa, forche e vermi. Perché
non si abbia a confonderlo con il sonno arretrato di cui ci lasciò monito Walter Chiari. Il dolore
cantato da Cesare non dà scampo, mai. È questo crogiolarsi nell’affanno della vita probabilmente
il suo limite maggiore, perché le facce crucche oggi non piacciono più a nessuno. E Cesare è uno
che sorride di rado. In questo disco forse ancora meno. Sette Dischi Per tenere il Diavolo a
Bada è un disco frammentario in cui convivono i tanti spettri che popolano la casa dell’ autore
catanese e in cui collidono le schegge delle musiche con cui Cesare ha riempito la sua saccoccia di
uomo apolide: il blues affranto di Nick Cave (Strofe della guaritrice, tratta da alcuni versi di
Danilo Dolci) e il fatalismo ateo di Fabrizio De Andrè (Lo scroccone di Cioran), la satira
dolorosa del serbo Frane Milčinski Ježek (qui tradotto nella versione di E Lon Lan Ler realizzata
per il cortometraggio My world is upside down) e l’orgoglio martire di Rosa Balistreri e Ignazio
Buttitta di La Sicilia havi un patruni che assieme alle altre strofe dialettali de L’Alavò rappresenta
il segno del ritorno a casa, privato e artistico, per Basile. Un approdo disperato. Come su uno di
quei barconi che ingombrano il mare a Sud di Lampedusa scaricando il loro carico di vite umane.
Solo che Cesare è su un barcone tutto da solo, anche se ad attenderlo a riva, come sempre, c’è
una scia di mani dondolanti: Marcello Caudullo, Alessandro Fiori, Salvo Compagno, Fulvio
Di Nocera, Massimo Ferrarotto, Luca Recchia, Roberto Angelini, John Bonnar, Vera Di
Lecce, Lorenzo Corti, Rodrigo D’Erasmo, Alessio Russo, Toni Kitanovsky, Roberto
Dell’Era, Enzo Mirone, Enrico Gabrielli. Manca stavolta, ma solo per problemi organizzativi,
John Parish che probabilmente avrebbe potuto dare una dimensione più unitaria a tutto il lavoro
che altrettanto probabilmente Basile ha invece voluto evitare per scelta, lasciando che questi
frammenti restassero disgiunti ma vicini, come pagine di un diario di bordo. Scorrendo il quale
pure a volte si prova un senso di fastidio, nonostante tutti abbiano paura a dirlo per timore di fare
un torto all’ autore, per quella riverenza paracula che prolifera in Italia e secondo la quale non
puoi muovere nessuna critica a chi, per merito e per default, è considerato un inviolabile della
musica. I dischi di Cesare invece emozionano e infastidiscono, allo stesso tempo. Come quelli di
Piero Ciampi e di Claudio Lolli. Perché vibrano di un impetuosità intima talmente intensa da
non lasciarti spazio vitale. Hanno un orizzonte talmente basso che a passarci sotto ti spacchi la
testa. Sono imperfetti, nudi e strazianti e disdegnano l’umiltà. Sette Dischi Per tenere il
Diavolo a Bada, che sommati fanno un bel po’ di sassi. Che tuttavia non saranno sufficienti per il
compito loro assegnato.
Franco Dimauro
ML 24
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: WOVENHAND
TITLE:
The Threshingfloor
LABEL:
Glitterhouse Records/Venus
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.wovenhand.com
MLVOTE: 8/10
Il precedente album, Ten Stones del 2008, aveva segnato per i Wovenhand la temporanea
interruzione della lunga e proficua affiliazione alla Glitterhouse. Tutto si ricompone con il nuovo
lavoro nel quale Dave Eugene Edwards & Co. inanellano un’altra perla del loro gothic folk (così
è stato etichettato il folk rock contaminato da atmosfere dark che caratterizza la loro musica) e si
riconfermano come una delle band alt-rock più solide e più amate. “Più solide” è definizione
congrua nonostante sia noto a tutti quanto il progetto sia un continuo “work-in-progress”
espressione speculare dell’estro del suo leader. A tal proposito ricordiamo come Woven Hand
fosse per l’originale artista, originario di Denver, un progetto a latere degli ormai disciolti 16
Horsepower, per oltre un decennio una delle più belle realtà dell’alt noir country, mentre ora
occupa la centralità dei suoi impegni. Questo settimo album, pur senza aggiungere elementi
innovativi ad una formula consolidata, ha spessore per convincere i fruitori. È intriso di una
cupezza affascinante fin dalle prime battute di Sinking Hands, le chitarre si agitano sinuose e
taglienti dentro il tessuto musicale tra oscure melodie folk e atmosfere allucinate elettroacustiche. Il talentuoso Edwards è dotato di una voce tenebrosa e di un ricco bagaglio di
intuizioni pronte ad essere sviluppate ma che con ogni probabilità non trovano il degno risalto
nell’attività svolta con i compagni di cordata artistica, soprattutto per quel che riguarda il lato più
cerebrale e cantautoriale dell’artista. Egli firma brani dall'incedere maledetto e romantico,
dimostrando di essere degno allievo di un maestro come Nick Cave. Il vocalismo tenebroso e
visionario di Edwards ha invece il sapore sferzante e disincantato dei poeti maudit, il suo sguardo
intellettuale trova sostegno nella visione apocalittica di formazioni come i Joy Division.
L’incedere mid-tempo delle chitarre distorte ed avvolgenti, il songwriting che perlustra i reconditi
anfratti culturali a tinte fosche della provincia americana più bigotta (quella narrata da William
Faulkner), un feeling non celato con certa tradizione europea, sono i tratti distintivi del sound
della formazione. Bella e ipnotica è Truth, Denver City in chiusura ha qualcosa del Bowie (e/o
Lou Reed) più urban e grottesco. Ma l’album tutto vede coesistere tradizione e modernità,
sperimentazione sui suoni e songwriting in ballate notturne stranianti, scenari southern gothic e
cupi immaginari provenienti dall’est Europa.
Luigi Lozzi
ML 25
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: BEN HARPER
TITLE:
Diamonds On The Inside
LABEL:
Virgin Records
RELEASE: 2003
WEBSITE:
www.benharper.com
MLVOTE: 8/10
Qualche anno fa, in un documentario sulla sua vita e carriera artistica, Ben Harper disse una
frase che mi colpì molto: “La musica dà alla vita qualcosa che va oltre la vita stessa.” Molti
musicisti inseguono la fama, il denaro, il successo ad ogni costo. Ben Harper è nato per e tra la
musica; nel negozio di strumenti musicali di famiglia ha respirato e compreso sin da bambino
quello che sarebbe stato il suo futuro. Diamonds On The Inside esce nel 2003 e a produrlo è lo
stesso Harper, circostanza che gli consente una libertà espressiva mai sperimentata prima. Nel
disco echeggiano richiami folk, country, reggae, blues, un concentrato di stili sapientemente
mixati all’interno delle quattordici tracce, tutte accomunate dalla professionalità e dalla cura
estrema, quasi maniacale, dei dettagli e delle sfumature. Il primo pezzo omaggia spudoratamente
(e sapientemente) il reggae e il suo incontrastato re, Bob Marley. Il sound di With my own two
hands suggerisce note di ribellione pacifica e positiva nei confronti degli aspetti negativi del
sistema civile in cui viviamo. Ha il pregio di far credere che un mondo diverso è davvero possibile
e che tu puoi esserne l’artefice, concima la partecipazione sociale e lascia spazio alla
speranza.Dopo il reggae, arriva il blues di When it’s good, brano in cui la bravura di Harper come
musicista trova una cornice perfetta; è coinvolgente, un incastro perfetto di voce, melodia, cori,
liriche, ritmo. Ben Harper è nato in California e il suo spirito da west coast emerge nel video della
title track Diamonds on the inside, un girato di fine estate che sorprende per la capacità di non
essere banale o superficiale neppure quando mostra una bionda bellezza californiana sulla tavola
da surf. Un testo profondo, accompagnato da un sound delicato, diventa colonna portante di un
brano in pieno stile Harper. Touch from your lust irrompe sulla scena imponente, quasi
monumentale. Chitarre distorte, uno spirito rock che scuote l’ascoltatore e lo rende malinconico
(… never trust a happy song, disse saggiamente qualcuno...). La parte acustica qui cede il passo
ad aspetti più elettronici e ruvidi, anche nel testo (“You're what lies between pain and death Sinners and saints call you by name”). Lo ammetto, quello che sto per dire non è molto
professionale perché recensire un disco equivale a non perdere mai la lucidità e l’approccio
oggettivo ma provate voi ad ascoltare When she believes e a trovarle una sola nota negativa. Il
mio pezzo favorito di tutto l’album, senza ombra di dubbio, è una tra le ballad più delicate e nello
stesso tempo intense che siano mai state composte. Un’armonica composizione fatta di viole e
arpe, al cui interno la voce di Harper diventa lo strumento in più, in grado di imbastire dolcezza
estrema che si riflette tanto nel testo quanto negli arrangiamenti. Semplicemente da brivido.
Vestendo il ruolo di produttore, Harper può permettersi di infilare nella tracklist anche un paio di
pezzi come Brown eyed blues e Bring the funk, che accarezzano appunto il funk e quasi toccano
l’R&B,
configurandosi
più
come
due
episodi
di
divertimento,
di
improvvisazione
e
di
sperimentazione che come pietre miliari della sua carriera.
ML 26
musicletter.it
update n. 77
musica: ben harper
Amen Omen diventa così il momento perfetto per tornare alla profondità raggiunta con When she
believes: un canto sofferto, un pezzo doloroso e struggente, in cui il virtuosismo dei musicisti
diventa di un pesante spessore artistico. Diamonds on the inside è, tra le altre cose, anche un
disco spirituale: la religione, intesa nel senso più puro e ampio del termine, è protagonista di
brani come Blessed to be a witness e Picture of Jesus, entrambi in movimento su echi gospel, che
ricordano le musiche d’Africa e testimoniano l’assoluta volontà di non tradire le origini.
Considerata l’estrema libertà che pervade l’intero lavoro, Ben Harper ha pensato bene di inserire
un paio di pezzi potenti e rock fino al midollo, Temporary remedy e So high so low, con chitarre
elettriche e suoni distorti a farla da padrone e una potenzialità intrinseca che esplode con forza
durante i live. L’album si chiude con She’s only happy in the sun, un inno alla gioia di vivere,
un’ode alla felicità disarmante, quella felicità capace di commuovere con un sorriso (“Every time I
hear you laughing - Hear you laughing - It makes me cry”). L’aspetto forse più incredibile di
questo disco è la capacità che pochi musicisti hanno di far convivere così tanti generi e così tante
tematiche dando l’impressione che tutto si svolga in modo armonioso e lineare; non c’è un filo
logico nel susseguirsi dei brani ma ci sono senza dubbio qualità estrema e capacità di
emozionare, fino all’ultima nota.
Laura Carrozza
ML 27
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: LAMBCHOP
TITLE:
Nixon
LABEL:
Merge
RELEASE: 2000
WEBSITE:
www.myspace.com/lambchopisaband
MLVOTE: 8/10
Siamo convinti che Kurt Wagner non abbia assolutamente torto quando afferma che tutto
sommato Nashville possieda anche una buona tradizione di rythmn & blues e non soltanto country
come tutti pensano. Non a caso infatti con questo quinto lavoro sulla lunga distanza l’ex
piastrellista del Tennessee prova a mettere a fuoco la sua anima nera ma soprattutto quella della
sua terra nativa realizzando, con i suoi amatissimi e numerosi Lambchop, uno degli album più
rappresentativi della sua carriera. Un disco che a tutti gli effetti mostra l’innata passione del
songwriter americano per la musica soul, pur non distaccandosi di un solo centimetro dalla
proprie radici yankee. L’effetto sortito è davvero straordinario e prende il nome di Nixon.
Cinquantina minuti scarsi di intrecci soul e country dai toni generalmente soffusi e mai boriosi con
la voce intima e sussurrante di Wagner sempre in bilico tra il cantato e il parlato. Si comincia con
le morbide “spazzolate” di rullante e un lento giro di basso di The Old Gold Shoe per poi
aumentare lentamente le ritmiche già con la successiva Grumpus, traccia che sfoggia cadenze e
ammiccamenti funky e un cantato in falsetto che raggiungerà l’apice della bellezza con What Else
Could It Be? (brano, quest’ultimo, arrangiato e orchestrato alla grande con suoni di tromba,
violini e steel guitar che non eccedono di una sola nota). Qui tutto è meravigliosamente
armonioso, anche quando, prima con Up With People e poi con The Butcher Boy, si tenta di
percorrere strade decisamente più ispide e rock. Ciò nonostante quelle di Nixon sono canzoni
malinconiche e piene di sentimento che svelano il volto di un paese, complesso e paradossale, che
non ha mai smesso di guardare lontano. Pur non raggiungendo le atmosfere magiche di Is A
Woman del 2006, Nixon è quanto di meglio si possa ascoltare per un ipotetico viaggio che parte
da Nashville e arriva fino a Detroit. La colonna sonora ideale.
Luca D’Ambrosio
ML 28
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: THE BLACK CROWES
TITLE:
The Southern Harmony and Musical Companion
LABEL:
Def American
RELEASE: 1992
WEBSITE:
www.blackcrowes.com
MLVOTE: 7/10
Il southern rock che sconfina nel soul. Un fiume straordinario di chitarre, spruzzi di pianoforte
(opera di Eddie Harsch, più tardi bassista e organista nei Detroit Cobras, NdLYS), una voce
calda come quella del miglior Rod Stewart contrappuntata da un coro di voci femminili. Proprio
mentre fuori si registra l’ultima rivoluzione di costume giovanile del millennio, The Southern
Harmony and Musical Companion porta a compimento le ottime intuizioni del debutto
scendendo a patti con la tradizione americana sin dalla scelta del titolo rubato a un vecchio libro
del secolo precedente che metteva insieme 335 brani della storia musicale sacra del Sud. Il
dialogo empatico tra le chitarre di Rich Robinson e del neo acquisto Marc Ford è spettacolare,
reso ancora più caldo dall’uso delle classiche accordature aperte memori della lezione stonesiana
degli anni Settanta e così fluido da permettersi di indugiare senza nessuna concessione alla noia
anche per oltre sei minuti, come succede sulla dolcissima Thorn in my pride, nella rancorosa Bad
Luck Blue Eyes, Goodbye e nei ruggiti slide di My morning song. TSHAMC è un disco che, pur
rimestando nella cornucopia di suoni “old-oriented”, riesce a sorprendere per una capacità di
scrittura straordinariamente sopra la media, sorprendentemente coerente eppure sempre in grado
di trovare una soluzione di classe, un gancio melodico efficace, un riff conciliante, una lordura
inaspettata, una sottigliezza tecnica, una coloritura esclusiva capace di fare di ogni singola
canzone un piccolo capolavoro nel capolavoro. The Southern Harmony and Musical
Companion alza il fantoccio del guitar rock degli anni Settanta e gli alita in bocca il soffio della
vita, anche se tanti continueranno a guardarlo come fosse uno spaventapasseri. Con sopra dei
corvi neri.
Franco Dimauro
ML 29
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: JULIAN COPE
TITLE:
Saint Julian
LABEL:
Island
RELEASE: 1987
WEBSITE:
www.headheritage.co.uk
MLVOTE: 7/10
Julian Cope è un egocentrico. Un tossico egocentrico che odia la metà delle persone del mondo e
che è odiato dall’ altra metà. Ha fatto parte di una delle band più sopravvalutate della storia e ha
litigato con tutti anche lì. Così si è trovato a intraprendere una carriera solista nella quale, a parte
lui, non crede nessuno. Ma lui è ossessionato da se stesso, oltre che dalle automobili giocattolo. E
ha troppi fantasmi nella testa. Alcuni li mette in musica nei suoi primi dischi che però non
vendono come lui si aspetterebbe. Soprattutto non vendono quanto si aspetterebbe la sua
etichetta. Cope ci mette un po’ per riprendersi dalla botta e ritrovare l’energia, anche fisica. Si
dedica a un jogging sempre più estremo, sempre più pesante. E nelle cuffie si porta musica
sempre più energica. Non più Syd Barrett ma Alice Cooper, i Sonics, i Guess Who, i Sex
Pistols, Chuck Berry. Si toglie il guscio di tartaruga e si veste di pelle. Come i Ramones. Anzi,
di più. E infatti decide che a produrre il suo nuovo disco sia Ed Stasium. Quello che ha messo
mano ai dischi dei Ramones e ha suonato di nascosto le piccole parti solistiche sui loro album
visto che Joey si rifiuta di suonare qualcosa che vada oltre i due accordi in sequenza. Perché
Cope ha in mente un disco potente, diretto. E Saint Julian lo è. Magari anche banale,
nell’accessibilità pop che lo caratterizza e che la critica non gli perdonerà mai, dopo due dischi
dalla bellezza deturpata come World shut your mouth e Fried. Ma è quello di cui Julian Cope ha
bisogno. Di uno schianto. Di sostituire la sua faccia a quelle delle tante merdose pop-stars che
affollano Top of the pops. Ci riesce, perché Saint Julian è un disco compatto, ordinato, certamente
più equilibrato e psichicamente stabile rispetto a quelli che lo hanno preceduto e anche di molti
che verranno, dove doserà pazzia e genio in lunghe ampolle colorate piene spesso di roba
indigeribile ma anche dispensatrici di miracolose pozioni pop. È un disco fatto per saziare la sua
fame di successo, di visibilità, di gloria. Sulla copertina si fa immortalare in questa posa un po’
idiota da salvatore del rock, sceso in terra per redimere tutti. E si fa fotografare da Peter
Ashworth che è un fotografo a la page. Lavora nel mondo della moda, Peter, ma nel suo studio
ospita anche tante stelle e meteore del pop di quegli anni. I Soft Cell, Belouis Some, gli
Eurythmics, gli Erasure, i Visage, Adam Ant, Morrissey (suo il celebre scatto di Morrissey
steso sul pavimento tra i libri di Oscar Wilde, NdLYS), gli Associates. Usa molti faretti colorati e
molto cerone, Peter. E può aiutare a far sembrare bello quello che bello magari non è. Dentro ci
sono le cose più dure mai fatte da Julian Cope fino a quel momento: Pulsar e Spacehopper sono
delle pressanti canzoni dal taglio garage e dal passo galoppante. Come larga parte del disco
hanno più di un richiamo allo Spazio. Perché Julian sogna soprattutto di questo in quegli anni. Di
pianeti che esplodono, di astronavi che atterrano nel giardino di casa, di corpi marziani.
ML 30
musicletter.it
update n. 77
musica: julian cope
Screaming Secrets e Saint Julian sono un aggiornamento delle canzonette storpie del suo primo
album, ovviamente rivedute e corrette per piacere al mondo intero, inzuppate di coretti degni
degli Archies e ammiccanti distese di oboe e clarinetti in parte suonati dallo stesso Cope sotto il
falso nome di Double De Harrison. Poi c’è un funky androide come Planet Ride, i tre bellissimi
singoli Trampolene, World shut your mouth e la trasognata Eve‘s Volcano, una canzone che parla
di una fellatio come se stesse cantando di raccogliere margherite nel giorno del solstizio d’estate.
Shot down vuole essere nel titolo un omaggio ai Sonics ma è un’ altra power song piena di
chitarre raglianti e piccoli effetti spaziali per tastiere. A crack in the clouds chiude tra rintocchi di
campane e scrosci di temporali prima di schiudersi in una sinfonia per archi, chitarre e tastiere,
tornando come di consueto ad assecondare la tendenza di Julian a invadere ogni traccia del
mixer, a sovrapporre strumento su strumento, a creare piccole architetture pop. Saint Julian è il
Cope cucito dentro gli abiti da pop-star. Ha nascosto il suo amore per gli svitati del rock ‘n’ roll
degli anni Sessanta e Settanta e si è divertito a rendersi piacevole, passando più tempo davanti
allo specchio che a strisciare sul pavimento e regalandoci dieci canzoni da cantare. Perché tutti
siamo delle rockstar, anche se il mondo lo ignora.
Franco Dimauro
ML 31
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: THE STOMACHMOUTHS
TITLE:
Something Weird
LABEL:
Got to Hurry
RELEASE: 1986
WEBSITE:
www.myspace.com/stomachmouths
MLVOTE: 8/10
Quando Stefan Kéry mette su gli Stomach Mouths, nei primi anni Ottanta, è già un musicista
“scafato”, nonostante la sua tenera età. Ha già suonato come batterista nei Red Baron all’età di 9
anni e come chitarrista e cantante nei Pink Panthers, nei Firebirds, nei Dragonfly, nei
Dogwayst a infine nei Rager Mar, diventati Stomach Mouths dopo l’ingresso di Martin
Skeppholm. Nel frattempo è diventato un avido collezionista di dischi: oscuri singoli psichedelici,
folk, beat, rock ‘n’ roll, R ‘n’ B, surf, hardrock, punk, garage, canzoni per bambini, sigle televisive.
Tutto quello che i teenager svedesi buttano via per qualche corona, lui lo ricompra, lo ascolta e lo
impara. Quando nascono gli Stomach Mouths, nel 1983, sa suonare un centinaio di cover.
Niente di straordinario, ma lui le sa suonare nel modo giusto: con l’impellenza peculiare dell’età
giovanile, un misto di rabbia, desiderio sessuale, frustrazione e cinismo che emerge anche dalla
sua voce al vetriolo, tirata fuori lacerando le corde vocali come fossero le calze di nylon di una
ventenne. E’ questa attitudine a fare di Something Weird un disco imprescindibile per la storia
del neo-garage, un disco vivo, feroce e malato. Sixties nella forma, punk nel cuore. Ha la forza
animale di una tigre dai denti a sciabola. I don‘t need your love, Don‘t mess with my mind, Dr.
Syn, Teenage Caveman, R&B n° 65, I Leave, Cry, Waiting, Down, Nightmares, Valley Surf Stomp,
Coming back alive: ad ogni morso, un pezzo di carne che salta, la polpa di un muscolo che viene
addentato, un osso che viene macinato, forato, strappato via. E se la scelta di Born Loser come
cover “di circostanza” può sembrare scontata (ma non lo è, vista la brutalità con cui gli Stomach
Mouths ricoprono il pezzo di Murphy and The Mob di succhi gastrici inaciditi, NdLYS), singolare
è la scelta di includere una versione di una canzone “domestica” come The cat come back, un
vecchio pezzo popolare del secolo precedente che Stefan custodisce nella sua sterminata
collezione di vinile e che per anni (stiamo parlando dell’ era geologica pre-wikipedia) nutrite
schiere di lungocriniti scavafosse cercheranno di scovare in qualche oscura raccolta di brani beat,
senza cavare un ragno dal buco. There ‘s something in my kitchen, I think it ‘s alive, it’ s growin’
in my sink and now it ‘s six-feet high. La Svezia aveva partorito il suo All Black ‘n Hairy: era
l’anno zero della garage scene scandinava.
Franco Dimauro
ML 32
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: THE DEL FUEGOS
TITLE:
Boston, Mass.
LABEL:
Slash
RELEASE: 1985
WEBSITE:
www.danzanes.com
MLVOTE: 7/10
Qualcuno ci credeva, che i Del Fuegos potessero sfondare. La Slash di sicuro. E ovviamente loro.
Ma pure John Fogerty, John Cougar Mellencamp, Tom Petty, i Replacements, la redazione
del Rolling Stone e quella del Buscadero. Pure la Miller Brewing Company investe su loro
scegliendoli come testimonial per lo spot della sua birra.
E anche io ci credevo, sul serio. Del
resto tutto pareva funzionare nella musica del quartetto di Boston. Sembravano la versione punk
di Huey Lewis and The News. Il rock Americano che sognava solo di se stesso. Molti allora ci
sentono dentro i Rolling Stones. Che però li toccano solo di striscio. La musica dei Del Fuegos è
un concentrato dell’archetipo rock Americano. Springsteen, Bob Seger, Creedence, Mink
DeVille, la Band, i Blasters, gli Aerosmith. Un concentrato di luoghi molto trafficati, quelli
frequentati dalla classe media Americana. Molte chitarre, qualche spruzzata di organo, batteria in
grande evidenza come ha fatto il Boss per Born in the U.S.A. Solo che i Del Fuegos sono anche
giovani e bellocci. Possono sfondare molte porte. Possono traghettare i fanatici del suono roots
verso il mainstream rock e viceversa far abboccare all’amo chi tiene la radio costantemente
sintonizzata sui 107.3 dell’FM di Boston. E invece qualcosa si inceppa. E i Del Fuegos, già col
terzo album diventano una band insopportabile, boriosa e piena di pretese. Nel tentativo di dare
una tinta soul al proprio suono, si impantanano in una cosa ignobile come Stand Up finendo per
falciare le aspettative di tanti. Ma se amate il rock da cartolina e non vi piacciono i pacchi
sorpresa, allora i primi due album dei fratelli Zanes vi saranno graditi. Rassicuranti ed energici.
Leggemente più rozzo il primo, meglio definito nella scrittura e nel “tiro” questo secondo che
oscilla scaltro tra ballate (I still want you, quel furto ai toxic twins che è Fade to blue, Coup De
Ville), vigorose rock songs (Hand in hand, It’ s alright, Sound of our town) e furbetti mid-tempo
(Don’ t run wild, Hold us down). Nessun disco imperdibile. E, per dirla tutta, se siete vissuti senza
conoscerli non è che vi siete persi granchè. Però sono sicuro, non chiedetemi perché, che chi
conserva Boston, Mass. nella propria discoteca non lo cederà mai a nessuno. Perché in quegli
anni un giro in auto con dentro la cassetta coi primi due dischi dei Del Fuegos ci regalò l’illusione
di un’America tascabile che conserviamo ancora con un pizzico di malinconia.
Franco Dimauro
ML 33
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: COCTEAU TWINS
TITLE:
Treasure
LABEL:
4AD
RELEASE: 1984
WEBSITE:
www.cocteautwins.com
MLVOTE: 8/10
Chi mise la mano dentro la scena post-punk inglese degli anni Ottanta rimase ustionato dal fuoco
freddo dei Cocteau Twins. Io me le bruciai entrambe. Elisabeth Fraser e Robin Guthrie
riescono a trasformare in un sogno estatico le visioni gotiche della new wave britannica. Una larva
che diventa una splendida farfalla e prende il volo sbattendo le sue ali variopinte, allontanandosi
anche dal proprio bozzolo che era quello opaco di Garlands. Treasure è la metamorfosi compiuta,
il disco con cui i Twins salutano il mondo dall’ alto planando in un paese delle meraviglie dove i
ghiacciai tintinnano come campanelline e le caverne sono spelonche piene di monete d’oro. Con
Treasure i Cocteau Twins realizzano il disco con cui sostituiscono i Banshees nel cuore degli
amanti della musica tardo romantica. Raccolgono la magia oscura di certe evocazioni gotiche care
alla Siouxsie Sioux ma ne intrecciano le radici attorno a un suono che ha il gusto un po’ magico
di un mondo incantevole e fatato. Liz costruisce questo mondo di parole incantate, questa
formula magica di sillabe e vocali mutevoli, estese e filiformi, questi singhiozzi angelici, questa
esperanto stregata per cappellai matti e bianchi conigli bipedi. Sotto di lei risuonano i rintocchi
delle campane di Lorelei, il jingle-jangle scintillante di Aloysius, i clavicembali di Beatrix, la marcia
ossianica di Persephone, gli abissi acquatici di Otterley. Treasure è il suono delle meraviglia,
dell’incanto che ci coglie davanti all’ estasi della bellezza, alla contemplazione dell’infinito, allo
schiudersi leggero della grazia della natura, è un nido di ovatta dentro cui covare il proprio animo.
Franco Dimauro
ML 34
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: BOB MARLEY & THE WAILERS
TITLE:
EXODUS
LABEL:
Tuff Gong
RELEASE: 1977
WEBSITE:
www.bobmarley.com
MLVOTE: 8,5/10
Il 1977 non era un anno qualunque. Non per i rastafari, perlomeno. Avevano appuntamento per le
ore sette del 7 Luglio di quell’anno. Il giorno in cui, secondo la profezia di Marcus Garvey,
sarebbe arrivata l’Apocalisse e la caduta di Babilonia. Alle otto di sera sarebbero rientrati a casa,
un po’ delusi. Non si accorsero che il 7 Luglio del ’77 la sua Apocalisse l’aveva portata eccome,
anche se non era quella tutta fulmini e distruzione che loro si aspettavano. Bob Marley rientra un
po’ più tardi, quella sera. Torna dall’ambulatorio del suo medico di fiducia a Londra. Gli è stato
appena diagnosticato il melanoma all’alluce che lo condurrà lentamente alla morte. In quel
momento non ci fa caso nessun altro, se non lui. Sa che l’Apocalisse è arrivata davvero, ma che
sarà un affare tutto suo. La sua fede religiosa gli impone di non sottoporsi all’ amputazione che gli
salverebbe la vita. E Marley si affida alle onde del destino che se lo porteranno via quattro anni
dopo. Il resto del mondo è invece distratto da un’Altra Apocalisse. Culturale, musicale, estetica:
quella del punk. Una “scossa” avvertita ovunque, anche in Giamaica. I Culture l’avrebbero
celebrata in Two Sevens Clash e Marley su Punk Reggae Party, proprio in quel Luglio del 1977.
Facendo nomi e cognomi: Damned, Clash, Jam, Dr. Feelgood, Maytals. E, come in una
profezia di morte, i Wailers. Ma non lui. The Wailers will be there, canta… Per i primi quattro
mesi di quello stesso anno invece Marley era stato impegnato a registrare Exodus. Exodus:
Esodo. Quello del suo popolo e quello personale che lo vede emigrare in Inghilterra dopo essere
scampato all’attentato del Dicembre dell’anno precedente. Un disco dalla struttura bizzarra,
Exodus. Una prima facciata lenta, cadenzata, uniforme, impegnata e mistica, fino all’apoteosi
della title track dove una guizzante chitarra ska ferma su un unico accordo in La minore guida le
trombe che conducono il popolo di Jah nella sua fuga da Babilonia. Il secondo lato smorza invece i
toni drammatici e li stempera in un clima più disteso dove è l’amore, privato ed universale, a
diventare il vero protagonista. Jamming, Waiting in vain, Three little birds, One love vengono
sputate fuori dalla Island come singoli, assieme a Exodus e Marley viene ufficialmente decorato
come rockstar universale, nello stesso anno in cui Presley lascia vacante il posto di Re del rock
‘n’roll e il punk colora di violenza esasperata il mondo occidentale. Blackwell, che appositamente
per Bob aveva fondato la Tuff Gong usando lo stesso nomignolo che gli era stato affibbiato a
Kingston, intuisce che Marley può diventare il volto mistico da contrapporre agli eccessi del
rock‘n’roll. L’eroe buono che guida una rivolta civile e sociale contrapposta a quella nichilista del
punk bianco. Ed è quello che Marley diventa, a partire proprio da questo disco. Sviscerato e
studiato negli anni successivi su pellicole, libri, saggi, book fotografici (Exodus: Exile 77 di
Richard Williams, The book of Exodus di Vivien Goldman e Bob Marley - Exodus 77 di
Anthony Wall quelli che vi consiglio, NdLYS) ed eletto allo scadere del secolo scorso miglior
disco del XX Secolo dalla rivista Time (Rolling Stone gli riserverà invece solo un 168° posto
preferendogli Catch a Fire, NdLYS), Exodus è un disco cardine della vicenda artistica di Marley,
seppure non raggiunga la forza e la coesione del Survival che lo seguirà due anni dopo e che
inasprisce il clima di tensione politica che Marley sente sempre più pressante.
Franco Dimauro
ML 35
musicletter.it
update n. 77
musica
ARTIST: AEROSMITH
TITLE:
Toys in the Attic
LABEL:
Columbia
RELEASE: 1975
WEBSITE:
www.aerosmith.com
MLVOTE: 7,5/10
Sesso, droga, rock ‘n’ roll. Anzi, molto sesso, molta droga e molto rock ‘n’ roll. In nome dei quali
Joe Perry e Steven Tyler sono già diventati come fratelli. Di più, gemelli. Gemelli tossici, per
essere precisi. Gli Aerosmith nei primi anni Settanta sono la più tossica e dissoluta giovane rock
band in giro per l’America. Si fanno di ogni droga possibile e si scopano ogni cosa con un buco tra
le gambe. E fanno dei dischi incredibili. Come Toys in the Attic, terzo di una bruciante escalation
verso il successo che sta travolgendo la band e la sta risucchiando nel vortice del vizio. Dentro ci
sono almeno tre ultraclassici indelebili del loro repertorio: la veloce furia della title track con le
pennate scattanti di Joe Perry e Brad Whitford, la persuasiva Sweet Emotion che Joe intona al
talkbox e il riff che immortala l’invito all’ ispezione vaginale di Walk This Way e che salverà la
band dall’oblio cui sembrava destinata dopo la rottura tra i due Toxic Twins. Sono i Run DMC a
riportarla in voga. La canzone, ma anche i due tossici che così vengono sdoganati anche nel
circuito della MTV-generation e diventano loro malgrado i primi rappresentanti del crossover
metal/rap che per qualche anno dominerà il mercato (Beastie Boys/Slayer, Anthrax/Public
Enemy le altre due leghe pesanti che tengono alto il prezzo del mercato, NdLYS). Il resto è
invece un discreto e fortunato tentativo di arrangiare lo strumming zeppeliniano e le smorfie
stonesiane ad un suono più classicamente americano nella forma e nei riferimenti (Uncle Salty
pesca molto nel southern rock così come Adam‘s Apple è un boogie che sfrutta il classico giro di
Route 66 e il piano di Scott Cushnie su No more No more pesca fin dentro gli stagni di New
Orleans frequentati da Dr. John e Huey “Piano” Smith). Entrambe le facciate, tuttavia, si
chiudono con due cagate clamorose.La prima è una vecchia song R&B di Fred Weismantel scelta
più per le pesanti allusioni sessuali (i 10 pollici cui allude il titolo non sono la misura di un disco,
ma di altro, NdLYS) che per il reale peso artistico che del resto cozza in maniera netta ed evidente
col
resto
del
repertorio
sciorinato
dalla
band
di
Boston.
L’altra
è
la
classica
ballata
strappamutande, genere con cui gli Aerosmith faranno incetta di assorbenti usati e di fellatio
gratuite anche in età senile. Certificato 8 volte disco di platino. Anche se loro continuano ad avere
le facce di stagno.
Franco Dimauro
ML 36
musicletter.it
update n. 77
speciale
SPARKLEHORSE
Il cavallo che voleva scintillare
© 2011 di
Nicola Guerra
C’era una volta un cavallo di
nome Mark la cui più
grande
ambizione era quella di diventare
scintillante.
suonare
la
contempo
Voleva
chitarra
risplendere
cantare,
e
nel
quasi
quanto le stelle. Questo cavallo
aveva
sembianze
umane,
un
cuore umano, una voce delicata
e soave, ma umana. Non nitriva,
non mangiava erba (talvolta però
la fumava) e viveva in un posto
lontano chiamato Virginia. Era un
cavallo docile, dotato di grande sensibilità che aveva chiara la sua missione dopo aver assistito ad
uno spettacolo straordinario di un certo Neil il Giovane, un canadese che girava il mondo con un
gruppo di cavalli pazzi. Capì così che per poter risplendere doveva dare luce dall’interno ai suoi
sentimenti, che ovviamente, essendo metà uomo e metà cavallo, erano molto contrastanti. Da un
lato l’intimismo dell’uomo, con le sue paure e le sue debolezze, dall’altro la vitalità e la gioia di
trovarsi a galoppare attraverso praterie incontaminate, con il vento in faccia e il rumore degli
zoccoli sui campi rigogliosi. Proprio da questa ambivalenza nacque il suo primo disco intitolato
“semplicemente” Vivadixiesubmarinetransmissionplot, perfetto altalenarsi di sfuriate rock,
delicate ballate notturne e rumori a interferenza che donano all’opera un misterioso fascino che
appaga tutti. Mark diventa un cavallo famoso, tutti si complimentano con lui, il signor Capitol lo
invita spesso a prendere il the, un elfo inglese dal nome Yorke ne loda le gesta e canzoni come
Homecoming Queen, Spirit Ditch e Heart of Darkness sono, è proprio il caso di dirlo, cavalli di
battaglia di indubbio valore destinate a resistere alle intemperie del tempo. Mark però si guarda
allo specchio e non vede quella luce che dovrebbe farlo diventare un cavallo speciale, diverso da
tutti gli altri. Questo fatto lo rabbuia, crea in lui sconforto, apatia e delusione tanto da spingerlo in
un bosco buio come la notte, a mangiare bacche velenose e a ingurgitare arbusti tossici. Verrà
salvato per miracolo da un ragno dal sorriso gentile che verrà giustamente omaggiato nel nuovo
disco intitolato proprio Good Morning Spider. Non certo una inversione di tendenza rispetto al
precedente lavoro ma una propensione maggiore alle melodie pop, canzoni che come zucchero
filato in una fiera dei balocchi si destreggiano abilmente fra maiali impazziti, mucche macellate,
uccellini portatori di dolore, piccoli gomiti della santa Maria che in queste galassie fatte di chaos
possono finalmente vedere un uomo felice. A dispetto delle liriche sempre più ossessive, quella
luce che stenta ad accendersi e i soliti fantasmi che riempiono la stalla accogliente di Mark, il
grido verso il cielo dice che la vita è davvero meravigliosa e che bisogna viverla appieno, assieme
alle persone che più si amano.
ML 37
musicletter.it
update n. 77
speciale: sparklehorse
Così Mark decide di organizzare una festa di quelle piene di palloncini, colori, torte, candele
accoglienti e carillon d’epoca dove bizzarri invitati non mancano di omaggiare e cantare con il
cavallo Mark tutta la loro gioia nel trovarsi in un posto davvero incantevole. C’è la bellissima
dama Polly che suona e canta su un pianoforte di fuoco, l’orco di Pomona che si destreggia a
spalleggiare la porta del cane e Nina “la Bionda” che indossa un Cardigan dorato che riflette
una luce irreale. Ma non è ancora quella luce che il cavallo vorrebbe da tempo. In compenso il
tempo passa e di lui si perdono le tracce fino a che l’incontro con un gigante pazzo chiamato
Daniel riconsegna fiducia al povero cavallo smarrito. Il gigante gli chiede gentilmente di aiutarlo a
scrivere un capolavoro e Mark, che non è mai riuscito nell’impresa di brillare, dona la sua anima a
quello che, a detta di molti, diventerà un favoloso esempio di pazzia ai servigi della fantasia. Un
luccichio di luce riflessa che dona speranza, ardore e nuova consapevolezza all’uomo che fino ad
ora è riuscito a donare profondità alla follia. Così, in compagnia del suo amico Dave “Labbra
Fiammanti” Fridman e del Topo Pericoloso, Il nostro Mark si dirige nel ventre della montagna
per coronare e concludere il suo sogno. La famigerata luce sarà però visibile solo a spazzi, quando
i fantasmi ad esempio aleggiano nel cielo, quando il miele delle api si getta nelle ombre e quando
il sole si lascia prendere da lontano. Il resto è il solito tentativo non riuscito (da parte del cavallo)
di conquistare una luce. Noi, che oramai lo amiamo, non facciamo che ripetergli che la sua luce è
già presente da anni nel vasto firmamento. Lo cercheranno invano di convincere l’austriaco uomo
elettronico Fennesz e il Topo Pericoloso, che lo coinvolgerà nel progetto “La notte oscura
dell’anima”. Un luogo nel quale Mark conoscerà il fighetto Casablanca, il freak barbuto Wayne
Coyne, il visionario e onirico David Lynch, il ciccione Black Francis che in passato era riuscito a
mandare in paradiso una scimmia, l’iguana nuda Iggy e il ragazzo sulla carrozzella Vic
Chesnutt. Quest’ultimo decise di fare un viaggio di sola andata nell’oblio e come per magia la sua
stella iniziò a brillare nel firmamento. In quel momento Mark capì che solo un viaggio senza
ritorno avrebbe potuto concedergli la meritata visibilità, la scintillante luce che per quarantotto
anni aveva inseguito senza esito. Così comperò un biglietto a forma di proiettile d’argento e si
diresse verso uno specchio con una piccola estremità ove era impossibile scorgere la fine del
tunnel. Non c’erano fazzolettini a sventolare in quel binario deserto e nemmeno folle oceaniche
che omaggiarono a suon di lacrime il suo gesto di abbandono. Perché tutti sapevano che alzando
gli occhi al cielo potevano avere la conferma che anche un musicista con la testa di cavallo
avrebbe un giorno preso a scintillare nel posto a lui più congeniale.
ML 38
musicletter.it
update n. 77
speciale
JAMES BROWN
Una storia “singolare” (Prima parte)
© 2011 di
Luigi Lozzi
Ci sono state epoche nel passato in cui le classifiche
accoglievano pezzi memorabili di James Brown, come I
Got You, It's A Man's Man's Man's World e Sex Machine,
anni d’oro per un artista che è stato a lungo padrone
della scena black. A tutti appariva chiaro quale e quanto
fosse il peso di Brown sui destini della musica nera;
solo il tempo però, e un certo revisionismo storico,
hanno portato a (ri)considerare l’importanza del tanto
vituperato 45 giri - nei confronti del long-playing nobile
e filologicamente (a ragione o no) più esaustivo - per
tracciare in maniera più completa l’evoluzione musicale
del “Godfather of Soul”. “Soul Brother Number One”
(uno degli appellativi che lo hanno accompagnato nel
corso delle sei decadi sulle quali ha dispiegato la sua
arte; un altro è “The Hardest Working Man in Show
Business”) è stato assieme a pochi altri musicisti
afroamericani davvero influente sullo sviluppo della
musica
popolare,
responsabile
in
prima
persona
dell’evoluzione del R&B in Soul Music (tra la fine dei ’50 e la prima metà dei ‘60) e di questo nel
Funk (tra la fine dei ’60 e i primi anni ’70). Ora, riversare le proprie attenzioni sulle raccolte di
singoli degli artisti che hanno fatto la storia della musica tra i ’60 e l’inizio degli ’80 non è pratica
poi così banale; perché da una parte solletica, e in parte placa (molto meglio quei box con i CD
single che riproducono le copertine originali), l’immaginario collezionistico legato a epoche in cui il
7” dominava il mercato del disco e dall’altra può servire certamente a tracciare un percorso più
sintetico ma anche più veritiero ed aderente all’evoluzione artistica dei beniamini in questione. In
relazione a James Brown possiamo affermare con certezza che i singoli siano stati di gran lunga
più significativi e peculiari dei pur numerosi album incisi, così che chi ha orecchie e cuore per
intendere sappia che da circa tre anni la Universal (nello specifico la Hip-O Select/Polydor) ha
avviato una sistematica pubblicazione (in doppi CD), centellinata nel tempo, dell’intero
monumentale catalogo di 45 rpm sfornata da “Mr. Dynamite” che è giunta al momento in cui
scrivo “solamente” (si fa per dire!) al volume 10, all’anno 1979, e non si è ancora esaurita. Questi
magnifici doppi CD contengono, suddivisi per periodi (si parte dal 1956 con le prime incisioni per
la Federal Records, una costola della King Records) e certosinamente proposti in ordine
cronologico di uscita, centinaia di pezzi con altrettante b-side (con dettagliate informazioni su ogni
brano e sulle date e session di registrazione; pochissime e trascurabili le assenze). Una
retrospettiva unica e di assoluto valore storico. Analizziamo i primi cinque volumi riservandoci di
approntare un secondo capitolo alla prossima occasione.
ML 39
musicletter.it
update n. 77
speciale: james brown
“The Singles, Vol. 1: The Federal Years: 1956-1960” propone i
18 singoli (side A & B), in apprezzabile ordine cronologico, incisi per
la Federal Records, più uno strumentale, "Doodle Bee"/"Bucket
Head", accreditato a James Davis, sassofonista di Brown, un ‘single’
che
costituisce
un
esperimento
in
stereofonia
di
due
pezzi
precedentemente pubblicati ("I've Got to Change" e "It Hurts to Tell
You") ed il demo di "Try Me", che rilanciava la carriera dell’artista
dopo una serie di flop commerciali. In apertura di raccolta "Please,
Please, Please", il brano che ha dato il là alla carriera dell’artista
incisa (accompagnato dal gruppo vocale dei Flames, formato da Bobby Byrd, Johnny Terry,
Sylvester Keels e Nashpendle Knox, che si trasformeranno in ‘His Famous Flames’) il 4 febbraio
1956 e subito entrata nella Top Five R&B hit. “Try Me”, uscito il 13 ottobre 1958 invece al #1
delle classifiche R&B. Altri hit presenti: "I Want You So Bad", "I'll Go Crazy", "Think/You've Got
the Power" e "This Old Heart".
“The Singles, Vol. 2: 1960-1963”; Brown passa dalla sussidiaria
etichetta Federal alla principale, la King Records, e comincia a
beneficiare – in ambito promozionale – di frequenti tour ed
esibizioni (pare sia impegnato 300 giorni l’anno, anche con cinque
show al giorno) volte a farlo conoscere meglio. 40 (tra facciate A e
B) i pezzi proposti in questa seconda raccolta, molti strumentali
(accreditati con la dicitura di ‘James Brown Presents His Band’), 13
entrati nelle classifiche di Bilboard, dei quali i più significativi sono
"Baby, You're Right" (#2 R&B, #49 pop), "Lost Someone" (#2
R&B), "I Don't Mind" (#4 R&B, #47 pop), "Night Train" (#5 R&B, #35 pop) e "Prisoner of Love"
(#6 R&B, #18 pop). Apprezzabile le cover di "Every Beat of My Heart" di Johnny Otis (B-side di
"Like a Baby"), resa in un abbrivio jazzy strumentale da Brown all’organo, "Prisoner of Love",
cavallo di battaglia di Perry Como, e lo standard "These Foolish Things". In questo periodo, tra
l’altro, il ‘Padrino del Soul’ pubblica nel maggio ’63 il mitico “Live at the Apollo”, album epocale
che ne suggella la forza e lo spessore artistico.
“The Singles, Vol. 3: 1964-1965”; alla fine del 1963 James
Brown entra in contrasto con la King Records e firma per la Smash
Records (sussidiaria della Mercury Records). Ma a seguito di questo
la King provvede a pubblicare comunque alcuni 45 giri dell’artista
senza il suo consenso; tra questi una nuova release di "Please,
Please, Please" (che apre la raccolta) del ’56 ‘overdubbed’ per dare
la sensazione che si tratti di una performance ‘Live’ estrapolata da
“Live At the Apollo”, e di "Fine Old Foxy Self" che vive un nuovo
momento di visibilità. Le prime incisioni per la Smash sono piuttosto
confuse: le cover jump-blues di “Caldonia” Louis Jordan e "The Things That I Used to Do" di
Guitar Slim, che non ottengono il consenso dei fan che le bocciano. Brown torna sui suoi passi e
trova un accordo con la King che ha come conseguenza la pubblicazione di classici quali "Papa's
Got a Brand New Bag, Pt. 1" e "I Got You (I Feel Good)", che alla resa dei conti sono i soli brani
significativi di questo periodo complicato per l’artista.
ML 40
musicletter.it
update n. 77
speciale: james brown
“The Singles, Vol. 4: 1966-1967”; il volume 4 copre il periodi
1966-67, un momento ‘caldo’ per il Padrino del Soul costretto a
fronteggiare da solo, poco prima della decisa sterzata funk,
l’emergente offensiva avviata nel campo della black music da
etichette come Stax, Atlantic e Motown, e testimonia la sua
continua innovazione creativa. Brown sforna singoli ad una velocità
impressionante, mantenendo il ritmo di un 45 al mese, ed alcuni di
questi ("Ain't That a Groove", "Don't Be a Dropout",
"Think")
ottengono clamorosi riscontri di vendite, avendo agli antipodi,
incastonate, due pietre miliari come "It's a Man's Man's Man's World" e "Cold Sweat". Un aspetto
oltremodo interessante è dato da quei pezzi strumentali (tra cui cover di "Jimmy Mack" di Martha
& the Vandellas, "Let's Go Get Stoned" di Ray Charles, "Our Day Will Come" di Ruby & the
Romantics e "What Do You Like" di Alfred Ellis) accreditati semplicemente “James Brown at the
Organ”.
“The Singles, Vol. 5: 1967-1969”; in questo doppio cd trovano
posto ben 48 side (tra A e B) dei singoli in vinile di Brown pubblicati
tra il novembre 1967 e il gennaio 1969. I produttori Harry Weinger
e Alan Leeds procedono così nella metodica restaurazione digitale
del copioso materiale inciso dall’artista. Quello qui incasellato è il
periodo di maggior fulgore artistico, un crocevia importantissimo,
con l’evidente (e imminente) passaggio dal groove Rhythm & Blues
ai territori Funky. Ma non solo questo; in un ambito più ampio
anche l’orgoglio del popolo nero trova in James l’uomo che ne
difende l’anelito di integrazione. Tanto che finalmente anche le classifiche Pop di vendita ospitano
sempre più di frequente brani ‘black’ e tali sono molti dei brani presenti in questa compilation.
Troviamo pezzi memorabili quali "I Can't Stand Myself (When You Touch Me)", "There Was a
Time", "I Got the Feelin'", "Licking Stick, Pts. 1&2", "Say It Loud — I'm Black and I'm Proud",
"Goodbye My Love" e "Give It Up or Turnit a Loose" (tutti entrati nella Top 40 Pop Singles). Tra i
momenti più appassionanti e meno celebrati della carriera di James Brown, c’è la soul-ballad
"Goodbye By Love", con la voce ‘sofferta’ del protagonista sostenuta dal magnifico lavoro
dell’organo Hammond; semplicemente deliziosa poi (e rarissima) la facciata B, la strumentale
"Shades of Brown", che è seguita da una "Shades of Brown, Pt. 2", per la quale (stranamente)
non è contemplata la A-side. Questo perché il pezzo è accreditato al disc jockey Steve ‘Soul’
Myers. L’occasione ci offre il destro per sottolineare come in questo periodo le B-side dei singoli di
Brown (quasi sempre strumentali) riservino sovente preziose sorprese che non abbiamo mai
avuto modo di apprezzare a meno di essere stati collezionisti all’epoca della loro uscita. Come per
tutti gli altri dischi anche qui è contenuto un ricco booklet di 28 pagine zeppo di notizie, dettagli
sulle incisioni e memorabilia.
ML 41
musicletter.it
update n. 70
live review
ARTIST: GIOVANNI LINDO FERRETTI
LOCATION:
Bologna, Estragon
DATE: 12.02.2011
WEBSITE:
www.estragon.it
photo by Jori Cherubini
Togliamoci subito quel sassolino dalla scarpa: la perfetta sincronia raggiunta con i sodali che
hanno accompagnato Giovanni dai CCCP, passando per C.S.I. fino al degno epilogo con i P.G.R.
era francamente impossibile da raggiungere. Mancano le chitarre intrecciate e taglienti di
Zamboni e Canali, il basso rotondo e portentoso di Maroccolo, le policromie lunari prodotte
dalle tastiere di Magnelli. Per Ezio Bonicelli e Luca A. Rossi (già membri degli Ustmamò)
sostituire la perfezione raggiunta dai personaggi di cui sopra è stata un'impresa ardua,
ammirevole, ma agguantata soltanto in parte. Tolte chitarre elettriche e acustiche, basso, violino
e drum-machine, il resto delle trame musicali è stato imbastito con l'ausilio di un computer
portatile che faceva intuire una sorta di artificiosità, che però ha penalizzato soltanto in minima
parte lo splendido spettacolo messo in piedi dalla personalità salmodiante, catartica e profonda di
Giovanni. Durante l'esecuzione dei primi brani, l'Appenninico era emozionato a tal punto da
dimenticarsi alcune parole. C'è voluto circa un quarto d'ora per rompere il ghiaccio e una
mezz'oretta per sentirsi completamente a proprio agio, ma a quel punto è andato tutto per il
meglio. I brani proposti, una sorta di "best of", affrontavano tutta la storia musicale di Ferretti:
dai CCCP (molte le canzoni di quel rudimento post-bellico che porta il nome di Epica Etica
Etnica Pathos, su tutte spiccano Annarella e Depressione Caspica) al “Consorzio”: rimangono
impresse le versioni di Brace, Occidente, A Tratti, M'importa 'na Sega e Matrilineare, per non
parlare della palpitante cavalcata poetica Polvere. Le interpretazioni che più convincono sono
quelle riprese dal tosto e martellante lavoro solista Co.Dex: splendida Barbaro; come i pezzi
dell'ultimo, abbacinante, lavoro dei P.G.R. Ultime Notizie di Cronaca dal quale emergono
Cronaca Montana e Cronaca Divina. Ferretti è un personaggio tosto che non può lasciare
indifferenti. Questo spettacolo, avvenuto in un Estragon stipato in ogni anfratto, è l'ennesima
inconfutabile dimostrazione di quanto ci sia bisogno di persone come lui; bella gente d'Appennino.
Jori Cherubini
ML 42
musicletter.it
update n. 76
rubrica
10.000 WATT DAL SOTTOSUOLO
Italiani, autoprodotti, poco conosciuti o in procinto di sfondare
© 2011 di
Jori Cherubini
Nel nostro piccolo siamo stati felici di constatare il successo del primo
numero di questa rubrica. Sono arrivati decine di dischi, più o meno
interessanti, tutti con la richiesta comune di ricevere una recensione.
Alcuni saranno accontentati, altri no. Nel ringraziare i gruppi e le
etichette che ci hanno contattato vale la pena ricordare che lo spirito
di Musicletter non è quello di recensire, bene o male, qualunque
cosa, bensì quello di proporre "il meglio della musica in circolazione"
secondo i nostri canoni di giudizio, buoni o cattivi che siano. Grazie e buona lettura!
CAMERA 237 - Alone In An Empty Bed (Foolica Records, 2011)
Giusto un anno fa, di questi tempi, usciva l'eccellente secondo disco
dei bresciani Record's intitolato De Fauna Et Flora, ben recensito
su queste pagine da Nicola Guerra. A un anno di distanza la
lungimirante Foolica Records dà alle stampe il terzo lavoro dei
Camera 237, che segue di un paio di anni il più modesto (a partire
dall'ironica ammissione di colpa del titolo) Inspiration Is Not
Here. Alone In An Empty Bed è un album interamente cantato in
inglese e suonato con grazia e cognizione. L'indole palesata dal
gruppo è post rock, benché gli strumenti vadano oltre quelli propri
del genere; oltre a percussioni, basso e chitarre si fa un uso sapiente di sintetizzatori e tappeti
elettronici assortiti che rendono il lavoro ancora più intrigante. Se durante i primissimi ascolti il
disco rischia di apparire un tantino monotono, bastano una manciata di “repeat” per intuire la
cifra stilistica del gruppo e venirne catturati. Interessante 6.00 A.M. che parte con andamento
claudicante per poi trasformarsi in una ballatona propulsiva che non sfigurerebbe nella
"distruzione perfetta" dei Low. Altrove i ritmi tendono a placarsi e sembrano scorrere sotto pelle,
piacevolmente e senza fare troppo rumore, per poi rialzarsi quando meno te lo aspetti, come nel
caso della cantilena ancestrale Nova Ruda, nel finale distorto e ipnotico Caledonian McBryne o in
John Arne. (www.camera237.com)
BENZINA – Amo l'Umanità (Cinico Disincanto, 2010) - Rock
granitico e sferzante a cavallo fra underground e mainstream;
potremmo sintetizzare così la prima prova su lunga distanza del
gruppo partenopeo Benzina. Amo l'Umanità emana un suono
coinvolgente e caparbio, quasi epico, in grado di innescare scintille.
La voce di Antonio de Tamburo, quasi in falsetto, senza dubbio è
dotata di grande estensione tanto da ricordare terribilmente la
glacialità di Matthew Bellamy. Proprio i Muse sono il primo termine
di paragone che arriva all'orecchio. Il secondo va da sé sono i
Negramaro e i Subsonica più agitati (Maledetto). Il gruppo
sembra avere potenzialità e carte in regola per fare il grande salto. Il problema (irrisolto) è se
puntare al grande pubblico e di conseguenza "adattarsi" al gusto comune o invece fregarsene e
seguire il proprio istinto; speriamo vivamente nella seconda ipotesi. (www.benzinamusic.it)
ML 43
musicletter.it
update n. 76
rubrica: 10.000 watt dal sottosuolo
L'INFERNO DI ORFEO – Canzoni dalla Voliera (Hertz Brigade,
2011) - Pur essendo al disco di debutto, questi ragazzi provenienti
dal capoluogo piemontese, sono in giro a suonare da un paio di
lustri. Capacità e maestria sono abbastanza evidenti e la prima cosa
positiva che si nota è la voce duttile, tagliente e un po’ à la Carmen
Consoli di Sydney Silotto (!?, ndr) che
oltre a cantare suona le
tastiere. Si aggiungono basso, chitarra e batteria per forgiare un
suono che amalgama pop e rock a una sopportabile indole neoprog. Il loro biglietto da visita è il brano In Collina, Lontano, scelta
diligente visto che è una ballata coinvolgente e a presa immediata. Trent'anni descrive in maniera
quasi impietosa l'arrivo degli "enta": "E ce l'hai scritto in faccia che hai trent'anni e ancora fai
fatica a parcheggiare, e i lividi sulla faccia di tua madre che ancora fa fatica a faticare". Altrove i
ritmi si fanno incalzanti, come nel funk rock di Non Si Era Detto di Parlare?, si trasformano in
metal grezzo nel finale di L'età Lirica o producono cloni battistiani nell’ottima Nonostante il Resto.
L’intero album è contornato di sentimenti, incontri fugaci e abbandoni. Il finale è affidato all'outro
In Piccola Vita, una cantilena che si riallaccia armonicamente al primo brano, e la voliera si
schiude. (www.linfernodiorfeo.it)
ML 44
musicletter.it
update n. 75
rubrica
PRESI NELLA RETE
Scarlets, Dance for Burgess, Death by Pleasure, Nurse!Nurse!Nurse!, Chambers.
© 2011 di
Stefano Bon
È sorprendente come certi suoni che al
momento
della
loro
comparsa
furono
musica per una cerchia di adepti non
amplissima, ritornino a distanza di anni
diventando
in
ispirazione
per
breve
tempo
svariate
fonte
bands.
di
Nella
seconda metà degli anni ottanta ci fu un
generale ritorno alla psichedelica, ma di
certo questa espressione musicale non
poteva competere con i Duran Duran o
Spandau delle top-charts (purtroppo) ma
nemmeno con il sound arrembante di
Smiths e REM tanto per fare due esempi.
Qualche
traccia
importante
si
poteva
trovare nel decennio successivo, ma che si arrivasse fino ai nostri tempi e per giunta in Italia è
bizzarro, oltre che piacevole. Parliamo dunque degli Scarlets (www.myspace.com/wearescarlets)
da Torino, ma che di italiano non hanno nulla con un approccio alla materia molto naturale ed
affatto di imitazione. Le loro canzoni sono fra le migliori ascoltate negli ultimi tempi se i vostri
punti di riferimento vanno dal brit-pop dell’ultima generazione all’evoluzione della new-new-wave
(e accidenti a tutte queste sigle!) comunque da poco è uscito un loro disco intitolato “Slendid
chaos” (Angle records) e non si vede il motivo perché non dobbiate prestare ascolto a loro,
piuttosto che alle recenti scialbe derivazioni degli Oasis che a torto occupano le pagine della
stampa specializzata. Sempre new-wave, ma questa volta di “forma classica” per i Dance for
Burgess (www.myspace.com/danceforburgess) con un piccolo debito verso i Cure meno
commerciali, ma anche ad artisti meno allineati sul fronte della melodia. La loro rielaborazione
però è tutt’altro che pedissequa, così i loro brani filano che è una meraviglia, tra suggestioni
sincopate ed abrasività elettriche; anche per loro segnaliamo un disco: “SSA” (MASHHH Rec.).
Stessa etichetta per un altro interessantissima band che, tanto per tornare ai discorsi iniziali,
dalla neo-psichedelia qualcosa prende, ma ne fa una cosa tutta sua. Da Trento ecco il duo (ma
non si direbbe) Death by Pleasure (www.myspace.com/dbypleasure)
qui la consueta new-
wave, ormai “matrice” di ogni band che si rispetti, si trasfigura grazie a passaggi onirici per
diventare un suono corposo e disturbante figlio di mille esperienze musicali, ma non per questo
meno
eccitante.
Dalle
Nurse!Nurse!Nurse!
parti
bizzarra
della
psichedelia
formazione
veleggiano
autoproclamatasi
sicuramente
“tascabile”
sulla
anche
cui
i
pagina
(www.myspace.com/radiomox) troverete tre brani (tra cui un geniale “Rovina Power”) di acido
funk non certo discotecaro, le cui asperità potrebbero portarvi fino alle terre del math-rock. Non
mancano certo le scabrosità nemmeno nel suono dei Chambers che sebbene definiscano la loro
musica “terapeutica e di facile ascolto” (da www.myspace.com/chambersssss) mettono in scena
un suono doloroso e scarnificato che colpisce sia per la sua forza che per la sua particolarità, non
avendo epigoni né nel nostro paese, ma nemmeno in giro per l’Europa. Uno degli ascolti più
interessanti degli ultimi tempi di sicuro.
ML 45
musicletter.it
update n. 77
rubrica
SOGNATORI DI FRODO
Mentre la radio suona… “Downbound Train” di Bruce Springsteen
© 2011 di
Stefano Bon
Lorenzo scappò di casa per la prima volta a quindici anni.
Lo presero subito, sulla statale a 10 chilometri da casa,
mentre faceva l’autostop.
Sua madre si disperò e lo insultò, pianse e lo pregò di non
farlo mai più.
Lui però era sicuro di essere dalla parte della ragione: voleva
solo raggiungere suo padre.
Lorenzo ci riprovò circa un anno più tardi, ma gli andò male
un’altra volta. Meditava però di scappare ancora, con più
convinzione ed un piano più preciso. Voleva a tutti i costi
raggiungere suo padre.
I suoi genitori erano separati da sempre. Aveva vissuto con la
madre e la nonna, mentre il padre, dopo due anni di
matrimonio, quando Lorenzo aveva circa dieci mesi se ne era
andato da casa.
Non si era incapricciato di un’altra donna, né era impazzito, se ne era semplicemente andato,
dicendo che la vita del marito e del padre non facevano per lui. Per la madre di Lorenzo fu dura,
ma tirò su il ragazzo con tutte le sue forze. Cancellare il padre dalla mente di quel bambino era
l’unica cosa che non le era mai riuscita.
Lorenzo aveva visto l’uomo due volte, la prima a otto anni, poi a dodici, per lui era sempre stato
un mito: l’uomo che aveva osato rifiutare gli obblighi della famiglia; il ribelle che viveva chissà
dove.
Quando compì diciotto anni era ovvio che nessuno avrebbe potuto dirgli più nulla, ma la madre
non ne aveva alcuna intenzione, stanca dell’atteggiamento del figlio, pensava che tanto, prima o
poi, avrebbe dovuto conoscere suo padre.
In segreto tentò anche di aiutarlo, così provò a mettersi in contatto con l’ex marito perché si
preparasse a ricevere il ragazzo. Non lo rintracciò, ma riuscì a parlare al telefono con una donna
che probabilmente conviveva con lui.
Lorenzo partì in treno per il profondo sud, dove il padre viveva da una decina d’anni. Il viaggio fu
lungo, ma lui ingannò il tempo pensando a quell’uomo, a ciò che gli avrebbe detto, al momento in
cui gli avrebbe raccontato dei suoi sogni e dei suoi progetti; tutti argomenti che sua madre invece
trattava con sufficienza.
L’uomo abitava in un casolare in un paesino alle pendici di un vulcano ormai spento.
Lorenzo si ricordava di aver sentito parlare di una fattoria con animali, con l’aria pulita, tanti
alberi ed il cielo sempre azzurro. Lì invece sembrava tutto abbandonato; erbacce e rifiuti sparsi
ovunque.
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rubrica: sognatori di frodo
Le finestre e le porte erano malmesse così come l’intonaco della decrepita casa ad un piano;
mancava anche il cielo azzurro, visto che era coperto da nuvole scure e minacciose, ma
soprattutto non c’era traccia di anima viva. Il campanello non esisteva allora Lorenzo incominciò a
chiamare, poi si fece coraggio, entrò dal cancello e andò a bussare. La risposta fu sempre la
stessa: silenzio.
Poco più tardi iniziò a piovere, era stanco, decise di aspettare lì seduto sui gradini dove poteva
stare riparato in attesa che si facesse vivo qualcuno.
Dopo il tramonto, quando già iniziava a disperare, passò una piccola corriera che si fermò poco
lontano da cui scesero due donne. Si avvicinarono camminando lentamente per poi entrare dal
piccolo cancello.
Non avevano un’aria amichevole e Lorenzo iniziò ad innervosirsi, una era una donna sui quaranta
dai capelli nerissimi e minuta di corporatura, l’altra era una vecchia sui settanta, che lo guardò
con odio.
Il ragazzo cercò di spiegare, ma la donna senza usare un tono cordiale, disse che sapeva tutto,
ma che suo padre se ne era andato alcuni giorni prima e che non sarebbe più tornato. Per lui fu
un colpo basso, si mise a sedere di colpo, mentre le donne, senza degnarlo di uno sguardo
entrarono in casa.
Rimase lì per un po’ finché uscì di nuovo la donna più giovane per chiedergli se volesse mangiare.
Lorenzo ringraziò e si scusò, dicendo che non voleva recare disturbo, ma non sapeva più che cosa
fare e non sapeva neanche dove andare, le chiese se avesse potuto anche dormire lì. Lei gelida
acconsentì, puntualizzando però che la mattina dopo se ne sarebbe dovuto andare.
A tavola la sensazione di essere un ospite indesiderato aumentò: nessuno parlava e la vecchia
continuava a guardarlo quasi con ripugnanza; in più Lorenzo, che si era inzuppato di pioggia nel
pomeriggio trascorso ad aspettare sui gradini, non si sentiva bene. Più tardi, la donna giovane, gli
indicò il suo letto senza certo augurargli la buona notte e mentre si preparava per andare a
dormire, sentì le donne che discutevano animatamente, aprì la porta e tese l’orecchio, ma
parlavano in dialetto e non capì quasi nulla. Gli rimasero impresse solo due parole, “piccolo
bastardo”, pronunciate dalla vecchia e questo aumentò il suo disagio.
Durante la notte dormì male, fu assalito da incubi, ogni tanto sentiva freddo, altre volte caldo.
Solo verso mattina, quando gli venne da vomitare, capì di essere preda della febbre. Mentre era
in ginocchio piegato sul water, arrivò la donna giovane, che lo guardò poi posò una mano sulla
sua fronte, finché lui svenne.
Quando si risvegliò non sapeva che ora fosse, né quanto tempo fosse passato, sapeva solo che
aveva avuto altri incubi ancora più brutti. Si sentiva debole e con la bocca impastata. Si mosse a
fatica, nel tentativo di sollevarsi, in quell’attimo entrò nella stanza la vecchia.
Lorenzo aveva paura, ma la donna aveva perso il suo aspetto minaccioso ed anzi lo guardava con
una certa apprensione, anche lei gli appoggiò la mano sulla fronte, poi versò dell’acqua in un
bicchiere per dargli da bere. Quando vide che il ragazzo poteva farcela da solo, andò di nuovo
nella stanza attigua. Si mise a gridare “Angelina” più volte. Dopo pochi minuti arrivò la donna più
giovane. Sorrise a Lorenzo che incominciava a sentirsi a suo agio e prima che il ragazzo potesse
farle delle domande Angelina gli spiegò tutto.
“Tuo padre ha vissuto qui per dieci anni. Era mio marito, anche se non mi ha mai sposata. L’ho
amato e gli ho dedicato la parte migliore della mia vita. Un giorno se n’è andato senza nessun
motivo. Ha lasciato solo un biglietto con su scritto “Scusa, ma non ce la faccio più.
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Ti amo, per questo vado via.” Ecco perché all’inizio io e mia madre ti abbiamo trattato male, ma
non ce l’avevamo con te.”
Lorenzo seguiva con attenzione, ma non riusciva a mettere a fuoco tutto, forse perché era ancora
frastornato. Angelina riprese a parlare con tono affettuoso. “Ha telefonato tua madre. Le ho detto
di non preoccuparsi.” Sospirò. “È una brava donna. Brava e fortunata ad avere un figlio come te”.
Se ne andò senza guardare il ragazzo. Lorenzo disse che si sarebbe messo in sesto in fretta ed
avrebbe tolto il disturbo. Angelina sorrise con dolcezza e disse : “Qui sei a casa tua”.
Pochi giorni dopo infatti Lorenzo era in grado di ripartire, telefonando a sua madre era venuto a
conoscenza che ora l’uomo viveva nei pressi delta di un grande fiume. Salutò così con affetto
Angelina e sua mamma promettendo che sarebbe tornato a trovarle, poi proseguì la sua ricerca.
Arrivò in stazione verso sera e prese il primo treno diretto di nuovo verso nord.
Il viaggio sarebbe stato lungo, fu contento allora quando una ragazza, più o meno della sua età,
andò a sedersi nello stesso scompartimento.
Durante il tragitto i due giovani iniziarono a familiarizzare. Lei si chiamava Ingrid era inglese, ma
suo padre era di quelle parti; era stata là a trovare i nonni ed ora tornava verso casa. Era una
ragazza strana: nei suoi discorsi alternava concetti di assoluta libertà ad altri assai conservatori.
Lorenzo ne era conquistato, anche per l’avvenenza della ragazza che stette inizialmente un po’
sulle sue, poi, con il trascorrere dei chilometri, si lasciò andare.
Dopo pochi chilometri i due ragazzi parlavano già liberamente dei propri gusti e dei propri sogni;
più avanti si erano scambiato il primo bacio e dopo un’altra ora di viaggio si dichiararono
innamorati, finché dovettero cambiare treno.
Ingrid aveva deciso di seguire Lorenzo nella ricerca di suo padre perché, diceva, sentiva che
aveva bisogno di lei. Dovettero aspettare alcune ore, erano stanchissimi, ma Lorenzo non riuscì
ad addormentarsi per l’eccitazione di tutto quello che gli era accaduto: stava per conoscere
veramente suo padre ed aveva anche trovato l’amore, non stava nella pelle dalla felicità.
Ingrid invece si era accovacciata vicino a lui e si era assopita. Il ragazzo la guardava ed in quel
momento si ricordò ciò che sua madre gli raccontava da bambino riguardo agli angeli. “Devono
essere così gli angeli” pensò.
Dopo altre svariate ore in treno ed in autobus giunsero nel paesino dove abitava l’uomo. Non gli
fu difficile individuarlo in quel borgo di quattro anime, dove si sa tutto di tutti e dove un
personaggio così strano non poteva non essere notato. Il padre di Lorenzo viveva da solo in un
capanno da pesca, senza amici, senza moglie e senza figli, almeno fino a quel momento.
Quando bussarono alla porta del capanno, si trovarono di fronte un uomo assonnato, spettinato,
con barba e capelli lunghi e incanutiti. Si mostrò perplesso di fronte ai due giovani, Lorenzo era
bloccato dall’emozione, così fu Ingrid a parlare. “Questo è tuo figlio. Lorenzo!”. L’uomo non
sembrò particolarmente sconvolto, né sorpreso. Si mise a ridere e li invitò ad entrare. Quando si
sedettero tutti e tre, restarono in silenzio per un po’, tutti abbastanza a disagio finché l’uomo
ruppe il ghiaccio con una domanda stupida. “Allora, come sta la mamma?”
Lorenzo iniziò a parlare con fatica e senza convinzione. La conversazione si bloccò di nuovo,
Ingrid però disse di aver fame, così l’uomo si mise a preparare la cena evitando eventuali altre
domande.
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Il gelo rimase per tutta la serata, ma quando andarono tutti a dormire; poco prima di salutarsi
Lorenzo fece partire quella domanda che gli bruciava nel petto. “Perché te ne sei andato? Perché
ci hai lasciato?”. Il padre se l’aspettava. “Domani ti spiegherò tutto” disse. “Ora vai a riposarti”.
Non ci volle solo il giorno successivo per chiarire le cose, ma intanto il rapporto si rinsaldava, il
figlio riconosceva delle ragioni nel padre ed il padre vedeva il buon carattere del figlio.
“Ho lasciato la mamma, perché sapevo che io non sarei stato un buon padre e marito”, confessò
l’uomo e di rimando il ragazzo gli diceva con enfasi : “Per anni sei stato il mio idolo, l’uomo che
avrei voluto essere io”. A questo punto il padre si rabbuiò. “Facevi male, perché io ho sbagliato.
Sono stato un vigliacco, un immaturo”. Parlarono anche del suo rapporto con la madre prima che
lui venisse al mondo. “L’amavo veramente, poi non so neanch’io cosa sia successo”; quindi di
Angelina, che però intristì Lorenzo, che aveva imparato a volerle bene. “Una persona
insopportabile” disse invece il padre inacidito. “Mi ha portato via gli anni più belli della mia vita!”.
Dopo alcuni giorni i due s’intendevano già a meraviglia parlando delle proprie esperienza con
grande interesse reciproco; sullo sfondo rimaneva Ingrid che era incuriosita dalla strana
situazione, ma veniva trattata con affetto, come se fosse della famiglia anche lei.
L’uomo viveva di espedienti, si vedeva, ma i ragazzi facevano finta di nulla, non possedeva né
telefono, né auto, anche perché si dichiarava nemico della tecnologia. Lorenzo e Ingrid andavano
a turno in paese con la corriera per fare la spesa.
Un giorno il ragazzo, dopo essersi fatto la scarpinata di due chilometri per arrivare alla fermata,
apprese che quel giorno i mezzi pubblici erano in sciopero.
Rientrò al capanno e trovò suo padre ed Ingrid nudi e stesi sul letto.
Il suo arrivo suscitò più ilarità che sconcerto; l’uomo sorrise con serenità, mentre la ragazza si
mise a ridere goffamente.
Lorenzo era una statua di sale, con il cuore duro come il marmo.
Il padre gli chiese cosa fosse accaduto, lui rispose meccanicamente che gli autobus erano in
sciopero. Il loro dialogo finì lì.
Lorenzo prese il suo zaino e se ne andò, nessuno lo trattenne.
Lungo la strada si mise a fare l’autostop, ma non passava molta gente e dopo un’ora era ancora
lì. Arrivò però con passo incerto suo padre. “Lascia stare, non si fermerà nessuno” fu il suo
consiglio. Lorenzo tacque. Il padre insisteva. “Sono venuto a chiederti scusa. Guarda, non l’ho
mai fatto con nessuno.” Lorenzo continuò a far finta di nulla.
“Che ti frega in fondo di una ragazza? Sei giovane, sei bello... ne puoi avere quante ne vuoi....”
In quel momento spuntò un’auto, Lorenzo sporse il braccio con il pollice alzato, il veicolo rallentò
per poi fermarsi. Il padre lo afferrò per un braccio “Ti ho deluso?” chiese con rabbia. Il giovane lo
guardò senza alcuna espressione, ma senza cattiveria.
“No, ma ho scoperto che sei un uomo come gli altri e per un figlio non è poco” L’occupante
dell’auto aprì la portiera e si rivolse ai due. “Dove andate?”.
Lorenzo salì a bordo “Io vado dove va lei.” disse “Lui invece è già arrivato”.
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rubrica
SIDEWAYS
Il bicchiere è sempre mezzo pieno
© 2011 di
Marco Archilletti
Una legge non scritta riguardo al vino, secondo Andrea Scanzi e
secondo logica, recita la superiorità del vino in bottiglia (quello di
marca, per capirci) rispetto a quello sfuso, comunemente detto "vino
della casa". Posso giurare davanti a una giuria di aver passato
pomeriggi dionisiaci accompagnando con il vino della casa pranzi
signorili, ma ci sono casi in cui ho maledetto la scelta tesa a
risparmiare denaro. Perché, diciamolo francamente, si sceglie il vino
sfuso, al ristorante o quando si fa la spesa per le feste casalinghe,
soltanto per evitare di sacrificare il conto in banca sull'altare del
Sagrantino di Montefalco. Qualche bestemmia ancora la butto se
ripenso alla sera in cui riesco a uscire con Patrizia con intenzioni
sconce dopo settimane di conoscenza poco carnale. Far bere una
ragazza in modo che sia più gentile è una delle poche cose che ancora
fanno incazzare le femministe, quella rispettabile specie umana i cui argomenti diminuiscono a
ogni episodio di bunga bunga che veda impegnate una ventina di fanciulle in compagnia di un
paio di luridi vecchi impomatati. Patrizia è anche la protagonista femminile di Romanzo Criminale,
ma la mia Patrizia non è una zoccola e non ama i delinquenti. Ha un solo difetto: non regge il vino
di mediocre qualità. Tra i pregi: non si lascia incantare dal lusso e adora bere. Dunque non c'è
bisogno di offrirle un Brunello di Montalcino per fare bella figura e, soprattutto, non avrò sensi di
colpa ubriacandomi con lei visto che non ha mai avuto bisogno di essere incoraggiata a buttare
giù un paio di bicchieri di vino rosso. Oltretutto è già cotta, ci siamo baciati qualche ora fa, in
stazione. Eppure alla taverna farei meglio a scegliere una bella bottiglia; anche un banale Nero
d'Avola da 11 euro mi aiuterebbe a evitare il disastro che si manifesterà a fine serata. Beviamo
un litro di vino sfuso, mangiandoci su qualche ciambelletta. Patrizia si struscia, ammicca, scherza.
Quelle due ore nella taverna devono essere l'antipasto di una notte memorabile. Lei ha occhi
grandi e scuri, capelli castani mossi, modi eleganti tranne, appunto, la tendenza a ubriacarsi
presto. Che poi, a dire il vero, non è elegante una donna che beve vino rosso? Lo sarebbe
sempre, se io scegliessi per lei una bottiglia decente anziché un litro di dubbia provenienza
raccattato a 4 euro in una taverna che lo avrà preso a cinquanta centesimi in una cantina delle
campagne circostanti. Patrizia fa la maestra elementare fuori città ma domani è domenica quindi
non ha la solita scusa di dover tornare presto a casa. Facciamo un giro in macchina poi comincio
a baciarla e a toccarle le gambe sotto la gonna nera con tanto di spacco che ha fatto gridare
"puttana" a un gentiluomo che ci ha visto uscire dalla taverna. Ha gli stivalotti neri col tacco che
da sempre mi fanno impazzire in qualsiasi ragazza. È l'inizio di una grande notte, lei me lo ha già
preso in mano e io sto leccando le sue tette. Ha un gran bel fisico, Patrizia, anche se ha qualche
anno più di me.
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rubrica: sideways
Pancia piatta, tette grandi, due belle gambe magre, una leggera puzza di sigaretta in bocca che
per me è sempre una sgradita sorpresa visto che non ho mai fatto un tiro in vita mia. Si può dire
che quelle (poche) ragazze fumatrici che ho baciato siano le responsabili delle uniche sigarette
finite nei miei immacolati polmoni a creare momenti per i quali il termine "fumo passivo" appare
eufemistico. Sempre meglio una ragazza che sa di fumo di una che sa di vomito, però. Non farò
l'amore con Patrizia stanotte, e non ci sarà più niente di intimo fra noi due. Il pessimo vino
bevuto non ha portato danni alla mia salute ma lei non ce la fa più. La aiuto a collassare al bordo
della statale, sperando che non rovini il suo bel cappottino nero a colpi di pezzetti di ciambelle
colorati di rosso scuro. È colpa mia, ho rovinato tutto dimenticando la regola non scritta. Questo
episodio segna uno spartiacque tra il mio vecchio modo di consumare il vino e quello (più
raffinato) che spero di conservare tra le mie abitudini future. Non è stato quindi il guru Scanzi,
che pure di persona mi ha ribadito di non aver mai bevuto in vita sua un gran vino che non fosse
ufficialmente imbottigliato e registrato, ma la sbronza triste e ingenua di una maestra elementare
in una fredda notte di dicembre a farmi sentire un idiota e a farmi giurare davanti al mondo che
non commetterò più un simile scempio. Due anni fa con il Pupillo (da non confondersi con Pupillo
degli Zu che suona pure in quel miracolo post-folk che si chiama Ardecore) provammo a farlo,
questo benedetto vino della casa. Fu un'esperienza fantastica, educativa. Mi resi conto di quanto
è difficile stare appresso all'uva e di quanta fortuna ci vuole per ricevere dal fato tradotto in
condizioni atmosferiche una bevanda che non sia semplicemente un mezzo per stare male quanto
invece un fine ultimo. Il vino dunque è qualcosa a cui tendere, non qualcosa da usare: verdetto
altisonante quanto utile da tenere a mente. Con o senza donne in sala.
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frammenti di cinema rimosso: sedicesima parte
LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO
Un film di Elio Petri
Regia di Elio Petri
Ugo Tucci per Euro International Film
1971 (U.S.A.)
di Nicola Pice
L'Italia cinematografica degli anni '60 aveva vissuto una stagione di grande rinnovamento: alla
generazione dei Visconti, Antonioni e Fellini che aveva portato il cinema d'arte italiano ad essere il
più originale del mondo, s'erano aggiunti nuovi ed importanti contributi. I film italiani - pur in
carenza d'un movimento assimilabile alla “nouvelle vague” e, d'altra parte, con il “neorealismo” la
nostra cinematografia, prima di quelle di altri paesi, aveva già sperimentato una propria e
autoctona strada alla modernità – s'erano arricchiti dell'apporto di autori che segneranno
indelebilmente la storia del nostro cinema: figure eccentriche e caustiche, come quella di Marco
Ferreri, oppure auliche e sostanzialmente inclassificabili – pensiamo a Pier Paolo Pasolini –
coraggiosamente sperimentatrici nel solco d'una vocazione cinefila, alla maniera di Bernardo
Bertolucci, oppure furiosamente iconoclaste e polemicamente ideologizzate, alla maniera di Marco
Bellocchio. Nel corso di questa decade persino la commedia – con i film di Dino Risi - aveva
cambiato registro fustigando con un tono meno consolatorio i vizi di una nuova (de)generazione
di italiani. Grazie a un'intuizione di Sergio Leone era nato lo “spaghetti western”, un western
all'italiana che sviluppava un'estetica completamente differente da quella classica e, in definitiva,
anche i cosiddetti “generi cinematografici” avevano conosciuto un periodo di grande penetrazione
commerciale presso il grande pubblico che aveva permesso ai produttori di sostenere
finanziariamente il cinema “autorale”. Al contrario gli anni '70 segnano, sotto molteplici aspetti,
l'inizio del declino del nostro cinema (che toccherà il suo punto più basso nella decade successiva)
inteso come apparato economico in grado di intercettare i gusti del pubblico e orientarli a sua
volta in un sistema corrente che fosse in grado di coniugare, al contempo, innovazione stilistica e
tradizione popolare. Nel corso di questi anni non mancheranno – è il caso di precisare –
(numerose) opere d'elevato livello qualitativo e prove d'autore di profondo spessore artistico ma
nel suo complesso la cinematografia italiana vivrà una fase di “impasse” speculare probabilmente
a quella della nazione che a partire dalla seconda metà del decennio acquisterà le caratteristiche
definitive d'una conclamata crisi economica e politica. Le rivendicazioni sociali sempre più
turbolenti – che sfoceranno nell'inquietante e violento periodo della “lotta armata” terrorista e
stragista, una ferita ancora oggi aperta per il paese – la secolarizzazione dei costumi e la
conseguente evoluzione del cosiddetto senso del pudore, l'influsso esercitato dalla televisione
sulla popolazione grazie al progresso nella qualità dei servizi offerti non potranno non
condizionare la produzione cinematografica.
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frammenti di cinema rimosso: sedicesima parte
E infatti: muta pelle la commedia che, alla ricerca di un approccio meno convenzionale, in sintonia
con i tempi cupi, racconta storie irrimediabilmente tristi, e, diversamente dal cinema statunitense
e da gran parte di quello europeo, che inaugurano negli anni '70 la tendenza ad abbattere gli
steccati tradizionali tra i generi superando stili e strutture ormai logore, fiorisce una “exploitation”
tutta italiana con vari filoni anche quelli più scollacciati. I “poliziotteschi” di Fernando Di Leo, i
thriller di Umberto Lenzi, gli horror di Lucio Fulci e, soprattutto, di Dario Argento, le provocazioni
erotiche di Tinto Brass ridefiniscono e rivitalizzano gli stilemi filmici a cui s'ispirano. Anche il
cosiddetto “cinema politico” - con tutte le sue implicazioni sociali – che aveva conosciuto il suo
culmine nella decade precedente con le opere, tra gli altri, di Francesco Rosi, Elio Petri, Gillo
Pontecorvo, Damiano Damiani, Vittorio De Seta
e Francesco
Maselli, subisce profonde
modificazioni. Se in precedenza, infatti, i toni erano calibrati sulla “medietà” stilistica ed era
prevalente il carattere assertivo della narrazione con evidenti funzioni pedagogiche, le violente
turbolenze sociali distruggeranno il sistema di valori perno del progetto politico progressista “en
vogue” alla fine degli anni '60 cambiando totalmente le modalità stesse di questo tipo di cinema
che, come vedremo, metterà in scena i dubbi sulla possibilità da parte del potere di capire e
risolvere la complessità di questo delicatissimo momento storico. Il 1971, l'anno a cui siamo
giunti con questa rubrica che vuole ricordare opere sepolte nell'oblio della memoria e, comunque,
lontane nel tempo, vede l'uscita più o meno simultanea, certamente casuale ma significativa del
mutato clima sociale, di tre film che, pur nella loro diversità, sono idealmente assimilabili ad un
cinema d'impegno politico. Dopo “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970),
Elio Petri prosegue sulla strada del cinema civile concentrando l'analisi su quello che – è il
teorema di fondo de “La classe operaia va in paradiso” - ritiene possa la causa principale del
disagio umano: la ricerca ossessiva, e dunque insensata, del profitto. Utilizza, allo scopo, la figura
più debole del fragile sistema capitalistico, l'operaio, che paradossalmente - in quegli anni di
grandi rivendicazioni contrattuali (in quest'opera si allude alla vertenza dei metalmeccanici del
sessantanove) – era da chiunque, classe politica compresa, considerato il responsabile di ogni
male sociale a causa del suo elevato tasso di conflittualità. La rappresentazione di Lulù Massa
(nomen omen a evidenziare una condizione applicabile universalmente alle classi più umili),
addetto alla catena di montaggio in una fabbrica, risulta di grande efficacia, complice la
straordinaria interpretazione di un attore ispirato come Gian Maria Volontè, l'esemplificazione
d'una alienazione assoluta che traspare con evidenza in ogni momento del film. La macchina da
presa scandisce implacabile la ripetitività dei gesti quotidiani del protagonista (le levatacce
mattutine, le incomprensioni familiari, l'approccio maniacale al lavoro) preludio di una vera e
propria discesa agli inferi: la separazione dalla moglie con cui non ha più alcun tipo di rapporto, il
taglio del dito, la partecipazione (dopo i precedenti rifiuti) allo sciopero per la vertenza sul
cottimo, la carica della polizia, la solitudine (alleviata solo parzialmente dal vecchio compagno
comunista Militina), il licenziamento e la successiva riassunzione che ha il sapore di amara resa.
Petri adotta i codici estetici della commedia per rendere fruibile da un punto di vita narrativo ciò
che risulta “visivamente” inaccettabile: il progressivo abbrutimento di Lulù Massa, insostenibile
allo sguardo dello spettatore e insopportabile anche a quelle forze politiche di sinistra che
criticarono il film e non digerirono una rappresentazione così angosciante di quella classe operaia
di cui rivendicavano, al contrario, una sempre crescente consapevolezza ed emancipazione.
ML53
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La messa in scena delle debolezze di Lulù Massa e dei suoi compagni, le divisioni insanabili, il
contesto culturale e sociale in cui si muovono (la sterile protesta sessantottina degli studenti, la
retorica degli intellettuali, la violenza repressiva della polizia e delle istituzioni, la furia ideologica
del sindacato) non traggano, però, in inganno. Esse sono ricondotte da Petri nell'alveo delle
contraddizioni umane ma per il regista colpevole è la spietata organizzazione di un sistema
economico il cui unico obiettivo è il perseguimento del profitto prescindendo dal rispetto degli
individui, piccoli ingranaggi di un apparato produttivo che non si può fermare. L'immagine finale
di Massa/Volontè al lavoro nella catena di montaggio fra rumori assordanti che racconta
inascoltato un sogno del vecchio Militina è l'eloquente dimostrazione per Petri che la
Fabbrica/Sistema vince sempre schiacciando coloro che si ribellano a essa o riassorbendoli tra le
sue fila più docili che mai.
ML 54
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SACCO E VANZETTI
Un film di Giuliano Montaldo
Regia di Giuliano Montaldo
Jolly Film/Unidis/Theatre Le Rex
1971 (Italia - Francia)
di Nicola Pice
Il secondo film, uscito nel 1971, riguarda un tipico esempio di cinema civile in cui si mescolano
elementi di carattere politico che hanno avuto una grande risonanza nel passato: “Sacco e
Vanzetti” che vede la luce, come s'è detto prima, in un clima favorevole alla revisione di episodi
clamorosi e di gravi errori da cui la vicenda dei due anarchici italiani fu segnata. Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti, immigrati italiani negli Stati Uniti, infatti, furono accusati di aver rapinato un
calzaturificio e di aver ucciso due cassieri. Non avevano compiuto alcun crimine e, nonostante
l'energica difesa in tribunale, dopo sette anni dalla pronuncia della sentenza di colpevolezza (in
cui fra l'altro emersero ulteriori nuove prove d'innocenza) furono giustiziati sulla sedia elettrica. Il
film di Giuliano Montaldo si differenzia dalle altre opere appartenenti al cinema attento ai fatti
della realtà sociale perchè l'autore non sceglie la strada della mera ricostruzione documentaristica
ma, ribaltando il senso degli avvenimenti passati, sviluppa l'ordito narrativo come un vero e
proprio atto d'accusa contro lo spietato pregiudizio che guidò la giuria americana nella decisione.
L'incriminazione e la condanna a morte dei due anarchici, dunque, si configura non più come un
semplice errore giudiziario ma, ipso facto, come un delitto freddamente premeditato ed eseguito
in un contesto umano imbarbarito da ostilità preconcette nei confronti non solo di immigrati
stranieri ma anche di persone dichiaratamente anarchiche, libere, quindi, da qualsiasi tipo di
appartenenza politica. L'opera, dunque, pone l'accento sull'intolleranza razzista che cova latente
nelle società più ricche e “apparentemente” avanzate per poi sfociare in situazioni estreme in cui
la punizione del diverso – a prescindere dalla sua colpevolezza o innocenza - funge non solo come
esempio di controllo e repressione preventivo ma equivale anche a simbolica “espulsione” dello
stesso dal corpus sociale. Un film, quello di Montaldo, che unisce al formale rigore storico (la
vicenda è certosinamente calibrata sui documenti dell'epoca) la passione per la materia trattata e
lo sguardo dolente sulle ingiuste vessazioni a cui sono sottoposti i due protagonisti (interpretati
da un ispirato Riccardo Cucciolla, premiato a Cannes, nei panni di Sacco e da un aspro Gian Maria
Volontè quale Vanzetti). L'opera, per queste ragioni, assume i toni di una straordinaria orazione
drammaturgica sull'arbitrarietà del potere incurante delle vite degli uomini e legato a logiche
assurde e imperscrutabili, sempre pronto ad assecondare gli istinti più bassi di coloro che
dovrebbe amministrare e guidare piuttosto che perseguire la verità e la giustizia. Un potere duro
e spietato che non esita a sacrificare coloro che sono collocati nel punto più basso della scala
sociale per motivazioni strumentalmente egoistiche.
ML 55
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frammenti di cinema rimosso: sedicesima parte
SAN MICHELE AVEVA UN GALLO
Un film di Paolo e Vittorio Taviani
Regia di Paolo e Vittorio Taviani
Giuliani G. De Negri per RAI/Ager Film
1971 (Italia)
di Nicola Pice
I fratelli Taviani, Paolo e Vittorio, ancora una volta ricorrono allo scrittore russo Lev Tolstoj (la
novella presa in considerazione è “Il divino e l’umano” del 1905) per trarre la materia del loro
nuovo film: “San Michele aveva un gallo” (la terza e conclusiva opera che in questa sede
analizziamo). Autori di grande spessore culturale, sperimentatori di nuove forme linguisticovisive, capaci di far coesistere Chaplin con Visconti ed Ėjzenštejn, Brecht e Goethe, la musica
dodecafonica e il melodramma verdiano, le teorie marxiste con l’irrazionalismo, essi stessi al
contempo uomini di cultura e cinematografari, personalità eccezionali e singolari nel panorama
del nostro paese, dopo aver diretto l’allegoria – anch’essa politica – di “Sotto il segno dello
scorpione” – con questo film mettono in scena una metafora del presente italiano collocandola
temporalmente nell’Umbria del 1870. L’anarchico internazionalista Giulio Manieri, prossimo alla
laurea in matematica, occupa con un gruppo di altri uomini un piccolo paese dell’Appennino
umbro. L’insurrezione, però, non determina gli effetti sperati provocando, al contrario, l’intervento
dell’esercito che, sconfitti i rivoltosi, arresta Manieri e lo condanna a morte. Salvato quand’era già
innanzi al plotone d’esecuzione ed inviato all’ergastolo, il giovane anarchico, per non soccombere
alla pazzia della solitudine, cerca di sopravvivere immaginando di parlare in carcere con i propri
compagni fantasticando su un futuro che sa non gli apparterrà. Attraversando dieci anni più tardi
la laguna per essere tradotto in altro carcere, incrocia un’altra imbarcazione carica di giovani
prigionieri - socialisti rivoluzionari al contrario di lui – e d’improvviso assume la consapevolezza
d’essere fuori dalla storia. L’opera dei Taviani (magistralmente diretta con un ascetismo visivo che
talvolta si trasforma in visionarietà) è una straordinaria riflessione sul senso dell’utopia (come
sono in fondo tutte le dottrine politiche) incardinata nella rappresentazione del dramma interiore
di un uomo che, pur nutrendo una profonda fede nelle proprie idee e credendo che esse possano
determinare un cambiamento, nel confronto con se stesso e al netto del risultato delle azioni
conseguenti
a
quelle idee, registra
irrimediabilmente una sconfitta. Il
mondo respinge
l’anarchismo velleitario, ma puro e disinteressato, di Manieri e alla stessa stregua è refrattario,
sembrerebbero dirci gli autori, a qualsiasi forma di radicale cambiamento consentendo null’altro
che una forma diversa dello status quo nella migliore tradizione del gattopardismo.
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frammenti di cinema rimosso: sedicesima parte
Il giovane rivoluzionario (eccellente l’interpretazione di Giulio Brogi) per certi versi percepisce
l’inutilità della lotta a conseguire risultati immediati ma nell’isolamento carcerario, nel corso dei
dialoghi fantastici con i compagni persi in battaglia - in cui i Taviani danno spazio alla grande
forza visionaria delle immagini che descrivono le progressive allucinazioni del prigioniero –
emerge la speranza che la lotta ponga le basi per un miglioramento futuro. Il senso dell’utopia è,
dunque, l’utopia stessa (di un “altroquando” più giusto), un sogno disperato che, secondo gli
autori però, non si realizza mai. Disillusi dall’atmosfera di quegli anni che inizia ad essere tesa e
violenta e che mette in scacco di fatto la sana dialettica politica, i registi, infatti, con il suicidio
finale di Manieri che si lascia scivolare in acqua annegando, mettono in scena soprattutto il
trauma di una sconfitta, la caduta delle speranze rivoluzionarie che il sessantotto aveva
alimentato, la resa delle ragioni del singolo dinnanzi alla storia che prescinde da tutto e che tutto
travolge. Questi film, dunque, dicono allo spettatore che gli anni ’60 sono finiti e con loro
probabilmente è terminata la possibilità stessa di un cambiamento (pacifico). Iniziano gli anni
settanta e con la perdita della speranza verranno anni terribili tra conflitti sociali e disgregazione
delle istituzioni, attentati terroristici e stragi misteriose, crescita zero, disoccupazione, scioperi ad
oltranza, estremismi contrapposti, escalation di rapine, furti, omicidi, instabilità politica e il
cinema sarà sempre lì, pronto a raccontarcelo.
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