Il mio intervento sarà un pochino noioso e puntualizzatore, però

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Il mio intervento sarà un pochino noioso e puntualizzatore, però
Prof. Romano Oneda – Università di Pavia – Docente di Informatica giuridica
Nomina sunt omina: qualche considerazione sulla terminologia giuridico-informatica
italiana
Il mio intervento sarà un pochino noioso e puntualizzatore, però penso che
anche questi contributi possano risultare utili nei tentativi che si stanno facendo di
precisare il contenuto delle definizioni utilizzate in informatica giuridica. Non
dimentichiamo che in questa materia intervengono a pari titolo contributi di ingegneri
e di giuristi, e farli convivere non è sempre facile, dato che i problemi di linguaggio e
di ‘interfacciamento’ spuntano in continuazione, ed è quindi importante cercare
quantomeno di chiarirsi un poco le idee.
Inutile dire che il titolo dell’intervento fa riferimento agli auspici ed ai presagi,
non sempre favorevoli, che si possono ricavare andando a frugare tra le viscere del
linguaggio giurinformatico nei testi normativi.
Nel prosieguo del discorso accennerò ad alcuni problemi (a mio giudizio,
naturalmente) terminologici dell’informatica giuridica rilevabili nella più recente
normativa, facendo costante ed implicito riferimento al supporto delle slides
proiettate.
DOCUMENTO INFORMATICO: all’origine dell’informatica giuridica in
Italia troviamo la legge 59, cosiddetta ‘Bassanini 1’ del marzo 1997, art. 15 c. 2.
Quello che ci interessa è che parla di atti e documenti della P.A. formati con
strumenti informatici.
Per ragioni di sintesi e di comodità il termine “documento formato con
strumenti informatici” viene però successivamente abbreviato, e così correntemente
si finisce col parlare di “documento informatico”. Questo comma della l. 59 ha
costituito il motore di una spinta non sempre ben meditata verso l’introduzione di
parallelismi terminologici nel linguaggio inforgiuridico, la molla dell’estensione
analogica di costrutti giuridici consolidati nei secoli al terreno ancora infido della
giovanissima informatica.
Si è sempre parlato del documento cartaceo, ed ecco che si costituisce senza
troppi problemi l’equivalenza con il documento informatico: se vale questa
equivalenza, e se il documento cartaceo è una rappresentazione (come sostiene la
dottrina che tutti ben conosciamo da Carnelutti in poi), allora il documento
informatico, in conseguenza di questa equiparazione, sarà una ‘rappresentazione
informatica’ .
Questo nuovo sintagma è accolto con favore e viene mantenuto dal 1997 in poi,
fino a ritrovarlo nel Codice dell’Amministrazione digitale.
Lo troviamo quindi già definito nel DPR 513: “per documento informatico si
intende la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”:
ci sarebbero varie obiezioni da fare, ma lasciamo perdere; la definizione viene poi
ripresa nel T.U. 445. Nel Codice infine ritroviamo ancora la stessa identica
definizione.
Non possiamo affrontare in questa sede la questione se il documento cartaceo
costituisca una rappresentazione o meno, e di che cosa, perché si andrebbe fuori
tema: lo diamo per scontato, ma almeno chiediamoci cosa significa il termine
rappresentazione e di conseguenza quale significato possiamo assegnare al termine
rappresentazione informatica .
Il primo passo da fare è naturalmente andare a spulciare un po’di vocabolari in
ricerca del significato di ‘rappresentare’: troviamo una varietà consistente di
significati proposti, da cui tuttavia è possibile ricavare una base semantica comune: è
l’idea di ‘stare per’, di ‘sostituire’, che collega inscindibilmente due realtà, un
rappresentante e un rappresentato, che costituiscono funzionalmente due facce della
stessa medaglia; chi conosce un poco di semiotica potrà parlare del ben noto aspetto
della funzione segnica del legame che unisce il significante col significato.
Quindi nell’atto della rappresentazione abbiamo il rappresentante, che è
necessariamente un oggetto sensibile, quindi qualcosa con cui noi interagiamo e che
vediamo, e questo oggetto sostituisce, appunto rappresenta, una entità che di solito è
non facilmente o non del tutto rappresentabile, di livello logico superiore, quella che
comunemente dice una astrazione. Potremmo anche dire che il sensibile rappresenta
l’insensibile, ciò che non cade sotto i nostri sensi.
Facciamo subito un esempio, per non astrarre troppo: le rappresentazioni
numeriche. Il numero è una classe, una astrazione, ma viene rappresentato
visibilmente dalle cifre, e tanti errori logici derivano proprio dal confondere il
rappresentante col rappresentato: le cifre hanno solo la funzione di essere il vettore
visibile del concetto rappresentato.
Questo legame è convenzionale, è una funzione di scelte culturali e storiche,
quindi lo stesso numero può essere rappresentato da diverse cifre e di converso la
stessa cifra può rappresentare numeri diversi, a seconda delle convenzioni o modalità
rappresentative.
Per esempio, consideriamo differenti rappresentanti che significano uno stesso
rappresentato: il numero quaranta, lo stesso numero, cambiando lingua, cambia
denominazione: forty, vierzig etc. però, indipendentemente dal nome-etichetta che
diamo al numero, le stesse cifre possono cambiare: XL se utilizziamo la
rappresentazione latina, la μ se utilizziamo quella greca, 40 nel nostro consueto
decimale, mentre in esadecimale leggiamo quaranta ma scriviamo 28, cioè (2*161 +
8*160 = 32+8); inoltre in rappresentazione binaria scriviamo 101000, e così via
esemplificando.
Quello che è importante, al presente, è che nessuno si sognerebbe di dire che il
numero quaranta sia cambiato, passando in diversi linguaggi o passando attraverso i
greci o i latini.
L’esempio inverso è quello in cui a uno stesso rappresentante, a una stessa
cifra, corrispondono diversi rappresentati, sempre in funzione del sistema di
rappresentazione numerica adottato; quindi, considerando la sequenza di cifre ‘10’ in
un sistema di numerazione posizionale, come è quello nostro decimale, la sequenza di
cifre indicata rappresenterà per definizione il numero che sta alla base del sistema
rappresentativo, e di conseguenza la stessa sequenza di cifre corrisponderà al numero
dieci in decimale, a due se in binario oppure a sedici in rappresentazione esadecimale
e cosi via.
Chiarito cosa intendiamo per rappresentazione, passiamo ora a cercare di
chiarire cosa possa essere una rappresentazione informatica: una delle possibilità di
definizione, tra le tante, è “rappresentazione di qualcosa, ottenuta con strumenti
informatici”. Per esempio potremmo avere una mappa, la rappresentazione di un
terreno o di una qualunque realtà non informatica, però informatizzata, ottenuta con
strumenti informatici.
Ma potremmo anche pensare che la rappresentazione informatica sia la
rappresentazione di uno stato interno alla macchina informatica, cioè una
configurazione di bit ottenuta con strumenti informatici; o ancora possiamo pensare
alla rappresentazione dello stato interno di una macchina informatica attraverso
strumenti non informatici. Per esempio, non dimentichiamo i nastri perforati, che
possono essere vettori di una sequenza di rappresentazioni di bit, ottenute però
attraverso una azione meccanica. Lasciamo per un momento in sospeso la questione,
perché magari possiamo ricavare qualche indizio ulteriore dall’esame del lemma
seguente.
EVIDENZA INFORMATICA: trovandoci di fronte a questo sintagma
possiamo chiederci la stessa cosa, a proposito del significato di ‘evidenza’ e del
contributo semantico che l’aggettivo’informatica’ fornisce alla coppia. Evidenza
informatica è una nuova entry a quanto sembra, un sintagma di conio italiano, (una
ricerca in Google per informatic evidence fornisce ben deludenti risultati, a differenza
di electronic evidence), che troviamo definito in vari testi normativi ma che non
entrerà, a quanto pare, nel Codice.
Questo sintagma si trova nel DPR 513, dove si dice “per evidenza informatica
si intende una sequenza di simboli binari che può essere elaborata da una procedura
informatica”, e ciò si specifica ancora nelle regole tecniche del 1999.
Nelle regole tecniche del 13 gennaio 2004, la seconda versione, troviamo una
aggiunta, al fine di identificare il simbolo binario con il bit, come indicato tra
parentesi. In più si aggiunge che può essere elaborata da una procedura informatica.
A proposito di evidenza informatica farei rilevare l’infelicità della scelta
terminologica, in quanto il termine ‘evidenza’ è un “evidente” calco dell’inglese
evidence, che però per quanto risulta non è mai usato con l’aggettivo informatic.
L’inglese parla piuttosto di digital evidence o di electronic evidence. Il significato
però è costantemente quello di “prova” da usarsi in tribunale: va bene che prima o poi
tutto serve come prova, ma non è il caso di anticipare i tempi con una terminologia
inadeguata…
Possiamo allora, sulla scorta di quanto osservato prima a proposito del
documento informatico, collegato con le definizioni ufficiali fornite a proposito dell’
evidenza informatica, concludere che la rappresentazione informatica è la
rappresentazione di una sequenza di simboli binari che può essere elaborata da
una procedura informatica?
In realtà la ‘rappresentazione informatica’ viene spesso definita anche come
equivalente al ‘file’, ma è definizione impropria, perché sappiamo che un file è una
funzione del file system, quindi in stretta connessione con lo specifico sistema
operativo, non necessariamente generalizzabile nella sua struttura. Quindi queste
procedure sono sì evidenze informatiche ma non sono file, come sanno bene gli
esperti di computer forensics , quelli che vanno alla caccia di prove informatiche.
Non si può dire che file e rappresentazione informatica coincidano, però, se
parliamo di una rappresentazione di simboli binari troveremmo scritta una serie di
cifre come vedete nella slide proiettata, dove un interessato anche non
particolarmente esperto, con un minimo di esercizio, riuscirebbe a leggere
l’informazione rappresentata.
Questa rappresentazione è un interfaccia umana (ad usum hominis) del bit (che
di per sé non sarebbe neanche uno zero od un uno, dato che anche queste sono solo
una delle possibili rappresentazioni), che il microprocessore non utilizza e di cui non
ha affatto bisogno: i caratteri alfanumerici sono tutte interfacce che servono all’uomo.
La soluzione del problema posto dalla rappresentazione, in ultima analisi,
potrebbe consistere nel lasciar perdere questo parallelismo tra documento cartaceo e
documento digitale, almeno in termini così diretti, e non parlare del tutto di
rappresentazione informatica, altrimenti dovremo rassegnarci a disquisire, come
fanno i regolamenti di certi paesi, sulla differenza tra un foglio scritto da stampante e
una sua fotocopia. Oppure si arriverebbe a discutere sullo status di un foglio battuto a
macchina dalla dattilografa.
A meno che non si voglia sostenere che il gatto e la rappresentazione del gatto
sono la stessa cosa…
DIGITALE: l’aggettivo ‘digitale’ è di origine strettamente tecnica: in questa
accezione specifica nasce con l’elettronica digitale, o numerica. Nel momento in cui
si cerca di estendere il campo semantico e l’utilizzo di questo termine, è chiaro che,
man mano che allarghiamo i confini della parola, maggiore sarà il rischio di incorrere
in problemi terminologici piuttosto grossi.
Comunque l’aggettivo ‘digitale’ ha incontrato e incontra molto favore, sa di
innovazione, e quindi viene utilizzato insieme ai suoi composti e derivati con
disinvoltura talvolta eccessiva. Parlare di digitalizzazione della pubblica
amministrazione come se si parlasse di una fotografia o di una musichetta da
masterizzare su CD può risultare perfino comico, cosi come le città digitali e simili.
Se avessimo a suo tempo optato per il sinonimo ‘numerico’, come hanno fatto i
francesi, probabilmente, vista la nostra avversione diffusa per la matematica oggi
nessuno parlerebbe di ‘amministrazione numerica’ o di ‘numerizzazione della P.A.’ ;
eppure i francesi parlano tranquillamente di administration numérique.
Se avessimo detto ‘firma numerica’ questa scelta probabilmente non avrebbe
generato tante discussioni e problemi (anche di interpretazione ingenua) come li ha
generati la nostra firma digitale; e anzi i francesi ci prendono anche in giro, noi e gli
inglesi, perché dicono che oltre ai numeri e alle dita, quando parliamo di digitale,
dobbiamo stare attenti a non confonderci con la digitale purpurea, che è un fiore.
ANALOGICO : abbiamo visto che digitale è iperusato, mentre analogico
risulta assai meno usato proprio perché assai meno innovativo, e così l’aggettivo
finisce con l’assumere un residuo valore negativo, di non digitale. Così lo troviamo
nella deliberazione CNIPA del 12 febbraio 2004 “Regole tecniche per la riproduzione
e la conservazione di documenti su supporto ottico idoneo” si dice del documento
che è “una rappresentazione informatica o in formato analogico di atti fatti o dati
intelligibili direttamente o attraverso un processo di elaborazione elettronica”. La
definizione di documento analogico che viene proposta è quella di un documento
formato da una grandezza fisica che assume valori continui come tracce su carta,
immagini su film o pellicole mediche o magnetizzazioni su nastro, distinto in
originale e copia.
Dico che questa definizione non è un modello di perspicuità, nonostante
l’abbondare di esempi, ed è evidente lo sforzo di coniugare definizioni teoriche e
didascalicità, sforzo però a mio parere poco riuscito, che rischia di confondere le idee
al lettore al posto di chiarirle. Perché, tra l’altro, quando si parla di continuità non si
possono dimenticare le origini, che sono quelle della continuità matematica, le
funzioni continue e le funzioni discontinue, a poi le rappresentazioni, con onde
quadre piuttosto che con sinusoidi, dopo da lì si passa alla grandezza fisica e alla
continuità in fisica, che le è strettamente connessa, pur non essendo la stessa cosa; e
però uno che sente parlare di grandezza a valori continui ha probabilmente in testa
altre idee sulla continuità. Alcune obiezioni di studenti che, di fronte alla lettura di
queste definizioni dicono: ma se è una grandezza continua, allora se io alzo la penna
dal foglio, è ancora continua o cosa? O diventa digitale?
La continuità dei film è illusione ottica o no, visto che si compone di fotogrammi?
Quindi, secondo me, è inopportuna la scelta di analogico per dire di una cosa
che non è digitale, ci si poteva risparmiare questa inopportuna scelta, altrimenti tutto
quel che non è digitale è analogico, per cui risulta che siamo tutti analogici.
DEMATERIALIZZAZIONE : dematerializzazione è un termine che sta godendo di
un buon successo, grazie anche all’effetto Star Trek che suggerisce, e per di più
evoca nel cittadino frustrato dalla burocrazia la speranza che qualche potentissimo
raggio laser possa finalmente risolvere in via definitiva i suoi problemi …
Nel novembre 2004 è stato costituito presso il CNIPA il ‘Gruppo di lavoro per la
dematerializzazione della documentazione tramite trasferimento su supporto digitale’
presieduto dall’ing. Ridolfi.
Potrebbe tutto sommato essere un termine accettabile se fosse inteso nella sua
accezione iperbolica, come tentativo di far sparire, di scherzosamente annullare,
l’immenso onere del materiale cartaceo che appesantisce e ritarda la gestione
documentale amministrativa. Ma, se preso alla lettera, corre purtroppo il rischio di
perpetuare il mito della immaterialità del bit, con tutte le confusioni connesse, e
questo è un problema da evitare, anche perché nella letteratura giuridica si parla e si
riparla di ‘immaterialità’ del bit.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che il bit non è più immateriale del cane o del
gatto, nel senso che tutti questi termini, come tanti altri, quando servono a designare
delle classi, sono termini astratti e quindi effettivamente immateriali: quando diciamo
il bit diciamo unità di misura dell’informazione, come quando diciamo il cane
diciamo la classe dei cani, tutti i cani in astratto.
Se vogliamo possiamo prendere anche l’esempio delle lettere dell’alfabeto:
possiamo prendere un testo qualunque, lo facciamo copiare ad un gruppo di persone e
vedremo che ciascuna lo scriverà in maniera diversa, ma, nel momento in cui scatta il
meccanismo percettivo e quella lettera viene riconosciuta come lettera e inserita, per
esempio nella classe delle A, questi oggetti differenti diventano un oggetto solo: la A
non è più la differenza tra la A di una persona e la A di un’altra, ma una classe che si
differenzia unicamente all’interno del sistema grafematico, come opposta rispetto alle
altre classi delle lettere dell’alfabeto.
Il processo percettivo non può che appoggiarsi a dati sensibili, forniti dai sensi;
i bit sembrano immateriali solo perché nella loro versione elettronica non sono
percepibili dai sensi. Paradossalmente, ma non poi così tanto, se il nostro corpo
avesse dei recettori sensibili alle differenza di tensione nell’ordine di uno o due volt
potremmo vedere/ sentire/ ascoltare (a seconda del canale sensoriale utilizzabile) la
sequenza dei bit nel percorso digitale, sempre che avesse un clock molto lento…
Non parleremmo di immaterialità ma eventualmente di miniaturizzazione, di
nanoqualcosa.