Tiziano dai succhi dei fiori al colore selvaggio Mauro Lucco

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Tiziano dai succhi dei fiori al colore selvaggio Mauro Lucco
Tiziano dai succhi dei fiori al colore selvaggio
Mauro Lucco
Il problema della data di nascita di Tiziano è di quelli che continuano a far discutere gli storici
dell’arte. Conoscerla sarebbe infatti cruciale per comprendere l’esatto suo posto al mondo, il verso
delle relazioni con gli altri, e calibrare la sua importanza rispetto ai fatti salienti di un’epoca e ai
limiti costringenti del contesto, in un’epoca in cui il tempo volava più rapido di una freccia, e i suoi
competitori erano geni del calibro di Giovanni Bellini, Giorgione, Sebastiano Luciani, o Lorenzo
Lotto. Nel suo caso, siamo tuttavia relativamente fortunati: pur senza darci semplicemente una data,
due scrittori coevi, che lo conoscevano entrambi di persona, scrivono quand’egli era ancora vivo, e
devono dunque essere ritenuti i testimoni più autorevoli, forniscono dei fatti che, in aggiunta a
eventi precisamente collocati per via documentaria, permettono di stabilirla se non con assoluta
esattezza, almeno con notevole precisione. I due sono Ludovico Dolce e Giorgio Vasari; ed
entrambi convergono a dire, in maniera indiretta, che era nato nel 1490; ma nessun documento che
riguardi qualche opera è noto prima della sua comparsa a venti, il 1° dicembre 1510, nel libro dei
conti della Scuola del Santo a Padova, quando si stende il contratto per i suoi tre affreschi
nell’ambiente.
Nonostante alcuni storici ritengano che avesse iniziato la sua attività alcuni anni prima, è difficile
credere che, con dei pezzi da novanta della pittura moderna davanti a lui, come Giorgione e
Sebastiano del Piombo, egli potesse avere qualche spazio nella Venezia del primo decennio del
Cinquecento. Non a caso, i primi segnali di interesse per la sua opera vengono dall’entroterra: la
Madonna col bambino dell’Accademia Carrara di Bergamo deve essere stata subito mandata in
quell’area, se di lì provengono almeno tre sue copie, due di Bernardino Licinio e una di Francesco
Prata da Caravaggio, in collezioni private. Gli stessi affreschi padovani del 1511, pur uno dei
capisaldi della sua arte, sono, se dobbiamo credere ad un più generale quadro storico, la piccola
denuncia di un “insuccesso” nella capitale: Padova era infatti, dopo la conquista imperiale del 1509,
e la riconquista veneziana poco dopo, una delle città più inquiete, insicure e violente dell’intero
dominio di San Marco. È chiaro dunque che un artista già affermato poteva tranquillamente rifiutare
di andarci, mentre un giovane alla ricerca della sua prima grande occasione avrebbe più volentieri
accettato la sfida. Fu solo dopo la morte improvvisa di Giorgione nell’ottobre del 1510, e la
partenza di Sebastiano per Roma nell’agosto del 1511, che il caso fece rimanere Tiziano come
l’unico grande pittore moderno sulla piazza, consegnandolo ad un ruolo fino ad allora
inimmaginabile.
Alcune tra le pagine più belle e criticamente penetranti sulla sua giovinezza furono scritte, sul finire
del Settecento, dall’abate Luigi Lanzi (1796): “la lucentezza che domina nelle pitture venete, e
segnatamente in quelle di Tiziano… [è]…un prodotto d’imprimiture assai chiare, sulle quali posto
replicatamene colore sopra colore fa l’effetto come di un velo trasparente, e rende saporite non
meno che lucide le sue tinte. […] Non avea nella tavolozza se non pochi e semplici colori; ma sapea
scerre quelli che maggior varietà distingue e distacca, e conosceva i gradi e i momenti favorevoli
delle loro opposizioni. Nulla perciò vi è in esse di violento; la varietà de’ colori, che nelle sue
pitture campeggiano l’un sopra l’altro, sembra accidente naturale, ed è effetto dell’arte la più
disinvolta. Un bianco panno vicino ad una figura ignuda fa comparirla impastata de’ più vivi
cinabri; eppur non vi adoperava che semplice terra rossa con poca lacca ne’ contorni e verso
l’estremità. […]
Prima di lui tutti i colori si usavano indifferentemente e si dipingevano collo stesso grado di chiaro
e di scuro. Conobbe Tiziano (se già non gliene avea mostrato Giorgione) che il rosso avvicina le
cose, il giallo ritiene i raggi della luce, l’azzurro è ombra ed è a proposito pe’ grandi oscuri: né men
di ciò conobbe gli effetti de’ colori succosi: così potè dare la stessa grazia, chiarezza di tuono e di
dignità di colore alle ombre e alle mezze tinte, come alla luce; e distinguere con gran varietà di
mezze tinte le varie carnagioni e le varie superficie de’ corpi. Né altri meglio di lui conobbe
l’equilibrio de’ tre colori principali detti di sopra, dal quale dipende l’armonia de’ quadri; equilibrio
difficile in pratica, alla cui perfezione non giunse Rubens per quanto ben colorisse. […]
Nulla operò mai senza consultar la natura.”
Un secolo e mezzo dopo, queste osservazioni sarebbero state rielaborate da Roberto Longhi (1946)
nella sua suggestiva lettura della giovinezza del nostro artista, a indicare come, per la via della
“zona cromatica”, prepotentemente si staccassero, pur restando nello stesso campo pittorico, le
soluzioni tecniche del primo Tiziano da quelle precedenti del suo maestro Giorgione. Al contrario
del colore fuso e vellutato, magicamente impastato d’ombra, di quest’ultimo, il Vecellio esordì con
una pittura lucente, tanto libera e quasi ferocemente astratta, quanto quella del suo maestro voleva
rendere la misteriosa verità atmosferica della visione; dove la saturazione del colore suggeriva
profondità e distanze, costruendo la superficie pittorica, come un mosaico, a castoni di colore.
Ma questa autentica rivoluzione di mezzi pittorici non sarebbe potuta esistere, se non fosse andata
incontro alle esigenze di una società in profonda trasformazione. Dopo quasi un secolo di sobrietà,
di decoro e compostezza connotanti virtù morali rivolte al bene pubblico, e fiancheggiate dalla
pittura, il mondo sembrava ora volgersi con fervido interesse, nell’agio della ricchezza (e
nonostante i problemi o gli autentici drammi creati dalla guerra della Lega di Cambrai), ai modi e
alle forme dei sentimenti individuali, privati: e l’allargamento dei confini dell’espressività esigeva
dalla pittura un cambiamento, la sperimentazione di inediti canoni tecnici, come le forme aperte, i
contorni sfumati, più intense e patetiche atmosfericità. Questi a loro volta richiedevano
necessariamente una diversa strumentazione, nuovi pigmenti, nuovi leganti oleosi, la ruvidezza
della tela che sostituisce la superficie liscia delle tavole. Ma tutto ciò sarebbe risultato inutile se non
si fosse passati anche, se non a nuovi soggetti, a un modo nuovo di affrontare quelli tradizionali,
rendendoli più terreni, conferendo un accento mondano alle scene religiose, o rivoluzionando il
canone di un “genere” che in fondo aveva alle spalle pochi decenni di vita, cioè il ritratto. La nuova
tendenza verso l’evasione dal presente, in un tempo tanto lontano in cui tutto, persino vicende
efferate, fossero rappresentabili perché al di fuori dei canoni sociali e morali della contemporaneità,
spinse a cercare inusuali temi narrativi nei libri storici dell’Antico Testamento, o nell’antica cultura
pagana; o anche in quella che simulava l’antico, la mitica età dell’oro, descritta dal più grande bestseller dell’epoca, l’Arcadia di Jacopo Sannazaro, non a caso uscita per la prima volta in edizione
pirata a Venezia, nel 1502.
Uno dei più antichi documenti pittorici tizianeschi è il Ritratto di giovane donna che si scopre il
seno del Norton Simon Museum di Pasadena, attorno al 1509; essa allude infatti con chiarezza allo
stile esperito da Giorgione sulla facciata d’acqua del Fondaco dei Tedeschi, eseguita nel 1508, come
ancora giudicabile dalla Nuda della Ca’ d’Oro; e, d’altra parte, è altrettanto evidente che l’altro suo
prototipo è la figura della vera madre nel Giudizio di Salomone di Sebastiano del Piombo a
Kingston Lacy, la cui elaborazione si interruppe, o fu considerata finita, anch’essa nei giorni del
Fondaco. Tiziano mostra qui la sua incondizionata deferenza per i due maestri, maggiori di lui
d’età. Nel caso specifico, poi, un’altra barriera per così dire “a valle”, per chiudere la finestra
cronologica della sua esecuzione, è data dall’acconciatura dei capelli, e dal filo d’oro con un piccolo
gioiello che li ferma alla fronte; una moda che a Venezia sembra scomparire attorno al 1510-11,
sopravvivendo forse solo in aree più periferiche del dominio.
Essa dunque introduce anche al disputatissimo problema della data degli affreschi del Vecellio al
Fondaco; secondo Ludovico Dolce, “dipingendo Giorgione la faccia del Fondaco de’ Tedeschi che
riguarda sopra il Canal Grande, fu allogata a Tiziano, come dicemmo, quell’altra che soprastà alla
Merceria, non avendo egli alora a pena venti anni”. Sebbene sin troppe volte si sia sostenuto che
egli vi lavorasse insieme, o come aiutante, di Giorgione, il passo non lascia spazio ai dubbi: gli
affreschi di Tiziano sulla facciata sopra la Merceria, solo “allogati”, cioè ordinati, quando di quelli
di Giorgione sull’altra faccia si poteva già valutare il risultato, vengono dopo di questi, e sono, dal
punto di vista figurativo, del tutto indipendenti. Ma se quelli giorgioneschi erano certamente finiti
l’8 novembre 1508, quando si dà l’ordine di procedere al pagamento, difficilmente quelli di Tiziano
poterono vedere la luce entro la fine dello stesso anno: in inverno infatti è impossibile dipingere
affreschi all’esterno. Che l’esecuzione sia avvenuta nel 1509 è idea molte volte proposta e difesa;
ma, tenuto conto che essi alludevano a un insieme di relazioni conflittuali con l’Impero
comprensibili solo dopo l’apertura delle ostilità nel 1509, c’è da chiedersi se nei giorni di una
guerra iniziata sotto i peggiori auspici, e che divorava risorse economiche ingenti, fosse veramente
possibile reperire i fondi per dipingere la facciata di un edificio destinato ai traffici di sudditi
nemici, e che dovette anche ospitare gruppi di profughi dalla terraferma. Non è casuale che nessuna
impresa artistica pubblica sia stata avviata o portata a termine, in laguna, nell’anno 1509. I
vent’anni appena di Dolce cadrebbero in effetti nel 1510, ma anche quello fu un anno molto duro e
difficile, per tutti e per il Fondaco, in relazione al blocco decretato dall’Imperatore del commercio
con Venezia; sicché viene forte il sospetto che il contratto padovano del 1° dicembre 1510,
all’indomani della morte del suo maestro e mentore, arrivasse per Tiziano come una manna a
segnare la fine di un lungo digiuno pittorico, e che anzi fosse proprio quell’impresa a convincere il
Senato di affidargli la facciata sulla Merceria. Infatti, sebbene fosse stato Giorgione, proveniente
dall’entroterra, a reintrodurre a Venezia la tecnica dell’affresco, in laguna da gran tempo
abbandonata, nessun altro pittore dell’epoca si era mai cimentato in quel campo, e Tiziano era
l’unico ad averne fatto esperienza diretta; oltretutto, con la scomparsa del caposcuola, nessuno
poteva insidiargli quella sorta di pratico monopolio. Insomma, a me pare che la data più probabile
per l’impegno del Fondaco sia l’estate del 1511, dopo Padova; posto che gli affreschi patavini, al
coperto, potevano essere eseguiti anche nelle mezze stagioni, mentre quelli veneziani, all’esterno,
esigevano di esser fatti, appunto, solo nel calore estivo.
Ma una data precoce era una necessità per rendere credibile l’episodio narrato da Dolce: che, una
volta scoperta la facciata di terra, gli amici di Giorgione si andavano congratulando con lui per
essersi portato assai meglio che nell’altra, cacciandolo in una fase di acuto dispiacere e di
depressione, alla vista dell’allievo che superava il maestro. Vogliamo però veramente credere che i
suoi amici, persone di intelligenza e di gusto, capaci di distinguere uno stile dall’altro, tutti patrizi,
membri del Maggior Consiglio, partecipi anche ad alto livello della politica e della vita pubblica
veneziana, fossero così stolti da ignorare una delle massime commesse statali, data dall’organismo a
cui essi stessi partecipavano? Nessuno li aveva mai avvertiti? Il carattere velenosamente
tendenzioso, tutto pro-Tiziano, di questo aneddoto è talmente lampante da non metter conto di
insistere. Quarantasei o quarantasette anni dopo, nessuno si sarebbe accorto dello scarto
cronologico, e, alla fine, nessuno ne sarebbe rimasto danneggiato, mentre il Vecellio ne avrebbe
ricavato degli indubbi vantaggi d’immagine. Insomma, questa storiella non ha alcuna rilevanza per
la data degli affreschi del Fondaco, ben sapendo come il nostro artista fosse capacissimo di mentire.
Gli affreschi di Padova, eseguiti nella primavera del 1511, segnano un primo passo fondamentale
per la fortuna di Tiziano. È infatti in essi, anche per l’ottimizzazione e la velocizzazione della
tecnica, per la verità non comparabile a quella di Giorgione, che l’artista compone a larghe masse
piatte di chiaro contrapposto allo scuro, o viceversa, ottenendo un brillante e riposato canto del
colore; a rinforzo del quale egli può inventare addirittura lo straordinario abito del Marito geloso, a
strisce alterne di bianco e di rosso, o le calze bicolori, ancora gialle e rosse, dell’uomo che assiste
curioso, sulla sinistra, al Miracolo del neonato che parla. Si può anzi dire che gli affreschi padovani
comportino un’autentica scoperta del bianco, e della infinita varietà delle sue sfumature, non più
come base per altri colori, o come strumento per accentuare i colpi di luce, ma come colore
autonomo, capace, nella vicinanza con altri, di accendersi di mille riflessi; l’ampio e bellissimo
candore del mantello del giovane citato con calze a righe, il cappello del suo vicino, il risalto della
statua di Augusto in marmo di Carrara contro la parete in ombra, sono lì a dimostrarlo. La
semplicità e insieme la meravigliosa efficacia della “zona cromatica” può anzi riscattare,
nell’affresco col Neonato che parla, l’apparente banalità di concetto di una scena tagliata
esattamente a metà tra due zone, scura sulla sinistra, e chiara sulla destra; un artificio che nei suoi
primi anni Tiziano ripete più volte, dalla Sacra Conversazione Magnani Rocca a Traversetolo, alla
Adorazione del bambino già in San Giuseppe a Belluno, oggi al Museum of Fine Arts di Houston
(Tex.). Sebbene sia evidente che l’esecuzione dei dettagli di quest’ultimo dipinto non è tutta
all’altezza di Tiziano, che ne deve essere ritenuto comunque il responsabile globale, sulla traccia
dell’Adorazione Allendale di Giorgione a Washington, esso è comunque di troppo superiore alle
possibilità di Francesco Vecellio, cui è di solito riferito, aprendo così il problema di una “branca
bellunese” della ditta. Identiche caratteristiche si ripresentano infatti nella Madonna col bambino
della parrocchiale di Sedico, centro sopravvissuto di un polittico disperso durante l’invasione
austriaca del 1917-18, che, avendo ai lati le figure di San Sebastiano e San Rocco, non potrà
cronologicamente staccarsi di molto dalla pestilenza del 1510; e nella pala d’altare già in Santa
Croce a Belluno, oggi nei depositi della Gemäldegalerie di Berlino, per la quale esiste anzi un
magnifico disegno preparatorio di Tiziano stesso alla Christ Church di Oxford.
In effetti, gli affreschi padovani sembrano fornire il primo consapevole assestamento dei propri
mezzi pittorici, da cui molte altre opere sembrano prendere l’avvio: in queste storie sacre, compiute
alla velocità del fulmine, in solo ventisette giornate di lavoro, si afferma un sentimento arcadico,
amorevole, per i fenomeni della natura e per l’uomo, di tale serena e quasi pagana felicità, di una
bellezza senza tempo e senza rimorso, da essere quasi una rivelazione. È chiaro, ad esempio, che si
riprende dalla donna ingiustamente accusata, nel Miracolo del neonato che parla, il profilo in
bassorilievo della cosiddetta Schiavona della National Gallery di Londra: serenamente sorridente e
viva nella sua posa di fronte, essa si mostra anche quasi congelata nel marmo di una lastra tombale,
nella straordinaria invenzione, intervenuta all’ultimo, di quel parapetto solo in parte rialzato. Un
similissimo tipo femminile è anche nella cosiddetta Madonna zingarella di Vienna, fortemente
ispirata, d’altro canto, a idee di Giovanni Bellini come la Madonna di Detroit, datata 1509, o quella
di Brera a Milano, del 1510. È quasi un calco del volto di Sant’Antonio nel Miracolo del neonato
che parla quello dell’uomo al centro che suona la spinetta nel Concerto di Palazzo Pitti; un dipinto
che amplifica la più recente invenzione giorgionesca del Giovanni Borgherini col suo maestro nella
National Gallery di Washington, ma che si rifà anche, con la stessa ambigua, misteriosa
sospensione tra ritratto, allegoria, o tema narrativo, alle cosiddette Tre Età, o Lezione di Canto,
ancora a Pitti.
Dallo stile di Padova, per molteplici fili, si riprende pure la grande tela con Cristo e l’adultera del
Museo di Glasgow, il cui allineamento con gli affreschi è tale da doverla considerare eseguita nello
stesso anno 1511; nonostante Tiziano inserisca un piccolo elemento di inquietudine, adatto alla
drammaticità del soggetto, nell’andamento lievemente scaleno della composizione, la disposizione
su un’unica linea di posa è la stessa, e ancora una volta egli sembra fare delle concessioni al suo più
anziano collega Sebastiano, appena andato a Roma, o in procinto di partire, nella figura del soldato
di spalle che riprende da una statua classica di Cincinnato, e soprattutto nei robusti tocchi materici,
a staccato, della collana del dignitario in rosso, che ricorda la peculiare stesura delle absidi
mosaicate nelle ante d’organo di San Bartolomeo di Rialto, eseguite appunto nel 1510-11. Se poi si
spoglia il giovane che trascina l’adultera dei suoi abiti ricchi, e lo si riveste di stoffe più grezze, si
avrà il San Rocco sulla destra della cosidetta paletta del Prado: un dipinto forse borderline tra una
Sacra conversazione da stanza e un quadro votivo, per un piccolo altare. È probabile che esso
preceda, seppure di pochissimo, l’Adultera di Glasgow, perché il gruppo della Vergine col bambino
servì di modello, con pochissimi mutamenti, alla pala di Domenico Mancini, datata 1511, nella
chiesa di Santa Sofia a Lendinara; la figura di Sant’Antonio da Padova, a sinistra, è ripresa identica
nella xilografia del Trionfo della Fede, eseguita secondo Vasari nel 1508, e secondo Ridolfi nel
1511 o dopo, ma la cui prima versione nota è quella incisa da Gregorio de Gregoriis nel 1517. Il
senso di silente e introspettiva sospensione che spesso lo ha fatto giudicare alquanto più antico è in
parte dovuto allo stato di non completa finitura, e soprattutto all’alterazione del resinato verde di
rame della tenda, che appare oggi piatta, mentre la radiografia dimostra che essa era piuttosto mossa
in un andamento dinamico.
Appartiene di certo a questo tempo e a questo clima anche il famoso Concerto campestre del
Louvre; il cui misterioso e allegorico soggetto, se non si tratta di un puro e semplice esempio del
genere pastorale, ben lo collega al sognante mondo giorgionesco, in cui convivono in perfetta
armonia la naturalità della pastorizia e la sofisticazione della civiltà, le rustiche vesti bucoliche e gli
abiti patrizi moderni, nel silenzio della musica interrotta che pare improvvisamente distendersi su
tutta la vasta pianura. In un mondo di lussureggiante verzura, nel dolce tempo primaverile, la calda
sensualità delle due donne nude appare comunque come di primordiale innocenza.
Nella pala con San Marco in trono tra i santi Cosma e Damiano, e Rocco e Sebastiano per la chiesa
di Santo Spirito in Isola, oggi nella sacrestia della Salute, la fantastica accensione cromatica del
bianco, del rosso e dell’azzurro, che entusiasmò il Boschini per la testa in ombra di san Marco,
sembra preannunciare una fase di Tiziano di un cromatismo più limpido e potente; il pavimento a
quadrelli rossi e ocra è identico a quello dell’Annunciazione nella cappella Malchiostro del Duomo
di Treviso, tale da far pensare che quest’ultima fosse una commissione all’incirca coeva, non andata
a buon fine, e riutilizzata nel 1520 solo con l’aggiunta della figura del committente. È tanto simile
alla paletta della Salute da richiedere presumibilmente la stessa data, intorno al 1511-12, anche la
Madonna Bache del Metropolitan Museum di New York, che ancor combina il ricordo dei Tre
filosofi di Giorgione, nei due alberi a destra, col modello di Sebastiano nella Sacra Conversazione
del Louvre, sia pure rigirata in controparte. Al medesimo tempo, dal punto di vista stilistico, deve
spettare anche il palione Pesaro di Anversa; ma con l’avvertenza che il fondale lagunare mostra
delle galee sottili di foggia tardo-cinquecentesca, e deve perciò intendersi come un rifacimento della
seconda metà del secolo.
Pian piano, tuttavia, nel corso del secondo decennio, la calma, la serena imperturbabilità della
pittura di Tiziano si viene incrinando in direzione di gesti e composizioni più dinamiche, di una
maggiore robustezza formale, e di una più risentita scrittura esecutiva, pur lasciando spazio,
nell’occasione, a episodi di straordinaria, meditativa quiete: il fenomeno sembra iniziare dal Noli
me tangere di Londra, dove un’elaborazione dell’ultimo istante, basata in controparte sul Battista di
Sebastiano nella pala di San Giovanni Crisostomo, evita l’intollerabile violenza di un Cristo che
esce di lato, indifferente alla Maddalena ai suoi piedi, visibile nella prima versione in radiografia.
Sul piano della forma, quelle pieghe più minutamente strizzate, la spumante trasparenza dei veli
bianchi, la magnificenza dei colori, dalla veste rossa all’azzurro della pianura lontana, si ritrovano
nella Sacra Famiglia con un pastore della National Gallery di Londra, o nel Tobiolo e l’angelo
eseguito per la famiglia Bembo già in Santa Caterina a Venezia (oggi alle Gallerie dell’Accademia).
L’inedita, meravigliosa invenzione di un arcangelo che dispiega le ali nere contro un tramonto
infuocato, proiettando stavolta sulla dimensione alto-basso la bipartizione fra chiaro e scuro altre
volte usata nel destra-sinistra, e indica verso l’alto con lo stesso gesto di Dio Padre nella Creazione
di Adamo di Michelangelo nella Volta Sistina, del 1511, mentre il cagnolino appare quasi una
citazione scherzosa da quello di Cima da Conegliano nella Natività ai Carmini di Venezia, del 1510
circa, mostra una forza immaginativa da romanzo d’avventure, in terre lontane. La crescita della
figura a occupare quasi tutto il campo figurativo si rivede nel Battesimo di Cristo col donatore
Giovanni Ram dei Musei Capitolini a Roma; in cui il ripetersi dell’edificio rustico con la torre
circolare, a destra, indica chiaramente un tempo assai strettamente legato a quello del Tobiolo e
l’angelo. Il riutilizzo in diversi contesti della stessa idea figurativa è cosa che in Tiziano avviene
con una certa frequenza: è sempre stato notato, infatti, che il gruppo di case sulla destra del Noli me
tangere si ritrova identico nella Venere della Gemäldegalerie di Dresda, cioè il dipinto di Giorgione
visto da Marcantonio Michiel nel 1525 in casa di Girolamo Marcello, e che, a opinione del
conoscitore veneziano, sarebbe stato finito da Tiziano. Tuttavia, quand’anche il quadro fosse stato
iniziato dal maestro di Castelfranco, quel che oggi si vede, nel suo stato, purtroppo, di rovina, spetta
tutto alla mano del Cadorino, che molti anni dopo riprese l’identico modello nella sua Venere di
Urbino agli Uffizi, conclusa nel 1538.
Erano nel frattempo iniziati i contatti con la corte di Ferrara, spia evidente di un estendersi della
fama dell’artista fuori dei confini veneziani: fra il 31 gennaio ed il 22 marzo 1516, Tiziano è ospite
di Alfonso d’Este, e qui poté forse conoscere il cartone del Trionfo di Bacco in India di Raffaello,
che doveva esservi spedito nel dicembre 1514. Da quel primo soggiorno si stabilirà un rapporto di
collaborazione di qualche durata, capace, soprattutto, di spingere l’artista a dipingere alcuni
straordinari capolavori, i Baccanali per lo Studiolo, divisi oggi tra il Prado e la National Gallery di
Londra. Risale a quel tempo la commissione del Bagno delle donne, un dipinto della cui storia e
della cui sorte tutto s’ignora, e l’esecuzione del Cristo della moneta di Dresda, l’illustrazione del
precetto evangelico del “Date a Cesare…”, che Vasari vide nella funzione di portella per un
armadio negli appartamenti privati del duca: dato il soggetto, forse quel mobile conteneva la sua
collezione di medaglie e monete antiche.
“Tornato poi Tiziano a Vinezia, fece per lo suocero di Giovanni da Castel Bolognese, in una tela a
olio, un pastore ignudo ed una forese che gli porge certi flauti, perché suoni, con un bellissimo
paese: il qual quadro è oggi in Faenza, in casa del suddetto Giovanni”. Vasari non ha dunque dubbi
a collocare nel 1516 l’esecuzione di uno dei più famosi capolavori del nostro artista, spesso noto col
titolo, utilizzato per la prima volta da Sandrart, di Le tre età dell’uomo; e parimenti a interpretarlo in
termini allegorici, scartando, ad esempio, ogni sua possibilità narrativa. In tempi recenti, l’opera è
stata vista anche come un’illustrata restituzione di Dafni e Cloe, l’antico romanzo pastorale di
Longo Sofista sulla scoperta dell’amore adolescenziale; tuttavia, come di consueto nella pittura
veneziana, non vi è alcuna chiara corrispondenza col testo, e una delle più antiche citazioni
dell’opera, nell’inventario dei beni di Giovanni da Castel Bolognese, steso dopo la sua scomparsa
nel 1553, lo chiama una “tella dipinta a olio representante l’amor e la morte”. Il suocero di
Giovanni è stato identificato in Emiliano Targone, un orafo assai rinomato nella Venezia
dell’epoca. Anche la collocazione nel 1516, così chiaramente affermata da Vasari, è stata posta in
discussione, sulla base soprattutto dell’idea di Roberto Longhi della dipendenza del tondo centrale
dei Santi Innocenti nella predella della pala padovana di Romanino, commissionata nel 1513 e posta
in loco l’8 luglio 1514, dal gruppo di putti sulla destra della tela tizianesca, dato per scontato che il
passaggio di idee va sempre dal maestro maggiore a quello minore; ma in verità, dal punto di vista
formale, non si può dire che vi sia alcun reale collegamento, tanto diverse appaiono le rispettive
soluzioni. Per inciso, quella di Tiziano, contrariamente al Romanino, desume dall’incisione di
Mantegna del Baccanale col tino.
Se si stabilisce così un punto fermo al 1516 per le cosiddette Tre età di Edinburgh, diviene
giocoforza datare a pochissimo dopo l’Amor Sacro e Amor Profano della Borghese: è del tutto
chiara, infatti, l’identità di fattura delle fronde tra le due opere, la vicinanza dell’idea del putto che
smuove l’acqua dentro la vasca con i bimbi addormentati di Edinburgh, la stretta corrispondenza
delle pieghe dell’abito serico, ormai dimentico dei modi precedenti, con quello del Cristo di Dresda.
Gli stessi rustici edifici in alto a sinistra riutilizzano in controparte, con totale esattezza, quelli del
Noli me tangere di Londra e della Venere Marcello nella città sull’Elba; l’unica variante è la
trasformazione del torrione quadrato in circolare, e una leggera alterazione delle grandezze relative
degli edifici. Non vi sono elementi per decidere se si tratti di un dipinto epitalamico, come è stato
proposto, o di una allegoria creata per altre occasioni; resta il fatto che nella sua larghezza di piani
cromatici, e nel solo apparente bilanciamento simmetrico delle forme, nel bianco azzurrato dal
riflesso del cielo del vestito, questo restituisce il senso di una calma, di una serenità olimpica
inscalfibile, di una felicità trovata sul filo di un equilibrio sottile. Le due bellissime donne, bionde,
di carnagione chiara, di una pelle morbida e palpitante, sono il ponte per la galleria di bellezze
femminili, forse ritratti, forse allegorie, forse personificazioni di antiche eroine, create da Tiziano in
quegli anni: dalla più sobria Giovane con lo specchio del Louvre, ancora strettamente legata al
modello di Sebastiano della Donna al Museo di Budapest, o quella di Monaco, alla Lucrezia di
Vienna, alla Flora degli Uffizi, alla cosiddetta Violante, ancora a Vienna, all’altra Giovane sempre
di Vienna, alla Giuditta, o Salomè, della Galleria Doria Pamphilj; tutti dipinti eseguiti nel breve
volgere di un triennio all’incirca, ipoteticamente fra il 1513 ed il 1516.
La chiamata e il breve soggiorno alla corte di Ferrara costituirono per il nostro artista anche la
definitiva consacrazione in patria, in un circolo autoalimentato di nuove commissioni e di fama
crescente: nello stesso 1516, fra’ Germano da Casale, guardiano del convento veneziano dei Frari,
gli commissionò la pala dell’altar maggiore della chiesa, da porsi entro una grande cornice di pietra
calcarea. La sfida era particolarmente impegnativa, anzitutto per la grandezza stessa del complesso,
che doveva diventare alto quasi 10 metri, ed essere visibile di lontano, attraverso i cancelli
d’ingresso e di uscita del coro, posto davanti al presbiterio; in seconda battuta, perché la sua
visibilità era contrastata dal controluce dei grandi finestroni gotici dell’abside, tanto più che il
complesso si erge libero e staccato dalle pareti di fondo, sembrando in qualche modo fluttuare
nell’aria. La sua eccezionalità è ben testimoniata anche dalla scelta del soggetto, piuttosto inusuale
nella pittura fino a quel momento, e da leggersi probabilmente nella chiave insieme del pensiero
teologico del guardiano e della titolazione stessa della chiesa a Santa Maria Gloriosa; le Assunte
precedenti possono infatti letteralmente contarsi sulle dita di una sola mano, e ciò può aver pesato
anche sulla scelta di una cornice sobria, per lasciar tutta la visibilità al dipinto di quel soggetto.
Proprio questa interrelazione e integrazione tra cornice e quadro fa pensare che tutto il complesso
sia stato progettato da Tiziano. L’opera, collocata al suo posto, fu solennemente scoperta il 19
maggio 1518, vigilia della festa di San Bernardino da Siena. Ridolfi (1648), descrivendola come
fatta “nel fervore degli anni suoi”, voleva probabilmente riferirsi più alla straordinaria animosità, al
movimento, alla grandezza dei personaggi, che a una particolare stagione nella vita di Tiziano: è
infatti sulle dimensioni molto maggiori del naturale, sulle pose sforzate, e sul colore saturo, ma
ormai a forti masse scure, dimentiche della precedente “zona cromatica”, che egli gioca
completamente la sua partita. E’ dovuta parte alle esigenze del soggetto, parte alla necessità di farsi
vedere nella luce baluginante, la scelta del denso registro cromatico, dove il bordo frastagliato delle
nubi delimita verso il basso un paradiso di intensa luminosità giallastra, che dà a tutta la scena un
forte connotato soprannaturale, così come fa la mancanza di qualsiasi sfondo terreno dietro gli
Apostoli. Scalato su tre piani sovrapposti, e accompagnato dai gesti degli astanti, il movimento
ascensionale diviene formidabilmente sensibile; con una accentuazione di ogni dato naturale, da
preludere alle nuove dimensioni della pittura barocca, di là da venire.
Mentre era impegnato nell’Assunta, poi, Tiziano era stato raggiunto da nuovi ordini di Alfonso
d’Este; morto improvvisamente fra’ Bartolomeo nell’ottobre del 1517, tra marzo e aprile del 1518
gli erano state passate le istruzioni per fare quello che al frate fiorentino non era riuscito, cioè
dipingere la tela con l’Offerta a Venere per il Camerino, che era probabilmente pronta a partire, per
essere conclusa direttamente a Ferrara, insieme con Gli Andrii, nell’ottobre del 1519. Ma con queste
opere, la fase del classicismo cromatico di Tiziano si è definitivamente chiusa: da fenomeno
veneziano, per quanto di notevole peso, egli diveniva ora di caratura internazionale, richiesto e
ammirato ovunque, e pronto a essere conteso, a peso d’oro, da ogni sovrano d’Europa.