Donne e lavoro: un manifesto per donne imprenditrici

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Donne e lavoro: un manifesto per donne imprenditrici
Donne e lavoro: un manifesto per donne imprenditrici
di
Vera Negri Zamagni, Università di Bologna
(pubblicato in P. Tarchi e M. Colasanto (a cura di), Il genio femminile e
l’impresa, Roma, Città Nuova, 2007)
1. Donna e lavoro non sono sempre stati termini dicotomici.
Si perde nella notte dei tempi l’origine della specializzazione dei ruoli maschili e
femminili in famiglia e nel lavoro. I motivi sono molti e complessi; mi limiterò qui solo a
citare i due più legati a cause naturali. Il primo riguarda la forza fisica. La donna ha ricevuto
per natura una complessione fisica inferiore all’uomo e dunque non ha mai potuto competere
con l’uomo nel campo della resistenza alle fatiche del lavoro pesante e della guerra. Il
secondo elemento di differenziazione naturale tra uomo e donna, sicuramente connesso al
primo, è che alla donna è affidata la generazione dei figli e il loro allattamento. Ciò ha da un
lato aumentato la “debolezza” fisica della donna, in quanto gestazione, parto e allattamento
non sono delle passeggiate, specie in tempi passati, e dall’altro lato l’ha impegnata per un
lungo tempo della vita in queste attività, in quanto per innumerevoli millenni erano molti i
figli a cui si doveva dare vita se si voleva che l’umanità continuasse ad esistere, siccome la
speranza di vita dei bambini era bassissima.
Data la crucialità e la rischiosità, dunque, di questo “lavoro” di riproduzione della
specie, si tendeva a farlo esercitare dalla donna il più possibile in casa per ovvi motivi di
“protezione” sia della donna stessa sia dei bambini piccoli. Oggi si può pensare che sia un
vero paradosso che la sopravvivenza dell’umanità continui ad essere affidata alle donne,
mentre il disegno organizzativo delle società sia di stampo tutt’affatto maschile. Il fatto è che
gli sviluppi istituzionali che le società hanno preso sono stati da sempre modellati da uomini a
loro misura perché era un fatto che erano loro, e solo loro, quelli che erano attivi nell’arena
pubblica. Questo ha significato la tendenza generale a non applicare alle donne i fondamentali
diritti che via via si conquistavano per la generalità degli uomini: il diritto alla proprietà, il
diritto di voto, il diritto alle cariche pubbliche, il diritto ad esercitare professioni, persino il
diritto all’istruzione. Non se ne vedeva il bisogno, nella convinzione che le donne comunque
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non si dovessero misurare con soggetti fuori della casa e dunque godessero – per interposta
persona – dei diritti che venivano conquistati dagli uomini.
Stando in casa, tuttavia, la donna si era sempre occupata, oltre che di riproduzione,
anche d’altro: cucina, lavanderia, lavori nell’orto e nei campi vicini a casa, allevamento di
animali da cortile, filatura, tessitura (la tela di Penelope!), confezione dei vestiti, altri servizi,
fra cui quelli di assistenza agli anziani e ai malati. Si ricordi che la parola economia – governo
della casa – è nata femminile e comprendeva anche i lavori dell’uomo, pure esercitati non
troppo distante dalla casa(nei campi attorno o nel laboratorio, solitamente annesso alla casa),
salvo che non facesse il militare, il commerciante o il politico. La moneta comparve ben
presto, ma gli scambi di mercato erano una frazione modesta dell’attività lavorativa globale,
anche di quella maschile, e non vi era dunque una separazione netta tra un lavoro femminile
non pagato e un lavoro maschile pagato, bensì tra lavori maschili e femminili (pochi) che
attivavano scambi con uso di moneta e lavori femminili e maschili (la maggior parte) che non
attivavano scambi con uso di moneta.
2. La grande discontinuità
Quando con la rivoluzione industriale il lavoro maschile si è spostato fuori della casa, in
fabbriche sempre più distanti, la divaricazione fra il lavoro dell’uomo fuori casa, via via più
complesso e remunerato in danaro, e il lavoro della donna in casa, più routinario, meno
variegato e non pagato in danaro, si è andata approfondendo. Si affermò addirittura l’idea che
lavoro fosse solo quello pagato in danaro, un’idea a tal punto radicata che il reddito nazionale
che si venne a calcolare per dar conto dei risultati del lavoro venne definito come contenente
solo il lavoro scambiato sul mercato per denaro, con i ben noti paradossi. Se una donna
“lavora”, ossia ha un’attività lavorativa di mercato, e impiega una babysitter per accudire i
bambini e una badante per assistere i vecchi, compaiono nel reddito nazionale ben tre redditi.
Se una donna non “lavora”, ma accudisce i suoi bambini e assiste i suoi vecchi direttamente,
non compare nel reddito nazionale alcun reddito.
E’ così che nel primo periodo di affermazione della società industriale, la donna, già
precedentemente discriminata in tema di diritti, è andata perdendo molto altro terreno in tema
di capacità. Stare in casa la tagliava fuori dagli sviluppi rapidi che avvenivano fuori casa.
Inoltre, la lontananza del posto di lavoro e le lunghe ore di lavoro degli uomini portarono agli
estremi la divisione dei ruoli all’interno della famiglia: il padre sempre più
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deresponsabilizzato nei confronti dell’educazione dei figli, che assai poco vedeva; la madre
confinata, nel senso letterale del termine, nell’allevamento dei figli e nei soli lavori
“domestici” (cucina, bucato e pulizie), perché le altre attività prima realizzate in casa
diventavano sempre più specializzate ed esternalizzate, passando in carico al mercato.
Quando il fenomeno assunse contorni irreversibili e se ne prese coscienza, è cominciata
da parte delle donne una reazione di lunga lena, ma va ribadito che questo è avvenuto solo
nella civiltà occidentale di radici cristiane, anche qui con notevoli fatiche. Il motivo di ciò è
presto spiegato. Gesù Cristo era stato chiaro sul fatto che ciascuna singola persona fosse da
considerarsi creata ad immagine e somiglianza di Dio, dimostrando una forte predilezione per
i più deboli ed innalzando sua madre Maria al rango di unico essere umano senza peccato
originale assunto al cielo con il proprio corpo. I presupposti per un recupero integrale della
dignità della donna stavano dunque nel Vangelo. Non è però stato certo immediato per la
Chiesa riuscire a contrastare la tradizione, la mentalità dominante e le difficoltà oggettive
dovute ai bassi livelli tecnologici raggiunti dall’Europa prima della rivoluzione industriale,
ma su alcuni punti fermi la Chiesa non ha avuto mai alcun tentennamento, in particolare sul
matrimonio, ritenuto sempre dalla Chiesa non solo monogamico, ma indissolubile, anche nel
caso in cui la donna non fosse in grado di avere figli. Il Papato ha affrontato su questo
principio persino lo scisma anglicano voluto da Enrico VIII.
Non è dunque un caso che da questo ceppo cristiano si sia sviluppato nel mondo
occidentale prima la generale accettazione dei principi di libertà ed uguaglianza di tutte le
persone umane e quindi il movimento di “riscatto” delle donne, che sono riuscite a farsi pian
piano riconoscere tra Ottocento e Novecento la parità di tutti i diritti. Ciò è stato favorito dal
progresso tecnologico, che ha liberato la donna da molti degli handicaps storici di cui aveva
sofferto: la mortalità, specie infantile, si è di molto contratta; i lavori dove la forza fisica non è
necessaria si sono moltiplicati; i lavori domestici sono stati alleggeriti e accorciati dall’uso
delle macchine; acquistare e preparare cibo sono diventate operazioni meno time-consuming.
Tale percorso di riscatto ha imboccato tre strade:
a) istruzione (formale e informale): a lungo si pensò che l’istruzione femminile non fosse
importante. Oggi molti studi hanno chiarito che tutti i paesi che danno istruzione alle donne
senza discriminazione progrediscono più di quei paesi che tengono le donne nell’ignoranza;
b) libertà e diritti: molte professioni alla donna erano proibite; persino frequentare l’università
era proibito; con il diffondersi della democrazia, il voto divenne sempre più importante e si
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diffuse il movimento delle “suffragette” che rivendicarono il voto anche alle donne; la
capacità giuridica della donna era ristretta e si dovette combattere a lungo per rivendicare
parità persino nel conferimento dei diritti soggettivi di proprietà;
c) revisione dell’identità della donna: la donna non è più “angelo della casa”, perché ha un
lavoro esterno come l’uomo.
Nella pratica, tuttavia, sono molti i problemi rimasti insoluti.
3. I problemi attuali della donna che lavora
Se il recupero da parte delle donne dei diritti ha avuto ormai nei paesi di civiltà occidentale
integrale successo, non si può dire che il resto del mondo vi sia ancora arrivato e già questo è
un serio problema, di cui qui, tuttavia, non mi occuperò. Piuttosto, in relazione alle società
occidentali occorre dire che l’universalizzazione dei diritti non è sufficiente. Fornire
istruzione e generalizzare i diritti non significa di per sé fare spazio alle donne, specie in
posizioni di rilievo. Poichè sul lavoro i maschi si trovano a loro agio con gli equilibri esistenti,
se non altro per motivi di tradizione e per la percezione consolidata del loro ruolo, solo molto
faticosamente possono venire persuasi a contemplare un cambiamento di tali equilibri, anche
perché, come sempre succede quando si va contro abitudini consolidate, all’inizio chi vuole il
cambiamento è in minoranza e pesa la “sanzione sociale”. Così, gli uomini accettano con
entusiasmo le donne nel mondo del lavoro solo in particolari funzioni “di servizio” (la
segretaria, la badante, la baysitter); funzioni più “nobili” vengono invece loro affidate solo
quando non ci sono maschi disponibili o quando le donne sono sovraqualificate, e non si può
proprio negar loro certi riconoscimenti.
Se dunque la strada verso le pari opportunità ha ormai raggiunto nei paesi avanzati la sua
meta, è ancora lunga la strada verso l’eguagliamento delle capabilities (un concetto introdotto
e più volte sottolineato dal premio Nobel dell’economia Amartya Sen e dalla filosofa Martha
Nussbaum). Va infatti evidenziato che si pone in atto un circolo vizioso, che tende a
procrastinare indefinitamente questo uguagliamento di capacità. E’ noto che le capacità si
preparano sì con l’istruzione (formale e informale), ma si affinano solo con l’uso. Se alla
donna non vengono affidate responsabilità lavorative più complesse, non si potrà mai
misurare con le complessità; non svilupperà dunque né la sicurezza psicologica né
l’esperienza pratica che garantiscono il successo nell’attività lavorativa complessa. Si potrà
allora addurre a giustificazione del mancato affidamento di responsabilità alla donna il fatto
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che non è in grado di farvi fronte, chiudendo così il circolo vizioso. E’ ormai ampiamente
accertato che gran parte dei comportamenti femminili definiti “nevrotici” non sono altro che il
portato di una mancanza di sicurezza e di esperienza nel dominio delle situazioni.
Come tutti i circoli viziosi, la loro rottura dipende dal peso delle forze sociali che sono
messe in campo a favore o contro. Tutti coloro che hanno responsabilità di educazione delle
bambine/ragazze devono comunque avere ben chiaro che queste non vanno “protette” dalle
sfide, ma, pur con i dovuti sostegni - che sono necessari per qualunque bambino, anche
maschio - devono essere spinte ad assunzione di capacità attraverso l’esercizio. In taluni casi,
la struttura di potere di certi ambienti è così cristallizzata attorno a modalità che escludono la
partecipazione femminile che si può solo agire con una discriminazione “a rovescio”, ossia
con le famose “quote rosa”. Questo perché non ci si può aspettare una naturale evoluzione
della situazione e dunque se si vuole far valere in pratica i diritti delle donne occorrono
interventi di rottura dell’equilibrio esistente, anche a costo di una fase di transizione instabile.
Forse il più interessante fra gli interventi che si sono recentemente registrati in questa
direzione è quello del governo norvegese, che ha imposto per legge una quota di almeno il
40% di amministratrici donne nelle società per azioni.
Ma ciò che si è adattato ancora meno del mondo del lavoro ai cambiamenti avvenuti è
stata la famiglia. In essa, a dispetto del lavoro delle donne, i ruoli sono ancora in grande
prevalenza quelli tradizionali e l’idea del “multitasking” è passata solo per le donne, ma ben
poco per gli uomini, che se ne sottraggono accampando incapacità, mancanza di tempo,
necessità di concentrazione e sottovalutando l’importanza che le incombenze più nobili della
famiglia (produzione ed educazione dei figli; promozione della relazionalità e del dono, della
cura e del servizio, all’interno e all’esterno della famiglia) rivestono per la società. Occorre
qui un profondo cambiamento della mentalità. Bisogna incominciare col rivalutare tutto ciò
che di produttivo viene generato in famiglia, ma non transita per il mercato (e pertanto non
viene contabilizzato nel reddito nazionale). Si pensi all’insegnamento: quello che si effettua
nelle scuole è ovviamente “produttivo” e in quanto tale registrato nel reddito nazionale; quello
che avviene nelle case, dove i genitori aiutano i figli nei compiti e nella generale preparazione
alla vita, non viene invece valutato, così che gli stessi genitori finiscono per considerarlo una
“perdita di tempo”, un tempo che potrebbe essere utilizzato per “far soldi” sul mercato del
lavoro remunerato. Si pensi alle pulizie: quelle effettuate dalle collaboratrici domestiche
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vengono contabilizzate nel reddito nazionale; quelle effettuate dai membri della famiglia
invece no.
Si è, cioè, persa la consapevolezza che non è lavoro solo quello remunerato in danaro
e che a tutto il lavoro produttivo, che passi o no per il mercato, deve essere riconosciuto un
“valore”1, se non attraverso una remunerazione2, certamente attraverso l’esplicitazione di tale
valore in modi adeguati sia dal punto di vista contabile3, sia da quello del rispetto per tale
lavoro. Ciò avrebbe una duplice ricaduta: in primo luogo, se le attività di lavoro in famiglia
hanno un “valore” riconosciuto, si potrebbe meglio confrontarle con le attività di lavoro fuori
della famiglia per valutare i costi-opportunità di diverse combinazioni fra i due set. In
secondo luogo, se le attività di famiglia venissero considerate un utile lavoro, vi si
applicherebbero le necessarie attenzioni per renderle efficienti ed efficaci. Scomparirebbero
così molte delle inutili “manie” ereditate da un passato che vedeva la donna “dedicata” alla
casa e quindi obbligata a “riti” time consuming (come le pulizie maniacali e la cucina sempre
“fresca” dei pasti ). Le attività di famiglia verrebbero ricondotte all’essenziale e per questo si
troverebbero i tempi giusti.
Poiché questa revisione del modello di famiglia in larga misura non sta prendendo
piede, la reazione che si è diffusa nelle società occidentali è il rifiuto di stabili legami
matrimoniali e, soprattutto, il rifiuto di mettere al mondo figli. Se spesso è la donna a spingere
in questa direzione per garantirsi libertà da vincoli nel tentativo di farsi largo nel mondo del
lavoro, l’uomo viene indotto a concordare perché l’assenza di vincoli fa comodo anche a lui,
magari più sul piano sessuale che su quello lavorativo, mentre l’assenza di figli gli permette di
non doversi misurare con la necessità di imparare a svolgere in famiglia ruoli diversi da
quelli tradizionali. Si arriva dunque al paradosso che un innegabile miglioramento “morale”
della società, ossia la promozione della dignità della donna e della sua libertà di espressione
nel mondo del lavoro, si sta rivelando un boomerang per le società che l’hanno realizzata,
1
Si veda P. Colucci, Il tempo…non è denaro. Riflessioni sui sistemi di scambio locale non monetario e sulle
banche del tempo, Pisa, BFS, 2003.
2
Come è noto, c’è chi propone di dare un “salario” alle casalinghe. Ma questo andrebbe nella direzione di
ammettere che è lavoro solo ciò che è remunerato in danaro, il che non è accettabile. Inoltre, ritarderebbe
l’inevitabile presa d’atto che oggi non c’è abbastanza lavoro in casa per riempire la vita di una donna con unodue figli e dunque ritarderebbe la revisione del modello di famiglia.
3
L’UNDP sta facendo vari tentativi di calcolare il valore del lavoro non monetizzato, che non comprende solo il
lavoro erogato in famiglia, ma per esempio anche quello delle associazioni di volontariato. Il tema ambientale è
un’altra dimensione che sfugge in larga misura alla contabilità nazionale, soprattutto nei suoi aspetti “distruttivi”
di valore.
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perché non vengono poste in essere quelle modifiche istituzionali e di cultura capaci di
impedire le conseguenze nefaste, non necessarie e certamente “unintended”, di un’azione
sociale di per sé positiva.
4. Richiamo all’azione delle donne imprenditrici
Tutti dovrebbero sentirsi toccati dalla responsabilità di fare qualcosa per evitare una
deriva così pericolosa della nostra società, ma troppi sono abituati a lasciarsi trasportare dal
corso degli eventi, cercando semplicemente di navigare al meglio sulla corrente. I cristiani
non dovrebbero mai essere fra questi, perché è nel DNA della loro fede contrastare “il
mondo”, andare contro-corrente, fare cose diverse dalle (cattive) abitudini dominanti. Ancora,
i cristiani non sono per loro caratteristica intrinseca laudatores temporis acti, perché la loro
missione è quella di trasmettere la Buona Novella nella storia in divenire. Se questa
trasmissione fosse stata fatta una volta per tutte, allora non ci sarebbe più stato niente da fare
per la Chiesa dopo la venuta di Gesù Cristo, se non ripetere pedissequamente la lettera del
Vangelo, che invece va incarnato in ogni giorno della storia.
Il punto di attacco del problema che stiamo trattando, dunque, è che occorre trovare
nuovi modi di conciliazione tra lavoro e famiglia, che non facciano più leva sul dualismo di
compiti fra uomo e donna. Partendo dalla raggiunta consapevolezza che tutti hanno il dirittodovere di lavorare, per valorizzare i propri talenti e procurarsi di che vivere, occorre ribadire
che tutti coloro che scelgono di formarsi una famiglia hanno il diritto-dovere di farla crescere
e accudirla in modo adeguato.
Se dunque tutti dovrebbero portare il loro contributo a questo cambiamento di
mentalità e di comportamenti, intendiamo qui rivolgere questo richiamo in primo luogo alle
donne imprenditrici perché esse hanno avuto già il coraggio di rifiutare il dualismo
tradizionale tra lavoro e famiglia nella maniera più chiara, ossia assumendo una precisa
responsabilità di promozione del lavoro attraverso l’impresa che le vede protagoniste. Quello
che occorre ancora fare è individuare strumenti coerenti con la duplice missione che le donne
imprenditrici si sono assunte e a questo scopo l’analisi dettagliata delle problematiche da
affrontare può riuscire utile. Ma prima di applicarci a tale analisi, sarà utile una breve
digressione.
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Il lavoro dell’imprenditore è stato uno degli ultimi ad essere “scalato” dalle donne, e
ancor oggi in maniera del tutto minoritaria, perché implica alcune dimensioni particolarmente
“ostiche” alla storica formazione della personalità femminile:
a) rischio. Le donne abituate a vivere nel chiuso della casa sono cresciute avverse al rischio,
per via del fatto che non hanno potuto mai misurarsi adeguatamente con le sfide del mondo.
Ma la loro natura non è avversa al rischio: quale maggiore rischio che dare la vita a nuovi
essere umani, diversi e “liberi”? Le donne potrebbero, dunque, essere aiutate a recuperare una
maggiore apertura verso il rischio esterno, che le riconcilierebbe maggiormente con la
prospettiva imprenditoriale;
b) innovatività. Le donne sono in generale brave esecutrici, per via della nessuna libertà che
hanno avuto fino a tempi recenti di agire e pensare con la propria testa e della nessuna
responsabilità che hanno dovuto esercitare. Anche in questo caso, se lasciate libere di mettere
in pratica la loro libertà (con un bisticcio di parole voluto), non tarderanno a diventare più
capaci di risolvere problemi e quindi di diventare più innovative;
c) comando. Le donne sono sempre state sottoposte e non hanno sviluppato i talenti necessari
per comandare con autorità;
c) mobilità spaziale. Le donne sono state fino a tempi recenti “legate” alla casa e quindi non
hanno la medesima apertura psicologica nei confronti di un’attività che non si svolga in modo
predominante in un luogo fisso. Ma anche questo è un tratto acquisito dalla storia che si può
modificare, come mostrano tanti esempi.
Se oggi hanno successo molte donne imprenditrici “figlie” di imprenditori già affermati,
ciò deriva dal fatto che alcuni degli ostacoli che tipicamente le donne incontrano nel diventare
imprenditrici nel caso di inserimento nell’impresa di famiglia vengono rimossi all’origine,
perchè le figlie sono “esercitate” dal padre stesso in quelle capacità necessarie ad un
imprenditore. A loro poi sta di mostrare di saper fare anche meglio dei padri, cosa per la
verità non infrequente.
In un Rapporto molto interessante a cura di Asseforcamere sulle imprese femminili, si
rilevano molte notizie significative 4 sulla attuale situazione dell’imprenditorialità femminile:
•
Circa ¼ delle imprese italiane oggi hanno un titolare donna5
4
Se ne veda la sintesi in “Notiziario dell’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro”, 2005 (IX), n.8,
pp. 133-68.
5
La cosa è confermata anche da un articolo de Il Sole-24 Ore del 6 ottobre 2005, dove si rileva che nel primo
semestre del 2005 le aziende guidate da donne sono cresciute del 2,4%.
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•
Si tratta prevalentemente di piccole imprese, di tipologia “fragile”
•
La rete familiare è importante per l’impresa (ma in imprese analoghe, senza dubbio lo
è anche quando i titolari sono uomini)
•
Le imprenditrici sono molto consapevoli dei problemi di conciliazione fra tempi di
lavoro e tempi di vita, anche perché in generale spendono più tempo dei colleghi
uomini in famiglia, ma paradossalmente rivelano meno flessibilità dei colleghi uomini
nell’organizzazione dei tempi dell’impresa.
Se ci domandiamo il perché del paradosso, le risposte sono probabilmente le seguenti: 1)
la fragilità delle imprese “al femminile” impedisce di trovare spazio per soluzioni che anche
marginalmente producano aggravi economici; 2) c’è poca sensibilità, conoscenza giuridica,
fantasia per soluzioni diverse da quelle standard. Questa constatazione non può che fornire
ulteriore spinta ad adoperarsi perché certe proposte vengano chiarite ed adeguatamente
pubblicizzate, cosa che tornerà utile anche al rafforzamento e alla stabilizzazione delle
imprese al femminile.
Tre sono gli ambiti in cui riteniamo che queste proposte vadano articolate: 1)
flessibilizzazione dei tempi di lavoro; 2) ausilii alla famiglia; 3) organizzazione diversa del
lavoro.
5. Un manifesto in tre punti per imprenditrici di buona volontà.
5.1. Flessibilizzazione dei tempi di lavoro.
Tutti possono guadagnare da un’organizzazione più flessibile dei tempi di lavoro, sia
l’imprenditrice sia i suoi dipendenti sia la società in generale.
Part-time e posti di lavoro condivisi
L’utilizzo del part-time in Italia non è vastamente praticato, mentre esso è generalizzato in
paesi come l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia, dove la partecipazione femminile al
mercato del lavoro è molto elevata. Che cosa osta? Sono problemi di regolamentazione
giuridica? Sono problemi di mentalità? Sono problemi economici? Occorrerebbe il coraggio
di preparare delle proposte operative risolutive.
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Orari di lavoro flessibili
In questo caso, si richiede la presenza del lavoratore/lavoratrice in certe fasce orarie di
“picco”, lasciando libero l’inizio e la fine del lavoro per accomodare necessità familiari.
L’applicabilità economica di questa flessibilità è molto vasta.
Telelavoro
Tutte le volte che parte del lavoro si può fare su un computer o su qualche altra macchina
poco costosa senza la necessità di una presenza fisica in un luogo definito, si può evitare di
costringere il lavoratore a recarsi in un posto di lavoro fisso, particolarmente se questo è
distante dal luogo di abitazione.
Career breaks
In parte questi sono regolamentati con i congedi di maternità, ma dovrebbero essere estesi
anche ad altri casi (esempio: seria malattia di un membro della famiglia). Si sa, tuttavia, che
così come sono oggi organizzati creano difficoltà nelle imprese e dunque anche qui uno studio
per rendere i congedi già esistenti più flessibili sarebbe molto utile. Dipende dal tipo di
lavoro, ma alcuni di tali congedi potrebbero essere tramutati in part-time e/o telelavoro. E’ nel
concreto di ciascun luogo e ciascun settore che le migliori soluzioni possono essere trovate.
Inoltre, occorrerebbe costituire un “fondo di rotazione” per finanziare, anche per gli uomini,
altri congedi per cura dei figli, assistenza ad altri membri della famiglia, malattia seria, studio,
esperienza all’estero, recuperando i contributi sociali e pensionistici non pagati durante il
congedo con l’allungamento dell’età pensionabile. Il costo di tali congedi dimezzerebbe (i
contributi sociali rappresentano infatti quasi metà del costo del lavoro in Italia). Non si
capisce perché l’età pensionabile debba essere così fissa e rigida, in presenza di una
popolazione in buona salute sempre più a lungo, mentre gli impegni di maternità per motivi
biologici e quelli di assistenza e studio per motivi di necessità e opportunità restano
scarsamente flessibilizzabili sull’arco del tempo di vita.
5.2. Ausilii alle famiglie
Le famiglie hanno bisogno di una serie di servizi che devono essere generalizzati
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Nidi aziendali, condominiali, di quartiere
Occorre moltiplicare le tipologie di nidi, per poter rispondere a bisogni molto diversificati. Le
piccole imprese localizzate vicino potrebbero accordarsi per avere un nido/asilo in comune,
oppure potrebbero organizzare un pullmino per la raccolta dei bimbi da portare ad un nido,
scuola materna o altro già esistente nei pressi.
Mobility manager
Il tempo sprecato per i trasporti è eccessivo. Le imprese dovrebbero dotarsi di un mobility
manager, che studi la minimizzazione dei tempi e dei costi di trasporto dei suoi addetti.
Anche qui, piccole imprese si potrebbero consorziare.
Scuola, assistenza, sanità
Problematiche legate alla scuola, all’assistenza (soprattutto agli anziani), alla fruizione di
servizi sanitari sono difficilmente affrontabili dalle imprese e più legate ad un protagonismo
delle famiglie, che dovrebbero battersi per maggiore sussidiarietà e mettersi insieme per
prestarsi aiuto reciproco. Banche del tempo e altri tipi di scambio di servizi in natura
potrebbero essere attivati utilmente.
Il generale suggerimento che ne deriva è quello di uscire dall’isolamento della piccola
impresa che deve fare tutto da sé, agendo attraverso le istituzioni di coordinamento o la
formazione di apposite cooperative o associazioni per la fornitura di una serie di servizi
capaci di limitare lo spreco di tempo per i trasporti, di assicurare un luogo adeguato per la
socializzazione e l’educazione dei bimbi e di fornire servizi di assistenza diurni ad anziani e
portatori di handicap. In particolare, desidero sottolineare che la forma cooperativistica, che in
passato era stata utilizzata soprattutto per abbassare i costi di distribuzione dei prodotti
alimentari (cooperazione di consumo) e per fornire lavoro ai disoccupati (cooperazione di
produzione e lavoro) oggi può essere rilanciata per la fornitura di servizi, come già le
cooperative sociali stanno facendo.
Anche il sindacato può giocare un ruolo cruciale nell’interpretare questi nuovi bisogni
sia in sede contrattuale sia nell’attivazione di servizi ai suoi associati che vadano al di là di
quelli tradizionalmente forniti. Si può pensare in sostanza di attivare un’altra forma di
responsabilità sociale, quella dei territori, oltre a quella delle imprese, territori in cui i soggetti
che vi si trovano ad agire si responsabilizzano nei confronti dei bisogni di servizi sociali,
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favorendone il coordinamento e sostenendo forme di reciprocità. E’ in questa prospettiva che
si può vedere un ruolo per l’ente locale, di promozione e coordinamento dei soggetti e delle
iniziative.
5.3. Organizzazione diversa del lavoro
La questione più di fondo che deve essere richiamata all’attenzione di tutti resta tuttavia
l’organizzazione del lavoro. Bisogna avere l’onestà intellettuale di ammettere che in questo
campo ben poco è successo di significativo dalla grande rivoluzione fordista, ossia da quando
Taylor concepì l’idea di mettere l’uomo al servizio delle macchine. Forse nell’età del primo
macchinismo non c’era altro da fare, poiché quelle macchine erano molto rigide ed era
l’uomo che doveva adattarsi ad esse. Si ricordi la famosa affermazione di Henry Ford:
“Chiedetemi qualunque automobile, vi fornirò una Ford T nera”. Con le nuove tecnologie, si
può fare molto meglio, eppure queste sono ancora utilizzate prevalentemente con un
approccio fordista, perché non c’è stato alcuno studio approfondito come quello di Taylor
capace di tracciare strade nuove.
Non è mancato qualche esempio in Giappone di come mettere le macchine al servizio
di modi diversi di produzione, soprattutto con il just in time e con le “isole lavorative”, che
premiano il lavoro di gruppo, piuttosto che quello individuale, e permettono un’alternanza di
ruoli capace di abbattere la routine desolante della catena di montaggio e di re-instaurare
relazioni in ambiente lavorativo. Ancora, l’uso della robotistica e della programmazione
esalta il primato dell’uomo sulla macchina, che viene continuamente adattata (riprogrammata)
per ottenere diverse linee di produzione. Sapere che le nuove tecnologie permettono di
cambiare l’organizzazione del lavoro dovrebbe essere di grande incentivo per approfondire la
questione: non sono un ingegnere e non ho la ricetta pronta, ma chi ha responsabilità in questo
campo, come le imprenditrici, dovrebbe sentire lo stimolo a ricercare innovazioni in questa
direzione. Se crediamo all’umanizzazione del lavoro, bisogna coerentemente cercare i modi
migliori per realizzarla e non pensare di essere giunti alla “fine della storia”6.
Ci sono altre due considerazioni importanti da affiancare a quanto sopra affermato. La
prima riguarda il settore dei cosiddetti “servizi”. Oggi è in questo settore che si realizzano i
maggiori avanzamenti, ma pochi hanno chiaramente compreso che in esso il processo di
produzione è sostanzialmente diverso da quanto avviene in agricoltura e nell’industria. Infatti,
6
F. Fukuyama, The end of history and the last man, New York, Free Press, 1992.
12
nei servizi vi è contatto diretto fra chi produce e chi consuma. Mentre la disposizione d’animo
con cui un operaio della Fiat fabbrica l’automobile è irrilevante per chi va a comprare una
Punto dal concessionario, non è irrilevante per chi va in un centro di fitness o in un campo
solare il modo in cui i gestori si relazionano con i consumatori di quei servizi. E’ ritornato
dunque potentemente fuori il tema della “motivazione intrinseca”, che era stato scacciato dal
fordismo. La motivazione intrinseca ha a che vedere con il lavoro considerato come
realizzazione della propria personalità, come partecipazione alla creazione, come solidarietà;
dunque sia il modo di organizzarlo, sia il modo di remunerarlo devono cambiare: rapporti
meno gerarchici e più informali, corresponsabilizzazione, qualità totale sono i concetti chiave.
La seconda considerazione porta l’attenzione sui contenuti di servizio sempre
maggiori che vengono ad assumere anche tradizionali prodotti agricoli ed industriali, per le
certificazioni ambientali e di rispetto dei diritti umani che vengono imposte da consumatori
sempre più “etici”, per le sempre meglio definite radici culturali di cui si avvalgono, per
l’identificazione del loro percorso produttivo (la cosiddetta “tracciabilità”). E dunque gli
aspetti cosiddetti “intangibili” (intangibles), ossia connessi alla cultura invece che alle risorse
o alla tecnologia in senso stretto, diventano sempre più capaci di offrire segni distintivi dei
prodotti e quindi capacità competitiva. Ma anche gli intangibili rispondono ad un processo
produttivo che implica gli stessi fattori di lavoro creativo già sopra indicati per i servizi, ossia
personalizzazione, coinvolgimento, responsabilizzazione, ossia condivisione dei fini e
motivazioni intrinseche.
Queste trasformazioni dell’economia verso i servizi e gli intangibili rafforzano la
necessità di un’organizzazione del lavoro diversa, in cui lo spirito di gruppo, le motivazioni
intrinseche, la corresponsabilità siano le dimensioni privilegiate. Si può costringere
all’erogazione della forza fisica (infatti per molti millenni in cui era la forza bruta a prevalere
nel processo produttivo ci sono stati gli schiavi), ma per ottenere l’adesione volontaria ad un
processo produttivo in cui contano in maniera strategica gli intangibili occorre persuadere che
ne vale la pena. L’incentivo monetario, ampiamente utilizzato oggi, si sta rivelando un
boomerang per molti motivi. Esso è certamente utile a scopi di efficienza (allargare le
quantità e abbassare i costi), ma per ottenere un lavoro creativo occorre molto di più
dell’incentivo monetario: occorre l’adesione anche ai fini del lavoro, e non solo ai mezzi.
Come ottenere questa adesione è, appunto, l’oggetto della rivoluzione organizzativa
anti-fordista in atto, di cui occorre prendere piena consapevolezza. Si tratta di una rivoluzione
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che, in quanto esalta le caratteristiche personali e relazionali, va appoggiata e promossa da
tutti coloro che hanno a cuore il valore unico ed insostituibile della persona con le sue
relazioni orizzontali e verticali. Tradizionali luoghi di aggregazione e di valorizzazione della
persona come le parrocchie e le associazioni cattoliche potrebbero vivere una rinnovata
giovinezza, se solo sapessero afferrare il senso del messaggio che questa rivoluzione antifordista sta offrendo: c’è una grande domanda di beni relazionali; c’è una grande necessità di
motivare la gente a lavori, soprattutto nel campo dei servizi alla persona, ma anche di
educazione e ricerca, di pubbliche relazioni e comunicazione, e di molti altri, che richiedono
una forte responsabilità etica. C’è in generale un gran bisogno di incoraggiare a cercare strade
nuove, invece di lamentarsi che quelle vecchie non funzionano più.
6. Di una differenza cruciale fra imprenditore e manager
Il punto finale che desidero sottolineare ha a che vedere con la differenza tra il manager e
l’imprenditore. Una caratteristica fondamentale dell’imprenditore è la mancanza di
specializzazione eccessiva: l’imprenditore deve saper combinare una varietà di abilità, senza
necessariamente dover eccellere in nessuna di queste (al momento del bisogno, gli specialisti
possono essere ingaggiati dall’imprenditore). Ebbene, la donna è più favorita dell’uomo
nell’approccio globale ai problemi, in quanto per vocazione e per cultura ha sempre dovuto
tenere insieme molteplici dimensioni e molteplici obiettivi ed ha quindi una mentalità più
naturalmente orientata verso la visione d’insieme. Si può prevedere che, almeno per molti
anni a venire, i manager continueranno ad essere prevalentemente uomini, abituati per antica
tradizione ad appassionarsi ad un pezzetto ristretto della realtà fino a diventare insuperabili
nella conoscenza e nel dominio di tale expertise, mentre la classe imprenditoriale - che deve
essere di sua natura generalista – potrà reclutare con successo sempre più donne.
Il problema è che oggi si formano nelle aule accademiche e nei corsi di formazione troppi
managers e pochi imprenditori. I numerosi MBA (Master in business administration) che
esistono sono tutti volti alla formazione manageriale, in base all’assunto che imprenditori si
nasce (ecco un’altra ragione per cui le figlie di imprenditori sono oggi favorite) e managers si
diventa. Occorre invece avere la fantasia e il coraggio di immaginare nuovi percorsi per
l’imprenditorialità (gli incubatori, i tutors, gli spin offs) che affianchino l’in-house training e
aiutino le donne ad incanalarsi in un’attività – quella imprenditoriale - che per più versi è loro
congeniale, se solo sono aiutate a gettarsi alle spalle qualche handicap storico.
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