GENTILUOMINI DI MARE 19 mail - Associazione Combattenti

Transcript

GENTILUOMINI DI MARE 19 mail - Associazione Combattenti
Marzo 2009
N°19
GENTILUOMINI DI MARE
Trmestrale
notizie
di
creato
intrattenimento,
da
naviganti
di
di
storie
vita
per
di
mare
e
di
gente di mare.
...Dio solo sa quanto è brutto vivere in un mondo
senza avventure, senza fantasia...
Pubblicazione degli ufficiali del Circolo di Venezia
2
EDITORIALE
Gentilissimi consoci,
“Gentiluomini di Mare” è uscito regolarmente con cadenza trimestrale per ben quattro
anni e mezzo, fino alla scadenza del mio mandato di Presidente del Circolo Ufficiali di
Venezia. Nel 2008 c’è stata un’interruzione per diversi motivi che non ne hanno
permesso la pubblicazione; in modo più elegante e
diplomatico diciamo che, per un anno, la cadenza è
diventata annuale. Con questo numero e grazie
all’approvazione del nuovo Presidente, torniamo in pista
col nostro trimestrale.
La squadra è la stessa (non abbiamo mai perso
l’entusiasmo) ed i motivi anche: li ripeto esattamente
come citati nella prefazione del primo numero (giugno
2003) e nell’editoriale dell’ultimo (dicembre 2007):
“ … mettere a disposizione dei Soci uno spazio
in cui raccontare di se, degli amici, delle esperienze
particolari vissute in Marina, di episodi che non
hanno avuto l’onore della cronaca ma che sono
comunque importanti per il loro carico di
quotidianità e di umanità, di storie che si
racconterebbero la sera seduti in poltrona davanti
ad un caminetto acceso ed una televisione spenta o
nei
salotti
dei
circoli.
Storie che sarebbe un peccato non tramandare
con qualche cosa di scritto, storie che
contribuiscono a diffondere lo spirito di corpo e
l’orgoglio di appartenenza che la nostra Marina ha
sempre
coltivato
per
tradizione
e
con
lungimiranza.”
Ora, visto anche l’interesse e l’approvazione
che abbiamo riscontrato in tutte le sedi raggiunte
dal giornalino, ci aspettiamo di ricevere contributi
editoriali sotto forma di articoli e storie che siano in
linea con lo spirito della pubblicazione. Tutti noi
abbiamo molto da raccontare, basta pensarci un
po’ e dalle pieghe della memoria saltano fuori
gustosi episodi che vale la pena divulgare.
Scriveteci.
Buona lettura
Rudy Guastadisegni
e
Vito Spada
3
4
Indice:
EDITORIALE
Pag.
3
ADRIANO IL CAPO GABBIANO
Pag.
7
I RUSSI
Pag.
9
UNA BOMBA DI POMPA
Pag. 11
LA DECISIONE
Pag. 16
L’ULTIMA STANZA DELL’OLIMPO
Pag. 18
La pubblicazione “Gentiluomini di mare” è edita dai Soci del Circolo Ufficiali Marina
Militare di Venezia.
La collaborazione al periodico è aperta a tutti gli ufficiali della Marina in servizio ed
in congedo ed ai Soci dei Circoli; chiunque voglia far pubblicare un articolo, una poesia
o degli annunci che siano in accordo con lo spirito del giornalino, può mandare il
materiale su supporto elettronico (memory key o CD) o cartaceo al seguente indirizzo:
“Gentiluomini di Mare”
c/o Circolo Ufficiali MM
Castello 2167
30122 - Venezia
Il materiale può anche essere inoltrato via e-mail alle sottonotate caselle di P.E.
Responsabile/redattore
C.A. (r) Rudy Guastadisegni (Albo dei giornalisti e pubblicisti del Veneto, n. xxxxx)
[email protected]
Collaboratore
T.V. (CP) Vito Spada
[email protected]
Esclusivamente via e-mail e col solo rimborso delle spese di spedizione, può
essere richiesta la spedizione del CD-ROM contenente tutti i numeri pubblicati in
formato “pdf” stampabile.
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ADRIANO IL CAPO GABBIANO
Quando nel 2001 venni trasferito da Taranto a Venezia ero
preparato ad un cambio radicale delle abitudini di tutti i giorni. Tra quelle
piacevoli c’era la totale assenza dei rumori del traffico: automobili
strombazzanti, motorini smarmittati, sgasate, sibilo di improvvise
inchiodate, improperi di autisti e passanti ... nulla di tutto ciò. Solamente
qualche timido schiamazzo di ragazzi nottambuli o di turisti ubriachi
dispersi nelle calli.
Da buon sommergibilista, uso a dormire tra rumori di ogni genere, ci
ho messo qualche settimana ad abituarmi a quell’innaturale silenzio.
La mattina, vista la poca distanza che mi separava dall’ufficio (cento
metri e una rampa di scale), potevo permettermi di far suonare la
sveglia alle 07.30. Un sonno ristoratore che veniva comunque interrotto
tutti i giorni alle 06.00 circa.
A quell’ora infatti inizia la giornata dei gabbiani che devono darsi da
fare per trovare cibo per se ed i propri piccoli ... ma a Venezia anche i
gabbiani sono diversi.
Sono uccelli dotati di
una
certa
intelligenza
(ricordate
il
gabbiano
Jonathan Livingstone ?) e
di spirito di adattamento;
sanno individuare il modo
migliore per sopravvivere in
ogni situazione. A Venezia
hanno seguito l’esempio
dei gatti randagi che,
coccolati e nutriti dalla
popolazione, hanno perso l’istinto della caccia al punto che alla vista di
un topo se la squagliano (a loro difesa va detto che le pantegane sono
grosse quasi quanto loro e molto più affamate ed aggressive).
I gabbiani veneziani dunque non partono più per la pesca in alto
mare perchè il cibo lo trovano direttamente nelle calli e nei campi della
città. La spazzatura.
Già, perchè ciò che l’uomo rifiuta è spesso una manna per loro e per
questo si sono stanziati sui tetti delle case da dove possono controllare
l’arrivo della merce che di solito viene portata nei luoghi di raccolta
dell’AMIU la sera o la mattina presto.
Alle 06.00 calano schiamazzando dai tetti e si posano nelle vicinanze
degli allettanti sacchetti di plastica gonfi di chissà quali leccornie. Con
striduli suoni allontanano i poveri piccioni, una volta unici padroni del
campo e si preparano alla colazione.
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Con rapidi colpi di becco bucano i sacchetti e ne spargono il
contenuto tutt’attorno scegliendo poi i bocconi migliori come in un ricco
buffet.
Uno di questi ristoranti per pennuti si trova esattamente davanti
all’ingresso del Circolo Ufficiali, nel campo sul quale si affacciavano le
finestre della camera da letto di casa mia.
Come in tutte le comunità che si rispettino esiste una gerarchia
anche tra i gabbiani: il più grosso ed aggressivo mangia per primo e poi
gli altri in ordine di stazza.
Tutte queste operazioni si svolgono in un crescendo di schiamazzi di
avvertimento, gracidii minacciosi e versacci di ogni genere e tonalità.
La
comunità
che
consuma i pasti davanti al
Circolo Ufficiali ha un capo
grande e grosso che ha
preso dimora sull’abbaino di
casa mia: Adriano il capo
gabbiano è così aggressivo
che, quando decide di
consumare il suo pasto cala
dall’alto lanciando il suo
grido di battaglia e non fa
avvicinare nessuno alla
spazzatura, nemmeno gli umani, anzi, li minaccia spiegando le ali (quasi
due metri) e mostrando il suo micidiale becco adunco in grado di
strappare pezzi di carne a chiunque; sembra l’attore protagonista del
famoso film “Gli Uccelli”.
Per fortuna degli umani tutto ciò avviene tra le 6 e le 7 del mattino
quando i passanti sono veramente rari mentre per il resto della giornata
Adriano se ne sta appollaiato sull’abbaino a digerire e controllare il
territorio.
L’unico che ne faceva le spese ero io che, malgrado i tappi nelle
orecchie venivo puntualmente svegliato dal grido di guerra di Adriano.
Entrando al Circolo Ufficiali di Venezia volgete lo sguardo verso
sinistra, vedrete una casa dai muri rosa con un abbaino sul tetto. Se c’è
anche un gabbiano quello è Adriano. Se non c’è significa che qualche
umano disperato è riuscito a tirargli il collo.
Rudy Guastadisegni
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I RUSSI
I Russi arrivarono a Taranto nei primi anni ’70. Non è un racconto di
fantastoria, no, ma il racconto di un fatto di cronaca per quel tempo
eccezionale ed oggi, nel ricordo, profumato di divertita nostalgia.
Allora, col termine russi si indicavano tutti coloro che facevano parte
del blocco comunista di oltrecortina; oggi, dopo la caduta del muro di
Berlino e la sparizione dell’URSS, più propriamente dovremmo indicarli
come sovietici.
Si era in piena guerra fredda e la
notizia della visita dei sovietici, la
prima dalla Rivoluzione d’ottobre,
fece un gran botto: “Un incrociatore
ed un cacciatorpediniere della
Marina Militare Sovietica sosteranno
a Taranto dal ... al ... per restituire la
visita fatta ad Odessa da un similare
gruppo navale italiano”.
In Marina, è noto, per ogni novità improvvisa, si indice una riunione:
per una tanto ghiotta le riunioni furono ovviamente moltissime; per
gestire l’evento si formò una specie di comitato di salute pubblica con
le teste più fini del Dipartimento e questo generò una Task Force
capeggiata dal Sottocapo di Stato Maggiore, per tutti gli atti esecutivi.
Ogni cosa, ogni momento, ogni angolazione, ogni prospettiva, ogni
particolare furono analizzati, sviscerati,soppesati: Non rimanga nulla al
caso fu la parola d’ordine.
E venne il grande giorno. Il
passaggio del Canale, lento e
solenne, l’ormeggio anch’esso
solenne
ma
lentissimo
e
finalmente il grosso incrociatore e
l’agile caccia erano lì.
Da bordo e da terra gli uomini si
scrutano, si studiano, si annusano;
in fondo si è in guerra da più di
vent’anni, anche se solo fredda
per fortuna, senza essersi mai guardati in faccia: da entrambi le parti
qualcuno pensa che gli altri abbiano la coda.
Gli ordini di Roma sono stati precisi, dettagliati; tra l’altro la visita
sarà gestita e guidata, per parte sovietica, da una decina di funzionari
giunti direttamente dalla capitale, giovanotti seri, un po’ ingessati,
padroni di un ottimo italiano, un paio in divisa, gli addetti navali, gli altri
in borghese. Parleranno solo loro: quelli di bordo, informano,
conoscono solo il russo. Sono diffidenti e circospetti come se si
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aspettassero subdoli attacchi alla verginità della fede sovietica dei loro
equipaggi.
Da bordo tutti attendono di iniziare le visite turistiche programmate e
di vedere come vivono questi capitalisti occidentali che la propaganda
di regime descrive in modo fosco ed abietto. Tutti sono ansiosi di poter
confrontare il loro livello di vita reso felice dal governo che li rende tutti
uguali e che provvede alle loro necessità primarie, con quello abruttito
delle genti occidentali prive di qualsiasi appoggio centrale e costrette a
lavorare non per il popolo ma per se stessi e per il sostentamento delle
loro famiglie.
Il primo impatto con
questa realtà è la visione
di uno sterminato numero
di automobili private che
affollano
i
parcheggi
davanti alle banchine.
La Task Force ha
tentato,
con
modesto
successo,
di
far
sgomberare
la
zona
prospiciente gli ormeggi ed
il numero delle auto è solo
leggermente diminuito non
senza qualche protesta da parte dei riottosi proprietari costretti a
cercare parcheggio altrove. Proteste nei riguardi delle forze dell’ordine
che suscitano grande meraviglia tra gli equipaggi sovietici.
Il capo della task Force appare comunque soddisfatto; di più non si
poteva fare.
Gli si avvicina uno dei funzionari in borghese, quello più autorevole e
con l’aria furbetta di chi ha capito tutto e, con un freddo sorriso spara:
“Avete messo qui tante automobili pensando di impressionarci ... Ma
noi sappiamo benissimo che è tutta propaganda ... !”
Piero Marcenaro
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UNA BOMBA DI POMPA
Erano da poco passate le otto del mattino. Il Colonnello, curvo sulla
massiccia scrivania, stava esaminando il rapporto giornaliero delle navi
approdate a Porto Marghera. Gli passai davanti distrattamente; tutti in
questa Capitaneria di Porto sanno che a quell’ora è preferibile, per il proprio
bene, girare alla larga del Colonnello.
“Bisogna fare una visita su questa nave!”: disse puntuale alzando gli
occhi su di me.
Mi ero fatto beccare come un pivello! A me l’incarico più rognoso della
giornata. Era quel ‘bisogna’, pronunciato all’inizio della frase, a risuonarmi
minaccioso nella mente: sicuramente doveva trattarsi di ispezionare una di
quelle carrette di mare che si reggono a galla per intercessione di San
Nicola, protettore dei naviganti!”.
Che non sarebbe stato un lavoro facile ne
ebbi
conferma
non
appena
giunto
sottobordo. Lo scafo rugginoso pareva fosse
stato preso a calci dalle scarpe chiodate di
un gigante. Per un attimo rimasi a fissare la
vernice rossa bucherellata e corrosa attorno
alla marca di bordo libero: formava figure
astratte che non avrebbero disdegnato in una
sala del Guggenheim Museum.
Paludosa e stagnante l’acqua al fondo
dello stretto canale formato dalla banchina e
dallo scafo, come l’acqua dei porti
commerciali.
Lessi a poppa il nome della nave, Omar, e il porto di iscrizione,
Basseterre. Mai sentito prima d’ora. Anche la bandiera che penzolava a
poppa non l’avevo mai vista. Aprii la mia cartellina e lessi: Saint Kittis e
Nevis.
‘Dove diavolo sono questi luoghi?’ mi chiesi.
Richiusi la cartellina e mi decisi a salire a bordo. Forse là sopra le idee si
sarebbero schiarite. Avrei chiesto al comandante da dove provenisse il
nome della nave, e quale relazione ci fosse tra la bandiera e l’armatore.
Sarà per le stellette che indosso ma per me una bandiera rappresenta
l’appartenenza ad una nazione, l’origine del suo equipaggio, la lingua
ufficiale di bordo, i sapori della sua cucina, lo stile dell’arredamento e delle
divise.
Scorrendo la crew list appresi che al comando della nave c’era un croato,
che molto probabilmente non sapeva neppure dove si trovasse sull’atlante
Saint Kittis e Nevis. Il resto dell’equipaggio era formato da due montenegrini,
tre ucraini, tre filippini e dal cuoco greco. Un vero e proprio fritto misto a
buon prezzo.
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Il croato era in sovrappeso, faccia tonda alla Luigi XIV. La barba di un
paio di giorni non migliorava l’aspetto trasandato. Parlava un po’ di italiano.
‘Va bene…’ mi dissi, ‘…riempiamo tutte le voci richieste dal mio
collaudato ed approvato report d’ispezione. Forse mi farò un’idea più chiara
della situazione.’
Fino a pochi mesi fa la nave aveva battuto bandiera liberiana e si
chiamava Sea Queen. Un bel nome, ma poco credibile per quello scafo
sgangherato. Chiesi al comandante nome ed indirizzo dell’armatore. Mi
guardò come per dire: ‘Bella domanda!’. Imprecai dentro di me. Come
poteva non sapere dove diavolo stesse il suo armatore? Lo vidi tornare con
un foglietto, poi iniziò a dettare: “…D.&O. Shipping Co. LTD… Repubblic of
Panama…R.D. Street…Swiss tower…Urbanizacion Obarrio…”.Un indirizzo
che non sapeva di niente, come il tè senza zucchero.
Iniziavo
ad
addentrarmi nel labirintico meccanismo di nomi e luoghi che sembra fatto
apposta per smarrire la vera identità di chi sta dietro una nave. Di tanto in
tanto divagavo un po’ coi miei pensieri: mi venne in mente lo scalo che feci a
Panama con l’incrociatore Vittorio Veneto. Città calda e umida come la
laguna in quei giorni d’estate.
Il comandante continuava a sudare, era
nervoso; avevo l’impressione che mi guardasse
con sospetto. Di sicuro c’era che gli avevo
rovinato la giornata. Uscirsene con il minor
danno possibile dalla visita della Guardia
Costiera: certo era questo il suo principale
obiettivo e intanto si chiedeva cos’altro avrei
voluto vedere e dove sarei andato a frugare.
‘E io ti fermo questa carretta di nave’, mi dissi
‘…tanto lo so che le magagne te le trovo,
qualcosa la trovo che non va, magari una lancia
di salvataggio con il motore fuori uso, oppure la
linea antincendio bucata…’ .
Mi sorpresi ostile verso quel capitano rotondo
e
sudaticcio,
verso
quell’equipaggio
multietcnico, così poco colorito, così privo dell’impressione di autenticità.
Ci sono ispezioni che prendono pieghe acide, navi che mi stanno strette,
che danno poco spazio all’immaginazione.
Comparve il cuoco greco, dall’aspetto denutrito, con un vassoio che
reggeva un bricco di succo di mango e bicchieri non proprio trasparenti…
Stavo annotando in quel momento il nome della Società a cui era stata
affidata la gestione della sicurezza di bordo. Anche quella greca e
altrettanto poco trasparente: …SAMOS Company…, Piraeus…, Greece….
Un nome ed un indirizzo di plastica, senza verità. Da Panama al Pireo. Il
mondo è davvero piccolo per chi naviga?
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Tanto più vero il ricordo che mi si affacciò alla memoria per pochi
secondi, il ricordo del mio primo viaggio in Grecia: uno zaino in spalla, il
sole cocente dell’estate, Capo Sunion, … l’abbronzatura della mia fidanzata.
Riportai nel mio report l’indirizzo della Società: Agyos Spyridonos
street…. ‘Spyridonos’…; mi attraversarono fulminei ricordi di liceo, delle
versioni dal greco antico, dei guerrieri, delle battaglie e degli eroi,
l’inquietudine dietro i banchi, la voglia di partire. Immaginai di poter partire in
quel momento… anche con quella nave…. E invece mi ritrovai nella sala
macchina tra infernali sentine oleose e odore di gasolio.
‘Al diavolo la Grecia assolata, questi sono a rischio incendio!’ maledissi
dentro di me.
“Cheef! Cheef!” gridai all’ucraino che sorrideva ebete con un paio di
denti d’oro, “…oil leakage! oil leakage!”. Nel fracasso dei pistoni feci segno
ritmicamente con la mano verso i generatori. ‘Cazzo ma li vedi quei colaggi,
qui siete a rischio incendio!’.
L’ucraino, drogato dai fumi di macchina, mi guardò apatico. Di certo non
conosceva l’italiano, ma dubito che la versione in inglese avrebbe modificato
la sua espressione. Pensai all’armatore, che se ne stava a godersi il sole di
Panama oppure il fresco di Chios.
Su quella scatoletta di nave cominciavo a sentirmi un po’ stretto.
Bisognava riemergere.
“Next step… master, andiamo a vedere i ponti scoperti e proviamo la
pompa antincendio di emergenza”. Il croato ordinò ai filippini di collegare le
manichette agli idranti. Mi sembrò di cogliere nella sua voce un misto di
rabbia e di ansia. Mi fece cenno di seguirlo.
Andai sul cassero di prua ed aspettai. Sentii la mancanza di una pipa da
accendere. E’il modo migliore per osservare il formicolio dell’equipaggio su
una bagnarola.
Accolsi con piacere lo schioppettio assordante che risalì assieme a sbuffi
di fumo nero dal fondo di un boccaporto ai miei piedi. La pompa era partita.
‘Adesso arriva l’acqua e me ne vado’, mi dissi. Già pregustavo il prosecco
fresco sulla via del ritorno al bar “Darsena”, in vista delle gru della
Fincantieri.
Passarono i minuti. ‘…Forza getto d’acqua’, mi dissi, ‘…non puoi non
arrivare…adesso arrivi bello e potente ed io chiudo l’ispezione e me ne
vado”. E invece non arrivò. Le manichette stavano lì come minchie flosce.
Vidi il capitano urlare ai filippini che per risposta annuivano
incessantemente. Gli ucraini sembravano invece ignorarlo. Mi guardavano
con una brutta faccia. Il cuoco fumava sulla porta della cucina, appoggiato
alla lancia di salvataggio in ciabatte e calzini bianchi. Doveva essere
incazzato per il pranzo che si stava raffreddando.
La mia visita si stava complicando. Mi rassegnai.
“Ok master…stop…”, feci segno incrociando i polsi, “...fine della festa! In
cabina! Facciamo due chiacchiere…”.
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Mi sedetti col piacere che si prova dopo una sfiancante partita di calcio. Il
capitano aveva la maglietta pisciata sotto le ascelle, il viso stravolto, gli occhi
inquieti. Aspettava che io dicessi qualcosa. Mi offrì coca cola fresca in lattina
che tirò fuori dal suo frigorifero anni settanta.
“Non va bene, …captain, no good…la pompa non funziona. Da qui non
ve ne andate prima di averla riparata. Ship detained…”.
“Funziona!...Funziona!” rispose come se avesse trovato l’oro scavando in
una miniera.
“No! Ha visto l’acqua lei?” – domandai ironico.
Il mancato funzionamento della pompa antincendio rappresenta una
grave infrazione alle norme di sicurezza alla quale consegue il fermo della
nave fino alla eliminazione dell’irregolarità.
“No... no…!” ripeteva il capitano, come se fosse stato condannato da un
tribunale alla fucilazione. Il quel momento probabilmente pensava al suo
armatore che per ritorsione avrebbe potuto sbarcarlo. È frequente che ciò
accada sulle carrette, anche se la colpa non è dell’equipaggio ma del fatto
che non si provvede alla fornitura dei pezzi di ricambio quando qualcosa si
rompe.
‘Stronzo!’ gli avrebbe probabilmente detto l’armatore, ‘non sei
riuscito a fottere quelli della Coast Guard! Potevi far partire la pompa
principale, non se ne sarebbero accorti se quel coglione del direttore di
macchina ci avesse saputo fare!’.
Il comandante si rivelò un osso duro.
Aveva la sua versione dei fatti e non
esitava a buttarmela in faccia con
rabbia: “Funziona, la pompa funziona!
La nave è scarica e per questo non
aspira, la valvola non è immersa”, mi
diceva rabbioso guardandomi negli
occhi.
“No!” ribattevo con la bocca amara,
“…il manometro non lavora, non c’è
aspirazione… non funziona…, no such!”
“Such! Funziona ! l’abbiamo provata tre giorni fa a Capodistria! Funziona!
Such…!”
“Cazzo…una pompa o funziona in qualunque condizione di carico
o…non funziona!”, urlai mentre odori malefici di sudore e gasolio si
spandevano nella cabina senz’aria.
‘Devo trovare la soluzione a questa discussione…e andarmene…- mi
dissi – Ah! Se solo avessi accettato il caffé che il maresciallo stamattina mi
aveva proposto al chioschetto sotto la Capitaneria…non mi sarei trovato nel
momento sbagliato davanti a Colonnello’.
‘Magari tiro fuori il computer – pensai - e faccio leggere al comandante la
Convenzione internazionale sulla salvaguardia delle vita umana in mare e la
regola che stabilisce la lunghezza in metri del getto minimo di acqua dalle
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manichette, portata d’acqua in metri cubi…, le linee guida dell’International
Marittime Organization sulle ispezioni alle navi, il Memorandum di Parigi…’.
Intanto mi guardavo intorno, cercando di tirare il fiato e le energie per
affrontare la discussione. C’era il letto disfatto del comandante, dietro una
tendina, le lenzuola stropicciate, cd vecchi su una mensola. All’improvviso
ebbi un’idea …
Sulla scrivania, semi nascosta da una pila di fogliacci, c’era una rivista
con copertina con foto a colori dal titolo sorprendentemente pertinente
all’oggetto del nostro contendere: Hot Such, su cui una tettona bionda
maggiorata succhiava con una cannuccia da un bicchierone di latte.
Rinunciai di colpo a tutti i trattati e alle convenzioni internazionali…,
afferrai la rivista e gliela misi davanti agli occhi: “Ecco! Questa è una pompa
che funziona… Qui sì che c’è aspirazione! È una bomba!” urlai.
Silenzio. Il comandante guardava allibito sia me sia la tettona dai labbroni
siliconati che ammiccava maliziosamente continuando a succhiare
avidamente...
Secondi di silenzio che non finivano mai…
All’improvviso il comandante mollò la presa e scoppiò a ridere. Si era
arreso all’evidenza. Non c’era più spazio di manovra nella discussione.
Credo che nessuna convenzione internazionale sbattuta in faccia,
nessun richiamo alle norme avrebbero potuto produrre lo stesso effetto di
conciliazione che quella rivista aveva prodotto.
Il report fu chiuso e una cordiale stretta di mano suggellò la fine del
disaccordo.
Il comandante mi scortò rassegnato al barcarizzo.
“Thanks for your collaboration” dissi.
‘E’ andata così!’ - sembrava che volesse rispondermi.
Mentre tornavo in Capitaneria, sprofondato nel sedile posteriore dell’auto
di servizio, vidi dal Ponte delle Libertà le grandi navi passeggeri ferme in
Marittima e non potei fare a meno di pensare che loro quella sera sarebbero
partite festose.
Il Colonnello mi stava aspettando.
“Un buon lavoro!” mi disse dopo che ebbe ascoltato il mio rapporto. Ma
non poté fare a meno di chiedermi: “ Ha verificato anche l’altra pompa…,
quella principale?”.
“L’altra?...ah sì…l’altra funzionava alla grande…un’aspirazione notevole!
Una bomba di pompa!” risposi.
T.V. (CP) Vito SPADA
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LA DECISIONE
Un Vecchio lupo di mare, dopo anni e anni di onorato servizio, si ritiro’
finalmente nella sua casa di campagna per godersi la meritata e sudata
pensione.
Ma l’uomo, la cui indole, temprata dal mare e dalle difficolta’, non si
conciliava con la staticita e la calma dei campestri paesaggi scalpitava
come un puledro impazzito tra la disperazione di Giuseppe, fido contadino
e amministratore della tenuta di campagna, la cui preoccupazione era il
bilancio dell’azienda che considerava ormai suo feudo.
Un giorno il Comandante preso da una sua crisi da immobilita’ si
presento’ da Giuseppe, che stava nell’aia a preparare le verdura da
vendere al mercato il giorno seguente, e disse:
-“ Vedi Giuseppe, un uomo come me, abituato a comandare, portare
uomini e
bastimenti per mari e oceani del mondo, costretto a questa
immobilita’, io abituato a
decidere, organizzare, a giudicare. Dammi
qualcosa da fare altrimenti impazzisco”
-“ Comandante”- replico Giuseppe-“ io ho da fare, non sono in pensione
e non posso
perdere tempo a sentire le sue lamentazioni, se proprio
vuole aiutarmi e dovrebbe
provare a concimare l’orto per me”
Detto fatto, il Comandante, felice finalmente di poter agire, si reco’
nell’orto, tra la felicita’ di Giuseppe che era convinto di essersene
finalmente liberato per tutto il giorno.
Passo’ circa mezz’ora ed ecco apparire il Comandante, e visibilmente
soddisfatto disse a Giuseppe che il lavoro era stato concluso.
“ Gia’ fatto?”- replico Giuseppe- “ com’e’ possibile”
“E’ questione di organizzazione,
caro Giuseppe, io sono abituato a
organizzare ad agire, io ho portato uomini
e bastimenti per mari e oceani, non ci
vuole niente, basta organizzare. Che ci
vuole a spandere un po’ di letame
nell’orto. Se posso aiutarti non ti peritare.”
Giuseppe non sapeva piu’ che fare per
liberarsi del Comandante, poi si ricordo
delle patate.
-” Comandante”- disse-“ Se proprio mi
vuol aiutare, visto che dobbiamo andare al
mercato, nel granaio ci sono delle patate,
se mi divide le grandi dalle piccole, domani le portiamo al mercato”
-“Non ti preoccupare, Giuseppe, per me che ho comandato uomini e
bastimenti sono bazzecole, vado le ammazzo e torno”
La sera calo’ e Giuseppe ando’ a cena, mentre stava a tavola la moglie
gli chiese del Comandante.
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-“ Porca miseria, e’ ancora nel granaio, speriamo che non gli sia venuto
qualche malore perche’ l’ho fatto faticare troppo”
Di corsa Giuseppe s’avvio’ al granaio, apre la porta trafelato e vide il
Comandante in mezzo al mucchio di patate pensieroso, con una patata
piccola in una mano e una patata grande nell’altra.
-“ Comandante, tutto a posto? Ci sono problemi? Non e’ che a spargere
letame nell’orto si affatico molto?” – domando Giuseppe.
Rispose il Comandante, palleggiando le due patate nelle mani:
-“ Caro Giuseppe, finche’ si tratta di spandere merda e’ un discorso,
ma quando si tratta di prendere una decisione…! “
Domenico Comisso
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L’ULTIMA STANZA DELL’OLIMPO
Gli allievi del terzo anno della Scuola Navale Militare Francesco
Morosini di Venezia, come tutti gli allievi più anziani di ogni scuola, si
considerano i padroni della struttura (e per certi versi è proprio così) e
la loro sede è all’ultimo piano dell’edificio principale, lontano da aule,
uffici e controlli. Gli stessi ufficiali addetti alle ispezioni cercano
scientemente di limitare le loro incursioni al minimo indispensabile;
così, lassù, gli anzianissimi possono godere di una libertà che gli altri
non hanno. Sono quasi gli dei della scuola, ed è per questo che quel
luogo è stato chiamato Olimpo.
Ma quest’anno il Morosini
apre i concorsi anche alle
femmine e per questo evento
epocale sono state decise
estese ristrutturazioni che
hanno comportato la totale
demolizione
del
vecchio
Olimpo per far posto a più
moderne e confortevoli stanze.
Lo scorso giugno, mentre gli
anzianissimi del corso Iason si
preparavano agli esami di maturità, sono iniziati i lavori di
ristrutturazione di quello che tutti gli ex allievi ricordiamo come il mitico
Olimpo; ora, semplicemente, non esiste più e ciò che lo sostituirà sarà
tutt’altra cosa.
C’è però una stanza che
è sopravvissuta per altri
otto
mesi
circa:
la
mansarda di casa mia
anzi, della ex casa mia.
Fino a poco tempo fa,
infatti, abitavo in un
enorme appartamento di
servizio al secondo piano
della palazzina a fianco del
Circolo Ufficiali. Negli anni
“90 il sottotetto della casa
fu trasformato in mansarda
con tanto di bagno ed accesso all’altana; praticamente un monolocale
dove poteva tranquillamente abitare una piccola famigliola e che noi
utilizzavamo come alloggio per gli ospiti.
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Spesso gli ospiti erano allievi del Morosini, figli di colleghi ed amici
che, nei giorni di franchigia o week-end approfittavano della
sistemazione per cambiarsi in borghese o farsi sonore dormite.
La presenza saltuaria ha cominciato a diventare una frequente
abitudine quando al Navale sono arrivati i primi amici d’infanzia di mia
figlia che, per cinque anni, ha trasformato la mansarda in una
succursale dell’Olimpo.
Così quel piccolo ambiente
riservato e riparato da occhi
indiscreti è diventato punto di
ritrovo di frotte di allievi per
cambiarsi in borghese, per
organizzare
festicciole
di
compleanno o semplicemente
incontri musicali con relativi
balli e schiamazzi insieme a
mia figlia e le sue amiche e
compagne di scuola. Molti
ragazzi sono diventati usuali frequentatori al punto che di sabato o di
domenica mattina arrivavano in tuta da ginnastica (allungando il
percorso dell’abituale footing concesso fuori le mura) fin sotto casa
sapendo di trovare sempre una torta di mia moglie fatta apposta per
loro.
In occasione di feste organizzate in Collegio la mansarda si riempiva
di ragazze che la utilizzavano come base di appoggio e dormitorio
mentre in caso di feste fuori
Collegio diventava comodo
punto di appoggio per allievi
in franchigia o permesso
domenicale. Malgrado la
normale
capienza
dell’ambiente fosse di tre
letti, in diverse occasioni ci
hanno dormito anche in otto
arrangiati ed accampati con
sistemazioni di fortuna come
solo i morosiniani sanno fare
Nelle occasioni canoniche
(giuramento, inaugurazione, Mak-P ecc.) era il turno degli ex allievi
provenienti da tutta Italia che non solo potevano usufruire di un
alloggio gratuito praticamente a pensione completa ma avevano anche
il piacere e l’emozione di tornare in luoghi pregni di ricordi piacevoli.
Col trasloco nella casa di famiglia al Lido, anche l’ultima stanza
dell’Olimpo è stata chiusa, e forse l’unico dispiacere di questo mio
trasferimento è proprio questo: la presenza degli allievi in casa era
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fonte di allegria e goliardia e mi dava la piacevole sensazione di fare
qualche cosa di veramente utile per loro; mia moglie poi si trasformava
in chioccia agitandosi premurosamente per quei ragazzi che sentiva
quasi come figli adottivi bisognosi di attenzioni perché lontani da casa
e dal calore delle loro famiglie.
Ora vivo definitivamente al
Lido, a casa mia, dove, con
una pesante ristrutturazione,
ho ricavato una mansarda,
meno grande della precedente
e sicuramente non in grado di
sopportare festini e goliardiche
ammucchiate; probabilmente
sarà saltuariamente meta di
qualche
ex
allievo
di
passaggio … eh sì, con la chiusura della vecchia casa Guastadisegni
e della sua mansarda olimpica è definitivamente tramontata l’era del
vecchio Olimpo.
Rudy Guastadisegni
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