IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE PER I MANAGER

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IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE PER I MANAGER
UN GIURAMENTO DI IPPOCRATE
PER I MANAGER
di Davide Reina - 22 Gennaio 2012
Abbiamo creato un management ingiusto e strutturalmente squilibrato,
segnato dal divario amplissimo tra le retribuzioni dei capi e quelle dei loro
impiegati. La soluzione per uscirne? Un "Giuramento di Ippocrate" che
induca le imprese a difendere i comportamenti etici, sanzionando furbi e
disonesti
nostro tempo, con la loro supposta taumaturgica abilità di risollevare le imprese o guidarle verso
sorti magnifiche et progressive, e la perfetta sostituibilità dei middle manager, è misurata dalla
crescita esponenziale nel divario tra le retribuzioni di questi due "ceti manageriali". All'inizio
degli anni '50 del secolo scorso, John Pierpont Morgan, grande banchiere d'affari che certo non
era un appassionato socialista, si lamentava (e preoccupava) del fatto che il proprio direttore
generale guadagnasse più di venti volte lo stipendio del suo più giovane impiegato, evidenziando
come non ci fosse la stessa proporzione in termini di contributo al valore dell'azienda. Oggi
riscontriamo un rapporto pari a quattrocento volte negli Stati Uniti, e ci stiamo avvicinando alle
cento volte in parecchi paesi europei. Siamo arrivati a tutto questo perché, a partire dalle prime
grandi multinazionali della fine dell' 800, si è compiuto un percorso di progressiva affermazione
del concetto di "risorsa umana" sempre meglio preparata ma, paradossalmente, sempre più
sostituibile. Per la grande impresa il middle manager di oggi corrisponde all'operaio di ieri. E il
computer sta al middle manager di oggi come il tornio stava all'operaio di ieri. Le grandi imprese
sono popolate da una moltitudine di middle manager perfettamente sostituibili e in
competizione tra di loro, dominati da una casta ristretta di CEO che invece sono considerati
indispensabili. Nella "economics on celebrities" che contraddistingue la nostra (apparente)
modernità, i CEO diventano protagonisti mediatici oltre che economici. E finiscono per godere di
quell'effetto distorsivo-cognitivo che i media sanno ingenerare in chi guarda, legge o ascolta. Nel
caso specifico, affermando l'idea che un uomo al comando di un'impresa da decine di migliaia di
dipendenti può, da solo, fare la differenza. Se ci fermiamo a riflettere, ci rendiamo conto che questo
non è possibile. O meglio, non è possibile "da soli".
Un'impresa cambia rotta perché sono almeno il 51% dei suoi manager con il loro agire quotidiano, a
farlo. Ma allora dovremmo osservare un mondo in cui la differenza di retribuzione tra il CEO di una
grande azienda e i suoi middle manager rimane costante, nella buona come nella cattiva sorte.
Insomma, un mondo che premia ciascuno in proporzione al suo contributo. E invece no. Il
motivo? Il CEO è una celebrity e, dunque, la sua personal equity va al di là dell'impresa che dirige.
Il middle manager è invece, per quanto bravo, anonimo. Ciò detto, come si esce da questo circolo
vizioso?. Se ne esce facendo essenzialmente due cose: guardando i dati oggettivi, che evidenziano
come i CEO non valgano certo quattrocento volte i loro impiegati in termini di contributo al
valore dell'impresa; intervenendo in modo serio e strutturale sul degenerato sistema delle stock
option, per rifondare la logica della partecipazione al risultato d'impresa nella direzione di una
maggiore diffusione in capo a tutti i manager e operai da un lato, sulla base di un orizzonte
temporale minimo che non può essere il trimestre o in singolo anno, bensì un periodo minimo di trecinque anni, dall'altro.
Se non faremo questo, continueremo ad avere quella che John Kenneth Galbraith nel 2004
definiva come "(...) una struttura del mondo aziendale che ripone il potere nelle mani del top
management, non dell'azionista o della gente in generale, ma di coloro che rappresentano e
dirigono le grandi burocrazie aziendali. Questo potere attribuisce loro il diritto di retribuire sé
stessi. E non sorprendentemente, essi colgono al volo questa facoltà. Questo è il capitalismo
aziendale". (...) Io vedo in questo uno dei grandi problemi irrisolti del nostro tempo. E giacché è
tutto perfettamente legale, io la chiamo "la frode innocente".
Ecco che questo ci riporta al cuore del problema: manager che agiscono all'interno della legalità ma
al di fuori dell'etica. Operando all'interno di quell'area grigia che risiede, per dirla con le parole di
Nicholas Nassim Taleb, "nella crescente separazione tra ciò che è etico e ciò che è legale".
Un'area grigia che produce gravi danni all'economia e alla società, e che è alla base del nostro
sentire comune per cui il sistema in cui viviamo, oltre che in crisi, è ingiusto.
Come fare per risolvere questo problema? Come evitare i casi di CEO che licenziano i
dipendenti e spremono le aziende il per proprio tornaconto personale? E come diffondere un
rinnovato senso di dirittura morale nel management del futuro? E' essenziale, prima di
rispondere, premettere come la volontà di risolvere questo problema non persegua soltanto un
obiettivo di natura etica, ma anche un fine concreto: un management etico "conviene" alla società.
Perché produce meno esternalità negative, imprese più robuste, meno costi sociali a carico della
collettività.
Io credo che la soluzione risieda nella la creazione di un codice di deontologia professionale per i
manager. Il paradosso attuale, infatti, è che non esiste alcun vero codice di condotta morale per
la professione manageriale, benché essa sia forse il mestiere con il più grande impatto sulla
nostra società (siamo infatti, che ci piaccia o no, una società di organizzazioni gestite da manager).
Per cui, dovremmo creare una specie di "Giuramento di Ippocrate" del manager. In fondo, il buon
manager è un pò come un bravo medico: deve preoccuparsi di mantenere l'impresa in buona
salute esattamente come un medico fa con un suo paziente. Solo che i manager esercitano la loro
professione senza dover rispettare alcun giuramento di Ippocrate, come invece i medici sono tenuti
a fare. E il giuramento di Ippocrate è un magnifico esempio di codice di condotta morale che si
colloca al di sopra della legge e prima della legge, per ispirare la condotta del medico proprio
all'interno di quell'area grigia, di quello iato tra etica e legge, che quasi mai riusciamo a colmare a
causa della nostra mediocrità e dei forti interessi in gioco. Un simile giuramento, qualora venisse
sottoscritto dalla maggior parte dei manager, potrebbe portare le imprese ad essere luoghi che
puniscono i comportamenti non etici e, se del caso, difendono i comportamenti etici. Mai come
in questo caso raggiungere la maggioranza sarebbe determinante. Se bandiamo l'idealismo sterile e
la retorica dalle nostre riflessioni infatti, dobbiamo riconoscere come è molto più facile essere
onesti (o etici che dovrebbe, in teoria, essere la stessa cosa) in un'organizzazione "in cui ci sia già
una maggioranza di onesti". Viceversa, comportarsi in modo onesto in un'organizzazione a
maggioranza di disonesti equivale ad un atto di eroismo che confina con il martirio professionale.
Infine, l'affermazione di un simile giuramento in seno alla popolazione manageriale
ridonerebbe vigore ad un fortissimo deterrente per il disonesto o il furbastro: la condanna
morale da parte di coloro che fanno il suo stesso mestiere, al di là della eventuale pena prevista
dalla legge.
La creazione di un Giuramento di Ippocrate del manager è sicuramente una sfida difficilissima, e
non è certo mia intenzione proporne uno fatto e finito. Sarebbe presuntuoso da parte mia. Mai come
in questo caso, sarebbe indispensabile il contributo di grandi giuristi con sensibilità economica e di
grandi economisti con sensibilità normativa. Però, ogni lungo viaggio incomincia con un primo
passo. Per cui lo faccio io, proponendovi qui di seguito un primo, embrionale giuramento. Ogni
contributo e commento è benvenuto!.
GIURAMENTO DEL MANAGER
Consapevole dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro di:
1. Esercitare la professione di manager con piena indipendenza di giudizio e comportamento,
riconoscendo la rilevanza sociale, e non solo economica, della mia professione.
2. Perseguire come scopi esclusivi del mio operare lo sviluppo dell'impresa nel lungo periodo, la
ricerca di un profitto socialmente e ambientalmente responsabile, il rispetto e la tutela delle altre
persone impiegate nell'azienda. A questi scopi ispirerò, con senso di responsabilità e costante
impegno individuale, ogni mio atto professionale.
3. Non compiere atti tesi a provocare deliberatamente il danno professionale a miei collaboratori e
dipendenti, o il danno dell'azienda, per inseguire il mio tornaconto personale.
4. Ispirare la mia attività professionale ai principi del rispetto e della dignità tra gli uomini, contro i
quali non utilizzerò mai la mia posizione di potere professionale.
5. Prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza, secondo le mie competenze e la mia
coscienza.
6. Evitare, anche al di fuori dell'esercizio della mia professione, ogni atto e comportamento che
possano ledere il prestigio e la dignità della professione.
7. Non utilizzare mai le informazioni di cui sono in possesso per arricchirmi ai danni dell'impresa e
dei suoi dipendenti.
8. Ispirare sempre la mia condotta ai valori dell'onestà e della dirittura morale.