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Il Mare ancora non bagna Napoli
Dedicato alla memoria di Anna Maria Ortese che ha pagato le nostre miserie con la
sua vita, nel vano tentativo di riscattare la nostra morale, il nostro orgoglio, amandoci
anche quando la uccidemmo. Per noi ancora inconsapevoli di un perdono che non ci
arriverà mai più1.
Su il sipario...
Filumena Marturano risoluta a Domenico Soriano...
...E chi si' tu, ca me vuò mpedì 'e dicere, vicin' 'e figlie mieie, ca me
so' ffiglie? (A Nocella) Avvoca', 'e ssapite chilli vascie... (Marca la parola) I
bassi...A San Giuvanniello, a 'e Virgene, a Furcella, 'e Tribunale, 'o
Pallunetto! Nire, affummecate... addò 'a stagione nun se rispira p' 'o calore
pecché 'a gente è assaie, e 'a vvierno 'o friddo fa sbattere 'e diente... Addò
nun ce sta luce manco a mieziuorno... Io parlo napoletano, scusate... Dove
non c'è luce nemmeno a mezzogiorno... Chin' 'e ggente! Dint' a nu vascio 'e
chille, 'o vico San Liborio, ce stev'io c' 'a famiglia mia. Quant'èramo? Na
folla! Io 'a famiglia mia nun saccio che fine ha fatto. Nun 'o vvoglio sapé.
Nun m' 'o rricordo! ...Sempe ch' 'e ffaccie avutate, sempe in urto ll'uno cu'
ll'ato... Ce coricàvemo senza di': «Buonanotte! » Ce scetàvemo senza di':
«Bongiorno! » E 'o calore! ...'A notte, quanno se chiudeva 'a porta, nun se
puteva rispirà. ...Tenevo diciassett'anne. Passàveno 'e ssignurine vestite
bbene, cu' belli scarpe, e io 'e guardavo... Passàveno sott' 'o braccio d' 'e
fidanzate. Na sera ncuntraie na cumpagna d' 'a mia, che manco 'a
cunuscette talmente steva vestuta bbona... Forse, allora, me pareva cchiù
bello tutte cose... Me dicette (sillabando): «Così... Così... Così...» Nun
durmette tutt a notte... e o calore... 'o calore... E cunuscette a tte!
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Ringrazio la dott.sa Antonella Gallo per la pazienza all’ascolto e la sua preziosa supervisione a questo lavoro.
N.d.A. I corsivi all’interno dell’articolo fanno riferimento anche ad alcuni concetti psicoanalitici; per tale ragione
richiederebbero un momento più lungo di riflessione da parte del lettore.
Libro consigliato: Anna Maria Ortese, Il Mare non bagna Napoli, Adelphi, 1994
Il Mare ancora non bagna Napoli 2
(Domenico trasale). Là, te ricuorde?.. Chella «casa» me pareva na
reggia... Turnaie na sera 'o vico San Liborio, 'o core me sbatteva. Pensavo:
«Forse nun me guardaranno nfaccia, me mettarranno for' 'a porta!»
Nessuno mi disse niente: chi me deva 'a seggia, chi m'accarezzava... E me
guardavano comm' a una superiore a loro, che dà soggezione... Sulo
mammà, quanno 'a iette a salutà, teneva ll'uocchie chin' 'e lagreme... 'A casa
mia nun ce turnaie cchiù!
(Quasi gridando) Nun ll'aggio accise 'e figlie!
(Passo tratto da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo)
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Come la classica canzone napoletana, il dramma di Filumena
Marturano, partorito dopo chissà quale sofferta gestazione, dalla mente
neorealista di Eduardo De Filippo, ha diffuso la sua fama per il mondo,
senza peraltro mai dimenticare l’affetto che, dal luogo delle origini2 ne
reclamava trionfali quanto doverosi ritorni in patria. Lungi dal ripresentare i
profili caratterologici, fin troppo saturati, dei personaggi del dramma in
questione, con la citazione della prosa, ho voluto riproporvi la luce vivida
eppur spettrale dello sguardo allucinato di Filumena Marturano, che scruta
il vuoto di fronte, rievocando i fantasmi che si aggirano tra li scenari in
rovina del suo squallido passato.
Il dramma di questa donna, poi non tanto immaginaria, si consuma
in una Napoli intrisa dell’angoscia di morte di chi è fatalmente scampato alla
guerra, pur nella fame e nella miseria: lo scenario dei nostri avi,
divenuto memoria filogenetica inconscia, di un popolo che ha fatto della sofferenza il suo
strumento fondamentale di resistenza e di vita. Ma sarà proprio dalla riedizione amorale delle rovine del passato e dell’Amore di Domenico Soriano che per
Filumena Marturano sarà possibile avviare un processo di ricostruzione,
trasformazione, la ripresa di un progetto di vita atto a riproporre la genesi del
bel futuro dalle brutture di un passato ingiusto. Forse Eduardo aveva intuito
che il solo modo di garantire un sano ritorno in Patria alla sua eroina era quello
2
D. W. Winnicott, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina, Milano 1990.
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dr. Marco Luongo
di estrarre dai mea culpa della sua in-colpevole coscienza, un futuro morale atto a
suscitare, nel cuore del popolo spettatore, un feed-back di empatia.
Donna Filumena viveva in un sistema familiare malato, invischiato e
perturbato da un contesto sociale disgregato dalla misera e dalla in-cultura.
Contesto sociale, che al pari di lei, mostrava e mostra senza pudore i vizi di
sempre: l’arroganza morale e la superbia nei confronti di chi, per la
capricciosa volontà del fato, è più agiato economicamente. Un popolo che si è
fatto massa informe inseguendo, dalle origini della sua storia, il sogno schizotipico
di prendere forma aggrappandosi ostinatamente alle proprie ragioni, in attesa di
un cambiamento intervenuto dal cielo.
Di notte le ombre si incrociavano nel buio umido e fetido dei vicoli
di Napoli consumando, nell’attesa, barbari istinti sessuali. Si mettevano al
mondo altre vite, non per amore, ma per imporre la propria esistenza in un
mondo ritenuto emarginante, per l’arrogante pretesa di Essere senza Esserci.
Filumena Marturano si lascia convincere dalle amiche della
medesima estrazione sociale, ma ben vestite e truccate, a prostituirsi. Di
fatto anch’essa vestirà bene. Filumena è una prostituta, ma tutti la accettano
nel bene e nel male: in primis la Madre Vergine, poi la sua famiglia, il suo
contesto, noi spettatori. Per varie e opinabili ragioni, che non spiegherò in
questa circostanza, tutti danno per scontato dall’alto della propria morale,
sim-patetica al destino sacro di Maria Maddalena e col beneplacito della
Vergine Maria, -che dall’alto della sua icona svolge il ruolo di madre
incondizionatamente buona - che Filumena sia una donna forte la quale,
nonostante sia stata una prostituta e abbia abbandonato i suoi figli meriti il
perdono e la reintegrazione.
Quello che aiuta nel nostro inconscio l’accettazione senza remore del
personaggio di donna Filumena sta, a mio avviso, in due fatti: la sua
ammissione e umiliazione profonda, nuda di fronte al giudizio dello
spietato popolo, del suo essere una prostituta, che ha abbandonato i figli e
la ridondanza, nella prosa, del suo gridare Nun ll'aggio accise 'e figlie!
Tutti crediamo a questa donna, alla sua verità, al suo coraggio, alla sua
storia di madre senza madre, in fondo, buona perché spinta dall’esistenza ad
un crocevia, che potremmo definire di comodo ma obbligato: destini paradossali
in una città emblema del Paradosso.
La denuncia, nel dramma di Eduardo (e non solo di tale autore, ma
di tantissimi cultori feticisti della cosiddetta napoletanità) di una borghesia, che
mantenendo l’immagine integerrima e perfetta, consuma i suoi istinti in un
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bordello, non ci convince, fintantoché in quel bordello vi si reca anche il
povero. Come si evince dalle parole della stessa Marturano, ella ammirava
e, a modo suo, amava quell’uomo, Domenico Soriano, per il suo status
sociale e, per quella sorta di fascinazione, che emanano coloro che sono
incapaci d’Amare, di chi si reca in un bordello e paga per le prestazioni
ricevute, senza – giustamente - vincoli di obbligatorietà nei confronti dei
sentimenti.
Considerando che il bordello era frequentato dai ricchi e dai poveri e
che, come sembra suggerirci Eduardo, i poveri siano più disposti ed esposti
all’ascolto dei propri ed altrui sentimenti, (proprio Eduardo che scrisse: “i
luoghi comuni hanno le gambe corte”), perché Filumena Marturano non si è
innamorata di un uomo che potesse garantirle un futuro economico
modesto, ma ricco d’Amore? Cinicamente potremmo essere legittimati a
ritenere che questa donna un Progetto per Esserci lo aveva, ma mancando di
fatto la conoscenza di sé, fondamento dell’Essere, ha allevato la sua prole
prelevando i danari dell’uomo pre-scelto, Domenico Soriano, padre ignaro di
uno solo dei tre fratellastri.
Per quanto sinceramente toccante questa pièce teatrale, ad uno studio
accurato e analitico delle dinamiche dei personaggi, tale commozione non può
prescindere dalla constatazione di taluni sentimenti malevoli e pre-meditativi
della Marturano.
In questo dramma apparentemente semplice e buonista si cela una
storia di odio, rancore e vendetta, di mancata conoscenza e quindi
accettazione di sé, della propria famiglia e delle proprie origini: storia
individuale, che si rivela la storia di un popolo, che arrogantemente pensa di
poter schiaffeggiare il mondo e la civiltà affermando il diritto alla
neghentropia, affidando il proprio presente e, comodamente per procura, il
futuro dei propri figli, o alla classe politica più conveniente (che a tutt’oggi
tenta di barattare con gli indigen-ti, voti elettorali con modestissimi doni e
fasulle promesse di cambiamento) o l’affidamento rassegnato, ad arcane
volontà divine.
Il volto sporco della Napoli che fu, è stato, in parte, lavato, ma la
città involontaria, così come la definì Anna Maria Ortese nel suo capolavoro
del 1994, è tuttora quella; la città nella quale o scegli di vivere facendo
aderire al piano di realtà i modelli inconsci dell’Ombra indagata da Jung (I
vicoli di Napoli come l’inconscio junghiano) o di sopravvivere
masochisticamente, ovvero di fuggire via.
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dr. Marco Luongo
Napoli, al pari di Filumena, abbandona i suoi figli, per poi
rivendicarne il diritto, affidandoli ad un confuso quanto improbabile futuro,
nella perpetua illusione che si possa giungere al Cambiamento senza una
dolorosa Trasformazione.
Sorge doveroso un ultimo quesito: perché se Napoli si propone
come un posto al sole, la povera piccola Filumena Marturano, a mezzogiorno,
nel suo vico San Liborio non scorgeva la sua luce pur patendone gli effetti?
Come la Marturano, probabilmente, non cerco delle risposte, ma mi
abbandono al rifiuto coatto del contesto per non lasciare che l’intelligenza vaghi,
come un viandante smarrito nei vicoli caotici, rumorosi, congestionati e
primordiali di una Napoli e una napoletanità troppo arrogante per mettere
in discussione la sua lacuna culturale disidentificandosi di fatto col senso civico
e l’intelligenza.
Offesa e schiaffeggiata in primis dalla strumentalizzazione di una
classe politica corrotta, e dai feticisti intellettuali da salotto poi, Anna Maria
Ortese, pagò molto presto la sua fama di scrittrice che ebbe inizio proprio
con la sua seconda opera, la raccolta di novelle Il mare non bagna Napoli
(Premio Viareggio, 1953). Fu emarginata.
Isolamento, solitudine, umiliazioni personali e letterarie, fecero della
Ortese un personaggio difficile e scomodo, in una Italia intellettualoide da
sempre caratterizzata dallo schieramento ideologico per la quale la scrittrice
nevrotica anti-napoletana non risparmiò giuste e spietate critiche.
Il plauso della critica non le permise sconti di pena dalle accuse dei
beceri intellettuali, i quali sostenevano i poteri politici dell’epoca, che
scovarono con perizia feticista nell’opera un disegno atto a denigrare la città
di Napoli in ogni suo aspetto, io direi, dai suoi luoghi comuni,
dall’istituzione familiare alle tradizioni, ai suoi intellettuali.
Secondo Battista Amodeo «[…] sono stati soprattutto i politici, in un
periodo tra i più oscuri dell’amministrazione della città, fatta di voti di scambio, di un
uso corrotto e improprio del potere e del danaro» che hanno condotto la polemica
nei confronti della Ortese, la quale nell’ultima edizione del testo, curata da
Adelphi nel 1994, fu costretta, a mio avviso, ad aggiungere una Guida alla
lettura, per sciogliere i mea culpa dall’equivoco.
Ma non è così, i suoi occhi videro ciò che la sua mano scrisse...
Lucida, critica, appassionata, senza complicità , senza patetismi, scevra da
pregiudizi e libera da quella facile retorica che ancora oggi caratterizza la
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maggioranza degli interventi, artistici e no, su Napoli e i suoi abitanti, la
Ortese descrisse lo stato della plebe, i vicoli della città, dove il mare non
arriva a lavare le coscienze e il sole non riesce ad illuminarle, come fu per
Filumena Marturano.
Eh, la Marturano punita dalla stessa retorica di De Filippo, Viviani,
Di Giacomo, Serao, così legati alla napoletanità... e poi arrivò Il Mare.
Filumena Marturano come Napoli, la città e i suoi vicoli come
personificazione mostruosa del nostro inconscio involontario, senza volitiva
intenzionalità, dedalo buio dove il Simbolo non avendo incorporato ancora il
Simbolico è privo di un senso che illumini le pretese ragioni dell’Io.
Per meglio mettere a fuoco, ciò che può essere celato dai segni
offerti dal reale, anch’io ho indossato degli occhiali come Eugenia, la
piccola “cecata”, protagonista del primo capitolo del libro della Ortese, ma
ho riconosciuto, mio malgrado, tutto ciò che la città continua ad Essere:
un simbolo deaffettivizzato... il Mare ancora non bagna Napoli...
...Giù il sipario