Bollettino Completo 1976 - Società Tarquiniese Arte e Storia

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Bollettino Completo 1976 - Società Tarquiniese Arte e Storia
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Ai soci e agli amici della Società Tarquiniense d’Arte e Storia
Il Bollettino delle attività della nostra Società si presenta all’appuntamento annuale
dell’Assemblea. In esso sono riportate principalmente le iniziative culturali che abbiamo
realizzate nell’anno 1976, grazie alla collaborazione di alcuni studiosi e soci che, con le loro
dotte e avvincenti esposizioni e conversazioni, ci hanno fatto meglio conoscere e
apprezzare tanta parte del patrimonio storico artistico e monumentale della nostra città,
che purtroppo non sempre è conosciuto e di conseguenza poco apprezzato.
Esprimiamo all’Arch. Renzo Benedetti, al Prof. Trieste Valdi, alla Dott.ssa Adriana
Morandi Emiliozzi, e alla Prof. Suor Albertina Tesei i nostri cordiali ringraziamenti, e
l’augurio di poterli ancora ascoltare.
Operando nell’ambito degli scopi del nostro Statuto, in questo anno sono state prese
varie iniziative nell’interesse dei nostri soci.
E’ stata organizzata una gita turistica e culturalmente molto valida a Bologna,
Ravenna, Ferrara, Gradara, San Marino, e un’altra archeologica, molto interessante, è stata
organizzata per la visita agli scavi di Ostia Antica. Buon numero di Soci ha partecipato a
queste iniziative che hanno offerto la possibilità di conoscere e ammirare località di grande
interesse storico e monumentale.
Per gli appassionati della musica è stato offerto un concerto di musica sinfonica
diretto dal Maestro Laureto Bucci e con la partecipazione de “I Simphoniaces” e de “I
Maestri Cantori Romani” che per la loro arte e abilità hanno suscitato molti consensi.
L’Auditorium di S. Pancrazio ha ospitato numerose mostre di arte figurative. Hanno
esposto Anna Maria Baculani Moretti, Maurizio Vallarino, Momi Paparozzi, Giovanni Degli
Effetti, Giovanni Calandrini.
Le mostre sono state visitate da numeroso pubblico ed hanno riportato notevole
successo.
Particolare interesse ha suscitato la mostra fotografica “Tarquinia nei ricordi”
organizzata dal Vela Club Tarkna, che ci ha fatto anche ammirare le proiezioni di luminose
diapositive di monumenti e del Lido di Tarquinia.
Ci piace ricordare l’iniziativa benefica del socio Bruno Blasi che ha organizzato la
raccolta e l’esposizione di opere di vari autori devolvendo il ricavato ad una Missione nello
Zaire.
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La nostra Società è stata onorata dell’invito di partecipare alle manifestazioni
indette per la celebrazione del 1°Centenario della fondazione della Società Romana di
Storia Patria. Il Vice Presidente Ing. Cesare De Cesaris e il socio Bruno Blasi hanno
rappresentato la nostra Società ed hanno partecipato ai lavori del Congresso e all’udienza
concessa ai Congressisti dal Presidente della Repubblica nel palazzo del Quirinale.
Tra gli scopi del nostro Sodalizio è anche la conservazione dei monumenti. Anche in
questo ambito non è mancata la nostra iniziativa nel 1976.
La zona delle mura castellane, denominata “Torre di Dante” affidata dal Comune di
Tarquinia alla nostra Società, è stata opportunamente restaurata a cura e spese della
Società che intende istituirvi un museo civico di reperti medioevali.
Un altro restauro merita di essere additato ai nostri soci. Con la collaborazione del
Gabinetto del Restauro dei Musei Vaticani ben dodici tele rappresentanti i Misteri del
Rosario sono state poste su nuovi telai e il socio Lorenzo Balduini ha provveduto al
restauro pittorico dando nuova vita a quadri che ormai sembravano destinati a rovina.
Vada al carissimo Balduini il nostro ringraziamento per la sua opera artistica e
disinteressata.
Al termine di questo rapido elenco sulle attività del 1976 desideriamo anticipare due
iniziative che saranno ultimate nel 1977.
La prima riguarda lo scrittore inglese David Herbert Lawrence. Cinquanta anni fa,
nel 1927, questo scrittore venne a Tarquinia per visitare e studiare i monumenti di
Tarquinia, riportando nei suoi scritti il ricordo di questa sua dimora a Tarquinia. Abbiamo
pensato essere buona cosa ricordare questa data e con la collaborazione del British Council
di Roma avrà luogo nella nostra città una manifestazione il 30 aprile 1977.
L’altra notizia che certamente sarà gradita ai soci e ai cittadini di Tarquinia, è che
durante quest’anno potremo presentare il volume di Muzio Polidori “Cronache Cornetane”.
Da tempo eravamo sollecitati a pubblicare questi scritti che rivestono particolare
interesse per la storia di Corneto specialmente nei secoli XV e XVI.
Le difficoltà non sono state poche, ma lavorando con pazienza a tenacia sono stati
raccolti i testi originali e, opportunamente fotografati e filmati, è stato possibile
trascriverli. La redazione del testo definitivo per la stampa è a buon punto e contiamo che
il volume possa vedere la luce nella seconda metà di quest’anno.
La generosità di qualche socio ci ha incoraggiato ad avviare le pubblicazioni di
quest’opera e confidiamo che non ci mancherà il consenso dei soci e dei concittadini per
condurre a termine la nostra fatica.
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Al termine della presentazione del Bollettino delle attività della nostra Società
nell’anno 1976 desidero esprimere la mia gratitudine al Consiglio Direttivo che,
impegnandosi assiduamente, ha reso possibile la realizzazione delle diverse iniziative e ai
soci che con i loro consensi sostengono l’attività dei Consiglio Direttivo, mentre formulo
per la nostra Società l’augurio per il raggiungimento di mete sempre migliori.
Il Presidente
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Gli statuti di Corneto
Abbiamo rintracciato in un archivio della nostra città un manoscritto che riporta gli
antichi Statuti della Città di Corneto, risalenti al 1545: ossia una serie di articoli di legge
penale e civile, nonché di regolamenti e di disposizioni per la vita privata e pubblica dei
nostri concittadini di oltre quattrocento anni fa.
Di tutti questi articoli, ne abbiamo scelto alcuni, forse i più curiosi e interessanti,
che riportiamo in questo nostro bollettino annuale per informare i nostri Soci sul sistema
di vita dei nostri antenati.
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- Al fine di salvaguardare le abitazioni della città di Corneto, decretiamo che non
vengano demolite le case con lo scopo di recuperare tegole e pietre, sotto la pena di 10
ducati d’oro da applicare nei casi sopra detti.
- Stabiliamo pure che le grondaie e gli acquai abbiano scoli o pozzi sotterranei che i
proprietari debbono costruire nel termine di un mese, affinché non apportino ai vicini e ai
passanti puzzo e rifiuti; come pure le vie vengano ripulite e nettate dai padroni delle case,
sotto la pena prevista negli Statuti; e le immondizie vengano gettate sotto i dirupi, nei
luoghi stabiliti, sotto la pena medesima.
- Affinché la città di Corneto abbondi quanto più possibile di questi cittadini che qui
dimorino e non abbia a soffrire il suo buon nome entro i nostri tenimenti, decretiamo che
se ogni cittadino non avrà dimorato onestamente nella città di Corneto per almeno sei
mesi, non possa mantenere il proprio bestiame brado nei possedimenti di Corneto, sotto
pena di 50 ducati da addebitargli come sopra detto.
- Noi che rappresentiamo i sacri principi, stabiliamo che tutti gli ebrei di qualsiasi
sesso e fin dall’età di 10 anni debbano portare un segno sui loro vestiti di panno rosso,
visibilmente e non di nascosto, cosicché si riconoscano apertamente, sotto pena di un
ducato d’oro, senza nessuna riduzione a chicchessia, eccetto coloro che avranno avuto
l’esenzione o il privilegio da parte della Comunità. Inoltre stabiliamo che i suddetti ebrei
non possano uscire dalle loro case, a partire dall’ora terza di giovedì e per tutto il venerdì
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santo, fino al suono della campana grande della Comunità di sabato santo, ad eccezione dei
medici i quali in caso di necessità possono uscire e andare per Corneto col permesso dei
Magnifici Signori Priori.
Stabiliamo ancora che nessun negoziante nella sua bottega possa accogliere di notte
chicchessia, dopo l’ultimo suono della campana della Comunità, né vendere oppure dare
sia di giorno che di notte a qualsiasi persona, carni, pesci o pane, sotto pena di 4 carlini per
ogni volta: e non possano ricevere più di un carlino per ogni carico di vino da vendere.
- Stabiliamo ancora che chiunque abbia catturato un lupo e lo abbia condotto vivo in
città, abbia dalla Comunità due libbre di pepe; se invece lo avrà condotto morto, tre carlini;
e per ogni lupacchiotto vivo, due carlini, se morto uno.
- Stabiliamo ancora che nessuno debba lavorare o fare qualsiasi altro lavoro, sia in
Corneto che fuori, precisamente nelle giornate domenicali; a Pasqua di Resurrezione del
Nostro Signore Gesù Cristo, e nei due giorni che seguono; per la festa di S. Stefano
protomartire, di S. Giovanni Evangelista, dei Santi Innocenti, di S. Silvestro, per la festa
dell’Epifania, per la Pasqua di Pentecoste e nei due giorni seguenti, nella festa del Corpus
Domini, nei giorni dei 12 Apostoli, nella festa di S. Maria Vergine che sono stabiliti dalla
Chiesa; nella festa della Purificazione di S. Maria Vergine, per l’Annunciazione e Natività di
Maria Vergine, di S. Lituardo e S. Secondiano, protettori della città di Corneto, di S.
Giovanni Battista, della S. Croce del mese di maggio, di S. Lorenzo, di S. Angelo nel mese
di settembre, nella festa di tutti i Santi, di S. Martino vescovo, del Venerdì Santo, nella
festa del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo; sotto pena di due carlini, salvo che, dopo i
Vespri nella giornata di domenica e delle altre feste (eccetto solo nei giorni pasquali)
possono andare a mandare alla fonte a prender acqua, e sia permesso ogni giorno e per il
tempo necessario fare e portare fuori Corneto il foraggio per le bestie, senza pena; e anche
gli ortolani in ogni momento possono portare gli ortaggi dagli orti; chiunque può farne
denuncia sotto giuramento, e ricevere metà della pena.
- Nessun oste può dare bevanda o cibo ad alcuno nella osteria dopo il secondo suono
della campana, se non sarà suo ospite o persona di buona fama; nel qual caso può darne
fino al terzo suono, ma non oltre. Quando diciamo osteria, intendiamo qualsiasi luogo dove
si vende vino al minuto. Chi avrà contravvenuto, paghi una pena di due carlini; chiunque
abbia bevuto e consumato, pagherà la stessa pena. Chiunque può farne denuncia e della
pena la terza parte vada al denunciante, la terza parte al Podestà e il rimanente alla
Comunità.
- Nessuna persona può gettare dalla finestra o dalla propria casa qualsiasi rifiuto,
sotto pena di due carlini: se avrà arrecato danno, paghi il doppio; e si dia credito alla
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denuncia e riceverà la terza parte dell’ammenda. Nessuno poi può gettare immondizie,
fuori la porta di S. Maria Maddalena o sulla pianura delle Croci, nè sulla strada che va alla
fonte dell’Isaro, pena la predetta multa. Nessun altro può gettare letame o interiora o altra
immondizia, di giorno e di notte, sotto la ripa di Corneto; cioé dalla ripa di S. Fortunato
fino alla Porta della Resecata inclusa, con la medesima pena.
- Ancora stabiliamo che nessuna donna osi andare davanti o dietro il catafalco sul
quale è trasportato un defunto o una defunta; soltanto le è consentito di uscire di casa per
15 passi e non di più; ne le è permesso andare ed entrare per tutto il giorno del funerale
alla Chiesa o al Sepolcro per piangere, sotto pena di 4 carlini per ogni donna. Nessuna
potrà portare il velo del lutto se non per quel giorno nel quale viene seppellito il cadavere,
nel modo consueto, sotto pena di 2 ducati. Il Podestà è tenuto a mandare un Notaro
nell’abitazione del defunto per accertare coloro che hanno ecceduto. Ciò che è stato detto
per la casa del defunto vale anche per quando si andrà a piangere sopra il corpo del
defunto nella Chiesa. Metà delle pene sarà di appartenenza alla Comunità, l’altra a chi avrà
fatto denuncia. Il Podestà è tenuto al proprio giuramento sotto pena di 5 ducati e di
mandare un Notaro tante volte per quante volte avrà inteso suonare la campana a morto.
- Nessuno che dimora nella città di Corneto può detenere maiali o permettere che i
porci vadano in giro per la città, sotto pena di un carlino. Tuttavia è consentito tenere nelle
abitazioni il suddetto bestiame senza pena purché non vadano in giro per la città. Tuttavia
possono essere liberamente venduti al mercato e macellati. Chiunque può esporre
denuncia e riceverà un terzo; e verrà creduto sotto giuramento.
- Stabiliamo ancora che nessuno deve andare col carro attraverso i ponti di pietra
nel territorio di Corneto, ne con macine nè con ruote cerchiate per la città di Corneto, sotto
pena di 5 ducati d’oro. Chiunque avrà visto, può denunciare i contravventori e verrà
creduto dietro giuramento: e riceverà la quarta parte della pena. Se dei carri non cerchiati
transitassero per la città, siano tenuti i proprietari a riparare per il doppio il danno da essi
provocati. I Magnifici Signori Priori saranno tenuti, sotto personale giuramento, a far
collocare nell’estremità di ogni ponte un solido impedimento di muro in modo che nessuno
possa far passare il proprio carro o le macine nello spazio ridotto per la metà. L’ammenda
venga subito esatta. Se qualcuno avrà rovinato in parte o in tutto il suddetto ponte, sarà
tenuto, oltre alla pena predetta, a far riparare il danno a suo completo carico.
- Ancora stabiliamo che, in caso di necessità in tempo di pace e in tempo di guerra,
durante la notte siano tenute accese nei sottoscritti luoghi e le lampade a olio rinforzate
con quanto necessario perché vengano accese e ardano dal primo suono della campana
della Comunità, in ogni giorno dell’anno, durante la notte: e precisamente una sotto la
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volta del Palazzo del Podestà ove si vendono le olive, a spese dell’arte degli Ortolani;
un’altra nel sito dell’incrocio ov’è l’immagine di Maria Vergine, che deve essere mantenuta
a spese dei negozianti che si trovano a destra e a sinistra della strada che va dalla Piazza
della Comunità fino a Piazza S. Marco. Un’altra sia ugualmente accesa nel torrione
dell’arengo dov’è l’immagine del Salvatore, a spesa di tutti i pizzicagnoli, albergatori e osti
esistenti nel detto percorso, cominciando dall’incrocio fino al suddetto torrione, sia a
destra che a sinistra. Chiunque avrà contravvenuto o non avrà eseguito o contribuito alla
predetta ordinanza, sarà sottoposto alla pena di 2 ducati carlini per ogni volta. Chi avrà
esposto denuncia avrà metà dell’ammenda.
I superiori dell’Arte degli Ortolani avranno una libbra di pepe ogni anno, per la
ricorrenza della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo.
- I panificatori sono tenuti alla vendita del pane nei luoghi indicati dai Magnifici
Signori Priori i quali debbono avere, su quanto predetto, una sollecita premura affinché i
pani siano buoni, sufficienti a seconda dei tempi di sufficienza, di abbondanza o di carestia
di grano. Sono inoltre tenuti a fare il controllo ogni mesi dei pesi e del prezzo, secondo la
volontà del Consiglio Speciale. Gli stessi Priori devono imporre il rispetto della legge ai
suddetti panificatori e a tutti coloro che vendono pane. Il Podestà dovrà applicare le pene
previste. I pizzicagnoli non possono vendere il pane sotto pena di 4 carlini per ogni
trasgressione; né deve essere consentito per alcuna ragione a chi vende il pane, di filare, né
usare la conocchia o la rocca, né pettinarsi mentre vendono il pane, sotto pena della
predetta ammenda della quale metà andrà alla Comunità, un quarto all’accusatore e il
rimanente all’esecutore. Se le persone che vendono il pane avranno contravvenuto alle
disposizioni emanate dai Magnifici Signori Priori per volontà del Consiglio Speciale, oltre
alla pena pecuniaria, perderanno pure i pani che verranno sequestrati per mezzo degli
ufficiali del Podestà per essere assegnati in elemosina ai carcerati o ad altre persone
bisognose.
- Dato che i nostri antenati, fin dai tempi remoti, erano consueti a celebrare una
bella festa, nella ricorrenza di S. Secondiano, protettore degnissimo di questa illustre città
di Corneto, per sua lode e onore: e considerato che noi come diretti discendenti siamo in
dovere di proseguire quelle illustri tradizioni, stabiliamo che l’abate o il rettore della chiesa
di S. Nicola, o un fattore, come si era soliti fare in antico, è tenuto ad acquistare un
toro veloce, gagliardo, feroce e indomo da scegliersi fra tutti gli armenti di Corneto,
a discrezione dei Magnifici Signori Priori. Il predetto Rettore o chi per lui è tenuto, dopo la
scelta del predetto toro, legarlo e condurlo presso la chiesa di S. Nicola e assicurarlo alla
colonna che si trova nella piazza di detta chiesa. Poi trasportarlo per regalarlo
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solennemente ai suddetti Magnifici Signori Priori. Se il Rettore si sarà comportato
negligente e inadempiente, sarà obbligato a farlo con in più una pena di 25 ducati.
Nel giorno stabilito e una volta che il toro sarà stato reso disponibile, gli stessi
Magnifici Signori Priori lo facciano condurre sulla piazza della Comunità davanti al Palazzo
degli stessi e fatto legare alla colonna di detta piazza nella vigilia della festività. In detto
giorno facciano pure la giostra mentre nel giorno della festa facciano condurre il toro a
Fontana Nuova e qui legato alla colonna che è vicino alla Fontana, in premio a coloro che
correranno il pallio a piedi. I vincitori siano tramandati a lode di Dio onnipotente e di S.
Secondiano, protettore della città di Corneto, e a memoria di quella nobildonna che lasciò
i suoi beni alla Chiesa di S. Nicola con questo impegno.
- Ordiniamo che nessuno spanda rifiuti nella piazza di S. Francesco né venga posto
alcunché di immondo sui gradini o davanti alle porte della Chiesa, sotto pena di 5 ducati
d’oro senza alcuna riduzione. Chiunque avrà fatto denuncia, riceverà metà dell’ammenda e
verrà creduto sotto giuramento, con la presenza di un teste degno di fede. Lo stesso valga
per la piazza di S. Marco, di S. Nicola e delle altre chiese di Corneto.
- Stabiliamo che tutti i tavernieri e qualsiasi altra persona che vende vino al minuto,
sono obbligati ad avere e tenere il pitillo, il mezzetto, il terzetto e la foglietta sigillati col
sigillo della Comunità; e vendere con queste misure e non con altre. Chi non ottempererà a
quanto detto, pagherà la pena di 20 bononini per ogni volta. Chi dovesse tenere qualsiasi
altra misura difettosa, pagherà per ognuna 30 bononini. I recipienti dovranno essere
sigillati pubblicamente nella bocca del recipiente col consueto sigillo del corniolo per
mezzo del sigillatore incaricato dal signor Podestà o dai Magnifici Signori Priori. Il
sigillatore avrà come salario due denari per ogni volta che avrà sigillato senza frode,
mentre il Notaro del Podestà è tenuto almeno una volta per settimana a visitare tutti i
tavernieri e le altre persone che vendono vino al minuto per controllare i sigilli delle
singole misure. I tavernieri e i massari sono tenuti a riempire sufficientemente le misure,
sotto pena di 5 bononini; nessun taverniere o venditore di vino al minuto dovrà mescolare
altro vino in quello che vende. Se poi vi avrà mescolato dell’acqua, sia punito con dieci
ducati d’oro per ogni volta. Chiunque può esporre denuncia e avrà metà della pena mentre
l’altra metà andrà alla Comunità, purché l’accusatore non faccia parte della famiglia del
Podestà. E sarà creduto a quanto dirà anche con un solo teste degno di fede.
- Stabiliamo che gli ortolani e i calzolai, per raggiungere con la massima comodità le
acque di Fontana Nuova, siano tenuti, su disposizione dei Magnifici Signori Priori, a pulire
e lavare detta Fontana e l’abbeveratoio tante volte quante sarà necessario, sotto pena di 2
ducati d’oro per ogni volta. I magnifici Signori Priori sono tenuti a mettere a disposizione
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una o due persone, secondo il loro giudizio, per il lavaggio e la pulizia del lavatore di
Fontana Nuova quante volte sarà necessario, su ordine degli stessi Signori Priori; e far
riparare, rivedere e correggere nei mesi di maggio e giugno la condotta di detta Fontana
fino alla casa degli eredi di Lituardo Vipereschi, come pure tutti i pozzi, a spese della
Comunità, in modo che la stessa acqua non segua altro corso, sotto pena di 50 ducati d’oro
da sottrarre dal loro salario se saranno stati negligenti nell’adempiere a queste
disposizioni. Chi getterà qualsiasi sporcizia nei pozzi di giorno, paghi al momento della
notifica della pena, 25 ducati d’oro; il doppo se di notte. Chiunque ne farà denuncia, verrà
creduto sotto giuramento e avrà metà della pena. I suddetti pozzi nei mesi di maggio e di
giugno, saranno ricoperti a carico e a spesa dei vicini.
- Perché la nostra Città di Corneto sia popolata da buoni cittadini, stabiliamo che
chiunque vorrà venire ad abitare fra noi in questa nostra patria cornetana, sia ricevuto
liberamente e benevolmente e concessa l’immunità come sopra detto. Ad esempio, la
Comunità sia tenuta a dare ai forestieri che vogliono abitare nella città di Corneto un sito
per la loro abitazione e una terra di quattro miglia per la vigna, secondo l’ordine che
daranno i due eletti del Consiglio Generale. Ognuno potrà possedere dieci vacche, o altro
bestiame brado, e quaranta pecore per ciascuno nel territorio di Corneto. Stabiliamo però
che la vigna e la casa dovranno essere fatte nel termine di tre anni, dopo di che sarà
esonerato e immune da tutti gli oneri reali, personali, ordinari e straordinari per dieci anni.
- Stabiliamo che ciascun cornetano o abitatore di Corneto può liberamente pescare
nei fiumi Marta, Melletra e Arrone con qualsiasi mezzo di pesca e senza che alcuno possa
impedirglielo; così pure nel mare e in ogni fiume del nostro territorio, ad eccezione del
fiume Mignone, precisamente dal porticciolo fino al mare, secondo la forma degli
ordinamenti delle gabelle della Comunità di Corneto. Sia lecito tuttavia a ciascuno di
pescare con la canna, con l’amo, con la mazzacchera e anche con lo iacchio, solamente per
uso proprio, e non per esser venduto; si peschi con lo iacchio e con altre reti nel detto
fiume Mignone dove si voglia, senza pena: mentre nessuno osi in ogni tempo e nei predetti
fiumi o in qualsiasi altra parte del territorio di Corneto intossicare il pesce con erbe o con
altro genere di tossici, sotto pena di 25 ducati senza alcuna riduzione. Individuato il
colpevole, anche se con una sola testimonianza, punirlo. E accertati gli indizi, venga
torturato.
Nessuno può autorizzare l’intossicazione del pesce, sotto la medesima pena.
- Stabilendo con assoluta fermezza che per la conservazione delle bestie domate da
sottoporre ai lavori nel nostro territorio ed anche per tutte le altre bestie domate, siano
sempre riservate le bandite del Cuccumulleto, di Montefocardo, di San Pantaleo, nelle
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quali possano pascolare i suoi buoi e tutti gli altri animali domati. Si intenda per la bandita
di Montefocardo dal punto in cui inizia il fosso di Santa Croce, vicino a San Lazzaro, fino a
fontana di Illico, come cammina il fosso di detta fonte e si dirige verso il fosso di
Malpertugio, fino alla strada per la quale si va a Canino e ritorna attraverso la strada
diretta fino a San Lazzaro.
- Stabiliamo che nessuno deve arrecare danno alle Saline in qualsiasi periodo con
bestiame o senza, sotto pena di 4 carlini; e paghi il doppio del danno arrecato. Se vi avrà
vangato, paghi 5 ducati d’oro: se non potrà pagare, sia frustato alla piazza della Comunità.
- Chiunque avrà fatto o si sarà adoperato di far commettere a qualsiasi uomo o
donna, in detto o in fatto, adulterio, stupro o incesto, oppure l’uno e l’altro: oppure si sarà
prestato a condurre in casa propria od altrove una donna o un uomo: oppure avrà loro
messo a disposizione la casa o qualsiasi altro sito, sia punito con la pena di 25 ducati; e se
entro dieci giorni non avrà pagato, sia frustato nella piazza della città di Corneto: e appena
frustato, gli sia messa al collo la gogna per rimanervi nudo per il giorno intero. Dopo di che
sia espulso da Corneto, senza mai più farci ritorno. Si dovrà procedere in ciò solo per
accusa fatta e documentata da quelle persone alle quali è permesso, secondo la forma degli
Statuti della nostra città, e non altrimenti. Se da parte del Podestà si agirò diversamente
oppure da parte dei suoi ufficiali, il Podestà si agirà diversamente oppure da parte dei suoi
ufficiali, il Podestà paghi la pena di 100 ducati nel tempo del suo sindacato. L’accusato
potrà convenire davanti ai Sindaci per giustificarsi e solo da essi potrà essere condannato,
come a loro sarà sembrato opportuno, secondo la legge: oppure risarcito della pena da lui
sborsata.
- Stabiliamo che i minori di 14 anni ma maggiori di 10 che siano creduti capaci di
dolo, siano puniti per i delitti da essi commessi a metà della pena secondo come contenuta
nel presente volume degli Statuti; ma i minori di 10 anni che non sono né si possono dire
capaci di dolo, se la malizia non avrà sopperito all’eta, siano puniti a discrezione del
Podestà; e anche dei Magnifici Signori Priori la cui discrezione non vada oltre la metà della
pena che generalmente viene applicata ai maggiori degli anni 10 e ai minori di 14, secondo
l’autorità del presente Statuto. I minori degli otto anni non sono tenuti ad alcuna pena.
- Stabiliamo che nessuno è autorizzato a vendere a favore di qualsiasi forestiero
grano, orzo, farina o altre biade; né di ciò che ha, ne faccia società con qualsiasi forestiero
al fine di vendere o far uscire in altro modo dalla città grano, orzo o farina o qualunque
genere di biada, o dal territorio di Corneto; i contravventori saranno puniti alla pena di 20
ducati senza alcuna riduzione: della pena, metà appartiene alla Comunità, l’altra
all’accusatore. Nessuna persona infine può locare o dare la casa in affitto o il granaio o il
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pozzo a qualsiasi forestiero con lo scopo di vendere grano e orzo per essere rivenduti, sotto
pena di 2 ducati, se non a quei forestieri che saranno venuti a vendere nella città di
Corneto: a chiunque è consentito di farne denuncia, per il che riceverà la terza parte della
pena.
- Stabiliamo che dopo l’ultimo terzo suono della campana nessuno deve andare per
Corneto se non con la lanterna o con una fiaccola in mano, sotto pena di 2 carlini: tuttavia
diciamo che fino a quattro uomini è consentito girare insieme con la lanterna, purché non
vadano cantando o suonando un qualsiasi strumento.
- Se qualcuno avrà commesso adulterio con qualsiasi donna la pena di 50 ducati; se
l’avrà sottratta al marito ritenendola con sé contro il volere del di lei marito in qualsiasi
casa, paghi la pena di 100 ducati; e se detta pena di 50 ducati egli non potrà pagare, gli sia
amputata la mano destra e gli sia cavato l’occhio destro: se poi non potrà pagare la pena di
100 ducati, gli si tagli la mano destra e venga espulso da Corneto.
Non si può investigare sui predetti reati per mezzo del Podestà o della sua Curia, né
da qualsiasi altro ufficiale, né procedere se non per accusa del marito della donna o da
persona autorizzata dallo Statuto, sotto pena di 200 ducati da assegnare alla Camera di
Corneto e da sottrarre dal suo salario nel tempo del suo sindacato. Né si deve procedere ad
alcun arresto contro chi ha commesso i reati predetti se non sia stata prodotta una
legittima accusa per mezzo del legittimo accusatore. La donna che avrà commesso
adulterio, sia punita con la pena prevista dalla legge: la bastonatura sia eseguita in un
luogo o in luoghi stabiliti opportunamente dal Podestà e dai Magnifici Signori Priori,
considerando la qualità dell’adulterio e con l’aver riguardo alla vergogna dei consanguinei
della medesima, se dovesse essere di onesta condizione. Se dopo la condanna e la
confessione fatta prima di tutto in giudizio o dopo che il marito l’avrà perdonata davanti a
dei testimoni, la donna dovesse commettere di nuovo adulterio, le sia tagliato interamente
il naso o gli sia strappato un occhio per poi essere avviata in un monastero o in altro luogo
di espiazione.
- Se qualcuno avrà fatto violenza a una donna vedova di buona fama e di onesta vita
per conoscerla carnalmente, pagherà la pena di 50 ducati; se l’avrà gettata in terra e
denudata violentemente, paghi 40 ducati; se l’avrà baciata con violenza, paghi 35 ducati; se
l’avrà trattenuta o avrà voluto abbracciarla, paghi 25 ducati. Se non avrà pagato l’ammenda
entro 10 giorni dalla sentenza, sia punito col taglio della testa; se non potrà pagare
l’ammenda di 40 ducati entro 10 giorni dalla pubblica sentenza, gli sia tagliata la mano
destra; se non potrà pagare l’ammenda di 35 ducati entro 10 giorni dalla sentenza, gli sia
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tagliato il labbro superiore; e se non potrà pagare l’ammenda di 25 ducati entro 10 giorni
dalla sentenza, sia frustato per la città.
- Chiunque avrà rubato cereali dai campi o dalle aie fino a 10 gregne (1) , paghi per
ogni gregna rubata 2 ducati; se fosse stato già carrucolato, 10 ducati. Per carrucolato noi
intendiamo 25 gregne, e se lo avrà fatto in numero maggiore, paghi 25 ducati. Ma se
fossero stati rubati i cereali trebbiati fino a 3 staia, paghi 4 ducati; se in numero maggiore,
paghi 20 ducati se il furto sarà avvenuto di giorno, il doppio di notte E paghi al padrone il
doppio del danno arrecato o dei cereali rubati. Se detta pena egli non potrà pagare, gli
venga amputata la mano destra. I pastori che avranno rubato le gregne per farle mangiare
alle bestie, paghino la pena di 2 ducati. Chiunque può sporgere denuncia e verrà creduto
sotto giuramento e senza testimonianze.
- Stabiliamo e ordiniamo che qualunque ladro pubblico e famoso sia condannato
con l’estremo supplizio e sia sospeso con un laccio alla forca in modo che muoia
definitivamente. Ma se avrà commesso una rapina una sola volta, gli sia amputato un
piede: lo stesso s’intenda per gli scassinatori e per i ladri dei magazzini delle vettovaglie.
- Nessun indigeno o forestiero può scientemente comprare dai corsari nel porto né
in strada, né in Corneto né nel suo territorio o fuori, qualsiasi merce o cosa del valore di 20
carlini, sotto pena di 10 ducati; per un valore superiore, alla pena di 20 ducati; e se in detta
occasione qualche persona autorevole fosse incorsa in qualche danno o si trovasse
coinvolta in qualche briga, tali persone siano punite con il doppio della pena.
- Stabiliamo che nessun può appiccar fuoco ai boschi del Cazzanello, di
Montefocardo, di Cuccumelleto e di Rocca di Giorgio o in qualsiasi altro situo per cui il
fuoco possa entrare nelle dette selve o altrove, sotto pena di 10 ducati senza alcuna
riduzione e beneficio. Simile pena siano tenuti a pagare anche i complici e i mandanti.
Chiunque può farne denuncia e verrà creduto. Se i rei non potranno pagare la pena, gli sia
amputato l’orecchio destro; il signor Podestà sia tenuto ogni anno a radunare i signori
vaccari e bovari e possessori di altri animali perché abbiano cura di non mettere fuoco per
loro mezzo o per mezzo dei loro servi nei predetti luoghi e nei boschi del territorio di
Corneto. Se qualcuno avrà saputo che il fuoco è stato imesso da altri, ne deve fare denuncia
al Podestà stesso o ai suoi ufficiali, sotto pena di 2 ducati. Il Camerlengo della Comunità è
tenuto a far disboscare le predette selve nelle calende di agosto o quando lo riterrà
opportuno, a spese della Comunità a seconda del mandato o della volontà dei Magnifici
Signori Priori, cosicché il fuoco non arrechi danno e non possa entrarvi. Il Camerlengo che
(1)
Covoni
13
non avrà ottemperato a quanto predetto, paghi come pena due ducati, pena che il Podestà
è tenuto ad esigere.
Degli incendi predetti, l’informatore sia creduto sotto giuramento anche di un solo
testimonio di buona fama.
- Chiunque avrà portato in Corneto delle armi di offesa, paghi per ogni tipo di arma
un ducato se lo avrà fatto di giorno, il doppio, di notte. Per i coltelli acuminati esistenti
fuori misura di quella contrassegnata nel marmo esistente nella loggia del Palazzo, paghi 4
carlini; chi avrà fatto entrare pugnali o archibugi o schioppi, paghi 4 ducati se lo avrà fatto
di giorno, il doppio se di notte; e le armi siano sequestrate. Lo stesso vale per chi porta
armi avvelenate e frecce, se non quando si reca a caccia. La qual cosa sia creduta dietro suo
giuramento o dei suoi compagni.
A nessun macellaio è consentito di tenere armi sul banco o agli uncini, eccetto i
coltelli e coltellacci usati per tagliare le carni.
- Stabiliamo che chiunque avrà maledetto o bestemmiato il nome di Dio o della
beata Vergine Maria, paghi 10 ducati senza alcuna riduzione per ogni volta. Se avrà
bestemmiato il nome di qualche santo, paghi la pena di 5 ducati: se non potrà pagare tale
pena, venga fustigato per la città, e non venga ammesso ad alcun beneficio, se non della
confessione a causa dell’enormità della colpa. Chiunque può fare denuncia e avrà la quarta
parte della pena; e sarà creduto anche con un teste idoneo. Il nome dell’accusatore sarà
tenuto segreto almeno ad uno dei Magnifici Signori Priori. Il Podestà che dà esecuzione,
guadagnerà la quarta parte mentre la metà andrà alla Comunità. Non si può derogare da
quanto disposto dallo Statuto o diversamente dispensare se non per mezzo del Consiglio
Segreto che ha la facoltà di aumentare detta pena contro coloro che sono abituati a tali
mancanze. A colui che per un lapsus della lingua e non per abitudine avrà similmente
mancato, il detto Consiglio potrà ridurre la pena della metà una sola volta e non di meno:
per tale riduzione si aggiunga ai suddetti trasgressori qualche pena carceraria per alcuni
giorni, secondo il giudizio del suddetto Consiglio. Se il signor Podestà e i Magnifici Signori
Priori avranno attentato in qualche modo contro questi Statuti, siano condannati alla pena
di 50 ducati per ognuno di essi e per ogni volta. Se altri avrà giurato sui Santi, paghi 5
carlini e si deve procedere contro di lui sommariamente, salvo sempre le eccezioni e le
difese di ogni accusato.
- Stabiliamo e ordiniamo che tutte le concubine o pubbliche peccatrici tanto degli
ecclesiastici quanto dei laici o di qualunque altro genere esse siano, cornetane o forestiere,
debbano, dopo la notificazione del bando per mezzo del banditore della Comunità, liberarsi
del nefando peccato nel termine di 20 giorni, trasferendosi da una contrada all’altra non
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troppo vicina, della qual cosa lasciamo la perspicacia dei Magnifici Signori Priori di
decidere la distanza. Il bando, dopo l’avvenuta relazione, sia registrato nella riforma per
mezzo del Camerlengo della Comunità affinché l’esecuzione avvenga immediatamente. Tali
concubine se dovessero perseverare nell’opera di male e vivere disonestamente, sebbene
già lo siano, siano spulse da Corneto e dal suo territorio per mezzo del Podestà e dei suoi
ufficiali per un intero anno. Trascorso il quale, se vorrà ritornare, le sia consentito purché
abbia rinnovato il suo modo di vita, dei costumi o contratto debito matrimonio; ma se
dovessero rimaner suggestionate dal diavolo, siano espulse da Corneto e dal suo territorio
al suon delle trombe senza mai più potervi ritornare. Questo capitolo non si applicherà nei
confronti delle donne sposate, dimoranti coi propri mariti.
- Decretiamo e ordiniamo che, al fine di conservare i diritti, le scritture e le cose
mobili della Comunità di Corneto, sia eletto nel periodo dell’elezione generale per mezzo
dei Magnifici Signori Priori un cittadino di Corneto, onesto, rispettoso della legge e idoneo,
chiamato Massaro della Comunità, che deve salvare, conservare, reggere e vedere tutte le
singole ipoteche e tutte le altre cose di detta Comunità in ambienti prescelti per la
conservazione di quanto predetto, di tutti gli altri beni e le case di detta Comunità; non di
meno le campane, le molandine, le guardiole e le scale intorno alla città; e dove avrà
trovato manchevolezze, la faccia rinnovare a spese della Comunità; sia tenuto a far fare
anche l’inventario di tutte le cose sopra nominate, e di tutte le altre che gli siano venute in
ogni modo all’orecchio; rendere di ciò ragione secondo il volere e la richiesta dei Magnifici
Signori Priori. Il suo incarico deve durare per un anno; detto Massaro abbia per suo salario
cinque carlini per ogni mese; col compito anche di far estirpare i caprifichi e gli altri
arbusti dalle pareti del Comune, del Palazzo e delle Mura della città, nonché pulirli dalle
erbe resistenti, diversamente perderà il proprio salario.
- In onore di Dio Onnipotente, della Beata Maria, sua Madre, e del Glorioso San
Secondiano martire, protettore del popolo della città di Corneto, decretiamo e ordiniamo
che ogni anno, per la festa dello stesso, si corrano i palii dei cavalli e delle cavalle di razza;
il palio dei cavalli è di 5 ducati di carlini e quello delle cavalle deve essere almeno di 3
ducati; e un toro ai corridori a piedi nel consueto percorso. Per tale Festa sia osservato
questo ordine: per primi corrano i ragazzi per
un denaro; subito dopo per tutto il
Podiarello e per l’intero percorso ov’è la colonnetta e sotto la via, verso gli orti, non osi
stare nessuna persona, né cavalli o pedoni, né grandi, né piccoli, né cittadini o forestieri, né
altri, ma stiano tutti nel campo che sta sopra la via; dopo di che corrano i podisti per
aggiudicarsi il toro; nessuna persona può entrare nella strada dell’intero percorso, quando
i podisti avranno incominciato a correre; né deve mescolarsi fra di loro in gara. Ciò sia
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fatto conoscere pubblicamente col bando da parte del signor Podestà il quale, se avrà
disatteso in alcuna parte di quanto predetto, paghi la pena di un ducato. Il primo arrivato
riceva il palio e l’ultimo il gallo; e similmente nessuno deve attraversare come sopra detto,
alla stessa pena. Dopo corrano i cavalli: il primo, anche senza fantino, abbia il palio e
l’ultimo la papera; similmente nessuno attraversi la strada, alla stessa pena, né si deve
procurare qualche impedimento a chi corre, sotto pena di due ducati. E se qualcuno dei
corridori avrà attraversato al fine di accorciare il percorso, e non arriverà per il retto
percorso, anche se sarà stato primo, non deve ricevere il palio, ma paghi la pena di 4
carlini; nessun corridore deve percuotere col bastone un altro concorrente o il cavallo, e chi
avrà percosso, sia punito come sopra con la pena raddoppiata, anche se l’uno avrà arrecato
ingiuria all’altro; e detto cavallo non abbia il premio.
- In onore di Dio Onnipotente e della Beata Vergine Maria Vergine e del Beato
Lituardo, confessore e protettore della città di Corneto, noi decretiamo e diciamo che il
Podestà e i Magnifici Signori Priori siano tenuti, sotto loro giuramento, a fare in modo che
ogni anno per la festa del Beato Lituardo venga fatta la corsa dell’anello nella piazza della
Comunità, così come nelle corse dei cavalli in onore di San Pancrazio, secondo l’uso, da
chiunque volesse correre; i partecipanti abbiano 24 bononini; e se i predetti Signori
saranno stati negligenti, paghino ciascuno la pena di 8 carlini, da sottrarre al loro salario.
- Decretiamo che i Magnifici Signori Priori siano tenuti, dopo la pubblicazione dei
presenti Statuti e quanto prima possibile, a far selciare e ammattonare tutte le strade della
Città, cominciando dal Palazzo del Podestà ove si vendono i pesci, fino alla Porta della
Valle, due parti a carico di coloro che vi sono adiacenti, la terza a carico della Comunità:
tutta la piazza però a spese della Comunità. Facciano similmente ammottonare nel modo
sopraddetto tutto l’Arengo nuovo a carico della Comunità e di chi è adiacente, come sopra
detto. Siano pure tenuti a far fare, per onore della città, una sede presso l’arco delle erbe a
spese della Comunità dove le donne, che vendono il pane, debbono stare correttamente alla
vendita del pane in modo che non possano venderlo in altri luoghi ad eccezione dei fornari
e dei padroni del forno, sotto pena di 2 carlini per ogni volta; ad eccezione dei suddetti
panificatori e venditori di pane i quali di notte, prima del terzo suono della campana della
Comunità e di mattina prima che sorga il sole, possono vendere e comprare il pane a
domicilio.
- Decretiamo che nessuna donna che ha un figlio o più figli, una figlia o più figlie,
può frodarli di metà dei suoi beni per mezzo del testamento o per altra estrema volontà o
per contratto, se non sussista una giusta causa di ingratitudine; e se in qualche modo si
venisse a sapere il contrario, tale disposizione o il contratto della suddetta metà non abbia
16
valore. Diciamo così anche per le nonne e le bisnonne verso i nipoti e pronipoti o le
pronipoti. Come pure gli uomini non possono alienare i beni avuti in dote dalla moglie
senza la presenza di due consanguinei. Questa condizione valga per il passato e per il
futuro.
- Decretiamo che se qualche donna maritata dal cui marito non abbia avuto figli o
nipoti dai figli, dovesse morire prima del suo sposo, sia tenuta a lasciare al suo consorte la
terza parte della sua dote; qualora non l’avesse lasciata o se ne fosse dimenticata oppure
venisse a morire senza lasciare testamento, il marito abbia a succederle e acquisire la terza
parte della dote della moglie; questo modo di agire valga per il passato e per il futuro; e lo
Statuto gli garantisca questa condizione tanto nella dote promessa quanto in quella
concessa, essendo stato il matrimonio consumato con l’unione carnale.
La società educante
Prospettive d’impegno per i gruppi e le associazioni culturali delle
comunità locali.
Una delle idee che nel mondo contemporaneo tardano a chiarirsi nella coscienza dei
politici, studiosi d’educazione e uomini della strada è quella della necessità di un
ridimensionamento del valore e dell’utilità della scuola come luogo di formazione dei
giovani. Si è sempre più convinti che educarsi significhi andare a scuola, assoggettarsi a un
particolare trattamento didattico, assorbire un programma predeterminato di nozioni,
superare una serie di sbarramenti costituiti da giudizi ed esami per uscir fuori un bel
giorno dalla catena di montaggio come prodotti finiti, pronti a funzionare nella vita. Non ci
si rende conto del fatto che l’educazione è un processo ben più vasto di quello che si
restringe alla sola funzione della scuola e che, degli influssi che operano sul processo di
crescita dell’individuo, quello scolastico, oltre a non essere il più importante, presenta
aspetti negativi che spesso neutralizzano il valore della sua utilità.
La scuola come noi la conosciamo, cioè come istituto per l’alfabetizzazione e
l’acculturazione delle masse, è un fatto relativamente recente, anche se trova i suoi lontani
modelli nella antichità. Essa è diventata un’istituzione sacra, sulla cui necessità ed efficacia
non è lecito porre dubbi, a mano a mano che la società industrializzata è cresciuta
richiedendo agli individui una sempre maggiore consapevolezza alfabetica e titoli di studio
attestati da certificazioni cartacee conseguibili dopo più o meno prolungati periodi di
17
scolarizzazione. La fede nella scuola è divenuta un fatto quasi metafisico, tanto che oggi chi
si azzardi a mettere in dubbio il valore e l’efficacia dell’istituzione come fattore propulsivo
di sviluppo economico della società, e come motivo di riscatto dell’individuo dalla
predestinazione ai lavori manuali, considerati inferiori e degradanti la personalità, viene
quasi tacciato d’eresia.
La scuola come investimento di capitale umano.
Nella maggioranza dei paesi, l’investimento di capitale umano negli studi scolastici è
visto come la chiave di volta dello sviluppo e della prosperità nazionale. L’espansione
all’infinito dei servizi scolastici è diventata per i governi un punto d’onore: dall’istruzione
elementare al diploma di scuola secondaria per tutti, alla laurea per il maggior numero
possibile, in un’escalation che tende a far scoppiare i bilanci pubblici per l’istruzione così
come scoppiano le scuole e le università popolate da una massa straripante di studenti
insoddisfatti e turbolenti.
Per le famiglie, gli individui, la conquista di un titolo di studio conseguito a scuola
costituisce il talismano per il successo nella vita. “Mio figlio deve studiare: deve diventare
dottore, avvocato, architetto, ingegnere” è il pensiero manifesto di padri e madri che
proiettano sui figli le loro ambizioni, sognando per essi quell’avvenire di prestigio che è
stato loro negato. E’ così che una massa sempre più grande di giovani si sente spinta a
intraprendere corsi di studio sempre più lunghi e difficili, coi quali guadagnare titoli
prestigiosi che li abilitino a professioni e occupazioni che, data l’inflazione di diplomi e
lauree, diventano sempre meno disponibili nel mercato di lavoro. I giovani che si avviano
al possesso di alte qualificazioni scolastiche, o che le conseguono, tendono naturalmente ad
elevare la valutazione che fanno di se stessi, dilatando sempre più la sfera delle proprie
aspirazioni. Queste aspirazioni e speranze, naturalmente non soddisfatte dalle sempre
minori possibilità offerte dalla piazza, determinano un accumulo di delusioni e frustrazioni
che costituiscono un pericoloso potenziale di instabilità sociale (lotta al sistema
nell’illusione che, distrutto quello esistente, se ne possa creare un altro capace di eliminare
ogni gerarchia nella divisione del lavoro). Masse di giovani laureati e diplomati alla ricerca
di un posto di lavoro che non trovano o che, quando lo trovano, non corrisponde né alle
aspirazioni né al valore degli studi compiuti; masse sempre più gigantesche di studenti che
vedono il buio assoluto nel loro futuro: questa è prevalentemente l’odierna condizione
giovanile, una condizione di precarietà e d’incertezza che può essere solo fonte di ribellione
e di disordini.
18
In tale situazione, l’istituzione scuola s’ingigantisce fino ad arrivare al punto di
operare al solo fine di alimentare se stessa, portando avanti un esercito di studenti
destinati in gran parte ad andare a ingrossare le file dell’esercito degli insegnanti. La scuola
sa di non poter mantenere strutture, programmi e metodi che avevano una loro validità
quando le aspirazioni della gran massa dei suoi frequentanti non andavano oltre la
frequenza del corso elementare e pochi predestinati, futuri dirigenti, continuavano gli studi
fino alla fine; ma trova difficoltà ad adeguarsi alle nuove esigenze. L’applicazione del
principio dell’eguaglianza fa cadere la validità dei processi di selezione, e con la selezione
cadono anche le esigenze di studio serio, accurato, approfondito, di forte impegno sui testi,
che caratterizzavano l’opera della vecchia scuola e ne sorreggevano l’impianto disciplinare.
Alla struttura rigida dei programmi viene sostituita l’applicazione dei principi di unitarietà
della scuola e di opzionalità-elettiva delle materie di studio, il che naturalmente porta la
maggior parte degli studenti alla scelta dei corsi e degli argomenti che richiedono meno
impegno per arrivare al conseguimento dello stesso titolo. In tali condizioni è fatale che la
scuola decada nel facilismo, nella pratica del todos caballeros, e che certi istituti
secondari o facoltà universitarie diventino luoghi di tenzone politica, ove si fa di tutto, si
discute di tutto, meno che studiare.
Costante
deterioramento
della
scuola
secondaria.
Particolarmente in crisi, oltre all’università, è la scuola secondaria superiore, tanto
che nell’intero mondo occidentale la questione attualmente all’ordine del giorno, è se
stessa potrà ancora sopravvivere in futuro nella sua presente forma. Negli Stati Uniti, la
scuola secondaria unitaria (comprehensive) è ormai una istituzione agonizzante. In
Gran Bretagna, dove nel volgere di poco più di un decennio questo tipo di scuola per
giovani di 15-18-19 anni è stato realizzato in sostituzione del vecchio “classista” sistema di
scuole parallele di diverso valore e contenuto, si registra un analogo fallimento.
Disaffezione, assenteismo (il 40 per cento circa degli iscritti disertano
quotidianamente le lezioni), stato di quasi completamente anarchia, violenze individuali e
di gruppo contro altri studenti e docenti, vandalismi, livelli di apprendimento che
diminuiscono paurosamente di anno in anno, contro una spesa pubblica che aumenta
altrettanto paurosamente, sono gli aspetti più vistosi di un generale deterioramento
dell’istituzione. Dagli organismi federali degli Stati Uniti e dalle fondazioni culturali sono
stati spesi, in questi ultimi anni, miliardi e miliardi di dollari per studi, ricerche e
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sperimentazioni tendenti a rinnovare dall’interno la scuola secondaria, nella speranza che
le cose migliorassero; tutto, invece, è andato sempre peggio.
In un Rapporto della fondazione culturale americana “Charles F. Kettering”,
estremamente eloquente nella descrizione dell’attuale situazione, vengono espresse alcune
proposte di riforma che costituiscono una vera rivoluzione nei modi di concepire
l’educazione e di offrirla, e il cui aspetto più significativo è costituito dalla riconosciuta
incapacità della scuola di gestire tutto il tempo di formazione dei giovani, dalla rinuncia
dell’istituzione scolastica al monopolio dell’attività educativa e dalla chiamata in causa di
altri agenti più efficaci e responsabilizzanti, come le associazioni e i gruppi di cultura e
d’azione delle comunità locali, le officine, le industrie, le biblioteche, gli studi d’arte, gli
ospedali, i laboratori e tutte le organizzazioni della vita reale che producono, oggetti,
servizi, beni, cultura. Dal Rapporto viene inoltre raccomandato l’abbassamento dell’età di
fine obbligo scolastico ai quattordici anni d’età.
Anche un’altra commissione americana, operante sotto l’egida della Presidenza
degli Stati Uniti e presieduta da James Coleman, ha recentemente raccomandato meno
scuola e più lavoro per i giovani statunitensi (v. rivista “Time” del 27 agosto 1973). Nel
rapporto Coleman, la scuola secondaria viene accusata, oltre che di non riuscire a
impegnare gli alunni in lavori che implichino concentrazione
- collaborazione -
responsabilità - soddisfazione, in modo da favorire in essi le migliori qualità dell’uomo
adulto, anche di monopolizzare tutto il tempo dei giovani, impedendo loro di acquisire
queste qualità altrove. L’unico rimedio, dice Coleman, a questa passività che è il difetto
intrinseco di ogni istituzione scolastica è la riduzione del tempo di scuola, con l’offerta ai
giovani di alternare allo studio il lavoro attivo, cioè il lavoro che si svolge nella vita vera, al
di fuori della scuola.
Per quanto riguarda la situazione in Gran Bretagna, Kenneth W. Richmond, in un
suo studio su “Politica, economia e scuola”, afferma testualmente: “Dal 1950 in poi, il
numero delle università britanniche è stato triplicato, gli istituti d’istruzione secondaria
sono stati riorganizzati in base al principio unitario della scuola comprehensive e
somme enormi sono state spese per l’edilizia scolastica, l’aggiornamento dei docenti, ecc. il
tutto nel duplice intento di dare attuazione al principio di una maggiore uguaglianza dei
cittadini e di favorire lo sviluppo economico. Nella realtà dei fatti, nessuno di questi fini è
stato raggiunto. Sembra anzi che le ingenti somme destinate alla scuola per ragazzi dai
tredici anni in poi si rivelino sempre più introduttive... A tal proposito, assume particolare
significato un recente rapporto del Dipartimento Scozzese dell’educazione, nel quale si
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riconosce apertamente che l’elevazione dell’età di fine obbligo a sedici anni, decisa tre anni
fa in Gran Bretagna, s’è rivelata un disastroso fallimento”.
La riforma in Italia.
Nel nostro paese è in faticosa elaborazione una riforma della scuola secondaria
superiore per la quale sono state avanzate proposte che sembrano voler ricalcare modelli e
soluzioni disastrosamente falliti altrove. Dai partiti che più contano è stato, per esempio,
proposto il prolungamento dell’età dell’obbligo fino a sedici anni, mentre lo stesso modello
di scuola unitaria, onnicomprensiva, verso il quale sembra ci si voglia orientare, è un
modello che, come si è visto, non funziona più negli Stati Uniti e si sta rivelando disastroso
in Gran Bretagna..
La riforma della scuola secondaria superiore italiana dovrebbe ridare serietà agli
studi scolastici, conciliando il principio dell’uguaglianza (diritto allo studio) con certi
procedimenti selettivi e meritocratici che vengono ritenuti indispensabili anche nei paesi
retti dai regimi più egualitari; dovrebbe trasformare il sistema educativo in modo che le
qualifiche consentite dagli studenti al termine dei corsi corrispondano alle esigenze del
mercato di lavoro; dovrebbe dar vita a curricoli, scolastici e non scolastici, entro i quali i
giovani possano effettivamente realizzarsi secondo i propri talenti e le proprie disposizioni,
nello studio, nel lavoro, nel lavoro-studio e nello studio-lavoro; dovrebbe operare in vista
di una società futura che sarà estremamente tecnologizzata e che richiederà, specie nel
settore della comunicazione, alte qualificazioni di studio ai suoi componenti, senza perdere
di vista le reali condizioni del presente, in cui sembra ormai illusoria e dannosa la
convinzione che fra l’espansione dell’istruzione scolastica per i giovani di oltre trediciquattordici anni e lo sviluppo economico vi sia una connessione causale. Una vera e
propria quadratura del cerchio, se continuerà l’attuale situazione d’ignoranza delle leggi e
dei fenomeni del mercato di lavoro in rapporto all’istruzione, di mancata programmazione,
e soprattutto se si continuerà a credere che la riforma sociale possa fondarsi sulla riforma
scolastica e non viceversa.
Lo schema della vita.
Dovrebbe esser chiaro che tutto il discorso fatto in precedenza non mira né ad
esaltare l’ignoranza né a criticare il principio dell’uguaglianza e del diritto allo studio.
21
Il fatto che una massa sempre più grande di giovani accede ai gradi superiori di
conoscenza è certamente positivo sia dal punto di vista del diritto individuale sia da quello
del progresso sociale. Non sono però positivi i seguenti fatti:
- che la formazione dei giovani continui ad essere monopolio di una scuola
completamente distaccata dalla vita e soprattutto dal lavoro;
- che si continui ad alimentare l’illusione che i titoli di studio dispensati della scuola
costituiscano specie di passaporti indispensabili per il successo;
- che sia necessaria una continua maggiorazione del tempo da dedicare alla scuola
sia lungo l’arco dell’età che lungo quello della giornata e dell’anno. La credenza “più scuola
uguale più educazione” trae origine da un’ideologia del sentimento che ottiene in effetti
risultati del tutto opposti a quelli che essa intende perseguire. L’illusione sta nella pretesa
che la scuola possa educare le migliori qualità umane; e questo, occorre riconoscerlo, la
scuola non l’ha mai fatto, non lo fa e non potrà mai farlo perché, nonostante ogni sforzo
che essa possa compiere per rinnovarsi e aprirsi al mondo reale, rimane una istituzione
necessariamente segregativa. Il solo fatto che da quando vanno alla scuola materna, cioè
dai tre anni d’età, ai diciassette-diciotto o anche ai ventitré-ventiquattro anni (età della
laurea), i giovani siano costretti a trascorrere la maggior parte del loro tempo in gruppi di
pari e coetanei, con poco o nessuno scambio con persone d’età e condizione diversa,
determina chiusure, incomprensioni ed egoismi che costituiscono una delle cause
essenziali della disgregazione sociale. Un altro motivo che viene addotto per giustificare la
scolarizzazione prolungata è quello della necessità che al giovane venga lasciato un
maggior tempo per orientarsi definitivamente verso una certa professione. Questa
necessità verrebbe molto meglio soddisfatta se, invece di continuare a costringere
l’adolescente nel protetto giardino della fanciullezza, dessimo più considerazione alle sue
capacità e responsabilità di uomo, e lo ponessimo nelle condizioni di poter effettivamente
svolgere delle attività o dei lavori che abbiano per lui un vero significato. L’orientamento
verso gli studi da fare e le cose da apprendere scaturirebbe in tal modo dal contatto con la
realtà di lavoro e non dall’attesa in un limbo che è destinato a vivere via via più frustrante a
mano a mano che si prolunga.
Soprattutto non è positivo che si continui a considerare il ciclo della vita umana
come se fosse istituzionalmente suddiviso in tre fasi, ciascuna chiusa in se stessa, e cioè:
a) infanzia, fanciullezza, adolescenza, dedicate alla preparazione alla vita
attiva: scolarizzazione formale, studio intenso, accumulo di un capitale di conoscenze
definitivo, da poter spendere successivamente; niente lavoro, niente responsabilità reali, al
di fuori di quelle determinate dal rapporto di sottomissione alla scuola. Questa fase tende a
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diventare sempre più lunga col progressivo aumento dell’età di fine obbligo scolastico e col
progressivo ampliamento della sfera delle aspirazioni individuali alla conquista di un titolo
di studio sempre più alto, che non trova corrispondenza nel mercato di lavoro. Tenuti
sempre più in parcheggio, i giovani tumultuano;
b) vita attiva: conquista di un posto di lavoro che, una volta intrapreso, è ben
difficile abbandonare per passare a un altro più confacente, data la rigidità degli schemi in
tutti i settori dell’attività; niente o poco studio (ci si limita a spendere il capitale di
conoscenze apprese a scuola); progresso in carriera determinato in gran parte
dall’anzianità; si vive per mantenere i figli a corsi di studio scolastico sempre più
prolungati;
c) età del pensionamento e della messa in disparte con conseguente avvilimento
fino alla morte (condizione dell’anziano).
Lo schema è un po' troppo semplificato e forse un po' rozzo; ma rende l’idea di una
vita istituzionalizzata e sclerotizzata in forme che traggono le loro conseguenze
dall’istituzionalizzazione dell’educazione, cioè dalla separazione di quest’ultima dalla vita
reale. Il ciclo della vita viene così suddiviso in un periodo di esclusiva preparazione
scolastica che diventa sempre più lungo in un periodo di lavoro e in un periodo di riposo,
con una separazione e distinzione di irresponsabilità responsabilità, lavoro - studio, lavoro
- riposo - tempo libero che è quanto meno innaturale.
Tale schema poteva valere in una società povera d’informazioni, con mezzi di
comunicazione di massa limitati, come quella esistente fino a quaranta - trenta anni fa, in
cui la scuola manteneva ancora il primato informativo, arrogandosi in forza di questo
anche il primato formativo di una massa di esecutori, cui bastava l’acquisizione iniziale
degli strumenti alfabetici, e di pochi privilegiati, predestinati a diventare gli elementi
direttivi. Non può più valere oggi, in una società che diventa sempre più ricca
d’informazioni,
distribuite
con
istantaneità
elettronica,
e
che
è
caratterizzata
dall’accelerazione storica, dalla rapidità del cambiamento e dall’obsolescenza delle
conoscenze. Educazione, formazione, apprendimento sono fatti non più limitati alla prima
fase della vita, ma che riguardano l’intera esistenza dell’individuo, il quale non può andare
a scuola fino al termine dei suoi giorni, ma deve trovare nella società in cui vive, negli
ambienti che frequenta, nel lavoro stesso, i motivi e i mezzi per tenere aggiornata la
propria cultura e preparazione professionale.
La forza stessa delle cose induce all’applicazione del principio dell’educazione
permanente, che non significa la moltiplicazione all’infinito dei servizi scolastici, né una
ancor più disastrosa separazione dell’apprendimento della vita, ma implica la creazione di
23
una società educante, di un ambiente di vita, cioè, in cui l’individuo, col minor numero
possibile di limitazioni e costrizioni derivanti dallo spazio e dal tempo, possa apprendere,
educarsi, progredire.
Conclusioni.
Una riflessione sulle tendenze in atto nei paesi più avanzati induce a ritenere che in
un futuro non lontano l’istruzione scolastica perderà molto della sua importanza, venendo
sostituita in buona parte delle sue funzioni da altri agenti più stimolanti e facenti parte
della vita attiva: aziende di lavoro, aziende di servizio, laboratori, biblioteche, gruppi di
cultura, gruppi d’azione, ecc... La scuola rimarrà come luogo ove si va per apprendere
quello che non può essere appreso altrove, non per passare forzatamente il tempo.
Particolarmente la scuola secondaria per il gruppo d’età 15-18 anni sarà ben diversa
da quella odierna. “Essa cesserà in un certo senso di essere “scuola” perché si strutturerà in
modo
da
impiegare
un
minor
numero
d’insegnanti
-
istruttori,
fornendo
contemporaneamente una gamma assai più vasta di possibilità di studio autonomo e
d’autoistruzione. In quanto ambiente organizzato del tutto diversamente da quello attuale,
potrebbe corrispondere alla definizione di centro di risorse per l’apprendimento,
accessibile liberamente a chiunque, giovane o anziano, intende apprendervi ciò di cui sente
la necessità, quando voglia e come voglia” (Richmond).
I bambini e gli adolescenti maturano oggi molto più precocemente di un tempo.
Abbiamo recentemente concesso il diritto di voto ai diciottenni e forse non è lontano il
giorno in cui abbasseremo ancora tale limite. Ai giovani dovremo dare molto più presto di
quanto non abbiamo fatto finora anche gli altri diritti e responsabilità degli adulti, ivi
compreso il diritto al lavoro e al guadagno. Vi sono attività e mestieri cui i ragazzi o si
avvicinano quando sono molto giovani, e hanno la curiosità e la voglia di apprenderli, o
non si avvicinano più. Andrà colmato il baratro che fin dalle origini della scuola separa lo
studio dal lavoro. I giovani dovranno poter lavorare e studiare, e la professione dovrà
diventare una graduale conquista. Alle professioni dotte (medico, ingegnere, insegnante,
ecc.) si potrà arrivare anche cominciando col fare l’infermiere, il falegname, l’idraulico, il
muratore, il bidello ecc..
E’ chiaro che nel quadro di una “società educante”, in cui in sostituzione della
scuola, o in sua funzione complementare, opereranno agenti liberi, si aprono vaste
prospettive d’impegno alle associazioni e ai gruppi culturali delle comunità locali.
TRIESTE VALDI
24
Conferenza tenuta nell’Auditorium di S. Pancrazio nell’ottobre del 1976.
S. Lucia Filippini nella storia e nella pedagogia
S. Lucia Filippini è personaggio vivo e operante nella storia italiana tra la fine del
‘600 e il primo trentennio del ‘700 (1672-1732); precisamente, la sua attività si svolge
nell’alto Lazio fino a Roma e al Granducato di Toscana, mentre la Riforma cattolica si fa
strada negli animi attraverso le immagini dell’arte barocca, espressione sensoriale della
maestà del divino e della presenza di un mondo dello spirito.
L’arte ha una funzione polemica e apologetica; sono però in fermento i germi del
razionalismo cartesiano, che culminerà con il trionfo dell’Illuminismo; hanno qualche
influsso il giansenismo e il quietismo. Anche la letteratura accoglie le istanze del barocco e
Cristina di Svezia è al centro di convegni poetico-letterari, che daranno origine all’Arcadia.
Dal 1701 al 1714 si abbatte sull’Italia la guerra di successione spagnola; gli eserciti
stanziati sul territorio pontificio pretendono denaro e sostentamento dal governo e dal
popolo.
Avvengono terremoti, inondazioni, carestie: turbe di affamati si riversano in Roma,
città come isolata nella squallida campagna circostante.
Il clero e i religiosi hanno scarsa preparazione al loro ministero; la stessa loro
vocazione appare debole o assente, mossa da interessi non del tutto spirituali, con
ambizioni e comportamenti mondani.
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Anche nel Viterbese fra gli ecclesiastici era notevole l’ignoranza e la smoderata
libertà di vita. I nobili potevano solo aggiungere a questo quadro tinte più cariche, come la
moda del cicisbeo, o le cacce in grande stile.
La borghesia ha scarso rilievo, si può dire in via di formazione (professionisti,
banchieri, mercanti). Arretrata l’industria: si fila seta, lana, cotone nei conservatori
femminili e nelle scuole di filatura; gli artigiani sono associati in corporazioni. Tutta
l’attività si svolge intorno alla corte papale, alle case principesche, alle residenze
cardinalizie, alle rappresentanze straniere.
La popolazione è composta di contadini, braccianti, artigiani; il privilegio di pochi
immiserisce molti; la vicinanza della Maremma malarica è nociva alla gente di Corneto.
La crisi religiosa dal clero e dalle classi elevate influisce sul popolo, che segue
supinamente i cattivi esempi anche per l’ignoranza religiosa, la superstizione, la miseria.
S’impone una riforma del clero, già prevista dal Concilio di Trento, ma solo
parzialmente attuata: il cammino di ogni riforma ha quasi sempre tempi lunghi. Vari
pontefici si impegnano nel promuovere un miglioramento, fra i quali, Innocenzo XI e
Clemente XI, il quale, fra l’altro, curò l’educazione catechistica; fu il papa che chiamò a
Roma la nostra Lucia.
La storia, i documenti, i provvedimenti evidenziano gli aspetti deteriori di un’
epoca... Certamente non mancano quelli positivi: è l’epoca di G.B. De Rossi, di S. Paolo
della Croce, di S. Leonardo da Porto Maurizio, del Card. Barbarigo.... e di Lucia Filippini.
Rimasta orfana della madre a pochi mesi e del padre a circa sette anni, è ospitata
dagli zii materni e si distingue per ingegno e bontà, al punto che le è affidato il compito di
istruire nel catechismo le bambine della Parrocchia. Per interessamento del Cardinale
completa la sua educazione nel monastero di S. Chiara in Montefiascone e a vent’anni è
posta alla direzione delle scuole in via di fondazione; rimane superiora generale fino alla
morte (1732); è proclamata Beata nel 1926 e sale alla gloria dei Santi nel 1930.
L’aspetto fisico sembra risultare mediocre, secondo Nicola Ranieri di Scansano,
mentre la compagna era di bell’aspetto e bella voce (una maestra che l’accompagnava in
quella circostanza); era però giovanile, dato che aveva allora quarantasette anni e lo stesso
relatore scrive “circa di trentacinque anni”, e di modi gentili. A queste approssimative doti
faceva riscontro un temperamento emotivo e sensibile, notevole intelligenza e parola
irresistibile, a giudicare dagli affetti: le donne, le ragazze non sapevano staccarsi da lei. Era
in possesso di un singolare equilibrio.
Dopo le varie definizioni che sono state date attraverso i tempi, dalla concezione
provvidenziale a quella prammatica, a quella storicistica, la storia oggi, è intesa come il
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concreto operare dell’uomo, dipendentemente da Dio, o indipendentemente. Si tende a
concentrare sull’uomo tutta l’attenzione e l’interesse, con tale primato dell’uomo, che
sembra sostituirsi in molti casi, interamente a Dio. L’accento è posto su questo mondo:
tutto si svolge qui. Si promuove la liberazione degli uomini dai mali che li opprimono e li
alienano: la fame, l’ignoranza, il sottosviluppo, l’oppressione politica, lo sfruttamento
economico. Il male da cui bisogna liberare l’uomo è il “peccato sociale”, ossia quell’insieme
di strutture sociali, politiche, economiche ingiuste che permettono ad alcuni di asservire e
di sfruttare gli altri.
Il recente Convegno ecclesiale si è occupato della “Promozione umana” nel mondo
del lavoro rurale, operaio, urbano e terziario, negli emarginati, nella famiglia, nella donna
e nella politica stessa; ha esortato a collaborare per una giustizia sociale, per portare gli
uomini ad aprirsi alla totalità dei valori: il Regno di Dio comincia qui.
Le eventuali condizioni di superiorità devono esser motivo di servizio, così ogni
ricchezza: solo una concreta attuazione della giustizia e una vera solidarietà può costituire
una testimonianza efficace del messaggio cristiano.
Noi possiamo evidenziare una vera e propria “promozione della donna” in S. Lucia
F. L’attenzione è rivolta dove maggiore è il bisogno, particolarmente alle fanciulle di
povera condizione. Promozione della donna che comporta una promozione della famiglia
che essa è chiamata a formare, ma notevolmente anche della propria famiglia attuale,
poiché la ragazza è costantemente esortata a ripetere a casa ciò che ha imparato.
Liberazione, quindi, dall’ignoranza, mediante l’educazione religiosa e civile;
liberazione dal bisogno, mediante il lavoro che rende autosufficiente ed eleva tutta la
condotta morale. Le fanciulle ricevevano pane e canapa da filare, per provvedere alle loro
necessità presenti e future.
In questa promozione entrano le donne, invitate alla scuola la mattina e la sera, o
agli esercizi spirituali; entrano le famiglie che, Lucia visita per spegnere rancori, per
soccorrerle nei bisogni; le fidanzate trovano presso di lei un’educazione e una preparazione
adeguata alla formazione di una nuova famiglia; le donne da redimere suscitano la sua
compassione e il suo interessamento.
Lucia vede ogni ricchezza come occasione e mezzo di servizio fraterno: sollecita
ricche signore alla generosità verso chi ha bisogno; i suoi beni di famiglia e parte di quelli
della sorella Elisabetta sono distribuiti ai poveri. Non conobbe la miseria, ma visse
volontariamente povera, sperimentò il dolore, e seppe comprendere la miseria e il dolore
degli altri: le sue maestre, i pellegrini, i poveri, i malati, i disperati, per i quali ebbe
attenzioni veramente particolari.
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... Diciamo francamente che S. Lucia non ci ha lasciato un sistema pedagogico e
didattico. Per comprendere, comunque, il metodo da lei usato, dobbiamo anzitutto
orientarci verso la pedagogia classicamente cristiana, che pone a fondamento del pensiero
educativo la paternità dell’educatore, la maternità dell’educatrice, che conduce
gradualmente l’educando all’autonomia delle scelte, autonomia non apparente, ma
poggiata sulla vera libertà dai condizionamenti dovuti all’ignoranza o alla debolezza della
volontà.
La pedagogia cristiana ha sempre valorizzato le doti della persona, la personalità e la
dignità umana a bene del singolo e della componente comunitaria. Non ha mai asservito
individuo e famiglia, come pezzi inanimati di ricambio, alla macchina statale, che
monopolizza perfino l’intelletto, la volontà, la coscienza dell’individuo reso atomo e
numero.
Lucia ebbe una visione luminosa e superiore della vita, che ispirò tutta la sua azione,
si formò le sue regole aderenti alla realtà che le si offriva (e la scuola ebbe funzione di
preparazione e di elevazione della vita alla ricerca del vero e del bene), dandoci scuole che
hanno superato, fino ad oggi, ogni esame di validità.
Documenti dettagliati dovevano essere nell’archivio di Montefiascone, distrutto da
un incendio, ma il metodo è deducibile dall’opera di Lucia, che continua come essa la
concepì e la volle. Una fonte autentica è certamente il Regolamento delle scuole, che risale
al 1717.
Occorre mettersi nella luce di quei tempi; l’istruzione era privilegio dei ricchi, ma
per l’elemento femminile generalmente scarsa; gran parte delle giovani erano analfabete,
nelle campagne tutte.
Lucia, sostenuta dal Barbarigo, ci dà la prima scuola popolare italiana, un secolo
prima della proclamazione dei diritti promossa dalla Rivoluzione Francese, e due secoli
prima dell’istruzione obbligatoria in Italia, con spirito di iniziativa e di organizzazione
straordinario per una donna ancora oggi. Dolcezza e fermezza sono i termini del suo
metodo.
Spirito pratico e volitivo, impresse la sua personalità e la genialità della scuola,
creando il metodo sulle esigenze del tempo e del luogo, ovviamente approfittando dei vari
apporti (Venerini, Barbarigo, Mazzinelli), filtrati attraverso la sua intuizione e capacità di
imprimere ad azioni e metodi comuni un carattere proprio.
Il cardinale “dalle scuole vedeva subito germogliare il frutto e pareagli seminare e di
raccogliere nel medesimo tempo” (Di Simone).
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Nel riunire le madri nella scuola precorre il rapporto scuola famiglia, e nel condurre
le alunne negli ospedali romani attua un apostolato sociale che le educa ad un profondo
senso umanitario.
E’ ispettrice scolastica, direttrice didattica, fondatrice di scuola, Maestra di maestre.
Il Granduca Osimo III di Toscana assiste a una lezione e Lucia per la sua scuola libera
ottiene dallo Stato riconoscimento e appoggio materiale e morale.
Potremmo, in fondo, riconoscere in lei un metodo “preventivo”, poiché il castigo era
solo un rimedio estremo e raro, e si aveva riguardo al carattere, età e disposizione
dell’alunna.
Le ragazze erano ripartite in diverse file secondo la loro capacità; l’insegnamento era
simultaneo, ma anche individualizzato, dal noto al meno noto, dal facile al difficile, dal
concreto all’astratto, dal particolare al generale. Lucia si serve di incisioni per illustrare le
sue spiegazioni, precorrendo la civiltà delle immagini; lo studio si alterna con il lavoro,
quale mezzo di equilibrio fisico e intellettuale, e con il canto, che solleva lo spirito dal
lavoro.
Fuori della fede in Dio e di un messaggio religioso, diciamo pure, evangelico, non è
possibile una autentica promozione umana imparziale, perché l’uomo non accetta
intimamente imperativi morali provenienti dai suoi simili, e generalmente cerca in ogni
modo di sfuggire, quando può, alle imposizioni e alle leggi, anche razionalmente motivate.
Non ha bisogno di dimostrazione il “peccato originale” della nostra incoerenza, del nostro
perenne dissidio fra l’utile e il giusto.
Il “peccato sociale” è frutto della malvagità del cuore dell’uomo, o almeno del suo
estremo egoismo; il peccato individuale è sempre sociale, è sempre sottrazione del dono di
sé agli altri: non si possono cambiare efficientemente le strutture sociali ingiuste, se non si
cambia il cuore dell’uomo. Basti dire che sentiamo esaltare la libertà in tutte le note della
scala musicale; ma spesso chi la esige, e incondizionata, non è disposto a favorirla agli altri.
Mentre l’umanesimo fuori del mistero di Cristo non ha senso, in Cristo diviene
componente del regno di Dio, comincia già qui con la salvezza di tutto l’uomo, spirito e
corpo. E’ vero come dice Maritain, che “col pretesto di fedeltà all’eterno non si può restare
attaccati a frammenti del passato imbalsamati dal ricordo...”, ma è anche vero che “se si
perde la vista l’eterno a vantaggio del tempo, si scivola come foglie leggere, o come pesanti
tronchi d’albero sull’acqua”.
Lucia cercò la liberazione totale della persona umana in chiave veramente moderna.
Un fatto di assoluta modernità è l’aver concepito un tipo di vita non monastico, ma
impegnato a tempo pieno per Dio e per i fratelli: non taglio di capelli, non cambiamento di
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nome; l’abito è quello delle modeste signore del tempo: “la Signora Lucia” viene chiamata
la stessa fondatrice e “maestre secolari” le sue compagne; scioltezza di movimenti e di
tratto è la loro caratteristica ancora oggi.
Ebbe franchezza e coraggio di grande oratore in tempi in cui sarebbe stato difficile
perfino immaginarlo per una donna.
Non pose i classici voti a sostegno dell’osservanza dei consigli evangelici, ma il
desiderio di perfezione: (Regolamento, cap.IV).
OBBEDIENZA è adesione alla volontà salvifica di Dio.
POVERTA’ è libertà di tutto ciò che possa ingombrare e condizionare nella
disponibilità a Dio e al prossimo, è condivisione di beni con la comunità e con i poveri, è
vivere del lavoro delle proprie mani, è vita povera per assicurare continuità alle scuole.
PUREZZA è libertà di amare in Dio tutti i fratelli, in totale, serena, gioiosa
disponibilità di servizio.
Moderna è inoltre la riscoperta evangelica della stessa autorità intesa come servizio.
(Regolamento, cap. X).
Tutto questo era animato da una Fede gioiosa, che produceva in lei ardore
comunicativo (“e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv. XVI, 23) Lucia, provata dalle
critiche malevole, dalla frode dei suoi amministratori, cantava. Una fede che poggia
tranquillamente sulla ragione: “Sarebbe troppo miserabile il mio Dio, se potesse
interamente esser capito da me”.
Una fede rafforzata persino dall’antitesi dell’assurdo: nell’universo intero finalizzato
all’uomo, l’uomo soltanto non avrebbe altro scopo che tornare alla materia, destinato (e da
chi?) a vivere sotto un cielo senza stelle, disperato di non poter vedere attuati che molto
parzialmente i suoi ideali più profondi di giustizia, amore, amicizia, felicità.
Lucia ripercorre con ciascuna giovane, donna, o maestra, il proprio cammino di
perfezione verso Dio; sa che il Vangelo non è solo una dottrina, ma è vita, incontro
dell’uomo con Dio attraverso la parola, esperienza di Dio, accoglienza di Lui nel nostro
essere; accoglienza impossibile, se non sgombriamo l’anima da ciò che appesantisce e
rende schiavi: se ho le mani ingombre, non posso ricevere un dono; se in me e intorno a me
c’è il caos, non posso ascoltare, tanto meno capire.
Il suo metodo di far incontrare Dio era quello di una persona che l’ha veramente
incontrato, che l’ha con sé nella gioia e nel dolore e lo manifesta nel suo comportamento:
quello che oggi si chiama testimonianza concreta, riflesso di Dio nell’amore per tutti; unica
prassi che riconduce a Dio, mostrando sempre più chiara la realtà della sua presenza.
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Albertina Tesei
Maestra Pia
Conferenza tenuta nell’Auditorium di S. Pancrazio in Tarquinia nel
dicembre 1976.
Scorci ed aneddoti di Corneto fino al 1870
Divagazione tra cronaca e leggenda
A qualche giovanissimo questo nome di “Corneto” risulterà ostico e magari anche
poco simpatico e ridicolo. Per me e per i miei coetanei, invece, esso, è ancora fonte di
ricordi dell’infanzia trascorsa e della Storia passata. Un’infanzia tanto più cara perché
vissuta in un Paese ed in tempi ancora a “dimensione umana”, come ci piace dire oggi, e
molto più di adesso nutriti delle vicende del passato e dei valori antichi.
Le poche letture che riesco a fare, gli interesse culturali in comune con amici
carissimi, rinnovano sempre quei ricordi e mi spingerebbero ad approfondire le mie scarse
conoscenze, ma mi frena la mancanza del tempo e la consapevolezza dei miei limiti in
materia. Nei riguardi della Cultura resto pur sempre a mezzo servizio.
Deve bastarmi perciò quel che posso fare, ed oggi mi piace intrattenermi con il
Lettore su alcuni fatti o “Accidenti” della Storia di Corneto. Un discorso alla buona, a puro
e semplice scopo divulgativo. Chi vorrà ampliare la sua erudizione potrà ricorrere ad
Autori noti, antichi e recenti, e principalmente alle Cronache di Muzio Polidori, che la
Società Tarquiniense d’Arte e Storia pubblicherà in un bel volume entro la prossima estate.
Quello che Vi dirò non ha la pretesa di essere la verità assoluta; è desunto da fonti e
scritti vari e di vari Autori, ed a questi lasceremo la responsabilità di quanto affermano.
Credo perciò che sia utile fare prima alcune considerazioni di carattere generale che
riguardano appunto le fonti delle notizie che sono sempre, in ogni Paese, le raccolte di
documenti presso gli Organi amministrativi e quelli più rappresentativi del Paese stesso,
raccolte più spesso pubbliche ma anche private.
Due sono le principali raccolte di documenti della nostra Città: quella Comunitaria,
presso il Palazzo dei Magistrati, prima fra le altre il Codice detto “La Margarita”, e quella
delle Curia, che comprende anche il “Registrum Cleri Cornetani”. Alla raccolta della
Curia vanno aggregate quelle degli Archivi parrocchiali e delle Confraternite. Sia l’Archivio
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comunale che quello della Curia sono giunti a noi falcidiati dagli incendi che nel 1476 e nel
1643 distrussero il Palazzo Comunale e la Chiesa Collegiata di Santa Margherita, la
Cattedrale, dove erano in massima parte conservati. A queste cause di guasti si deve poi
aggiungere l’azione del tempo e quella spesso vandalica o irresponsabile degli Uomini.
Vi sono poi le fonti esterne delle notizie; in primo luogo l’Archivio Vaticano, poi
quelli delle Città che ebbero nel tempo rapporti con noi, infine gli scritti di quegli Storici ed
Uomini di lettere o di politica che vissero in quei tempi, quello stuolo di Umanisti che
cominciarono con Tommaso Parentuccelli, poi Papa Niccolò V, Enea Silvio Piccolomini,
poi Papa Pio II, e tutti quelli che operarono nella Chiesa e nei Comuni Italiani come
Segretari, Cancellieri, Archivisti etc..
A queste fonti attinsero gli Storici che scrissero di Corneto, primo fra tutti il
canonico Muzio Polipori, concittadino che visse nel secolo XVII, di cui possediamo tre
Manoscritti originali: ”Dell’origine ed Antichità di Corneto”, “Gli Annali o
Accidenti di Corneto”, diario cronologico dei fatti importanti avvenuti dal 1023 al 1520,
“Privilegia”, raccolta di documenti vari.
Dopo che il Polidori un altro Cornetano, Luigi Dasti, scrisse una Storia di Corneto
con intenti storico-divulgativi. Il prof. Francesco Guerri invece, più recentemente, si
occupò della nostra Storia con intenti di studioso quale Egli era, e la sua opera principale
riguarda il “Registrum Cleri Cornetani”.
Mi sembra qui doveroso parlare di alcuni Personaggi minori. Voi capite che non
basta avere a disposizione gli Archivi e le altre fonti delle notizie; occorrono gli Uomini che
abbiano la passione e la capacità di consultarli, di interpretarli, e che operino per
tramandarli e renderli leggibili, alla portata anche dei non addetti ai lavori. Provate per
curiosità a consultare la Margarita, o il Registrum Cleri, o altri documenti antichi, o
anche lo stesso Polidori, nella loro stesura originale! Sia per la lingua, sia per i caratteri, sia
per lo stato dei documenti stessi, ci troviamo quasi sempre di fronte a qualche cosa di
difficilissima interpretazione. Inoltre i documenti originali, anche se ben tenuti, non sono
eterni. Ecco perciò la necessità di quegli studiosi e appassionati che si dedichino alle
trascrizioni, alle traduzioni e alla conservazione di questi Monumenti.
Questi Uomini non si trovano ad ogni angolo. A Corneto, tra tanti Patrizi che per il
loro censo avrebbero avuto la possibilità di occuparsi, anche marginalmente, di queste
cose, ci furono solo due personaggi che lo fecero, e sono due personaggi della famiglia
Falzacappa, coadiuvati da due rappresentanti della famiglia Avvolta. Si tratta di Casimiro e
Leonardo Falzacappa e di Carlo e Saverio Avvolta.
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La quasi totalità delle trascrizioni dei nostri antichi documenti provengono
dall’archivio Falzacappa, che però ad un certo momento è andato disperso. Esso passò
prima alla Biblioteca Casanatense a Roma, ma ora nessuno di quei documenti si trova più
in questa Biblioteca; la maggior parte di essi ritornò a Tarquinia, non so come e perché, ma
non nell’Archivio Falzacappa.
Si tratta di Carte originali, trascrizioni, edizioni antiche, manifesti, avvisi pubblici,
trattati di vario genere, pergamene, sparsi in vari Archivi e raccolte.
LA GIOSTRA DEL TORO
Lo scopo di questo scritto è però, come vi ho detto prima, di narrarvi alcuni
avvenimenti del nostro passato, e voglio incominciare da quello della istituzione della
Giostra del Toro, che mi permetterà di fare alcune considerazioni ad essa connesse.
A Corneto dunque, già fin da tempi molto remoti, si celebrava ogni anno una vera e
propria “Corrida”, durante la quale un Toro, il più bello e il più forte di tutte le “Mandrie”
del Territorio, veniva “giostrato” e poi ucciso sulla pubblica Piazza principale.
Era uno spettacolo che in molti di noi desta un moto di riprovazione e di sdegno, ma
che ancora oggi, purtroppo, in alcuni Paesi costituisce festa gradita. Il peggio era che la
nostra Corrida aveva una origine di carattere religioso, a parte la puerilità del gesto
“vendicativo”. Ecco dunque come si svolsero le cose.
Dobbiamo partire dal 250 d.C. anni del martirio dei Santi Secondiano, Marcelliano e
Veriano, Protettori di Corneto.
In quel tempo, il tempo eroico della Fede, questi tre Cittadini romani, rei di essersi
fatti Cristiani, furono imprigionati nella Città di Cencelli, “... situata alla destra del
fiume Mignone, dalla parte di Corneto...”, e quivi, dice il Cronista, “.... furono
tentati prima, indi variamente cruciati... e trasportati in Colonia (n.d.r. - un
luogo fra Corneto e Montalto) furono decapitati e gettati in mare”. I Corpi
furono recuperati dai loro Compagni di Fede e sepolti. Nel 322, quando Cencelli era ormai
cristiana, furono poi translati nella Cattedrale.
Nel V secolo la Città decadde, e nel 648 il Vescovo di Toscanella, per l’intervento di
un Arciprete a cui i Santi erano apparsi, decide di translare ancora i loro Corpi. Dice
sempre il nostro Cronista: “... il zelantissimo Preside, premessi da Esso e dal
Popolo Digiuni, Preci e Penitenze, si portò con gran Popolo e Clero al luogo
indicato, ove ritrovati che furono, nacquero contese fra i luoghi finitimi chi
dovesse averli. Il Santo Vescovo, vedendo questo tumulto, fatta prima
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orazione, fece porli in un Carro con due Giovenchi indomiti, e stabilì che li
possedesse quel Luogo ove andavano e si fermavano detti Santi. Attaccati
dunque al Carro i Giovenchi, presero verso Corneto il Cammino”.
Pare che sostassero a Fontana Antica, dove il Popolo accorse esultante. Ma ad un
certo punto i giovenchi ripresero ad andare, e per questo “una divota Femmina si
sdegnò tanto con i giovenchi, perché non si fermavano in Corneto, che per
dispetto fece un legato, in cui volesse che ogn’anno in quel giorno, si
straziasse un Toro fino alla morte”. Il Carro intanto se ne andò verso Toscanella, e
qui i giovenchi morirono; li furono sepolti i SS. Martiri, che, dopo altri traslochi, riposano
ora nella Chiesa di S. Lorenzo.
Sembrerebbe una favola, e invece la celebrazione della “Giostra del Toro” è
codificata negli “Statuti della Città di Corneto” al cap. XLIII. Qui sono scritte tutte le
regole secondo cui doveva svolgersi lo “spettacolo” nel giorno della Festa dei Santi
Protettori, “ad Laudem onnipotentis Dei, atque Sancti Secundiani protectoris
Corneti, ad memoriam illius Nobili Mulieris, quae Bona sua reliquit Ecclesiae
Sancti Nicolai sub hoc gravamina”. Pensate un po'! Tutto questo in onore di Dio
onnipotente di San Secondiano protettore, e in memoria di quella Nobile Donna che donò i
suoi beni alla Chiesa di S. Nicola con questo Legato. Il Legato, come avrete capito, era
quello che imponeva alla Chiesa stessa di donare ogni anno, in quel giorno, ai Priori della
Città “unum velocem, bonum, ferocem et indomitum Taurum....” da giostrare
sulla pubblica Piazza del Magistrato.
Questa dunque è la cronaca dei fatti che si presta ad alcune considerazioni sulle
origini della nostra Città.
Il viaggio dei Corpi dei Martiri avvenne nel 648 d.C.. Essi passarono per Corneto, si
fermarono a Fontana Antica dove accorse il Popolo in segno di festa, poi proseguirono per
Toscanella. Dunque Corneto esisteva già a quell’epoca, ed esisteva anche la Chiesa di San
Nicola, o almeno la primitiva Chiesa di San Nicola, a cui quella pia e barbara “Femmina”
fece il famoso legato.
Sulle origini di Corneto si è fantasticato molto, e più di tutti lo ha fatto il Polidori, il
quale però, rendendosi forse conto che non tutto quello che ne scriveva era credibile,
incominciò la sua dissertazione dicendo: “Se di Roma la trionfante Regina
dell’Universo... etc.”. In parole povere, se non si possono raccontare altro che leggende
sulle origini di Roma che è stata una Città illustre, Regina dell’Universo, la cui storia quindi
avrebbe dovuto essere conosciuta con certezza, senza dare adito a leggenda, sulle origini di
Corneto, tanto meno illustre e quindi meno conosciuto, che certezza vogliamo pretendere!
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E allora giù un lungo Capitolo molto dotto, con argomenti e citazioni presi da testi antichi e
meno antichi, fra mitologia e realtà.
Su questo argomento invece il Falzacappa, più realisticamente e meno
fantasiosamente, così si esprime:
“... Né qui starò a prendermi briga di additare, non che di impugnare le
opinioni favolose inventate sulla di Lei origine. Penne più istruite e pazienti
nell’investigare potranno prodursi nelle indagini di cose spesso astruse e
contenziose, sempre incerte ed arbitrarie né giudizi. Basterà solo qui riferire
che la medesima (Corneto) crebbe per la ruina di Tarquinia (etrusca), la caduta
della quale Città non seguì effettivamente se non che dopo il 575, anno settimo
della venuta ostile in Italia dei Longobardi, epoca in cui esercitarono a
dismisura la loro crudeltà nella Maremma Toscana, onde è che bene a ragione
fu scritto esser la Città di Corneto una Città antichissima.
La logica ci porta ad essere d’accordo con il Falzacappa, particolarmente là dove
dice che Corneto “crebbe per la ruina...”, si “accrebbe”, cioè non “sorse”.
La vecchia Città di Tarquinia etrusca fu costruita, certo non a caso, su un colle
defilato dal mare. Essa avrà avuto i suoi posti di avvistamento e di difesa che le avranno
fatto corona intorno, e quale migliore posto del colle di Corneto, in particolare il luogo
dove sorse poi Santa Maria in Castello. Sarà stata prima una Torre, poi una fortificazione,
poi saranno stati costruiti alcuni servizi, alcune abitazioni, qualche Deposito. In non molto
tempo dev’essere diventato un Castello, un luogo fortificato per la difesa avanzata della
Città retrostante e quale rifugio più a portata di fuga, a piedi o a cavallo, che non la Città
madre. La sua importanza in questo senso durò e si accrebbe nel tempo fin che durò
Tarquinia. Dopo, esso costituì la continuità naturale della Città che decadeva e che morì
nel VI secolo.
Sono congetture fatte a lume di logica, però ci sono anche testimonianze scritte che
avvalorano queste ipotesi.
Nel Registro pergamenaceo Farfense esiste un documento del 766 d.C. con il quale
“Lucanulus filius Gemmuli habitatoris Corneti....” vende all’Abate Halano ed a
tutta la Congregazione del Monastero di Maria SS.ma la porzione dei suoi beni che aveva in
Corneto; il quale Monastero, dell’Ordine dei Benedettini, era insediato nel nostro territorio
cornetano sotto il titolo di S. Maria del Mignone e per quattro “Grancie” che possedeva
nel territorio stesso, S. Pellegrino, S. Anastasio, S. Pietro e S. Angelo.
Questo avveniva nel 766, ma Corneto doveva esistere già da lungo tempo se aveva
un impianto consolidato di Chiese, Monasteri, case, e un ben ordinato sistema di proprietà.
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Voglio fare un piccolo passo indietro, la dove il Cronista ci dice che il Monastero di
S.Maria del Mignone possedeva anche quattro “Grancie”. Cos’era una “Grancia”? Era
un complesso che prendeva, sì, il nome della Cappella o dalla Chiesetta che ne costituiva il
Centro per il Culto e per la vita sociale, ma che era costituito da un agglomerato agricolo
con case per il personale, magazzini, stalle, qualche Ufficio amministrativo, oltre si intende
ad una certa estensione di terreno da coltivare.
Era in sostanza una grossa Fattoria agricola autosufficiente. Molte delle tante Chiese
sparse sul territorio di Corneto dovevano sicuramente appartenere a Centri di questo tipo,
e
il
loro
alto
numero
testimonia
dello
sviluppo
raggiunto
dall’agricoltura
e
conseguentemente dalla popolazione che, secondo certe stime, nel periodo migliore
raggiunse oltre 30.000 unità.
Riprendiamo il discorso sull’antichità di Corneto e consideriamo ancora che già nel
1121 esisteva, o per lo meno era in costruzione, la monumentale Chiesa di Santa Maria in
Castello, come risulta da una lapide nella Chiesa e dal documento farfense n. 80, e questa è
certo opera che poteva essere intrapresa solo da un Paese già antico e ben organizzato e
ben ricco.
Dice il Falzacappa: “Che che ne dica, per celebrare la maestà del Tempio, le
sue opere interne ed esterne, i suoi Monumenti, Egli (lo studioso, l’ammiratore,
chiunque) sarà sempre al di sotto del pur vero e reale merito. Una riunione di
belli marmi, d’un Battistero per immersione, d’un Ambone e di una antica
Cupola, di un pregiato mosaico, forma la decorazione di questo vasto
Edificio... la sua Confessione (l’altare della...) decorata una volta di superbe
colonne... e le Stazioni tutte per le pubbliche Penitenze, che vi erano istituite
nei primi secoli della Chiesa, sono prove non dubbie, anzi certissimi
argomenti della vastità del Tempio, del pregio sommo in cui era tenuto, della
Santità del Luogo”.
Si tratta come sentite dell’opera grandiosa di un libero Comune che la costruisce
anche a testimonianza della sua raggiunta grandezza, della ricca economia, della sua forza
politica e commerciale. Le evidenti derivazioni della Cupola che la ornava da Moschee
mussulmane parlano di contatti diretti o mediati con l’Oriente. Insomma mi pare evidente
che si debba vedere in quest’opera il frutto di una maturazione culturale che deve aver
avuto il suo ciclo di formazione in tempi assai lunghi, certamente vari secoli. Possiamo
dunque concordare, “.... onde è che bene a ragione fu scritto esser Corneto una
Città antichissima”.
Ma voi mi direte: e la Giostra del Toro? com’è andata a finire?
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Pochi anni dopo essere stata codificata negli Statuti del 1545, il Cardinale di Santa
Fiora, che aveva la giurisdizione su Corneto, chiese alla nostra Comunità di abolire
l’usanza, ormai considerata barbara, e il Magistrato Municipale rispondeva nell’Agosto
1562 che sì, riteneva giusto “... levar questo scandalo....”, ma che sarebbe stato
necessario, “per levar altri scandali, correggere anche la poca buona vita ed
immoderata di questo Clero di Preti....” etc. Qui affiora una punta dell’antico e
sempre attuale carattere del “Cornetano” sempre “scojonato”, che pur riconoscendo
giusto quanto il Presule diceva vuole però l’ultima parola, e ritorce l’accusa di scandalo,
andando magari fuori del seminato.
D’altra parte nello Statuto non si parlava già più di straziare il Toro fino alla morte.
Dopo la Giostra esso doveva essere condotto a Fontana Nuova, legato ad una colonna, e
dato poi in premio al vincitore della corsa a piedi che si correva per l’occasione. La giostra
fu quindi abolita, almeno nella forma cruenta, per finire forse in una specie di Rodeo a lieto
fine. Io ricordo di averne veduto uno da ragazzo, mi pare nel 1923-1925, nell’arena del
“Cancellone” attore principale un celebre Torero vetrallese che si chiamava con un nome
tutt’altro che prestigioso, “Porcapaja”.
L’ACQUA A CORNETO
Passiamo adesso ad un altro argomento di questa esposizione; parliamo dell’acqua
nel nostro Paese, problema importantissimo per ogni complesso abitativo.
I nostri Avi, secondo le regole del buon governo, si sono sempre preoccupati
affinché la loro Città fosse provvista di una sufficiente quantità del prezioso elemento,
ammaestrati in questo dall’esempio degli Etruschi, maestri di idraulica in tutti i sensi, che
hanno insegnato a tutti ai loro tempi, sia per quanto riguarda l’approvvigionamento
dell’acqua potabile sia per quanto riguarda la sistemazione idraulica dei terreni. Non
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dimentichiamo che furono gli Etruschi ad approntare i luoghi adatti alla futura crescita di
Roma, con il risanamento delle paludi sulla sinistra del Tevere e con la costruzione, tra
l’altro, della “Cloaca Maxima”, che fino al secolo scorso è stata l’opera di fognatura più
importante di Roma.
Gli Etruschi di Tarquinia bonificarono il loro territorio rendendolo fertile e
coltivabile, e certamente avranno provveduto, in maniera degna della prima delle dodici
“Lucumonie”, all’approvvigionamento dell’acqua. Oggi non esistono più tracce evidenti e
visibili di queste opere, dirute e ricoperte dai riporti del tempo. A me risulta per esempio,
per averlo constatato di persona tanti anni fa, 1928-1929, che esiste alla Civita, presso un
vecchio Casale, un pozzo, profondo quasi “un mazzo di frocette”, che immette al suo fondo
in un cunicolo nella roccia in cui scorre acqua limpidissima e fresca, cunicolo non certo
naturale che forse va a sboccare sul fianco Nord della collina, ad alimentare i cosiddetti
“Fontaniletti”. Anzi, può darsi che esso andasse anche ad alimentare un grossissimo
deposito-cisterna presso il “Castello di Tarquinia”, come dice il Sangallo il Giovane che
lo visitò e ce ne lasciò un ricordo nel disegno conservato tra altre sue carte alla Galleria
degli Uffizi di Firenze. Si tratta di un grande serbatoio a camera, con pilastri che
sostengono la volta di copertura, sul tipo del nostro serbatoio attuale, la cosiddetta “Botte”.
Può darsi che di pozzi simili ce ne siano stati più d’uno, che permettevano di
attingere acqua dal cunicolo o dai cunicoli sottostanti. E’ una soluzione che potrebbe aver
ispirato quella adottata poi in Corneto, con il cunicolo che partendo da sotto l’area
dall’attuale Chiesa di San Giovanni, “dalle Cantine delle Case de’ Vipereschi, nella
bottega di pizzicaria di Mercarino”, dice il Polidori, sottopassa l’attuale Corso, con un
pozzo subito oltre il Muro Castellano della prima cerchia, sottopassa l’atttuale Piazza delle
Erbe, “.... avanti la Casa de’ Signori Sacchetti”, dove c’era altro pozzo, “.... l’area
della Chiesa di S. Bartolomeo e quella delle Stalle di Santo Spirito...” con altri
due pozzi (cito sempre il Polipori), per sfociare poi a Fontana Antica, di cui abbiamo
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parlato anche prima, fatta costruire sotto l’Imperatore Onorio Flavio circa il 400 a.C.
Soluzione che permetteva alla Città di rifornirsi d’acqua all’interno attraverso i pozzi,
durante le guerre e gli assedi, senza dover uscire dalle Mura, a parte la famosa Porta
Falsa o Porta del Fiore che permetteva di accedere non visti, almeno fino ad un certo
punto, alla Fontana di Onorio Flavio.
L’evidentissima analogia tra l’opera di ricerca e captazione dell’acqua di Fontana
Antica e quella dell’antica Civita è anche, secondo me, una conferma della continuità e
della coesistenza tra la Civita stessa e gli insediamenti di Corneto. Si può addirittura
pensare che il Cunicolo di Fontana Antica, almeno come inizio, sia stata opera etrusca.
Questo
Cunicolo
dev’essere
stato
in
ogni
modo
la
prima
opera
di
approvvigionamento di acqua costruita dai Cornetani, certamente anche a carattere
strategico-militare. Serviva a far bere la Gente e gli animali, ad irrigare gli Orti sottostanti.
Poi è servita anche al Mattatoio Comunale, agli alloggiamenti dei Paracadutisti nel 1940.
Ora però non è più potabile, per cui non vale più l’antico detto “chi beve l’acqua di
Fontana Nova sempre a Corneto si ritrova”.
Ma ritorniamo all’acqua, a quella potabile. Corneto, diventata una rispettabile Città,
non poteva più contentarsi del suo antico Cunicolo. E’ vero che esistevano altre sorgenti
intorno all’abitato, il Polipori dice “.... una fonte ad ogni Porta della Città”, ma per
attingere ad esse bisognava uscire e percorrere un non breve percorso: la Fonte fuori della
“Porta della Valle” si trovava in località “Le Rose”, quella della “Porta della
Maddalena” era quella della Gabelletta, detta allora “dei Giardini”, quella di “Porta
Nuova” stava a metà della discesa verso la piana sottostante. Cosicché nel 1581 si pensò di
condurre a Corneto l’acqua della sorgente di “Ripacretta”, oggi conosciuta come “i
Trocchi”, e siccome i nostri Avi non erano stati abituati ad aspettare sempre la Manna dal
Cielo, avranno prima fatto le loro brave discussioni, ma poi la Comunità mise la mano alla
borsa e dette incarico ad un certo mastro Matteo Bartolano de castello di costruire
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l’acquedotto, e giacché erano in ballo e poiché ne sentivano la necessità di costruire anche
una strada, tagliata nella roccia, che dalla Piazza del Magistrato conducesse a Nord dritto
in continuazione di quella già esistente fino alla Piazza stessa, e quindi una Nuova Porta
Cittadina che fu detta Porta Farnese o, appunto, Porta Nuova, una bella costruzione
che nelle sue ampie linee architettoniche ricorda il Vignola (che però a quell’epoca era già
morto), e che la Società Tarquiniense d’Arte e Storia ha restaurato nel 1972 con una non
piccola spesa, salvandola da una maggiore distruzione.
Questo Acquedotto dei Trocchi era nato però sotto una cattiva stella. Il Polidori ci fa
un racconto particolareggiato e patetico delle avventure di Matteo, che si era “....
impegnato a condurre l’acqua di Ripacretta... all’horto di San Marco, esistente
fuori della Porta della Valle, et ivi farvi la Fonte per uso degl’homini, un’altra
per uso degli animali, et l’altra per lavare i panni, con obbligo di passare con
la chiavica a grotte sotto Corneto et far doj pozzi atti a pigliar acqua, uno nella
Piazza del Palazzo dei Magistrati, l’altro nella Piazza di San Marco”.
Fu fatto tutto, conduttura e Pozzi, “... ma perché il livello dell’acqua non fu
tenuto giusto, né era possibile che l’acqua andasse nell’horto disegnato,
nacque lite tra la Comunità...” etc. etc.. Dopo molte discussioni si appurò che l’acqua,
“per deficenza di livello”, non poteva andare nella direzione voluta, ma solo nella
direzione opposta. Nel 1585 il povero Matteo promise “... di ritrovare et ritornar
l’acqua nel luogo solito, ma prevenuto dalla morte non osservò”.
Finì male, come avete letto, ma l’acqua di quella fonte non fu dimenticata. Fu essa
che alimentò la nostra Fontana Grande della Piazza del Magistrato, alla fine dell’800, nel
periodo che va dall’andata fuori uso dell’acquedotto dell’Orsetto, di cui parleremo, e
l’entrata in funzione dell’Acquedotto di San Savino, nel 1903.
La costruzione dell’acquedotto dell’Orsetto o di Poggio del Forno era incominciata
nel 1625. Prima si erano fatte opportune e minuziose ricerche alle sorgenti, si misurò bene
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la quantità d’acqua e il dislivello. Fu incaricato del progetto Giovanni Maria Maggi
architetto, e per essere certi fu fatta eseguire una verifica prima del Padre Gesuita
Cristoforo Gicamberger e poi da Gasparo De Vecchi architetto. Questa volta i
Cornetani volevano essere sicuri di raggiungere il risultato. Nello scavare alle sorgenti fu
trovata “.... anche una Botte antica con buona quantità d’acqua”. “Frattanto
però”, dice il Polipori, “nacquero dispareri fra li Cittadini”. Liti a non finire, l’arch.
Maggi fu esonerato e si dette incarico della supervisione ad un certo fra Michele
Cappuccino da Bergamo che affidò il lavoro a Nicolò Scala Muratore, una specie di
associazione di truffatori, perché il Cappuccino, d’accordo con lo Scala, “... misurava e
stimava il lavoro non so quanti plurimi”. Alla fine, si era ormai arrivati al 1642, “...
si ricondusse il Maggi et si concesse il lavoro a Michele Mascoli et Compagni
Muratori. Et fu tirato il condotto un pezzo avanti...”. Ma poi dovendo Corneto
contribuire con molte spese alla guerra tra il Papa e il Duca di Parma, “... fu necessario
desistere dalla condotta della fontana per deficienza di moneta”.
Nel racconto si è accennato ad una Botte antica. Che cosa era? Poteva essere
un’opera degli Etruschi per portare acqua alla loro Città, la vicina Civita? Io ho visitato il
luogo, durante antiche scorribande in veste di barbaro cacciatore, ed ho osservato il
cunicolo in galleria che dalla fonte, attraversando il Poggio, portava l’acqua al di qua del
Poggio stesso per immetterla nel condotto delle Arcatelle fino a Corneto. Si tratta di un
cunicolo-galleria ad altezza d’uomo, o quasi, rivestito di una bellissima muratura a conci
squadrati di pietra macco, perfetta come opera, interrotta ad intervalli regolari da pozzi di
sfiato e di servizio per asportare le terre di scavo, anche essi rivestiti di un bellissimo
paramento della stessa muratura, di forma circolare di circa un metro di diametro.
I lavori di questo acquedotto furono poi ripresi sotto il governo del Cardinal
Imperiali e completati nel 1724 con la bella nostra Fontana di Piazza del Magistrato, con
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quella snella colonna centrale che proviene forse anch’essa dalla antica Chiesa di San
Nicolao.
Anche questa Fontana, come tanti altri nostri Monumenti, si trova oggi in
condizioni precarie e, in mancanza della solita manna, aspetta che qualcuno intervenga a
restaurarla. La Società d’Arte e Storia, almeno in questo momento, non ne ha la possibilità.
L’acquedotto di Poggio del Forno andò fuori uso alla fine dell’800, come vi ho prima
detto, e si provvide allora a sollevare l’acqua dei Trocchi, questa volta con una bella pompa
con motore a vapore, che fino a qualche anno fa ancora faceva bella mostra di sé nei
magazzini del Comune. L’acqua così sollevata veniva poi immessa nell’ultimo tratto del
vecchio acquedotto di Poggio del Forno fino a Corneto, e questo fino al 1902-3, anno in cui
subentrò l’Acquedotto di San Savino, costruito dalla Comunità mediante un accordo con
un industriale del luogo, padrone della ferriera sorta sul fiume Marta sul luogo delle
vecchie mole da grano. L’acquedotto di San Savino, che porta acqua dalla zona del Lago di
Bolsena, è durato fino ai nostri giorni, con fasi movimentate, ed è stato sostituito ora con
un nuovo acquedotto, che non incontrerà, speriamo, le stesse fasi movimentate del primo.
Di questo è rimasto il vecchio Serbatoio, la cosiddetta “Botte”, le condutture di
distribuzione interna integrate da nuove condotte e, naturalmente, le sorgenti.
IL PORTO DI CORNETO
Il terzo argomento di cui vorrei parlarvi è quello che riguarda il Porto di Corneto.
Guardandolo da un punto di vista generale, nei suoi risvolti economici e sociali, per
proporvi poi due o tre avvenimenti, non inediti come fatti, ma interessanti per la vivacità
della esposizione e delle immagini.
Le prime notizie sul Porto di Corneto compaiono intorno all’XI secolo, ma non è
certo questa la prova che il Porto fosse sorto allora; è forse indizio che cominciò allora ad
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acquistare una certa nuova importanza. Dico nuova perché il Porto, Gravisca, nello stesso
punto, esisteva già da secoli, dall’epoca di Tarquinia etrusca.
Gravisca fu un porto di grande importanza; esso apparteneva alla principale della
primigenia Dodecapoli etrusca, e allora tutti i traffici si svolgevano prevalentemente per via
d’acqua. Le strade, così come erano costruite, e i mezzi di trasporto, carri a buoi ed a
cavalli, non permettevano certo di commerciare, esportare ed importare in grande stile,
specie sulle lunghe distanze.
Di qui per gli Etruschi, e per tutti i popoli del resto, deriva la necessità di porti
efficienti, per la flotta commerciale e per la militare, per i traffici e per la difesa-offesa. A
proposito della offesa non bisogna dimenticare che gli Etruschi, i Tirreni come li
chiamavano i Greci, all’inizio erano anche dediti alla pirateria; questi uomini robusti, un
po' scuri di carnagione, aggressivi, che attaccavano all’improvviso con i loro legni veloci e
leggeri, avevan sparso il terrore nel loro mare, il Tirreno.
Poi naturalmente si ingentilirono, stabilirono normali traffici con gli altri Paesi,
impararono le regole del vivere civile; i loro porti crebbero di importanza e di numero.
Gravisca divenne un grosso Emporio commerciale per tutta la Regione. Ad un certo
momento, secondo le risultanze degli studi del prof. Torelli, ebbe anche un punto franco
per i navigatori e commercianti Greci, che vi ebbero le loro case, i loro depositi e perfino il
loro Tempio.
Gravisca dunque divenne un porto attrezzato e in qualche modo protetto; forse
risale ad allora lo scavo della cosiddetta “FOSSA”, un canale in mare, parallelo alla
spiaggia, che permetteva l’accesso alle navi di un certo pescaggio.
Quando agli Etruschi subentrarono i Romani anche Gravisca decadde, ma i
successori dei Tarquiniensi, gli abitatori del Castello di Corgnito, poi Corneto, non
cessarono per questo di aver bisogno di commerciare e di trafficare con gli altri Paesi,
anche se su scala ridotta. Né del resto era diminuita la difficoltà dei trasporti su terra; le
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strade e i mezzi non erano migliorati, anzi con la decadenza e poi con la caduta dell’Impero
Romano era avvenuto certamente il contrario; senza contare che con la scomparsa di un
forte potere centrale il brigantaggio, le rapine, le uccisioni avranno avuto un formidabile
sviluppo, come sempre avviene in casi simili. Per tutte queste ragioni i Cornetani dovettero
sempre ricorrere ai trasporti per via di mare, per esportare i loro prodotti agricoli, per cui
era famosa la nostra Città, e per importare quello che non producevano.
All’inizio essi si saranno arrangiati con quanto era rimasto delle attrezzature del
Porto di Gravisca, poi avranno cercato di restaurarle e di costruirne di nuove, man mano
che i traffici aumentavano e aumentava anche la stazza delle navi, con maggiori esigenze in
fatto di fondali, di spazio e di protezione.
In ogni modo io non credo che quello di Corneto sia mai stato un porto gran che
efficiente e sicuro; lo impediva la natura del litorale, sempre soggetto ed aperto ai venti del
Sud e all’insabbiamento. Nel 1502 si ha per es. notizia che Papa Borgia si imbarcò a
Corneto per recarsi a Piombino, “con gran comitiva fino a 400”; dopo alquanti giorni
ritornò verso Corneto, ma sorpresa da fiera burrasca la piccola flotta pontificia si disperse e
nessuno poté approdare al nostro Porto. Il Papa con la sua nave riuscì a tornare indietro ed
a rifugiarsi a Porto Ercole. Che umiliazione dev’essere stata per i nostri Avi! I quali però
non si stancarono mai di cercare di migliorarlo, il loro Porto, ricorrendo spesso al Papato
per contributi, aiuti vari ed agevolazioni atti a questo scopo. Così avvenne nel 1449 con
Niccolò V, nel 1461 con Pio II, nel 1476 e nel 1481 con Sisto IV, nel 1491 con Innocenzo VIII
e così via.
Riprenderemo più avanti la cronaca e le considerazioni.
Ora voglio parlarvi del primo episodio a cui ho accennato.
Esso ci è rivelato da un documento riportato dal Calisse nella Storia di Civitavecchia,
“ed ha una singolare importanza perché ci fa gettare uno sguardo sul Porto, sugli abitanti
di Corneto, sulla loro cortesia e generosità”.
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Il documento è di un Cronista che accompagnava i Crociati Frisoni, cioè Olandesi,
partecipanti alla Terza Crociata, 1189-1192. Io ora cito da un articolo apparso alcuni anni fa
su un giornale locale. Il Cronista dunque, dopo aver detto che i suoi Crociati passarono per
Gibilterra, costeggiarono la Spagna, la Provenza, la Liguria e la Toscana, dice che
proseguirono verso Messina. Ma per la contrarietà dei venti si diressero prima verso
Civitavecchia e poi, per la strettezza e il gran numero di navi che stipavano quel porto, con
18 Galere vennero al Porto di Corneto, con l’intenzione di svernare qui.
Era il 10-10-1190 “Corneto”, dice il testo, “così detto dai cornioli, è un
Castello del sig. Papa, ubicato nel Patrimonio di S. Pietro, distante tre miglia
dal mare e a due giornate da Roma. Fummo ricevuti con grande onore... e
cominciammo a disporre ogni cosa per alleviare i rigori dell’inverno”.
Aggiunge il Cronista che tutto si passò nel migliore dei modi. “Passato l’inverno,
alla vigilia di S. Benedetto (21.3.1911) dopo aver ricevuto dai Cornetani,
presenti i Magistrati e tutta la Comunità, il buon viaggio, concludemmo con
lieto fine il felice inizio della nostra permanenza. Con onore fummo ricevuti,
con maggior onore ci accomiatammo. Molte migliaia di cittadini con solenne
corteo assai brillante, preceduti dai banditori con le trombe e da 48 vessilli, ci
accompagnarono fin sulla spiaggia”.
Poi discorsi da parte del Podestà “dottissimo in legge”, che chiede scusa per
eventuali involontarie offese arrecate. Risposte da parte dei Crociati che ringraziano di
essere stati tollerati, anzi accolti con fraternità, di essere stati ricevuti nelle case dei
Cornetani come fratelli, di essere stati curati come figli, di aver potuto seppellire i loro
morti e tante altre cose.
“Per tutto ciò per le benemerenze”, segue il Cronista, “i nostri li faranno
partecipi della loro opera, implorando la retribuzione da parte di Dio. Con
molte
lacrime
ci
dividemmo
dal
popolo
Cornetano
nella
Domenica
45
dell’Annunciazione (25 Marzo), levammo le ancore e ci portammo al largo”.
Con essi si imbarcarono Crociati di Corneto, di Viterbo, di Toscanella, di Siena, di Vetralla,
di Montalto e di Montefiascone, con un bel vessillo donato dal Magistrato.
Sembra di leggere un racconto dal libro Cuore. Vedete quali legami creava la fede tra
Popoli che non si conoscevano, o che magari erano stati divisi da dissidi di vario genere.
E’ molto bello questo fatto; però non ne ho trovato riscontro nella Cronaca del
Polipori, che pure incomincia dal 1023.
Il II argomento mi deriva dalla comparazione di alcuni avvenimenti. Da documenti
certi sappiamo che il Comune di Corneto, prima del 1200, stipulò vari trattati marittimi,
regolanti traffici ed alleanze con le potenti Repubbliche di Genova, Pisa e Venezia. Da quei
documenti risulta che oltre a disporre di Navi per i traffici commerciali, i Cornetani
disponevano di Legni da guerra per la difesa del territorio, pronti ad intervenire per il
rispetto dei trattati e per difendere la sovranità sulle spiaggie della Tuscia che le
appartenevano.
Se ne deduce quindi la figura di un Comune di Corneto forte ed indipendente, libero
di disporre delle proprie alleanze, libero nei commerci, forte anche militarmente.
Sentite invece che cosa ci racconta il Pinzi nella sua storia di Viterbo anno 1169:
“... Le genti di Corneto e di Orvieto avevano ruggine coi nostri; e, come
portava l’uso di quell’età, s’eran dati a correre in armi i tenimenti di Viterbo,
depredandoli e traendone prigione. Dovevasi pertanto infrenare quei nuovi
nemici e togliere loro il pudore delle cavalcate (com’allora diceansi quelle
scorrerie), col ripagarli ad usura della stessa derrata. Per il che, armarono i
nostri un buon nerbo di militi a cavallo, e corseggiando le terre dei Cornetani,
s’avanzarono fin sotto la rocca di quella città e appiccaron zuffa con essi in
prossimità di san Pietro della Canonica. I nostri n’usciron vittoriosi: e
tornarono in patria, menando seco loro più di cento prigionieri e le porte di
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quella chiesa, che collocarono a trofeo nel loro san Silvestro. I Cornetani poi,
pel riscatto dei prigionieri, doveron cedere ai Viterbesi metà dei proventi
annuali del loro porto...”.
E allora? Il trattato con la Repubblica di Pisa è del 1174! Cinque soli anni dopo. Fu
fatto in regime di semisovranità di Corneto sul proprio Porto? O forse queste alleanze
servivano anche, magari indirettamente, contro questi aggressori, per non rispettare i patti
imposti da essi? Certo è che i Cornetani, forti in mare, non lo erano altrettanto in terra. Ma
poi, è Storia vera questa, o millantata?
Vediamo che cosa ne dice il Polidori: “Nel detto anno 1169 - Nella Cronica
manuscritta di Viterbo si legge che i Viterbesi fecero scorreria nel Territorio
di Corneto, e fecero prigionieri più di Cento, che detti Viterbesi in segno di
vittoria, levate le porte della Chiesa di San Pietro della Canonica di Corneto, le
portarono a Viterbo e le collocorno avanti alla Chiesa di San Silvestro, et che a
richiesta de’ Cornetani fu fatta la redenzione de’ prigionieri, mediante la
concessione della metà delle Gabelle del Porto di Corneto: ma io non
avendone nissun riscontro, non so se sia cosa credibile.
Vera o non vera, le cose non dovettero andare tutto liscie ai Viterbesi, perché queste
Gabelle, a loro testimonianza, non dovettero godersele a lungo, se mai lo fecero. La stessa
Cronaca manoscritta narra che nel 1258, e qui cito sempre il Pinzi, “..... Il Papa
Alessandro IV di Anagni... volle altresì rimunerar la città di Viterbo dell’aiuto
dato alla Chiesa contro i ribelli... E poiché non gli sfuggìa come i nostri desser
di continuo la mente nel ricupero degli antichi diritti sul Porto Cornetano, che
s’avevan conquistati per una solenne sconfitta accoccata ai Cornetani nel
1169, Alessandro, cansando di porre le mani in quella delicata questione che,
comunque risolta, avrebbe fatto impennare o l’uno o l’altro dei contendenti,
cedette ai Viterbesi quella parte di franchigie che allora possedeva la Santa
Sede in quel porto e ogni diritto, perfino, che le sarebbe venuto in appresso.
Nel fatto, questa papale elargizione si risolse in men che nulla perché troppo
vaporosa e indeterminata....”.
Quanto poi alla “solenne sconfitta accoccata ai Cornetani” si può dire che in
fasi alterne le sconfitte toccarono ai Viterbesi ed ai Cornetani, e non staremo qui a fare il
rendiconto.
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Il terzo episodio di cui voglio narrarvi è quello del ritorno dei Papi da Avignone. Io
ho qui la cronaca del Polidori, quella del Dasti e quella del Pinzi, nella sua Storia di
Viterbo.
Sono racconti che concordano, ma sarebbe interessante leggerli per il diverso stile e
per la diversa angolazione con cui gli avvenimenti sono stati visti.
Poiché gli altri due sono per noi più facilmente reperibili vi trascriverò quello del
Pinzi, che dell’avvenimento fa una descrizione folcloristica: sembra quasi di assistere alla
festa del Santo Protettore, le feste di una volta, con il popolo festante intorno ai nobili
impaludati e ai soldati in alta uniforme, unifomre di lamiera che sotto il sole di giugno sarà
stata certo poco comoda e confortevole.
(4 giugno 1367) ... Urbano V al 4 di giugno, in sul levar del sole, giunse
nel porto di Corneto. Chi avesse visto in quel mattino lo sfarzo di colori e il
brulichio di persone che animava quella rada e tutto il lido circostante, non
avrebbe creduto di trovarsi in una delle più desolate plaghe della maremma
romana.
Una selva di navi, dagli alberi e i sartiami ornati a festa con pennoni e
stendardi, faceva ressa sulla riva, e occultava sotto le nere chiglie la superficie
azzurra del mare. Sulla spiaggia, archi di trionfo rusticamente improvvisati
con festoni di mortelle, padiglioni di scarlatto rizzato su per i cardinali, e
trabacche di rami e verdura per difendersi dal sole, erano tramezzati da
lunghe fila di soldati dalle armature scintillanti, e da gruppi di ambasciatori,
prelati e officiali nelle loro divise di gala; mentre, dietro ad essi, un’immensa
distesa di popolo gremiva tutta la costa sino ai lontani accampamenti delle
milizie, e coronava tutte le alture sino alla collina in faccia al mare, su cui
torreggia il castello di Corneto. Da per tutto una concitazione ansiosa, un’aria
di festività e una gioia solenne e sincera che si dipingeva su tutti i volti.
Urbano V, accompagnato da sette cardinali, discese dalla galea capitana sopra
un ponte di legno, costrutto nel miglior punto di approdo e parato di arazzi,
tappeti e tende ricamate in oro. Ai due lati, e a pie’ del ponte, stavano schierati
i fraticelli Gesuati, condotti là dal loro fondatore Giovanni Colombini; i quali,
coronati di olivo ed agitando pure rami di olivo, gridavano incessantemente: Viva il Padre Santo -. Primo a muovere incontro a lui e a prostrarglisi
dinnanzi, fu l’Albornoz, il fortunato riformatore dello Stato della Chiesa che
aveva avuta la principal parte nello smuovere Urbano V da Avignone e tirarlo
in Italia. Dietro il Legato vedevansi inginocchiati gli ambasciatori di Viterbo,
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Orvieto, Perugia, Siena, Pisa e Firenze, e molti conti, baroni, vescovi, abati e
nobili delle provincie ecclesiastiche. Condotto il pontefice sotto il grande
padiglione di seta, preparato per lui con camere e sale, prese un po' di riposo
e quindi, recatosi in un altro scompartimento messo a guisa di cappella con
altare, fece lì alla sua presenza cantare una messa di resa di grazie pel
prospero compimento del suo viaggio marittimo. Dopo di che salì a cavallo e
s’avviò, sotto un baldacchino, verso Corneto, che distava circa tre miglia dalla
spiaggia. Le grida entusiastiche che levavansi sul suo passaggio dovevano
significare ad Urbano V il gran contento del popolo che rivedeva, dopo più di
sessant’anni, il Capo venerato della cristianità. Ma lo splendido corteo di
signori che vedeva intorno a sé, doveva mostrare a lui francese che
l’istituzione del papato, nata e cresciuta in Italia, non poteva prosperare e
mantenere tutta la sua grandezza che sul suolo italiano. Giunto a Corneto sul
mezzodì, prese dimora nel convento di San Francesco dei Frati Minori. Qui si
trattenne sino alla prossima Domenica 6 giugno, in cui pontificò per
solennizzare la Pentecoste, e accolse gli ambasciatori romani venuti a offrirgli
le chiavi di Castel Sant’Angelo, in segno di pieno dominio sulla città. Da
Corneto partì il lunedì seguente e venne a Toscanella nel pomeriggio...”.
Il ritorno a Roma durò poco; il 5.9.1370, sopraffatto dagli intrighi, dalle lotte, dai
pericoli, Urbano V se ne ripartì, sempre dal Porto di Corneto, imbarcandosi “sopra la
bella squadra che l’attendea, composta di galee mandate dai Re di Francia, di
Aragona e di Napoli, dai Pisani e dai Provenzali”. Sei anni dopo avviene il
definitivo ritorno a Roma dall’esilio d’Avignone, protagonista un altro Papa francese,
Gregorio XI. Anch’egli approdò a Corneto, alla foce del Marta, accolto festosamente ma
non con la pompa del 1160. Quella non aveva portato fortuna.
Ritornando alla cronaca diremo che il nostro Porto andò avanti nei secoli, conobbe
periodi di splendore e di decadenza, subì assedi ed invasioni, conobbe altri personaggi
celebri. Accompagnò insomma le vicende del popolo Cornetano.
Dopo un più lungo periodo di decadimento fu ricostruito in parte nel 1738 sotto
Clemente XII, da cui prese il nome di Clementino, ed infine, dice il Dasti, “fu compiuto
in minori proporzioni dell’antico sotto Benedetto XIV nel 1752.
Il Falzacappa nel 1840 trova che “sovra tutti forma decoro, ed utile insieme
della Città di Corneto il Porto Clementino: Porto fabbricato a spese de’
Cittadini, con bell’accasamento, per comodo della Negoziazione, per importo
de’ propri Grani e Generi. Nelle sue vicinanze esistono le Saline del governo,
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del produttivo introito di circa 10 milioni annui. Stabilimento, che potrebbe
rendere un maggior fruttato, se una saggia economia ne regolasse i prodotti,
le spese, l’andamento”.
In un certo senso ne sembrerebbe soddisfatto, o quasi, ma poi, riprendendo il
discorso più avanti, si esprime un po' diversamente.
“Questo nostro Porto, chiamato oggi Clementino, e come sopra si è detto
a spede de’ Cornetani decorato di nobile e spazioso Palazzo, di scaricatore e
molo, di fossa per i bastimenti, si è reso anche celebre per lo sbarco di vari
Principi e Magnati”.
Fa poi un elenco di questi personaggi e accennato ai vari privilegi concessi ai
Cornetani dai Papi e Principi per i servigi resi in quei tempi, constata con amarezza: “...
ma ogni privilegio è ora reso nullo e di niun valore per le nuove generale
emergenze. Con quanta mai difficoltà e dietro quanti meriti si assegnavano
tali privilegi dagli antichi Pontefici, ma con quanta facilità dagli odierni si
deroga a tante grazie spesso comprate col prezzo del sangue, sempre dettate
dal più sano consiglio. O tempora, o mores. Or chi il direbbe! questo bel
Porto, questo magnifico Palazzo, quei bei Magazzini, sono la stanza di pochi
Doganieri, di miserabili Pescatori, d’afflitti Salinieri e di non piccolo numero
di Galeotti ivi alloggiati per la custodia delle contigue Saline, e tutto ciò a
fronte di reclami i più forti reiterati de’ veri Padroni, gl’Agricoltori di
Corneto”.
Anch’egli, come il Dasti, ammira la grandezza antica e constata la decadenza
avvenuta dopo il Medio Evo, dal XVI secolo fino ai loro tempi. Che cosa avvenne? quali
furono le cause di tanta rovina?
Furono certamente molte e di varia natura, ma la principale fu quella della perdita
dell’indipendenza dei Comuni Italiani, al cui governo, al posto dei Magistrati eletti,
subentrarono i Principati con le loro imposizioni.
Finì il coraggio, finì la tenacia nei propositi, finirono le Leggi che i Cittadini si erano
autonomamente date. Subentrò la mollezza dei costumi, il disinteresse della cosa pubblica,
subentrò quello che oggi chiamiamo “assenteismo”, che non si deve intendere solo come
assenza dal lavoro, ma, in una accezione totale, come assenza da tutti i doveri e dagli
obblighi del Cittadino, che allora, come oggi, cercò soltanto il proprio egoistico interesse
contingente.
50
Questo avvenne perché Coloro che reggevano la cosa pubblica anziché rivolgersi alla
ragione al cuore dei sudditi, richiamandoli alle proprie responsabilità, trovarono più
opportuno e più facile stimolarne gli istinti meno nobili.
La conseguenza fu che decadde l’agricoltura e quindi i commerci; le terre non più
curate si trasformarono in peggio; gli acquitrini favorirono la malaria; i Castelli andarono
tutti distrutti; le “Grancie” con le loro Chiese scomparvero; la popolazione si ridusse a circa
cinquemila persone; il Porto, ma questo era fatale anche per altre ragioni, andò sempre più
decadendo.
L’ultima avventura esso la corse nel 1870. Il 13 Settembre la Flotta italiana, forte di
nove corazzate e di legni minori, gettò le ancore nella “Fossa” e ne ripartì dopo due giorni.
Si era arreso Corneto, si arrese Civitavecchia, il 20 si ebbe la resa di Roma.
Si era compiuta l’Unità d’Italia.
CESARE DE CESARIS
Ancora sulla Chiesa “collegiata” di S. Maria in Castello
Rovistando tra vecchie carte ci è capitato tra le mani un piccolo opuscolo composto
dal Canonico G.M. Albanesi, cornetano, nel 1882, in occasione dell’ingresso in Corneto del
nuovo vescovo mons. Angelo Rossi.
51
Si tratta dell’elenco dei beni della Chiesa compilato nell’anno 1383.
Pubblichiamo la prefazione contenuta nell’opuscolo pensando che interessi i nostri
lettori per l’attualità che in essa si riscontra.
Si intitola:
DICHIARAZIONI E RAFFRONTI STORICI
Corneto, città medioevale, edificata a cavaliere di amenissima collina presso alle rive
del Tirreno, né molto lungi dalla etrusca Tarquinia, nei secoli andati fu città religiosissima,
e tale si mantenne fino agli odierni rivolgimenti, che altri può chiamare a suo talento
politici, ma all’attento osservatore compariscono sì nello scopo, che nei mezzi,
sommamente antireligiosi. In quei tempi di mezzo, che ci si dipingono tuttodì quasi sepolti
nelle tenebre della più crassa ignoranza, e per conseguente malmenati dalla tirannide e
dalla barbarie; in quei tempi invece ci conviene cercare, a noi, che ci vantiamo civilissimi,
gli esempii della vera libertà, della fraterna carità cittadina, del vero amor patrio, del nobile
disinteresse. Che giova a noi possedere i telegrafi e le ferrovie, se poi i costumi son quasi da
pagani? a che vantarci della scienza, se quel che sommamente deve interessarci, si
misconosce e si nega? le celebri conquiste dell’ottantanove non han forse cagionata la
rovina delle migliori istituzioni, e lasciato per frutto una perpetua convulsione nella
società?
Ma veniamo a noi. Fra le molte prove dello slancio religioso e della carità degli
antenati nostri, leggiamo di molte chiese, ospedali e ricoveri, che nelle cronache si
descrivono ben edificati e meglio dotati, o a pubbliche spese, ovvero per privata liberalità.
Vi furono anticamente in Corneto tre Chiese Collegiate, quella cioè di Santa Maria in
Castello, l’altra di S. Maria e Margherita, la terza di S. Leonardo; e tutte ebbero il proprio
Capitolo di Canonici. In qual epoca precisamente venissero fondati, non si può invero
determinare, per manco di memorie: non si apporrebbe male però, a mio avviso, chi ne
fissasse la fondazione circa al secolo decimo dell’Era volgare. Il più insigne tempio di
questa Città, tuttora conservato, fu, dalla sua erezione in poi, la Chiesa di Santa Maria in
Castello, così nomata, perché situata presso il Castello antico, e quasi facente un solo corpo
con quello. Havvi memoria di una Chiesa di S. Maria già nel 1111 esistente sulla ripa del
Castello di Corneto (1) epperò forse sul luogo stesso, dove ora è il nostro tempio; forse
ancora eravi fino da quel tempo il Capitolo dei Canonici presieduto da un Priore. Ma la
(1)
Vedi il TORRIOZZI nella “STORIA DI TOSCANELLA”.
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forma splendidissima di tempio, veramente grandioso e degno di una città di prim’ordine,
fu data alla nostra Chiesa, nel secolo duodecimo, essendosene incominciata la costruzione
nell’anno 1121, è compiuta nel 1143, conforme si pare manifestato dell’epigrafi in marmo
ivi conservate, e pubblicate già più volte per le stampe, epperò notissime agli eruditi.
Concorsero nelle spese i consoli del Comune libero di Corneto, e molti privati, fra cui una
lapide rammenta il Prete Giorgio, che volle dare per la insigne opera sensum, et
censum¸dal che sembra aver egli o ideati, o almeno diretti i lavori della costruzione. Ciò
che rende anche a tempi nostri importantissimo questo bel monumento dell’arte cristiana,
si è l’architettura, che segna quasi un’epoca di transizione tra le idee longobardiche, e il
risorgimento delle arti in Italia; la notevole ampiezza, il magnifico sviluppo in tre navi,
tutte costruite in pietre calcari del luogo, ben riquadrate e ben connesse in colonne,
pilastri, e volte reali piegate a fasce incrociate in lunga fuga, ch’è una maraviglia a vedere;
rara memoria è pure il fonte battesimale per immersione: stupendo è l’ambone
marmoreo a doppia scalea, sorretto da quattro colonnine spirali, ora spogliate degli ori e
dei mosaici, ma pur sempre leggiadre; qua e colà havvi gran dovizia di epigrafi che
rammentano tutte le fasi ed i lavori antichi del tempio; ma soprattutto pregevoli sono molti
frammenti di lapidi più antiche, qui trasportati da necropoli e pagane e cristiane, e fatti
servire per connettere insieme l’opus alexandrinum, di cui rimane ora pressoché la
metà. Il celebre archeologo romano Comm. Giovan Battista De-Rossi con molta pazienza li
esaminò e lesse nella massima parte, pubblicandoli poi nel suo Bollettino di
archeologia cristiana (1874-75); ma sebbene pregevolissimo sia il lavoro di questo
insigne personaggio, pure a noi del luogo non sembrano accettabili tutte le conclusioni,
ch’egli ne ricava; e particolarmente non ci può entrare in capo, come i romani musaicisti
che lavorarono il pavimento di S. Maria, abbiano trasportati da Roma i marmi, mentre qui
eravene in grandissima copia. Finché dunque non si dimostri probabile che le lastre grandi
e piccole, portanti caratteri etruschi, non sieno avanzi della nostra Tarquinia e sua
necropoli, ma che piuttosto sieno qui stati importati d’altronde, con buona venia del
chiarissimo Scrittore, a noi sarà lecito di ritenere l’antichissima tradizione patria, secondo
la quale, tutte le pietre formanti il disegno del pavimento di S. Maria, con le iscrizioni o
etrusche o latine, o cristiane o pagane, appartengono alla diruta città, ovvero alla necropoli
tarquiniese.
Ora il Capitolo, destinato ad ufficiare questo magnifico tempio, componevasi in
antico di un Priore, e di quattro Canonici, forse in appresso cresciuti di numero.
La dignità e il grado di questo Capitolo era certamente superiore a quelli delle altre
Chiese Collegiate, siccome può agevolmente raccogliersi dall’optare che facevano al
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Capitolo Castellano i Canonici delle altre Collegiate. Ed ecco infatti i Preti Matteo Vannucci
e Francesco di Cola, che nel 1349 son citati come testimonii ad una copia autentica
d’Istromento, e qualificati per Canonici della Collegiata di S. Maria e Margherita (1) ;
ambedue tuttavia compariscono, trentaquattro anni dipoi, il primo come Priore, il secondo
come Canonico di S. Maria in Castello, nel documento che abbiamo per le mani. In altre
occasioni mi ricorda di aver letto che i Canonici di Castello si chiamavano Maioris
Ecclesiae: lo che conferma la preminenza di quella Chiesa sulle altre Collegiate.
L’epoca, in cui il documento venne compilato, è chiaramente espressa nel fine, per il
29 di Giugno, dell’anno milletrecentottantatre (1383) nel Pontificato di Urbano Sesto.
Dicesi redatto dal Priore Vannucci, il quale dovette esser innalzato a quella dignità, circa
l’anno 1380; e come poi fu saviamente stabilito nei Sinodi Diocesani, dopo essere entrato
in possesso, dové esibire alla ecclesiastica autorità, ovvero al Capitolo proprio, l’inventario
dei beni e ragioni spettanti alla Chiesa, di cui egli era Rettore; sembra però aver indugiato
alquanto per siffatta esibizione, mentre vi sono notati alcuni beni, e mobili, aggiunti
“tempore prioratus dicti Matthei”. La pergamena su cui è scritto il predetto Inventario, è
conservata nell’Archivio Capitolare della Cattedrale di Montefiascone, e nell’autunno
dell’anno 1881 mi fu gentilmente mostrata da quel R.mo Decano D. Pietro Federici, e
lasciatami piena facoltà di esaminarla, ed anche copiarla. Non mi parve di poter dubitare
dell’autenticità del documento, nel quale si rinviene appuntino descritto tutto ciò che
riguardava la nostra Chiesa di S. Maria le contrade sì in Città, che nel territorio, e molte
altre circostanze, che altri non avrebbe potuto inventare. Oltre a ciò i caratteri gotici,
egualmente usati in altri documenti di quell’epoca (1) le sigle ond’è tutto abbreviato, il
Pontificato, l’Indizione; sono sicuri indizii di origine genuina, e non adulterata. Vero è che
qua e colà appaiono delle aggiunte fatte da altra mano; ma queste a colpo d’occhio si
discernono pel variato carattere, inchiostro e stile: epperò dove ho notato “ex aliena manu”
non vi resta su ciò ombra di dubbio. Come poi sia, che un documento Cornetano ora si
trovi a Montefiascone, non è fatto da recar meraviglia a chiunque per poco conosca le
storie dei codici, delle pergamene, e loro trasmigrazioni avvenute, non già nei secoli di
mezzo, ma sì in questi ultimi tempi, dalla ristorazione delle lettere, insino quasi a’ nostri
giorni. Molto meno dee far maraviglia, che da Corneto una o più pergamene sieno potute
passare a Montefiascone, con cui, per l’unione delle due Sedi sotto un solo e medesimo
Vescovo, durata dal 1435 fino al 1853, erano continue relazioni, e comunicazioni
(1)
V. il Codice membranaceo conservato nell’Archivio Capitolare, f. 30 verso, e nuovamente al f. 32 verso e f. 33
recto.
(1)
V. ill. Codice membranaceo già citato.
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facilissime. Dunque avanti che il benemerito Canonico D. Giovanni Dasti nel 1779
raccogliesse e facesse a sue spese legare in un solo codice le pergamene attinenti al
Capitolo Cattedrale, o in genere al Clero di Corneto, è naturale il supporre, che molte di
esse andassero smarrite, ovvero consunte dalle tignuole “hominum incuria potius, quam
temporum iniuria” come egli stesso ha scritto sul frontespizio del ridetto Codice
membranaceo.
Mi sono pertanto determinato di mandarne alle stampe una copia esattissima, che
n’estrassi da me stesso in Montefiascone; e mi vi sono addotto per amor patrio, per
illustrare sempre meglio un nobile monumento di arte cristiana che possediamo in
Corneto, e finalmente perché le cose qui contenute viapiù confermano le notizie già conte
agli eruditi sul progresso graduale della letteratura e della storia italiana.
E per ciò che si appartiene al tempio di S. Maria, giova osservare dal ben principio,
che la descrizione qui fattane ci dimostra l’esistenza di ben otto altari coi loro quadri,
ovvero scolture, con tovaglie, candelieri, e quanto occorre pel culto. Scoperta invero da non
dispregiare, mentre fino ad ora fu sentenza degli archeologi che il disegno primitivo di
questa Chiesa fosse colla sola tribuna di mezzo, e due altari nelle absidi in fondo alle navi
minori: ritenendosi aggiunti dai Frati Minori Conventuali, posti ad ufficiarvi dal Papa Sisto
V, i numerosi altari che si scorgevano lungo le pareti laterali. Per questa ragione la
Commissione archeologica romana ne ordinò la demolizione; lo dubito che avrebbe fatto,
se avesse letto il documento or rinvenuto. E qui mi si porge il destro di deplorare la perdita
di tanti preziosi monumenti, che a’ dì nostri, non fosse altro che per la rispettabile
antichità, avrebbero certamente un pregio immenso. Qual prezzo avrebbe infatti una
scultura della Madonna, ch’era sull’altare di S. Giovanni, lavorata da un mastro senese (1)
Chi sa quelle pitture in tavola ch’erano sugli altari, non fossero opere del Cimabue, del B.
Angelico, del Giotto? Le variopinte cortine, i tabernacoli ad intagli e dorature, i vasi
d’argento a bassorilievi, ovvero a smalti, i reliquiari in avorio, le pianete ed altri arredi
tessuti a guisa di broccati, o ricamati in figure, fogliami, arabeschi, i codici della S. Bibbia,
gli omiliarii, i messali ad modum antiquum, gli antifonarii, già nel 1383 chiamati
vetera; qual prezzo mai avrebbero a’ tempi nostri, in cui si è risvegliato il culto di tutto ciò
che è antico? e qual tesoro non possederebbe quella Chiesa, ove si fossero conservati? Ma il
compiangerne la perdita a nulla giova; ci basterà il sapere almeno, che tali tesori qui
furono.
(1)
Nella descrizione della Chiesa, sotto il titolo “Res existentes in Altaribus” si legge “In Altari Sancti Iohannis”.
“Unum pannum lane vergatum, unam Tobaliam, super quo Altari est scultura Virginis Marie”. A questo passo il
55
Sappiamo ancora con certezza dalla nostra pergamena, che il titolo dell’altra
Collegiata dei Canonici era di S. Maria e Margherita; il quale titolo fu lasciato intatto
dal Pontefice Eugenio IV allorché la innalzò, ad istanza del Card. Vitelleschi, alla dignità di
Cattedrale, con aggregarle il Capitolo di S. Maria in Castello, per farne un solo corpo
morale. Ciò fu nell’anno 1435, per la Bolla pontificia, che incomincia: “In supremae
Dignitatis” dalla quale stimo utile stralciare le parole che seguono: “Sanctae Mariae et
Margaritae Ecclesiam predictam in Cathedralem Ecclesiam erigimus, eamque Dignitatis
Episcopalis titulo insignimus... Volentes et authoritate apostolica decernentens quod in
eadem erecta Ecclesia, loco Prioris, qui nunc est, Archidiaconus, maior post Pontificalem
Dignitas, cum oneribus et honoribus consuetis, ac eidem annexis per futurum Praesulem
instituatur, ac Prior ipse de cetero in eadem Cathedrali Ecclesia Archidiaconus nominetur.
In altera vero Ecclesia S. Mariae de Castello, sic, ut praefertur, unita Prioratus Dignitas
omnino cesset, cum illum vacare contigerit per cessum vel decessum”.
Ho riferito per disteso queste parole per ritirarne un’altra conseguenza storica; cioè
che la Prepositura, seconda Dignità della Chiesa Cattedrale, non si formò per la
soppressione del Priorato di S. Maria in Castello, come opinava il Ronca; mentre il Papa
Eugenio stabilisce nella sua Bolla tutto ciò che si attiene alla erezione della nuova
Cattedrale, e se avesse voluta la trasformazione del Priorato di Castello in Prepositura, lo
avrebbe espresso, come espressamente sancì, che la prima Dignità nella Chiesa di S. Maria
e Margherita, eretta in Cattedrale si nomasse Arcidiacono. In quella vece del Priorato di
Castello decise, che dovesse cessare, non appena restato fosse vacante. Altra Bolla per la
supposta trasformazione non può allegarsi. Dunque io non la ritengo ammissibile.
Piuttosto inchino a credere che per la soppressione della Chiesa detta di S. Angelo
Barbapinza, mentovata pure nella nostra pergamena (1) , e dell’altra di S. Giovanni
Grisostomo, i beni di quelle due Parrocchie soppresse si riunissero insieme per formarne la
seconda dignità della Cattedrale; ciò deve ritenersi come certo, se è vero quel che trovo
scritto nella Visita Pastorale dell’E.mo Card. Paluzzi-Albertoni, nel 1667, Vescovo di
Corneto e Montefiascone, conservata in questa Cancelleria Episcopale. Dice dunque al f. 18
verso “Erecta fuit huiusmodi Prepositura circa annum 1570 tempore D. Cardinalis Caroli
de Grassis tunc Episcopi mediante suppressione Parrocchialium Ecclesiarum Populo
destitutarum S. Ioannis Chrisostomi, et S. Angeli Barbempinze etc.”. Ad un amante di cose
patrie non riesce pure discaro il leggere in un documento di cinque secoli fa i nomi delle
raffronto, come sembrami non poterne dubitare, si ha nel titolo “In camera dicti Dni Matthei Prioris” dove è detto “Item
unum cassonem, in quo fuit asportata figura Sancte Mariae a Senis”.
(1)
Tra i testimoni presenti alla stipulazione dell’Atto è citato il Rettore di detta Chiesa, per nome Angelo Ceccarelli.
56
diverse contrade del territorio, che tuttora si conservano; e desiderabile sarebbe che mai
non si facessero in tale materia cambiamenti. Troviamo qui, a mo’ di esempio, le contrade
della Fontana nuova, della Castellaccia, del Bagnolo, della Vallegata, della
Ficuncella, della Marcigliana, di S. Pellegrino, delle Fornaci, dell’Acqua buona,
di Monte Ranocchio, ed altre, che si appellano anche ai giorni nostri. Desta poi non
poca curiosità di sapere che in flumine Marte eravi, come v’ha oggidì, un molino, e che
questo molino era fabbricato in domo S. Lituardi (1) . Chi sia questo Santo, fuori di qui
poco si conosce; ma in Corneto egli riscuote un culto di Confessore non Pontefice fino da
tempo immemorabile; e testè la S. Congregazione dei Riti ne confermò l’ufficio e la festa,
pel 12 Luglio, con rito doppio maggiore, come di Santo Comprotettore della nostra Città,
sebbene non si abbiano della vita di lui notizie storiche. La tradizione costante è, ch’egli
fosse nativo di Francia, d’onde partitosi pellegrinando, dicono che fiorisse per molte virtù,
ed anche per miracoli, e che nelle nostre contrade si fermasse; dove poi certamente morì,
avendone Monsignor Bartolomeo Vitelleschi, nel consacrare solennemente la nuova
Cattedrale, volgendo l’anno 1463, racchiuso il corpo in preziosa urna di legno tuttora
conservata, sotto l’altare maggiore (2) . Certo è che nei secoli dopo l’undecimo ebbe qui la
sua Chiesa ufficiata dai Monaci, che si nomarono i Frati di S. Lituardo, come ne fanno fede
e la nostra pergamena, e molte altre ad essa coeve, o di poco distanti... Frattanto dalla
notizia suddetta rilevasi che la casa di S. Lituardo era situata nel luogo, ove fu costruito il
molino da macinar biade, che anche ora sta in piedi e lavora.
Per ciò che si attiene alla storia generale delle cose italiane, dal nostro documento si
riceve una conferma del lento progresso, col quale la madre lingua del Lazio, con i nuovi
elementi sopravvenuti per le frequenti invasioni di barbari, venivasi di mano in mano
trasformando in volgare favella; perocché il linguaggio qui adoperato non è veramente né
tutto latino, né tutto italiano, ma partecipa dell’uno e dell’altro; ritenendo sì l’inflessione
delle declinazioni e coniugazioni latine, ma insieme vestendo una sintassi e un dizionario
quasi interamente italiani, ponendo in campo vocaboli, che in latino certamente non
esistono. A chi legge, la cosa è di per sé evidente. Risulta pure la formazione dei cognomi
italiani, che in gran parte è derivata dai nomi del padre o di altro antenato; così per
esempio, la famiglia Serangeli non è altro che il gruppo dei discendenti da un Messer
Angelo; i Sermattei sono i figli di Ser Matteo; i Vannucci, tra cui il Priore autore
dell’Inventario, sono i nipoti di un Giovanni che con vezzo toscano dicevasi Vannuccio: così
(1)
Così nel titolo “In Prebenda Presb. Blaxii Petri” ed anche nel titolo susseguente.
Lo dice espressamente la lapide commemorativa di quella prima consacrazione, ora nel vestibolo della Chiesa
Cattedrale.
(2)
57
dicasi di altri casati, anche oggidì fiorenti. Che cosa poi significano quelle parole, che ci
attestano, essere state “in camera dicti Domini Matthei Prioris” oltre a varii altri oggetti
“item duas vites et tabulectas aptas ad ligandum libros?” Se non m’inganno, significano che
nella Canonica di S. Maria si studiava, che eranvi dei libri, di cui i Preti o i chierici addetti
alla Chiesa usavano; altrimenti a che il torchio e le tavolette per legare i libri? Se ciò è,
come a me sembra, questo fatto conferma quel che ci narra la storia di tutte le città e le
borgate italiane; cioè che nel medio evo le scienze e le lettere si rifugiarono nei Chiostri dei
Monaci, e nelle Canoniche annesse alle Cattedrali, o alle Collegiate; che in quegli asili di
pace si ammaestravano al sapere, al leggere, allo scrivere i giovanetti, che eranvi affidati
dai genitori; che in tal guisa cresceva quasi un semenzaio di uomini utili alla Chiesa ed alla
società civile; che per tali mezzi giunsero fino a noi le opere immortali dei Padri della
Chiesa, dei filosofi e dei classici, sia greci sia latini; talché alla Chiesa noi dobbiamo, se
nell’universale distruzione cagionata dai barbari, i tesori dello scibile umano non furono
dispersi, ma specialmente in Italia, furono gelosamente serbati, e trasmessi a noi.
L’animo veramente si attrista nel rimirare la desolazione in cui ora è questa gloria
della città nostra, cioè il magnifico tempio di S. Maria in Castello. Di tante ricchezze, di
tanti pregi, che un dì l’arricchirono, nulla più resta, all’infuori delle mura, delle colonne, e
dei marmi poc’anzi descritti. La Canonica è quasi cadente, screpolata, e convertita in usi
ben diversi; la svelta cupola, di cui serbasi in qualche libro il disegno, è caduta; i musaici
dalla fronte esteriore furono barbaramente divelti; silenzio e nudità stanno, ove pria le
laudi al vero Dio echeggiavano, e la pompa spiegavasi del culto cattolico. Non niego che la
cagione principale di tale desolazione fu il terremoto spaventoso che nel 1819 fece rovinare
la cupola, e danneggiò in varie guise il fabbricato, sì, che per molti anni rimase esposto alle
intemperie, ed alle ingiurie degl’ignoranti.
Ma è pur vero, che sotto il Governo
Pontificio, per sovrano decreto di Pio IX, la nostra Chiesa fu annoverata fra i monumenti
pubblici; ed allora il Ministero dei Lavori Pubblici vi spendeva ogni anno delle somme
considerevoli, talché non poca speranza si concepì, che il monumento avesse a racquistare
molto del suo antico splendore. Ora però le cose volsero al peggio, ed a mala pena si può
ottenere, che sia ben conservato quel che rimane.
Siamo dunque lecito di chiudere queste mie osservazioni con un voto, che sono
persuaso essere comune a quanti fra noi amano le patrie memorie, ed a quanti fra gli esteri
vennero fra noi ad ammirarle: sia trattato cioè questo tempio, qual è; come monumento
pubblico, ed almeno sia bene conservato con una manutenzione amorevole e costante. A
tal effetto basterà, se del ricco fiume, il quale in ciascun anno, sgorgando dal pubblico
erario va a fecondare quasi esclusivamente le pianure del Sebeto, almeno un rigagnolo si
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lasci scorrere verso queste piagge tirrene, a mantenere in vita questo ed altri antichi
monumenti, che non sono certamente i meno pregevoli fra le glorie italiane.
G.M. ALDANESI
1882
Le chiese nella città di Corneto
“Nella visita apostolica fatta nel 1583 d’ordine di Gregorio XIII da monsignor
Moscardi, si vede enunciato da detto Prelato che in Corneto erano cinquanta chiese. Ma
poiché di molte ne tace il titolo, mi si rende difficile ora il descriverle, dirò solo di quelle mi
sono pervenute a notizia, parte de’ quali al presente sono demolite et alcune fatte di nuovo
dopo la suddetta visita”.
Così il canonico Muzio Polidori (1619) inizia la sua elencazione delle chiese di
Corneto. Ma occorre, prima di dare inizio alla descrizione sommaria di ciascuna di esse,
premettere qualche considerazione più che di carattere storico, di principio etico-sociale e
religioso per giustificare, in una piccola comunità come quella cornetana, la presenza di un
così elevato numero di chiese che sorgevano a brevissima distanza una dall’altra, quasi a
dimostrazione di un censo o ad emulazione fra terzieri, così come vennero innalzate oltre
una quarantina di torri, al punto da far definire Corneto, in pieno Medio Evo, la città delle
chiese e delle torri. Evidentemente chi si poteva permettere, è il caso di dirlo, il lusso di
edificare “ex aedibus” una torre, poteva essere pure in grado di poter far edificare una
chiesa, per la maggior parte di modestissime dimensioni, a giudicare almeno da quelle
superstiti, come S. Salvatore, S. Angelo del Massaro e S. Giacomo. Altre sicuramente
sorsero per iniziativa o emulazione delle Corporazioni che, oltre a vantare un loro
protettore e un loro statuto (vedi quello degli Ortolani del 1379) avevano bisogno di una
loro chiesa ove esercitare i riti religiosi e civili, inscindibili a quei tempi. E dal momento
che allo stesso Polidori, ricercatore accurato e storico scrupoloso, vennero a mancare
alcune notizie, maggiormente a noi, oggi, quelle sono del tutto sconosciute, per cui ci si
deve affidare, per non cedere alla fantasia, a pratiche considerazioni, a partire dai tempi
ancor prima del 1000 e arrivare ai nostri giorni, servendoci, oltre del citato Polidori, della
raccolta di manoscritti Falzacappa, del “Registrum Cleri” del Guerri, dello Statuto degli
Ortolani e di un fascicolo trovato nell’Archivio Storico Comunale nella cartella “ISTITUTI
ECCLESIASTICI LEGATI E CHIESE” che porta il numero VIII B 4.
59
La notizia più antica che parla della nostra comunità ce la fornisce un documento
dove si scrive di un’abbazia benedettina, situata probabilmente in un territorio lontano e
individuabile sotto la cittadella di Leopoli o Cencelle.
Infatti tale presenza ha pure una sua ragione topografica se si considera che essa
sorgeva a metà strada fra l’Abbazia Farfense (in Sabina) e l’abbazia di S. Salvatore (in
Toscana): un punto mediano, dunque, che serviva a dar ricovero a chi di quei tempi si
avventurava in viaggi di collegamento fra le abbazie estreme; così come, molto più tardi ma
con gli stessi propositi, verso il 1800, sorsero tre altri Conventi passionisti fra il Monte
Argentario (Toscana), la Bandita di S. Pantaleo (Tarquinia) e S. Angelo sul monte Fogliano
(Vetralla): località la nostra che serviva di sosta e di rifugio durante gli spostamenti dei
frati di S. Paolo della Croce e durante i periodi di questua.
Il probabile nome di quel monastero con chiesa annessa era quello di S. Maria di
Mignone “posta - secondo il Polidori - vicino la selva delle Lumiere, che si dicono le
macchie di S. Maria... e fu fabbricata di qua del fiume, confinava con la tenuta della
Tarquinia, goduta dal principe Borghese: ha chiesa antichissima...”.
Il documento comprovante tale presenza è dato dal Registro Farfense, n. 288. Risale
all’801 e parla di Carlo Magno Imperatore il quale rifacendosi alle donazioni dei re
Longobardi Astolfo e Desiderio, circa l’anno 766, conferma la proprietà di S. Maria di
Mignone.
La fervida vita del monastero benedettino di S. Maria di Mignone subì gli assalti dei
Saraceni che, nell’876, assaltarono il Monastero, lo misero a soqquadro, uccidendo tutti i
Monaci. Un successivo documento, il 439 del Registro Farfense, dice che il Vescovo di
Centocelle, Valentino, verso il 940, riconsacrò la chiesa di S. Maria sul fiume Mignone. Di
tale edificio, oggi, non rimane traccia. Le diverse bonifiche nel corso dei secoli ne hanno
disperso le fondamenta.
Dato poi che le numerose chiese cornetane sorgevano non solo all’interno o subito
fuori le mura castellane, ma anche disseminate nell’ampio territorio che constava allora di
oltre 30 mila ettari di superficie; e considerate le difficoltà di comunicazione della gente
dei campi con quella urbana, ecco la spiegazione di tante chiesette di cui son rimasti i nomi
dei Santi titolari nelle diverse zone dell’agro tarquiniese: basta citare S. Benedetto, S.
Lazzaro, S. Pantaleo, S. Savino, eccetera, che son note presentemente come località rurali.
Cercheremo di seguire un ordine di elencazione così come fatto dal canonico
Polidori, a cominciare dalle chiese che, sorte un tempo nel centro urbano e fuori, oggi sono
completamente scomparse o demolite per permettere la ricostruzione della Cattedrale,
arsa interamente nell’anno 1642 “la notte antecedente dell’8 agosto con danno
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notabilissimo”, per ordine del vescovo Gaspare Cecchinelli che non esitò a far abbattere le
chiese più belle per consentire anche l’imbarocchimento delle chiese superstiti e la
costruzione di nuove, secondo il gusto corrente. Infatti il Polipori cita più volte il vescovo
Cecchinelli, apostrofandolo come “il vescovo moderno”.
S. MARIA DELLA PORTA era chiesa filiale della chiesa di S. Maria e Margherita.
Dato che aveva bisogno di essere riparata, il Vescovo nel 1371 concesse indulgenza a tutti
coloro che somministrassero carità e venissero in aiuto con opere personali ai lavori di
restauro.
Il sito non è noto anche se è logico pensare che, essendo filiale della Cattedrale, non
dovesse trovarsi troppo lontano dall’attuale sede del Duomo. Probabilmente, secondo
alcuni, a fianco della prima Porta interna di Castello, nei pressi del Torrione della Contessa
Matilde di Canossa.
S. ROSA era chiesetta posta vicino alla chiesa di S. Fortunato e di contro a S.
Angelo del Massaro, alla quale poi venne unita, a settentrione della città, nel terziere del
Poggio. Il sito poi divenne orticello della casa del curato di S. Martino vecchio. La
cappellania di S. Rosa era di “ius patronato” dei signori Vitelleschi. Le ultime notizie
vengono desunte da una visita pastorale dell’anno 1629.
S. ANGELO DEL MASSARO era posta fra la chiesa di S. Fortunato ed il Palazzo
del Comune. Era chiesa parrocchiale unita successivamente alla chiesa di S. Martino
vecchio. Si può credere che il nome “del Massaro” fosse dato a questa chiesa per essere
stata parrocchia nel periodo in cui, verso il 1300, si soleva dare il titolo di “Massarius” a
quei preti che oggi vengono chiamati parroci o curati; né si deve tener taciuto il fatto che,
nella chiesa cattedrale e in altre della nostra città, abbia eseguito alcuni affreschi un certo
pittore viterbese, detto Antonio del Massaro. Ogni accezione, in tal caso, può essere
considerata se non del tutto valida, almeno credibile. Nel secolo XVII era già abbandonata.
Infatti nella sua visita pastorale il vescovo Gaspare Cecchinelli, nel 1635, la incluse fra le
chiese dirute; mentre il Polipori annota che la chiesa “è hora derelitta e profanata” per il
fatto che, come annota il cardinale Paluzzo Altieri Albertoni, nel 1667, “questa chiesa,
presentemente, è adattata ad uso di granaio”.
Il sito potrebbe essere individuato nell’isolato di via dell’Orfanotrofio con via S.
Pancrazio dove una chiesetta è ora adattata a casa di civile abitazione.
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S. FORTUNATO chiesa parrocchiale di così vago e ricco aspetto che il visitatore
apostolico, mons. Binarini, non esitò a definirla illustre. Era situata verso i dirupi a nord
della città, di contro la Porta Nuova. Venne demolita e con le rovine di essa le monache di
S. Lucia (cioè le Benedettine) fabbricarono e accrebbero il loro Monastero. Si potrebbe
dire, per inciso, che ne è diretta testimonianza il fatto che nel 1959 le Suore Benedettine di
S. Lucia, nel corso di alcuni restauri interni del Convento, rinvennero murato in una stanza
un bellissimo paliotto cosmatesco che fu collocato, successivamente, nell’altare maggiore
della Chiesa di S. Francesco. Ecco perciò la prova di quanto asserito dal visitatore
apostolico Benarini circa la definizione di “chiesa illustre”. Vi stanziarono in epoche remote
i monaci di S. Salvatore del Monte Amiata. Quivi era venerata, fra le altre, la reliquia del
capo di S. Fortunato che venne poi traslata nella Chiesa di S. Pietro del Vescovo, e da qui
alla Cattedrale.
Fin dal 1202 si celebrava in Corneto la solennità di un tal Santo mentre in quel
giorno i tributari della Tolfa Vecchia sborsavano la somma di lire 66 alla città sopraddetta.
Nel 1612 il vescovo Laudivio Zacchia precisò nella sua visita pastorale che il sito
della Chiesa di S. Fortunato era allora ripieno delle proprie vestigia, mentre nel 1635 il
vescovo Gaspare Cecchinelli annoverava fra le chiese dirute quella di S. Fortunato. Infine
nel 1667 il cardinale Paluzzo Altieri Albertoni, nella sua visita pastorale, asserisce che la
predetta chiesa di S. Fortunato era presentemente del tutto demolita, ad eccezione del
campanile che è quella torre probabilmente di cui parla il Polipori nelle sue “Croniche”.
Della chiesa di S. Fortunato prendeva nome anche una delle contrade di Corneto.
S. MARTINO VECCHIO, chiesa parrocchiale, una delle più antiche della città, è
dedicata a S. Martino, vescovo di Tours. Quanto fosse in decadenza questa chiesa,
nonostante l’assimilazione, per decreto del vescovo Bentivoglio, delle chiese di S. Angelo
del Massaro, di S. Egidio, di S. Rosa circa il 1582, se ne deduce dalla visita di mons.
Mascardi nel 1583 allorché scrisse che “in essa li parrocchiani erano circa 140 anime e di
più che alla casa del Parroco, abitandoci il suo padre e un fratello, si vendeva vino con il
segno di pubblica osteria, il che mostra ancora quanto fossero rozzi in quei tempi li
costumi dell’intera città”.
Per un attestato della pubblica devozione, soleva la Magistratura della città offire
ogni anno, nel giorno del Santo titolare della chiesa, una torcia di tre libbre di cera.
Seppure modificata, è l’attuale chiesa di S. Martino.
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S. PIETRO DEL VESCOVO. Nel 17° secolo, il Polidori si rammaricava di vederla
“derelitta e ruinata e senza popolo, posta alli dirupi della città a settentrione fra il sito di S.
Fortunato e la chiesa di S. Egidio. Ed era chiesa parrocchiale. Era chiesa di bell’edifizio che
al presente da persona pia, per riguardo ad un’immagine della Beata Vergine, si principia
ad officiare di nuovo con speranza di risarcimento: et hora la chiesa s’intitula dal volgo
della Madonna del Soldato perché detta persona qui era soldato, cessato di fresco dalla
milizia”. Venne, come altre chiese, ricoperta di stucco nel XVII secolo e recentemente
ripristinata e restaurata per opera del cardinale Sergio Guerri. Le opere in bronzo
all’interno del tempio, sono dello scultore p. Andrea Martini, francescano.
Dalla visita vescovile del cardinale Laudivio Zacchia, nel 1612, appare che questa
chiesa, quantunque bella ed elegante, pure si trovava devastata nell’altare, nelle mura e nei
sepolcri da scavatori di tesori, condotti a questa barbarie dalla lusinga di trovarne in
questo antico tempio.
E’ l’attuale chiesa dell’Annunziata, in via Marcantonio Barbarigo.
S. EGIDIO, era chiesa parrocchiale, ma di poco popolo (sembra che nel 1534 vi
fossero 55 focolari, cioè 55 famiglie) e successivamente affiliata a quella di S. Martino. Era
situata per la strada detta dello “Scorticatore” fra i casamenti dei sigg. Panzani e Mariani,
ai quali ora appartiene, ridotta ad uso di tinaro: mentre dalla parte di tramontana si
vedono ancora nella strada le vestigia degli antichi sepolcri fatti a forma di nicchie e
scavate nel “masso”.
Secondo il Polidori dovette trovarsi a settentrione fra S. Pietro del Vescovo e S.
Salvatore. Fu convento dei Monaci Celestini.
Fin dal 1487, nel giorno della festa, vi si offriva da parte della Magistratura
cornetana un cero di tre libbre.
Nel 1760 dal curato di S. Martino furono vendute alla Confraternita del Suffragio le
campane che già appartennero a S. Egidio, di cui festa si continuava a celebrare in quella di
S. Martino.
La chiesa di S. Egidio aveva la sua Confraternita, detta della Disciplina. Dipendeva
dall’Abbazia di S. Martino de’ Monti di Viterbo e nel 1564, essendo abate il cardinale
Alessandro Farnese, si permutò questa chiesa con l’Abbazia di Grottaferrata, mediante
l’autorità di Pio IV.
S. SALVATORE, similmente alle precedenti, sorgeva sui dirupi a settentrione
della città, fra S. Egidio e S. Giacomo. Il Polipori osserva che sebbene nel 1389 detta chiesa
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concorresse “al pago delle decime imposte dal papa, e per conseguenza possedeva rendite
ecclesiastiche, nondimeno ora è chiesa povera, tanto che non possiede cosa alcuna, ma
vien mantenuta dalla pietà dei devoti”. Ora è completamente abbandonata, anche se
appartiene al Comune.
Negli antichi Statuti si ordinava che dietro la chiesa di S. Salvatore entro Corneto si
dovesse gettare le immondizie, mentre era lecito macellare sui dirupi, dietro le chiese di S.
Egidio e di S. Salvatore.
Nello Statuto degli Ortolani del 1373 si legge, al capitolo XVI, che nella festa
dell’Assunzione doveva fabbricarsi un cero di 30 libbre di pura cera “e senza papiro”.... da
portare nella vigilia di detta festa davanti all’immagine del Salvatore, come era costume, in
processione per la città; dopo di che l’immagine dell’altissimo Salvatore doveva essere
ricondotta nella propria chiesa. Per tale circostanza i rettori e il camerlengo potevano
spendere la somma di XX soldi a favore della compagnia in bere per amore di carità.
Nel 1727 l’Università dei Ferrari e dei Chiavari domandò al Vesvovo di Corneto che
gli fosse concessa in custodia la chiesa del Salvatore per formarvi una congregazione di
questo mestiere con i suoi statuti; così fu concessa dal vescovo di quel tempo, Pompilio
Bonaventura, con il consenso dell’arcidiacono Nicolò Cesarei che ne aveva la cura.
S. GIACOMO APOSTOLO è chiesa situata “alli dirupi della città a tramontana, in
poca distanza dalla chiesa del Salvatore. Era già nel 1291, monasterio delle Monache del
terzo Ordine di S. Francesco; poi vi stanziarono per poco tempo i Frati Minori Conventuali
et hora è Abbazia instituita da Sisto V per il Padre Generale di detto Ordine dei Minori
Conventuali”.
Esisteva ancora alla metà del XVII secolo, allorché venne ridotta a chiesa del
pubblico cimitero mediante un canone di 4 scudi annui che venivano pagati dalla
Comunità al Padre Generale dei Minori Conventuali per acquisto fattone il 1° dicembre
1788.
Il Pontefice Eugenio IV, il 29 dicembre 1445, ordinò alle Suore che sulla porta della
loro abitazione venisse scritta la seguente memoria “Questa casa data alle Suore del Terzo
Ordine di S. Francesco per la salute dell’anima di Gianni di Ser Angelo per commissione
della Santità di N.S. Eugenio IV nell’anno del Signore 1445”.
Da una nota del canonico Sergio Scappini, del 20 febbraio 1841, si legge che “a
seguito di una visita del Vescovo alla Chiesa di S. Giacomo e al Cimitero annesso, venne
ordinato di collocare una tela incerata da porre sulle pietre consacrate; di fare due nuove
sepolture dentro la chiesa, una per le donne e l’altra per i bambini; entrambe dovevano
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avere una doppia pietra; di falciare l’erba dentro il recinto; di costruire sulla sepoltura,
destinata a porvisi gli avanzi dello spurgo dei sepolcri, una piramide con una croce di ferro;
di fare una campana; e di restar ferma la strada che dal Salnitro immette al Cimitero”.
La chiesa di S. Giacomo è stata recentemente restaurata per intervento della
Soprintendenza ai Monumenti del Lazio. E’ nota ancora come “Il Camposanto Vecchio”.
S. ANGELO BARBAINPINZA, così detto da Barbone Pinza, suo fondatore. Era
chiesa parrocchiale, situata precisamente vicino alla chiesa di S. Giacomo, cioè tra questa e
l’altra detta di S. Nicola. Dava nome ad una contrada. Da un testamento di tale Vannunzio
di Guiduccio del 12 maggio 1367, si legge che a seguito di donazione di una casa al clero
cornetano, si doveva procedere all’elezione di un socio per contrada. Vi si legge “pro
terzierio Podii in contrada S. Angeli Barbainpinze” (foglio 31 del Codice Membranaceo
nell’Archivio della Cattedrale). I terzieri, infatti, erano tre: quelli del Poggio, della Valle e di
Castro Novo. Dopo la visita pastorale che mons. Mascardi effettuò nel 1583, la chiesa venne
soppressa a causa delle profanazioni subite. E d’ordine del vescovo Cecchinelli venne
demolita per far sassi che furono venduti ai Frati dei Fatebenefratelli per la costruzione
dell’Ospedale di S. Croce.
S. GIOVANNI CRISOSTOMO o BOCCADORO o DE’ CASTALDI. Era chiesa
parrocchiale, situata a breve distanza da S. Giacomo e confinante con la strada che portava
alla Porta Falsa altrimenti detta del Fiore, per cui si andava con strada coperta a Fontana
Nuova. Era chiesa di bella struttura e fatta demolire d’ordine di monsignor Cecchinelli; e i
sassi venduti al sig. Francesco Fani con dispiacere del popolo che godeva di veder questa
chiesa, anche se diruta, a memoria dell’antichità.
Di detta chiesa si ha memoria fin dall’anno 1291 (codice della Margarita fog. 25) e si
trova nominata anche nell’anno 1368 (codice membranaceo pag. 31). Nel 1587 monsignor
Bentivoglio l’eresse in prepositura.
Nell’anno 1609 in detta chiesa venne rinvenuto il braccio di S. Secondiano dal
preposto Pietro Polipori. Ogni anno, all’ultima domenica dopo la Pentecoste, si faceva una
solenna processione con la reliquia del Santo, passando davanti la casa dei Polidori, oggi
Petrighi (all’inizio di via Antica, dopo l’arco del Palazzo Comunale) sino alla chiesa di S.
Giovanni de’ Castaldi. Il Bandello nelle sue novelle (25ª) cita la chiesa di S. Giovanni
Boccadoro, nome col quale questo tempio veniva pur nomato, e lo cita in tono di
corruzione e come mezzo di ottenere con denaro i propri fini.
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S. NICOLA dovette essere una delle chiese più insigni, dopo S. Maria in Castello,
per il fatto che il Polidori tale da giudica, “rispetto al pavimento lastricato con pietre di
diversi colori et in diverse fogge di ruote, rose e fogliami. Haveva diverse casse sepolcrali di
grand’antichità. Haveva claustro con colonne d’eccellente intaglio e di ordine variato. Vi
stanziavano i Monaci Cistercensi del Monasterio dei SS. Vincenzo e Anastasio. Era chiesa
parrocchiale. Fu rettore di questa chiesa il cardinale Giovanni Vitelleschi”.
Era posta ai dirupi di Corneto, verso ponente, tra la chiesa di S. Spirito e le mura
della città, sopra la Fontana Nuova. Nell’anno 1202 di già esisteva (Margarita fog. 7 e 8) e
se ne trova la prima memoria nella persona di un certo Andrea che ne era il preposto. Si
hanno ulteriori memorie dal Codice Membranaceo del Capitolo della Cattedrale negli anni
1287, 1319 e 1346. I Monaci suddetti vi abitarono fino al 1435 quando detta chiesa, dopo
essere stata eretta sotto il nome di priorato secolare, fu unita alla Mensa Vescovile dal
Pontefice Eugenio IV. Da Bartolomeo Vitelleschi, primo vescovo della Diocesi, nel 1452,
vennero ad essa assegnate l’amministrazione e la cura delle chiese di S. Lorenzo e di S.
Pietro della Canonica. Il Monastero in seguito fu ridotto a Palazzo Vescovile in cui
risiedettero i Vescovi fino all’anno 1579.
Nella prima metà del 1600, stando sempre al Polidori, “la chiesa e il monastero sono
diroccati, rispetto alla poca cura che se n’è tenuta, anzi per l’ingordigia del Vescovo
moderno (Gaspare Cecchinelli) che per cavarne frutto, ha locato alcune stanze che del
Vescovato Antico ancor si conoscevano, alli Salnitrati che, senza alcun riguardo, vi hanno
fabbricato e vi fabbricano salnitro, tanto dentro la chiesa quanto nel claustro et stanze del
Vescovato, in modo tale che hanno riempito d’immondizie la cisterna che era in mezzo al
claustro, la chiesa e tutte le stanze; e per finir di sperdere la memoria di un edificio così
sublime, ha il medesimo Vescovo moderno venduto a far sassi tutto il suddetto edificio et
la chiesa alli Padri del Convento de’ Servi di Maria”.
Nell’antico Statuto di Corneto, al cap. 41 del libro V, si legge che il nome di questa
chiesa è legato al ricordo di una pia signora che, per lascito, aveva obbligato il rettore di S.
Nicola di consegnare ogni anno al Comune, alla vigilia di S. Secondiano, il 7 di agosto, un
toro, il più bello e il più feroce da scegliere negli armenti della città, per dar luogo a uno dei
divertimenti più caratteristici dei Cornetani nel Medio Evo: la giostra del toro.
Dopo la scelta da parte del Rettore, il toro doveva essere legato prima di venire
condotto nella piazza della chiesa, poi nella piazza della Comunità, davanti al Palazzo dei
Priori, per esser legato alla colonna e dar luogo alla giostra. Successivamente lo facevano
condurre a Fontana Nuova per essere legato alla colonna prossima alla Fonte, prima di
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essere assegnato in premio a colui che, tra i corridori a piedi, avesse disputato e
conquistato il palio.
S. BARTOLOMEO era chiesa posta di fronte al Palazzo di Ranuccio Farnese (alla
Ripa), situata fra le chiese di S. Nicola e la prima porta di Castello “Ora - dice il Polidori - è
diroccata da’ fondamenti”. Il beneficio di questa venne unito alla Cattedrale e i sassi di essa
chiesa servirono per la fabbrica del Duomo da rifare dopo l’incendio del 1642.
Probabilmente la collocazione sarebbe da individuare laddove oggi esiste il giardino
sui bastioni in via della Ripa, nei pressi della piccola torre ivi ancora esistente.
Gli antichi Magistrati, nel dì della festa, offrivano annualmente un cero di tre libbre.
S. LORENZO, chiesa contigua alla prima Porta di Castello, cioà fra detta porta e il
torrione, dalla parte verso la città. Una volta unita alla Cattedrale, successivamente venne
ridotta a magazzino o fienile; e nel 1569, nel corso di una visita eseguita dal Vicario, fu
trovata abbandonata, essendosi voluto ordinare che si chiudesse a causa di “aliqua
sporcitia” esistente. Fu venduta d’ordine del Vescovo Cecchinelli a Giovanni Bovi, nel XVII
secolo.
S. MARTINO GIACULATORE, detto anche San Martinello, era situato dietro la
Cattedrale e ad essa successivamente unito. Dice il Polidori che “era di vago edifizio, cioè
fatto in forma quadrata e coperto tutto con una cupola rotonda”. In questa, come già nelle
altre chiese, soleva ottenersi nel giorno della festa un cero di tre libbre da parte del
Magistrato.
Da alcune notizie desunte dallo sfoglio dei brogliacci nell’Archivio di Corneto, si sa
che il 27 febbraio 1477 venne fatto uno istrumento notarile in contrada di S. Martino
Giaculatore: e che il 1478 Caterina Morelli, moglie di Ambrogio da Gaeta, lascia alcune
cose alla chiesa di S. Martinello.
I sassi di questa chiesa servirono a ricostruire la Cattedrale incendiata nel 1642.
L’appellativo “Giaculatore” (che significa in latino lanciatore, fromboliere) non
sarebbe, secondo il Guerri, che una deformazione di “loculatorio”, desunto da un
documento da lui consultato.
S. ANDREA esistette ancor prima del secolo XIII, secondo un istromento notarile
di quietanza rogato a Corneto il 16 ottobre 1291 per i dazi raccolti in contrada S. Andrea
(Margarita fog.22); ed il Magistrato, oltre ad offrire annualmente nella ricorrenza della
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festività, un cero di tre libbre, eleggeva nel mese di dicembre, ogni anno, un constabile ed
un socio per il “terziere della Valle in contrada S. Andrea”.
Era situato fra la Cattedrale e la chiesa di S. Stefano, precisamente vicino ad uno
degli sfogatori (pozzi di sfiato) di Fontana Nuova: aveva la porta verso oriente e l’icone
confinante con detto sfogatore. Venne unita alla Cattedrale ed interamente distrutta,
essendo ridotta ad orto di una casa, appartenente a Giovanni Grassi, nella contrada “la
ficuna”. Ancor oggi infatti nelle adiacenze usasi citare il nome della “Ficonaccia” nei pressi
di via della Cateratta, non lontana dall’ex-chiesa di S. Andrea.
Per pura notizia si dice che uno degli “sfogatori” venne aperto pochi anni fa, durante
alcuni lavori in piazza G. Verdi, davanti all’ex-albergo Borzacchi.
Negli antichi Statuti sin dal 1288, alla rubrica “De Feriis” si ordina riguardarsi la
festività di S. Andrea. Fra i testimoni al testamento di Cola di Ranuccio, stipulato il 19
febbraio 1367, si parla del Rettore di S. Andrea che, nel 1372, era uno dei rettori del Clero
Cornetano. Questa chiesa fu una di quelle che nel 1389 concorse al pagamento delle decime
imposte dal Pontefice.
Dalla visita pastorale del 1612 del Vescovo Zacchia, si precisa il suo decadimento.
Venne poi distrutta dalle fondamenta per ordine del Vescovo Cecchinelli e venduti i sassi.
S. STEFANO, chiesa posta di fronte al Palazzo che principiò Agostino Ghisi (oggi
Palazzo Sacchetti), “hora salara e Magazzini del Comune di Corneto”. Era chiesa
parrocchiale di gran rendita e riceveva dalla Magistratura ogni anno, nel giorno della festa,
un cero di tre libbre.
Qui esistevano le reliquie di S. Pantaleone, trasferite dall’antica chiesa di questo
nome posta nel territorio di Corneto, quindi nella Cattedrale.
Nel 1600 da monsignor Bentivoglio, come risulta dagli atti della sua visita pastorale,
venne unita alla parrocchia di S. Pancrazio.
Nel capitolo “De Feriis” degli antichi Statuti, è annoverato anche Santo Stefano
protomartire e vi si ordina che il giorno della sua festa nessuno doveva lavorare sotto la
pena di 2 carlini.
Il degradamento di questa chiesa risulta sino dal 1539 poiché nella visita pastorale
del 28 settembre, essendone curato Silvestro da Visso, non solo si trovò assente quanto
prete, ma si trovò la chiesa tanto sporca da venir chiamata “tamquam tabernam”.
Dal testamento del signor Francesco Di Domenico Petriangeli si legge che “in questa
chiesa esisteva una cappella dedicata a S. Pantaleone, avendogli lasciato dodici piante di
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olivi posti in contrada Monteranocchio ed un moggio di terra nel territorio della
Tarquinia”.
Si desume quindi che il magazzino del sale, di proprietà comunale, esistito fino a
pochi anni fa davanti al Palazzo Sacchetti e all’inizio di vicolo del Forno, non fosse altro che
il luogo della suddetta chiesa che il Polidori cita essere stata trasformata in salara e
magazzino del Comune.
S. SPIRITO è posta fra S. Stefano e S. Nicola, contigua all’abitazione della casa di
S. Spirito. Questa chiesa non è molto antica perché S. Spirito teneva chiesa con ospedale in
quel luogo che venne ridotto a magazzino, oggi noto come il Palazzetto di S. Spirito, sulla
cui porta è posta una lapide del 1447. La nuova chiesa, in stile barocco, venne edificata nel
1611 dal gran maestro dell’Ordine, Pietro Camporei. L’ordine di S. Spirito, in Corneto, era
di antica residenza, come si deduce da un istromento del 14 giugno 1297, registrato nella
Margarita, dove si dice che Fratel Simone, commendatore dell’Ospedale di S. Spirito in
Sassia, fa quietanza al Comune di Corneto del prezzo di grano venduto.
Era obbligata la casa di S. Spirito, a fianco dell’attuale chiesa in via delle Torri, di
tener la rota per ricevere i proietti (cioè gli illegittimi) da tempo immemorabile: per la
qualcosa tale Casa aveva gran quantità di beni, avuti per elemosina dai nostri progenitori,
per sostenere “l’ospedale e la ruota” così come risulta nel Consiglio celebrato il 26 gennaio
1486. Sul palazzo di via delle Torri, il vano della rota è ancora visibile.
S. PANCRAZIO. Di antica e bella costruzione appare ancora questa chiesa, una
delle più antiche della città di Corneto: da qui i vassalli e i tributari del Comune partivano
processionalmente a portare il tributo e, passando per la piazza, andavano al pubblico
palazzo per consegnarlo ai Magistrati.
La Comunità offriva a questa chiesa un cero di tre libbre, come si rileva da un
documento del 1488.
In questa chiesa esisteva la Corporazione dei Mercanti che si
radunava ogni anno nel giorno di S. Luca: inoltre tutti i fratelli intervenivano alla
processione del Salvatore che si teneva la vigilia dell’Assunta.
Nel 1764, il 4 di aprile, con l’autorizzazione del vescovo Giustiniani, fu eretta in S.
Pancrazio la Confraternita delle Cinque Piaghe, aggregata poi il 25 di maggio alla
Confraternita di S. Lorenzo e Damaso di Roma. Una volta tale Confraternita, nel giorno del
giovedì santo, andava di sera alla visita dei Sepolcri.
La chiesa di S. Pancrazio conserva ancora, in parte, le linee della primitiva
costruzione. Probabilmente per un cedimento, la parte anteriore crollò: ne danno
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testimonianza i due speroni laterali, le due colonne di sostegno al centro della chiesa e il
campanile per la cui costruzione fu necessario abbattere e modificare il superbo portico,
del quale restano alcuni vestigi sulla facciata. La parte del presbiterio invece è rimasta
intatta e rivela la severità e l’arditezza delle linee architettoniche.
I quattro basamenti di colonnati preesistenti al termine del primo piano della
chiesa, rivelano forse la presenza di una costruzione di un tempio pagano.
La chiesa di S. Pancrazio è stata officiata fino all’inizio della prima guerra mondiale:
ora dipende dall’Amministrazione della Curia Vescovile che ne ha permesso l’uso come
Auditorium.
Da un documento del 1479 si legge che donna Lavinia lascia per testamento alla
fabbrica di S. Pancrazio venti scudi e al prete una botte di vino per le messe.
SANTISSIMA TRINITA’ era una delle più antiche chiese di Corneto, posta nella
strada che conduce a Porta Nuova, ossia Porta Farnese, quasi di fronte alla chiesa di S.
Fortunato. Per la festa principale si offriva ogni anno un cero di tre libbre da parte della
Comunità di Corneto.
Vi stavano i Frati Francescani come si vede dalle quietanze dell’elemosine ricevute
dal Comune nel 1291 e nel 1293, registrate nella Margarita. In detta chiesa, nel 1262, fu
stipulato l’istromento notarile fra il Comune e il Conte Giacomo Bisenzi col quale Corneto
concede licenza di edificare i castelli di Montebello, Monte Valerio e Monte Leone, con altri
atti reciproci. Vi fu eretta anche la Confraternita della Trinità che vestiva abito rosso.
Siccome era una piccola chiesuola, la Confraternita, a sue spese, fece edificare altra chiesa
più ampia e alla moderna. La prima chiesa aveva la porta maggiore verso il mare, l’attuale
l’ha verso occidente.
Da un documento del dicembre del 1635, si conosce che la Confraternita doveva
dotare ogni due anni una povera zitella con l’assegnarle 25 scudi di dote e di sovvenire ai
pellegrini che passavano di lì.
La primitiva sede venne abbandonata e ridotta a stalla, secondo quanto risulta dalla
visita pastorale di monsignor Mascardi nel 1583.
S. MARIA NUOVA o della Misericordia, esisteva nella piazza maggiore di Corneto
con facciata semplice di stile gotico, officiata dalla Confraternita della Morte e del
Sacramento che vestiva divisa nera: apparteneva già all’Arte dei Lavoratori della terra.
Poiché tale chiesa rimase desolata, un tale Cesare Gazzi, cittadino facoltoso, fece fabbricare
e ingrandire detta chiesa per lungo, non potendosi per il largo a causa delle strade che
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aveva ai due lati, con lo scopo di introdurvi i Frati di S. Francesco di Paola. Il muratore che
appaltò i lavori, tale Stefano Bartolano, disarmò troppo presto le volte così che la fabbrica
rovinò del tutto. Il Gazzi, disgustato, non curò più quel suo proposito così che la chiesa
restò per molto tempo derelitta. Nel XVII secolo la Confraternita del SS. Sacramento, che
risiedeva nella chiesa di S. Leonardo, decise di riparare la chiesa di S. Maria Nuova.
Nel 1575 la Confraternita del Sacramento e quella del Gonfalone andarono a Roma
per la devozione del giubileo e passando per Barbarano, dove alloggiarono, diedero fuoco
casualmente a molte case i cui danni vennero risarciti dal pubblico di Corneto.
Nell’anno 1584 andarono pure in pellegrinaggio di devozione a Loreto.
Il sito potrebbe ravvisarsi fra i fabbricati esistenti in piazza Trento e Trieste, via S.
Giuseppe e la salita di via M. Garibaldi.
S. GIUSEPPE é chiesa modernamente fabbricata dalla Confraternita della
Compagnia di S. Giuseppe che veste abito turchino, vale a dire la Corporazione dei
Falegnami. Tale confraternita che non aveva chiesa propria per cui stanziava quando a S.
Marco quando a S. Pancrazio, era molto antica, non precedendola che quelle del Gonfalone
e del Sacramento.
Sul principio del secolo XVIII furono eseguiti molti restauri di detta chiesa sotto la
direzione del sig. Giovanni Falzacappa e poi da suo figlio Leonardo, con una spesa di circa
4.900 scudi, raccolti da elemosine.
Il quadro grande raffigurante all’altar maggiore la Madonna con Bambino, S.
Giuseppe e S. Felice cappuccino, è opera del cav. Pietro Cesare Ghezzi e fu pagato 100
scudi; i quattro quadri ovalati rappresentanti l’Angelo Custode, Tobia, Abramo e Agar
furono dipinti nel 1734 dal pittore romano Pietro Belli per 108 scudi; l’affresco nella volta
fu dipinto da Onofrio Avellino nel 1738 per 80 scudi. Il quadro di S. Gregorio è opera di
Matteo Pennaria, fatto nel 1758 per 30 scudi.
S. LEONARDO era chiesa parrocchiale e collegiata, situata in vicinanze delle mura
castellane verso sud-est, fra via S. Giuseppe, S. Leonardo e via Montana: su quest’ultima è
ancora ben visibile una fiancata della chiesa con alcune decorazioni. Fu una delle più
insigni di Corneto e se pure non di bella struttura, tuttavia era una delle più antiche della
città. Ogni anno, per la festività di S. Leonardo, si offriva dalla Magistratura un cero di tre
libbre.
71
Fin dal 1593, per decreto del vescovo Mascardi, essa era stata soppressa perché
profanata; tanto la mensa dell’altare principale quanto delle dei laterali furono trasportate
alla Cattedrale ove esistono nel corridoio che conduce al coro.
Nella visita pastorale del 1583 si precisa che la chiesa di S. Leonardo aveva un
campanile che innalzavasi sopra il tetto, di forma quadrata con cupola superiore e ricca di
tre campane grandi e di una piccola che furono trasportate alla chiesa di S. Giuseppe; così
pure la cura delle anime e la collegiata furono trasferite alla chiesa di S. Giuseppe.
Sulla ultima parte della via di S. Giuseppe al numero civico 27, attraverso un piccolo
arco, si accede nella navata principale della chiesa di S. Leonardo dove è ben visibile
ancora l’altare maggiore e gli archi delle navate.
S. CROCE è chiesa che tuttora esiste in via G. Garibaldi, adattata a sala di
adunanze e proiezioni. A tale tempio è legata ogni notizia riguardante l’Ospedale annesso
che da esso pigliava denominazione. Una notizia fa sapere che nel 1477 tale Pietro Paolo da
Foligno istituisce suo erede l’Ospedale di S. Croce.
Fino all’anno 1488 da parte della Comunità di Corneto si dava a questa chiesa un
cero di tre libbre; mentre negli Statuti il giorno della Croce tanto di maggio che di
settembre, era festivo per cui nessuno dovesse o facesse lavorare.
Vi aveva stanza la Confraternita del Gonfalone.
Qui si eseguiva l’antica istituzione tanto della lavanda dei piedi che si faceva a 12
poveri dopo la provessione del Giovedì Santo, quanto della Cena agli stessi poveri a spese
dei Confratelli: tradizione che tuttora esiste, anche se trasferita altrove.
Nell’anno 1653 il vescovo Cecchinelli battezzò la campana grande di S. Croce e le
pose nome S. Bonaventura, S. Cecilia e S. Leonardo.
La sorte di questa chiesa fu legata all’Ospedale di S. Croce eretto e mantenuto dalla
Comunità, e concesso alla cura dei Confratelli di S. Croce e con la soprintedenza dei
cittadini.
Nel 1586 fu concessa ai Padri di S. Giovanni di Dio, detti altrimenti i Frati
Benefratelli, i quali nel 1590 abbandonarono l’Ospedale per poi ritornare nel 1592 e
rimanervi intinterrottamente fino 1918.
S. CLEMENTE si trovava “sotto l’antica casa dei Vipereschi ed incontro al cimitero
della chiesa di S. Giovanni il cui sito fa oggi parte della casa di correzione ossia
dell’Ergastolo” (complesso comprendente oggi la caserma della Guardia di Finanza, il
Cinema Etrusco, la caserma dei Carabinieri e l’Università Agraria).
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Nel giorno della festa, la Magistratura offriva un cero di tre libbre per la sua
devozione. La chiesa era residenza dei Padri Gerosolomitani, ossia dell’ordine di Malta.
Trovasi nominata in una condonazione d’ingiurie, rogata il giorno 11 gennaio 1305; nella
donazione fatta a favore del Clero Cornetano il 3 novembre 1344 da Anania moglie e
Giovanna, figlia di Accettante di Pietro; e nel testamento di Francesco del Pellegrino,
rogato il 22 maggio 1348.
Dalle più antiche memorie si conosce che a questa chiesa era unito un ospedale a
beneficio dei poveri pellegrini infermi (codice Membranaceo e Margarita) e che la pia
donna Antonia vedova di Menichetti lasciò tutti i suoi beni alla Commenda
Gerosolomitana di Corneto.
Nella visita di monsignor Zacchia del 1612 si dice che la piccola chiesa di S.
Clemente con il suo campanile esisteva presso la chiesa di S. Giovanni. Altrettanta
menzione viene fatta da monsignor Cecchinelli nella sua visita pastorale del 1613.
Ma già la chiesa era in uno stato di deterioramento per cui seguitò la condizione di
decadimento, fino a che nel 1635 il vescovo Cecchinelli la trovò annoverata tra le chiese
dirute e il suo sito incluso nell’orto dell’Ergastolo.
Su via della Salute, in un architrave di una finestra della Caserma della Guardia di
Finanza, si trova ancora la scritta “Viperescus”, a testimonianza di quanto più sopra detto.
S. BIAGIO. Il cardinale Paluzzo Altieri Albertoni è l’unico Vescovo che discorra
delle chiese di S. Biagio e di S. Clemente, l’una distinta dall’altra; mentre i successori
parlano tutti di una unica chiesa sotto il doppio titolo di S. Clemente e S. Biagio. Resta
dunque oscuro se una o due fossero veramente le chiese sopradette e quale ricevesse
l’offerta del cero da parte del Magistrato di Corneto.
Nello Statuto Cornetano che era in piena attività sin dall’anno 1288, si legge nella
rubrica “De Feriis” che le cause civili non dovevano essere celebrate nei giorni dedicati a S.
Biagio e a S. Clemente. Entrambe le chiese furono tassate per il pagamento delle decime
imposte dal Pontefice da istromento rogato il 20 agosto 1389, lasciando il dubbio quale
delle due chiese concorresse a detto pagamento. S’ignora il tempo della sua decadenza e
della sua distruzione.
S. GIOVANNI GEROSOLOMITANO fu già Commenda dei Cavalieri di Malta
con una rendita di circa 600 scudi annui. Era però obbligata questa Commenda a tener
l’Ospedale per i pellegrini infermi. La Comunità di Corneto offriva nel dì della sua festa un
cero di tre libbre e ciò in ogni anno. Questa chiesa è composta di tre navate di cui le due
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laterali sono a volta mentre quella di mezzo un tempo era a tetto: oltre l’altare maggiore, le
cappelle laterali sono dedicate a S. Nicola di Bari, alla Beata Vergine, a S. Gaetano, a S.
Giovanni Battista, a S. Biagio, al SS. Crocifisso e a S. Apollonia, secondo quanto descritto
nella visita fatta nel 1791 dall’Ordine di Malta.
Circa il 1592 questa chiesa rovinò, non restando che le cappelle a sinistra dove si
celebrava: durò in questo stato deplorevole sino al 1609, anno in cui per opera del
proprietario commendatore Pietro Luca Visconti, milanese, uomo molto pio e religioso, fu
riparata ed ornata di nuovo. In quell’epoca il battisterio era nel coro dietro l’altar maggiore,
di forma sferica, di marmo: aveva anche le altre colonne, e di ugual pietra era la statuetta
di S. Giovanni Battista, sovrapposta al sacro fonte. Su desiderio del cardinale Laudivio
Zacchia, vescovo di Corneto, nel 1612 il Battisterio venne rimosso dal coro e portato in una
delle cappelle laterali.
S. LUCIA - dice il Polidori - era residenza delle Monache dell’Ordine di S.
Benedetto che, per prime officiavano la chiesa di S. Giovanni degli Orti, posta fuori
Corneto, dentro al giardino di esse monache. Dopo l’obbligo della clausura che fu al tempo
di Pio V, fu del tutto derelitta detta chiesa, solo vi si faceva festa il giorno del titolo, e durò
per qualche tempo, ma ora è affatto abbandonata e rovinata. Essa era di bell’edificio e vi si
vedono colonne di marmo e di porfido e altre anticaglie”.
Esistono dei documenti nell’archivio pubblico di Corneto dove si parla di episodi e
di istromenti redatti dal 1477 al 1568. Però si ignora il tempo in cui sia stata eretta tale
Chiesa e il Monastero, essendo le antiche memorie perite a causa di un incendio. Infatti il
14 dicembre 1780, essendo stato disgraziatamente versato uno scaldino sull’organo
cominciarono a bruciare le tavole e il giorno seguente, circa le ore 11, si manifestò un
grande incendio che investì tutto il tetto della Chiesa; non si poté estinguere che dopo
replicati sforzi e pericolo. Subito nel 1781 si cominciò a costruire una nuova chiesa
(l’attuale) “di forma più elegante della prima” e terminata nel 1783 con la spesa di 7.000
scudi circa: e fu solennemente benedetta il 19 ottobre di detto anno dal proposto e vicario
generale, Lorenzo Paluzzi. In origine le religiose benedettine officiavano la chiesa di S.
Giovanni dell’Isaro o degli Orti, posta fuori la città, partendosi anche dal loro monastero a
questo effetto, fino al ripristino della clausura.
Il giorno di S. Lucia era prescritto come festivo nelle cause civili per disposizione
degli Statuti di Corneto.
S. MARIA MADDALENA era situata accanto alla Porta che conduce a
Civitavecchia, ossia Porta Romana, nota in antico come Porta Maddalena. Attualmente è
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ridotta ad abitazione e negozio, di proprietà privata. Era chiesa parrocchiale “di contro la
chiesa di S. Lucia”. Quando venne soppressa (probabilmente al tempo in cui la Comunità
decise di allargare la cerchia delle mura castellane per includervi il terziere di Castro
Nuovo, dopo il 1560), la chiesa venne sconsacrata per consentire la costruzione della difesa
della città e la collocazione della Porta Romana con torre adiacente. Da allora i suoi beni
vennero assegnati in parte alle contigue Monache di S. Benedetto e in parte alla parrocchia
di S. Antonio.
La Comunità, nel giorno della festa, offriva un cero di tre libbre e tale costumanza si
mantenne per molti anni. Il cappellano e sua compagnia andava la vigilia di Natale al
Palazzo Comunale, com’era in uso a quei tempi, insieme a tutti gli altri cappellani e ai
Priori.
Negli antichi Statuti, quando si prescrivono i regolamenti per la pulizia della città, si
indicano quei luoghi nei quali debbono essere gettate le immondizie e “deputamus
Monezarium extra Portam S. Mariae Magdalenae”.
Vi era annessa casa parrocchiale e un giardino, come attualmente esistono fra via
Umberto I e via delle Mura.
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S. ANTONIO era chiesa parrocchiale, sita nella piazza Belvedere. La festa era
annoverata fra i giorni festivi che venivano stabiliti negli antichi Statuti di Corneto. La
Comunità, per mezzo della Magistratura sin da tempi assai lontani, offriva nel dì della festa
due torce di tre libbre di cera e molte fiaccole. Nel 1534, stando alla visita pastorale, era
formata la parrocchia di 60 focolari e nel 1583, nella visita del vescovo Mascardi, se ne
accennano soltanto dodici. Si faceva anche notare che tale chiesa aveva attaccati, ad
ambedue le porte, molti ferri di cavalli, così che l’ingresso assomigliava più a quello di una
bottega di fabbro che ad una chiesa. Non bisogna però dimenticare che S. Antonio Abate
era protettore delle bestie e delle stalle. Nel 1705 vi fu trasportata la miracolosa immagine
della Vergine fatta a rilievo, venerata prima nella chiesa detta della Madonna di Mare:
insieme all’immagine si trasferì anche la confraternita degli Umili con alcuni capitoli o
convenzioni che si fecero tra i fratelli di detta Confraternita e il parroco.
Contigua a detta chiesa era la cappella e l’altare della “Disciplina delle Donne”. Nel
1800 il curato di quell’epoca, Filippo Scalzi, “fece colare la piccola campana verso ponente
spendendoci di propria moneta circa 40 scudi”.
LA MADONNA DEL MARE è situata sotto la chiesa di S. Antonio, contigua alle
mura della città, precisamente a lato del fornice esistente che fa comunicare piazza
Belvedere con la Circonvallazione Etruria, oggi ridotta a bottega di falegnameria. Dice il
Polidori che venne edificata dal pubblico su istanza di S. Bernardino da Siena e che la
Madonna sia venuta per mare. “E’ di gran devozione e di molto concorso. Vi stanziava un
eremita per la cura della chiesa”. Successivamente la cura venne affidata al parroco di S.
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Antonio. Nel 1592 fu concessa dal pubblico all’ordine dei Padri Serviti per farne la loro
infermeria. Nel 1779 la chiesa venne ceduta dal curato di S. Antonio alla congregazione
della Disciplina. Sempre in questa chiesa ebbe principio la Confraternita del S. Cuore di
Gesù chiamata volgarmente dei Sacconi a causa del ruvido sacco che portavano i
confratelli, i quali si affidavano anche alla protezione di S. Raniero, nobile pisano, e di S.
Giacinta Marescotti. Soppressa la chiesa, la Confraternita fu trasferita nel 1805 alla chiesa
di S. Antonio. E il locale fu ceduto nel 1824 “ a frutti compensativi al signor Giacomo
Draghi per mezzo di 365 scudi e 17 bajocchi per annuo, pagamento libero da ogni peso in
scudi 15 e bajocchi 50”.
S. MARCO, chiesa di antica struttura e a tetto, vicino alla porta detta della Valle,
con contiguo convento ampio e di sufficiente disegno, appartenuto ai Padri dell’Ordine
Eremitano di S. Agostino. Era questa una di quelle chiese nelle quali la Magistratura di
Corneto offriva nel dì della festa un tributo di varie torce di cera. Nel 1293 (come risulta
dalla Margarita) la Comunità concedette ai Frati Agostiniani la Chiesa, assegnando ancora
per dotazione perpetua annua ben 150 libbre di denari.
Avevano diritto di sepoltura in tale chiesa la famiglia Vipereschi e la famiglia
Mezzopane, una delle più illustri della città il cui monumento funerario oggi si trova
collocato al secondo piano di Palazzo Vitelleschi.
Molti cornetani furono religiosi agostiniani e tutti si distinsero, fra cui il beato
Antonio Ameliani da Corneto che morì nel 1413, e il beato Angelo di S. Agostino che morì
nel 1419.
Negli antichi Statuti della nostra città si ordinava che nella Chiesa di S. Marco si
tenesse una cassetta ove si dovevano riporre i ricorsi contro il Podestà e gli altri Ufficiali di
Corneto. Le tre chiavi che la serravano dovevano esser ritenute una dal Priore della Chiesa,
la seconda dai rettori dell’Arte dei Calzolari e l’ultima dai rettori dell’Arte dei Lavoratori
della terr: inoltre era contemplato che il dì di S. Agostino fosse festivo per le cause civili.
Nel 1587, alla morte del Cardinale D’Angennes, nobile francese della famiglia
Rambouillet, creato Governatore di Corneto da Sisto V, sorse una disputa fra i parroci di S.
Marco e della Cattedrale per dar sepoltura alla salma del cardinale: il quale aveva lasciato
scritto di voler essere sepolto nella chiesa più prossima alla sede del Palazzo Vitelleschi,
sua dimora.
Poiché la distanza delle due chiese era pressoché uguale, il Vescovo superò la
controversia facendola seppellire in un mausoleo nella chiesa di S. Francesco.
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Oggi la chiesa è sconsacrata e adibita a cinema e caffé; mentre tutto il convento
agostiniano, parte è di proprietà privata e parte sede della Scuola Media Statale.
S. FRANCESCO. Non c’era in Corneto Chiesa più grande di quella di S. Francesco
cui è annesso un convento dei Minori Osservanti. Essa aveva, come risulta da due
documenti del 1353 e 1439, (esistenti una volta nell’archivio di S. Croce) una propria
confraternita. Fin dai tempi più antichi la Magistratura di Corneto offriva annualmente,
nel dì della festa, un tributo di cera, come appare sin dal 1487. Era voce, non comprovata,
che adiacentemente a detta chiesa vi fosse un monastero dei Monaci Benedettini. Ma
osservando attentamente le strutture di un lato del chiostro, volto a settentrione, e la
parete esterna sul lato verso la chiesa della Trinità, si vedono assai bene i resti di una
precedente costruzione con delle monofore in entrambi i lati: il che fa supporre l’esistenza
di una preesistente chiesetta. Urbano V, nel 1367, in fuga da Avignone, sbarcò nel porto di
Corneto e alloggiò in S. Francesco ove celebrò messa solenne: e il cardinale legato vi
benedisse il vessillo che fu consegnato ai Cornetani per militare contro gli scismatici e i
seguaci dell’antipapa Clemente VII, nel 1932.
Quanto fosse alta la considerazione di questo tempio, si desume dagli Statuti
Cornetani nei quali si dice “ulla persona proiiciat turpitudinem in platea S. Francisci nec
etiam ponantur in gradibus, seu ante fores Ecclesiae aliquam rem facientem
turpitudinem... et nullus scatulator neque admacellatrix, seu pistator lini incipiat laborare
ante sonum primum Ecclesiae Sancti Francisci...”.
Nel presbiterio è situato il monumento funerario e il busto del cardinale
D’Angennes, di cui abbiamo più sopra parlato.
Sembra che la chiesa venne costruita a seguito di un miracolo effettuato da S.
Francesco a favore di un cornetano.
LA MADONNA DI VALVERDE. Questa chiesa situata vicino a Corneto fuori le
mura, è di un’antichità molto illustre, come si può dedurre da un’iscrizione che si legge
intorno alla campana maggiore “A.D. 1211 - Loteringus, filius Bartolomei Pisani... haec
campana facta est”. In essa si venera tuttora un’immagine bizantina di Maria SS. della
quale non se ne ha alcuna memoria ma che la tradizione vuole esser venuta dal mare. Ne è
testimonianza il fatto che in antico venisse tracciato un solco (divertimento tramandato
dall’Università dei Bifolchi o Aratori) dalla chiesa fino al mare per un percorso di tre
miglia, in memoria della via che percorse l’Immagine quando approdò sul colle di Valverde
in Corneto.
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Nel 1452 il vescovo Bartolomeo Vitelleschi la dette in amministrazione ai vicari
perpetui di S. Fortunato. Fin dal 1494 si trova fra le spese della Comunità di Corneto quello
di offrire una torcia di tre libbre e si trovano pure segnate le spese come il Palio, il suono ed
altro. La corsa in detta festa pare che si facesse per la strada del ponte della Marta.
La festa di S. Maria di Valverde fu stabilita per voto della città sin dal 1483 perché
era stata preservata dal flagello della peste. E il Consiglio stabilì pure il modo con cui dalle
Arti
dei
Bifolchi,
Vaccari
e
Casenghi
si
doveva
contribuire
a
questa
festa,
indipendentemente da quello che dava la Comunità. L’istituzione della Fiera detta di
Valverde è di antica memoria, conoscendosi che fin dal 1436 dal cardinale Giovanni
Vitelleschi fu concesso alla città questo privilegio che allora si stabilì al 20 maggio. Ciò si
faceva con gran concorso di bestiame, fino al 1460: anno in cui il Pontefice Pio II la trasferì
a settembre, dopo l’ottava della Madonna. Questa fiera venne di nuovo ripristinata al mese
di maggio per ordine di Alessandro VI quando il 5 novembre 1493 si trasferì in Corneto: fu
allora che venne introdotto l’uso di esporre le merci per la pubblica strada del Palazzo
Comunale mentre quella del bestiame si faceva al Poggio della Giustizia (oggi il Calvario) e
nell’Oliveto posto sotto la medesima Chiesa.
Nel 1507 Sisto IV concesse all’ordine dei Servi di Maria l’uso della chiesa, il che
suscitò notevoli controversie. Nel 1581 venne rimodernato il campanile e nel 1582 furono
comprate dal Vescovo le campane. Dal 1587 al 1598 venne accresciuto il convento
servendosi dei sassi dell’antica chiesa di S. Benedetto e per fare alcuni restauri alla chiesa.
Il tempio venne completamente restaurato e ammodernato dalla famiglia BruschiFalgari nel XIX secolo.
S. MARIA IN CASTELLO. Questa chiesa era detta per antonomasia “Ecclesia
major cornetana” o semplicemente “Ecclesia Sanctae Mariae”. Venne soppressa il 5
dicembre 1435, da Eugenio IV, unita all’altra collegiata di S. Maria e Margherita che venne
a sua volta eretta in Cattedrale. I vari incendi dei pubblici archivi, tanto ecclesiastici che
secolari, hanno fatto perdere le memorie di questo interessantissimo tempio per la sua
architettura e per i monumenti che ancora conserva. Tuttavia una lapide esistente
all’interno del tempio dice che la chiesa venne iniziata nel 1121 e consacrata nel 1208 con la
presenza di 10 vescovi.
Dopo il 1435 è cominciato il suo decadimento forse perché non aveva più una
collegiata e perché, essendo posta quasi fuori dalla città, gli abitanti avevano cominciato a
ritirarsi dalle antiche abitazioni pei nuovi quartieri.
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Nel 1506 i Padri Carmelitani officiarono per qualche tempo la chiesa per
successivamente abbandonarla. Nel 1569 “era senza il Sacramento, aperta e derelitta”. Nel
1583 il vescovo Bentivoglio l’affidò ai Padri Conventuali. Nel 1809 restò di nuovo
abbandonata per l’espulsione dei Padri suddetti che furono “soggetti a quella generale
proscrizione ordinata da colui che regnava in questa parte d’Italia in luogo del nostro
legittimo Sovrano”. Nel 1814, ristabilito l’ordine, i beni di questa chiesa e la chiesa stessa
vennero uniti al Conservatorio delle Orfane di Corneto.
Il 26 maggio 1819, per violenza di un forte terremoto, cadde la bella cupola la cui
arditezza di costruzione formava uno dei principali ornamenti. Nel 1834, per iniziativa del
Vescovo Velzi e per interessamento del Comune che assegnò 200 scudi, nonché delle altre
Corporazioni religiose che concorsero all’opera, venne ricoperto con tetto il vano lasciato
dalla caduta della cupola.
Per un privilegio accordato a questa antica chiesa, si usava nei giorni di Natale, di
Pasqua di Resurrezione e dell’Assunta, che i Priori liberassero un carcerato o condannato a
pena pecuniaria, sotto alcune riserve.
Dal libro dei Vecchi Statuti (libro 1° cap. 21) si ordinava che ogni anno, nel giorno
dell’Annunziata, dovesse la Magistratura andare a officiare in detta chiesa ed offrire due
ceri.
La ricostruzione della cupola è opera recente e difforme da quella che dovette essere
in origine, secondo alcuni disegni pubblicati nel nostro bollettino dell’anno 1975.
S. MARIA DELLA NEVE, sulla sommità di Monte Ranocchio, era situata,
secondo una notizia desunta dalla visita pastorale del 1667, sotto le mura, nella strada che
da Valverde va verso la chiesa di S. Maria in Castello. Già nel 1573 (visita pastorale del
1573, foglio 54) era chiesa officiata e nel 1612 totalmente ruinata (visita pastorale del 1612,
foglio 945). “Oggi non ci sono vestigia, solo un rimasuglio di muro per essere stati usati i
diversi materiali per la fabbrica di alcune stanze nel convento di Valverde e per la
costruzione dei muri della vigna del capitano Antonio Camilli”. Notizia, questa, tolta da un
manoscritto dell’archivio Falzacappa.
L’immagine della Madonna che fu di questa chiesa, credesi trasferita in S. Giovanni
Gerosolomitano.
Attualmente, su Poggio o Monte Ranocchio esiste una casa di civile abitazione.
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S. PIETRO DELLA CANONICA detta ancora S. Pietro “extra moenia”, cioè fuori
le mura, era chiesa situata fuori di Corneto, sotto la chiesa di S. Maria in Castello, per la
strada che conduceva ai pubblici molini (Visita pastorale del 1667, foglio 56).
In questa chiesa risiedevano i Monaci Benedettini, soggetti all’Abbazia di Farfa, e fu
edificata a cura e spese, nel proprio fondo, da un certo secolare che, in appresso, la cedette
ai Monaci del Monastero dei SS. Cosma e Damiano in Trastevere di Roma. Ciò si raccoglie
da tre documenti in data 1074, 1080 e 1111, esistenti nell’Abbazia Farfense e da un
privilegio di Enrico III Imperatore, a favore del suddetto Monastero di Farfa enunciato nel
1084.
Nella Cronaca Manoscritta di Viterbo, sotto l’anno 1169 si legge che i Viterbesi
fecero scorreria nel territorio cornetano, facendo prigionieri oltre 100 cornetani; e che per
segno di vittoria, levate le porte alla chiesa di S. Pietro della Canonica, le portarono a
Viterbo, collocandole avanti alla chiesa di S. Silvestro.
Nel 1319 vi abitavano ancora i monaci sopradetti e nel 1389 vi era in qualità di
preposto un certo Bernardo, vicario generale di Corneto.
Siccome nel 1573 fu restaurata con le rovine della Chiesa di S. Fortunato per decreto
di Monsignor Binarino Vescovo, giova credere che fin da quel tempo essa fosse
abbandonata dai monaci sopradetti, in quanto da quell’anno la troviamo in potere della
Chiesa Cattedrale dalla quale fu smembrata nel 1435, per volontà di Eugenio IV che la volle
unire alla Mensa Vescovile. Nel 1452 il vescovo Bartolomeo Vitelleschi la dette in
amministrazione e cura al Vicario perpetuo di S. Nicola. Nel 1612 il vescovo Cecchinelli si
disfece della chiesa e del convento, vendendo i sassi al sig. Giovanni Andrea Grassi.
Ogni anno si offriva per la festa di S. Pietro da parte della Comunità di Corneto, una
torcia di tre libbre e due fuochi.
S. ANGELO DE’ PUTEIS o già della Pinca o comunemente S. Michele Arcangelo,
era chiesa antichissima, situata fuori di Corneto sotto i dirupi della città, passata la
Fontana Nuova e vicino alla fontanella del Crognolo che era racchiusa dentro la vigna
dell’Altare del SS. Sacramento della Cattedrale e la vigna contigua dei Padri Minori
Conventuali di S. Maria in Castello (visita vescovile del 1667, foglio 57). Era membro
dell’Abbazia di Farfa secondo la menzione di quattro istromenti rogati negli anni 1011,
1051, 1065 e 1084 (Registri Farfensi n. 636, 855, 980 e 1100). Nel 1389 ancora detta chiesa
esisteva (codice Membranaceo foglio 33) mentre nel 1667 (visita vescovile del 1667 foglio
57) non era rimasto di detta chiesa alcun vestigio. Nella visita fatta dal vescovo Paluzzo
Altieri Albertoni si precisa la località di questa chiesa, dicendosi “S. Angelo della Pinca o
81
de’ Puteis fuori la città è sotto le rupi, dopo la Fontana Nuova, lungo la strada che porta ai
prati della Banditella”.
S. SAVINO era chiesa posta vicino i dirupi dell’antica città di Tarquinia Etrusca, in
un vallone. Dice il Polidori “Detta chiesa che di fabbrica non ha se non la facciata, nel resto
è cavo in forma di caverna o grotta”. Nell’anno 1435 dal papa Eugenio IV detta chiesa e i
terreni adiacenti furono uniti alla Mensa Vescovile di Corneto. Poiché vennero
successivamente occupati dalla Camera Apostolica e dai suoi doganieri, Niccolò IV nel 1451
la rende reintegrata con nuova donazione alla medesima mensa (Margarita pag. 196).
Nell’anno 1573 esisteva ancora, atteso che la troviamo nella visita pastorale di detto anno,
bisognosa di alcuni riattamenti ed in potere della Chiesa Cattedrale. Nel 1582 monsignor
Bentivoglio la donò con i rispettivi beni alla Camera sopradescritta, secondo il breve di
Gregorio XIII nella Cancelleria Vescovile di Montefiascone. Oggi non è rimasto come
ricordo che il nome della contrada e dell’omonimo fosso.
S. RESTITUTA era chiesa distante da Corneto e situata nel territorio ai dirupi
della distrutta città di Tarquinia etrusca e per la strada che conduce a Monteromano. Verso
tal terra si vedeva la detta chiesa notevolmente inclinata (visita vescovile del 1667, foglio
58). La sua struttura era a guisa di caverna per cui ancora era chiamata la grotta di S.
Restituta: il che, nonostante la rovina, stava a dimostrare che era servita a uso di Chiesa. Di
tale chiesa non esiste una più precisa indicazione.
S. SPIRITO era secondo il Polidori, “chiesa da pochi anni in qua fabbricata nella
tenuta di Monteromano, posta ai confini fra la Diocesi di Viterbo e quella di Corneto; anzi
sta nella diocesi di Viterbo, perché da quel vescovo è visitata con tutto che l’Hostiaria ed
altra fabbrica sia nella diocesi di Corneto.
S. PANTALEONE era situato nel territorio di Corneto nel mezzo della selva che
porta ancora il nome di S. Pantaleo. Quivi si trasferiva processionalmente a solennizzare da
di lui memoria il Capitolo, al quale il Comune somministrava pranzo e rinfreschi. Sebbene
la decadenza della chiesa fosse molto antica, però la troviamo ancora esistente nel 1704. Le
ceneri di S. Pantaleo vennero trasferite in Cattedrale mentre presso il monastero di S.
Lucia esiste un architrave di marmo con su scolpito il nome di S. Pantaleo.
Oggi nella zona esiste un’altra chiesa sconsacrata detta del Ritiro, fatta costruire
dalla Comunità di Corneto nel 1769 a favore dei Padri Passionisti di S. Paolo della Croce,
82
con annesso convento, per l’assistenza religiosa ai carbonari e alle famiglie dei pastori che
dimoravano nella zona. I Padri Passionisti abbandonarono la chiesa e il convento nel 1911.
Attualmente è la sede di uno studio e di un’abitazione del pittore Sebastian Matta.
S. LAZZARO era chiesa sita nel territorio di Corneto al principio della Bandita di
S. Pantaleo. Fino al 1800 esistevano rimasugli di ruderi nella salita che, dopo la piana del
Marta conduce a Montalto di Castro, oggi nota come “Costa di S. Lazzaro”; Pietro
Falzacappa asserisce che era “circa 150 canne dal muro sulla dritta, oggi De Santis”. Nel
1452 necessitava già di qualche rifacimento quando un cavaliere napoletano, venuto a
Corneto, decise di riattarla offrendo una somma di 50 ducati d’oro a condizione che la
Comunità impiegasse altrettanto denaro per costruirvi un ospedale per i cagionevoli del
male volgarmente chiamato di S. Lazzaro, ossia la lebbra, sotto la giurisdizione del governo
di un cornetano. Ma al dubbio che simile presenza potesse in seguito cagionare infezione
presso le persone sane della città, la proposta venne rigettata ed esclusa.
I cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro pretesero nel 1605 che la Bandita di S.
Pantaleo appartenesse a loro e che per questo venisse chiamata la selva di S. Lazzaro. Ma
ogni loro pretesa fu vana.
S. LITUARDO. Vicino al ponte sul fiume Marta, verso mare, in quel sito
precisamente che nel 1687 veniva chiamato la “Cannara” era posta questa chiesa, con
annesso monastero degli Eremiti di S. Guglielmo d’Aquitania, fondato dal medesimo santo
allorquando, ritornato dalla visita di tutti i luoghi abitati da S. Agostino, si stabilì nella città
di Corneto. Ed avendo visitato il romitorio della Trinità nelle macchie di Allumiere e il sito
ove avvenne il miracolo della fontanella posta vicino al Porto di Bertaldo, prima chiamato
di Giano, sostò in Corneto, fondandovi il convento. Ciò si legge in un documento pubblico
del 1310 che comprova l’esistenza di questo convento (La Margarita fogli 119 e 120). Da un
decreto emanato nel 15 luglio 1340 da monsignor Tignosi si componevano le controversie
sorte fra il Priore e il Capitolo di S. Maria e Margherita da una parte e il fu Matteo di
Pellegrino dall’altra, giudice per motivo delle solite refezioni che venivano offerte allo
stesso Capitolo dagli enunciati Amministratori, quando, con la testa del Santo, si
trasferivano processionalmente alla stessa Chiesa per ivi solennizzare con Vescovi e con
Messe la ricorrenza della memoria: la quale in seguito si continuò a festeggiare in
Cattedrale con l’offerta da parte della Comunità di un cero di tre libbre: mentre a parte si
stabiliva la corsa dell’anello nella piazza del Magistrato con il premio al vincitore di 24
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bolognini. Sotto Eugenio IV la chiesa di S. Lituardo con i suoi vari beni, venne unita alla
Mensa Vescovile di Corneto.
S. BENEDETTO - dice il Polidori - chiesa ora demolita. Stimo fosse monastero dei
Monaci di S. Benedetto. Era situata in capo alla salita e selciata del Ponte della Marta.
Adesso detto sito è racchiuso dentro la vigna che ora è di Giovanni Francesco Lucidi alias
Gagliardozzo. Vi si riconoscono pochi vestigi di fondamento ed alcune reliquie di marmi e
pezzi di colonne di porfido. Ancora è in piedi una torretta che stimo fosse il campanile.
Quella contrada ancor si dice di S. Benedetto, distante dalla città poco meno di un quarto
di miglio”.
Ciò viene affermato da un pubblico documento del 1374 nel codice membranaceo
dell’Archivio del Capitolo.
LA MADONNA DELL’OLIVO è chiesa tuttora esistente fuori della città, sulla
strada che viene ancor oggi detta “Il Piano”, vicino ai giardini o agli orti di Bruschi, prima
della Gabelletta. In detta chiesa era solito dimorare un eremita. Era posta sotto la cura
dell’Arte dei Giardinieri e degli Ortolani, vi si celebrava la festa nel secondo giorno dopo la
Pentecoste.
S. GIOVANNI DEGLI ORTI o dell’Isaro era posta dentro il giardino delle
monache di S. Lucia dell’Ordine di S. Benedetto. Se ne ha notizia fin dall’anno 1192, per
essere stata tassata nel libro dei censi della Chiesa Romana ad un pagamento di cinque
soldi, (visita vescovile del 1573, foglio 39). Al tempo del Polipori era quasi del tutto
demolita, riconoscendosi solo il portico e poca fabbrica “con alcune colonne di marmo e di
porfido atterrate”. Nella sua principale festa la Comunità di Corneto faceva l’offerta ogni
anno di una torcia di tre libbre di cera. La presumibile località potrebbe essere individuata
nella zona detta la Gabelletta, nella costruzione attorno al lavatore tuttora esistente.
Di tale chiesa esistono alcuni acquerelli eseguiti nell’anno 1784 trovati in un archivio
privato della nostra città.
S. PELLEGRINO era situata nel territorio di Corneto “in quel pezzo di terra scrive il Falzacappa - che si vede tra la Chiesa Tartaglia e la vigna Falgari, di proprietà della
Commenda di S. Giovanni Gerosolomitano”. La località oggi è individuabile sulla destra
della strada che va verso la stazione ferroviaria ove esistono ancora le denominazioni di S.
Pellegrino e di Tartaglia. Secondo il Polidori il sito “è individuabile nel posto di terra che
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isolato si vede fra la vigna del sig. Giovanni Andrea Grassi e quella del Ridolfi, e la
medesima terra che è goduta dai sig. Cavalieri di Malta, dai quali anche è posseduta detta
Chiesa”.
Più tardi gli stessi Cavalieri di Malta concessero allo stesso Giovanni Andrea Grassi
concessero allo stesso Giovanni Andrea Grassi di far sassi per costruire un muro nella
propria vigna. Si sa però che nello scavare alcuni fondamenti furono rinvenute alcune casse
sepolcrali di nenfro, parte delle quali furono rotte e parte nuovamente sotterrate. Era
membro del monastero di S. Maria del Mignone, subordinata all’Abbazia di Farfa.
S. ANASTASIO. Rimaneva questa chiesa nel territorio di Corneto, precisamente in
quel terreno dove stava la vigna del Capitano Ridolfo Ridolfi, poco distante dalla
precedente di S. Pellegrino, lungo la strada della stazione ferroviaria. Nell’eseguire alcuni
scavi al tempo del Polidori, furono rinvenuti diversi marmi con epitaffi ed iscrizioni di
defunti. Anche S. Anastasio era membro del
Monastero di S. Maria di Mignone,
subordinato all’Abbazia di Farfa, come testimonia un pubblico documento del 1017
(Registro Farfense n. 538).
Dalla visita vescovile di monsignor Paluzio Altieri Albertoni del 1667, si dice che non
c’era più traccia.
S. SECONDIANO. Il Polidori scrive che “era chiesa vicino al mare per la strada
che da Corneto si va alla marina dove si vede una terra che è chiamata S. Secondiano ed
anche Torre degli Appestati, avendo acquistato tal nome perché vi furono racchiusi alcuni
sospetti di simil male. Di tal chiesa non si vede altro vestigio che la torre che forse era il
campanile”. Il Falzacappa dà una descrizione diametralmente opposta in quanto da “una
cessione di terra fatta da Ser Antonio Pucciarelli al Clero Cornetano nel 1396, si legge
“Lascio al Clero Cornetano un pezzo di terra posta nella contrada di S. Secondiano o
Pantano “juxta Pantanum et juxta Magnattarum, litus maris...” (Codice Membranaceo
foglio 111). Anzio io stesso ho veduto in alcune piante antiche del nostro territorio, indicata
una torre sotto la stessa denominazione di S. Secondiano, tra la chiesa di S. Matteo e l’altra
di S. Giorgio”.
Negli Statuti Cornetani, al capitolo 86 del 1° libro, si legge che per la festa di S.
Secondiano non si desse luogo a cause penali.
S. GIORGIO. Dice il Polidori - “si ritrova la memoria che S. Giorgio era un
eremitaggio”. Dato però che in una zona verso il mare, sulla strada consorziale verso
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Civitavecchia, esiste una tenuta conosciuta ancora come di S. Giorgio, si deve considerare
che in questo sito fosse stata posta questa chiesa che nel 1667 (visita vescovile del 1667,
foglio 58) era interamente distrutta.
Scrive il Falzacappa che “questa chiesa esistesse nell’altra parte del territorio vicino
al fiume Marta che anche oggi porta il nome di S. Giorgio. I suoi beni furono tra quelli che
Eugenio IV unì alla Mensa Vescovile di Corneto”.
S. MATTEO. Questa chiesa era situata nel territorio di Corneto in quella pianura
che ancora si dice il piano di S. Matteo, forse per la chiesa dedicata a questo santo. Nel
1389 (codice Membranaceo foglio 24) essa esisteva; ma nel 1667 (visita vescovile del 1667)
della medesima non vi era che un rimasuglio di torre - che secondo il Falzacappa - “in detta
pianura attualmente si vede e che si chiama ancora la torre di S. Matteo”.
S. AGOSTINO. Scrive il Polidori “E’ chiesa vicino al Porto di Bertaldo che
anticamente era detta Porto di Giano. E’ chiesa fabbricata appunto dove occorse il
miracolo del putto veduto da S. Agostino che s’ingegnava vuotare il mare in una piccola
fossa che sgorga di continuo acqua dolce. In questa chiesa risiede un eremita che vi deputa
il Convento di S. Marco della Religione Agostiniana”.
Il Falzacappa, al riguardo, aggiunge che “essa venne edificata a proprie spese da un
certo F. Paraclito da Corneto, agostiniano, circa l’anno 1642” nel luogo del presunto
miracolo. Di tale avvenimento ne danno notizia S. Vincenzo Ferreri nel 3° sermone De
Trinitate, il papa Pio II in sua Cronica, il Biondo, Pietro Natali in “Vita S. Augustini”, e
Battista Mantoano dell’Ordine del Carmine in “8°libro dierum sacrorum mensis Augusti”.
Ne fa anche fede un’iscrizione trovata verso il 1600 in alcune rovine vicino alla Torre o
Porto di Bertaldo (nota vescovile del 1667 foglio 174).
Nella storia di Civitavecchia del marchese Antigono Frangipane si legge, in rapporto
alla fossa sopradetta, che “S. Agostino restato in Italia all’incirca il 431, si era trattenuto ad
abitare coi Monaci nell’Etruria a Centocelle”.
Nella visita del cardinale Garampi nel 1786 si scrive che per vetustà e per colpa del
materiale usato per la sua costruzione o a causa dell’intemperie dell’aria marina, la chiesa
era squallida e fatiscente (visita vescovile del 1676, pag. 5).
S. MARTINO DI RIPALMA era chiesa sita nel territorio vicino al fiume Mignone,
nel medesimo luogo noto col nome di Muriccioli (visita vescovile del 1667, pag. 58). Detta
chiesa venne donata al Monastero di Farfa da un certo D. Ranieri di Domenico nell’anno
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1046 (Registro Farfense n. 1187) mentre se ne fa menzione in due pubblici documenti del
1288 (codice Margarita foglio 66). “Di tale chiesa - dice il Polipori - non ho altra memoria
che solo la trovo enunciata negli Istromenti della vendita della Pesca del fiume Mignone,
registrati nella Margarita foglio 66 e stipolati nel 1288”.
Nella visita vescovile del 1667, era interamente distrutta.
S. MARIA DELLA REDENZIONE DE’ SCHIAVI detta anche della Madonna
del Riscatto, era chiesa fabbricata dal sig. Francesco Fani al di là del fiume Mignone “del
quale fu mormorato che tal devozione fosse coperta di mercato, vendendo le grazie e favori
col patto di far elemosina a detta Chiesa”. (Croniche del Polidori). Vi si faceva la festa il
giorno della Domenica in Albis col concorso dei confinanti e affluenza di viandanti e
contadini. Il sig. Francesco Fani invitava anche personaggi di Roma, facendovi lauto
banchetto in onore degli invitati alla suddetta festa. Da un manoscritto esistente
nell’Archivio Storico del Comune si legge che la chiesa era anche intitolata al nome di S.
Francesco di Assisi. Era situata nel preciso luogo dove esiste la Mola di Mignone, eretta dal
sig. Francesco Fani e di sua pertinenza, nel 1663. La Casa Fani vi manteneva il Cappellano
per confessare e amministrare i Sacramenti ai pastori, pescatori e simili altre genti che
dimoravano per quelle Campagne. Gregorio XIII nel 1579 concesse a Latino Orsini la
facoltà di erigere la mola, ceduta susseguentemente da detto Latino Orsini al fu Mario Fani
e posseduta in seguito dalla Reverenda Casa Soderini.
S. MARIA DI MIGNONE, di cui abbiamo dato qualche cenno nella prefazione a
detto scritto, era chiesa posta vicino alle selve di Allumiere, nel territorio cornetano, al di
qual del fiume Mignone. Era chiesa antichissima dato che se ne fa
menzione in un
pubblico documento del 766 (Registro Farfense n. 68). Confinava con la tenuta della
Tarquinia, goduta dal Principe Borghese. Sia la chiesa che il monastero annesso erano
subordinati all’Abbazia di Farfa dal tempo di Desiderio, re dei Longobardi, come si deduce
da un privilegio di Carlo Magno Imperatore dell’anno 801 e riportato nel Registro Farfense
n. 288. Alla chiesa di S. Maria di Mignone erano unite quelle di S. Pellegrino, S. Anastasio,
S. Pietro e di S. Angelo, come risulta da un diploma di Sergio IV e da un istrumento
registrato nel Registro Farfense n. 558 dove l’Imperatore Enrico I fa menzione della chiesa
di S. Maria di Mignone; da un altro privilegio dell’anno 1027, datato 25 febbraio, in cui
l’Imperatore Corrado parla di questa chiesa (Registro Farfense n. 707); da un altro
privilegio di Enrico II Imperatore nel 1050, datato 27 febbraio (registro Farfense n. 986 e
1100) ove si fa particolare menzione di questa chiesa; e da molti altri privilegi.
87
Quando partissero i Monaci non si ha notizia, solo che al tempo di Polidori era
abbandonata e diroccata, mentre non vi si riconoscevano altri resti che pochi muri. Si sa
solo che Eugenio IV nel 1435 assegnò le macchie di S. Maria di Mignone con tutti gli altri
beni alla Mensa Vescovile di Corneto.
Afferma ancora il Polidori che di detta chiesa si conosceva una pittura che
rappresentava l’Angelo che consegna all’eremita Sansone uno stendardo.
S. SEVERELLA o S. SEVERA era chiesa al di là del fiume Mignone prossima al
Castello demolito che si chiamava Cencelle: congiunto a questa chiesa vi era il Molino di
Allumiere. Apparteneva al territorio e alla diocesi di Corneto. Si dice che venisse edificata
con le rovine della città di Centocelle o Leopoli. Nel 1257 già esisteva. Col permesso
dell’archidiacono vi si dava sepoltura ai lavoratori dei molini a grano, contigui a detta
chiesa, e a qualsiasi altro defunto. Da parte di un cappellano, in vece dello stesso
archidiacono, da mantenere a spese degli affittuari delle macchie di Allumiere, si
somministravano i Sacramenti ai custodi dei suddetti molini.
S. TRINITA’, chiesa posta nelle selve di Allumiere, vicino alla città di Leone IV,
detta anche Leopoli, più comunemente Centocelle, presso la chiesa di S. Severella. La
chiesa e il suo rispettivo monastero sono senza alcun dubbio il primo convento e la prima
chiesa che Sant’Agostino edificasse per i religiosi del suo ordine, da poco istituito: del qual
convento nel 1274 era priore un certo Padre Simone da Corneto, definitore nel Capitolo
provinciale della città. Dice il Polidori che in questo romitorio avesse dimorato S. Agostino,
dottore di S. Chiesa. Col passare dei secoli il romitorio si ridusse a un conventino di frati
che, nel 1653, d’ordine di Innocenzo X, per una lettera della Sacra Congregazione di cui era
Segretario monsignor Fagnani, venne soppresso e sottoposto alla giurisdizione del vescovo
di Corneto. Nel 1660 nacque controversia fra il vescovo di Sutri e quello di Corneto intorno
ai confini della Diocesi, pretendendo il primo che l’una e l’altro venissero inclusi nella
propria giurisdizione. Ma il vescovo di Corneto ha sempre mantenuto il suo esercizio di
competenza.
In località Farnesiana esiste tuttora il convento, con a fianco una selva entro cui
scorre il fosso della Melledra, con avanzi di antiche mura e costruzioni, con alcuni
rifacimenti più moderni; mentre su di una spianata s’erge una grossa chiesa, in stile gotico
fiammeggiante, sulla cui autenticità esistono pareri discordi.
88
LA VERGINE DEL SOCCORSO era un’altra chiesetta ed oratorio, posta vicino
alla precedente chiesa della Trinità, dove seguitarono a dimorare alcuni eremiti fino asl
1613, anno in cui il pontefice Innocenzo X ne soppresse la Congregazione, unitamente agli
altri piccoli conventini del medesimo ordine.
S. GIORGIO era chiesa posta nella contrada che si dice della Valle dell’Inferno.
Dice il Polidori che se ne vedeva ai suoi tempi qualche vestigio di poca consistenza, ma oggi
è del tutto demolita. E’ quella chiesa che dal volgo si dice S. Bigonio o S. Gorgonio. Detta
chiesa nel 1667 era già in rovina (visita vescovile del 1667 era già in rovina (visita vescovile
del 1667 pag. 580).
Il codice del Valesio dava per equivoco a questa chiesa il nome di San Gregorio.
S. MACARIO. Chiesa posta nella contrada detta di Boligname che anticamente si
diceva anche la contrada di Volugnano e di S. Macario. Era chiesa membro del Monastero
e Abbazia di S. Martino dei Monti di Viterbo, dell’ordine dei Cistercensi.
S. MARIA CONSOLATRICE RECANATENSE situata sulla strada nominata del
Piano, annessa alla vigna di Casa Falzacappa, venne eretta con l’autorità di Clemente XIV
ed aperta e benedetta il 4 maggio 1772. Vi è annesso un piccolo convento. Esiste tuttora,
sebbene sconsacrata e abbandonata, davanti a villa Bruschi-Falgari, nel terreno adibito a
Centro Idroponico. Il nome di Recanatense potrebbe derivare da un duplice fatto: o che vi
fosse venerata un’immagine della Vergine, venerata nella città di Recanati, oppure che
fosse stata fatta edificare da qualche persona pia, originaria di Recanati.
Sulla facciata esiste tuttora una finestra con grata da cui probabilmente i monaci,
che l’officiavano, offrivano qualche sostegno in viveri ai viandanti che transitavano sulla
strada Aurelia.
LA MADONNA DEL GIGLIO. Titolo di chiesa nel territorio cornetano, secondo
un documento manoscritto nell’Archivio Storico del Comune tal titolo “Chiese nel
territorio di Corneto attualmente esistenti”. Si trovava per la strada della Stazione
Ferroviaria nel sito noto ancora col nome del “Giglio”. Era aderente alla vigna dei sigg.
Callimaci, poi della Casa Petrighi, la quale nel 1667 era già nel suo essere. La località
trovasi oggi nei pressi del cavalcavia sulla strada provinciale con la statale Aurelia. Era
dedicata all’Ascensione, giorno in cui si celebrava la festività. Nella visita vescovile del 1769
è notata come chiesa diruta.
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S. FERMA era chiesa situata nel territorio cornetano, vicino al Porto Clementino,
eretta dalla Reverenda Camera Apostolica per comodo e vantaggio dei navigatori,
pescatori, forzati e loro guardie, addetti alla lavorazione delle Saline: al quale effetto era
ritenuto stipendiato un cappellano con l’obbligo di celebrare la S. Messa in ogni giorno
festivo, ascoltare le confessioni e amministrare i Sacramenti.
MADONNA DEL CALVARIO. Vicino alla Porta Clementina, prossima ai dirupi
dalla parte della Banditella, esisteva la chiesa predetta della Madonna del Calvario o delle
Croci: nessuna notizia si ha circa la sua edificazione. Si componeva però di una piccola
chiesa con sacrestia e piccolo campanile, con due stanzette, una superiore all’altra ad uso
di eremo. Gli Osti, i Bettolieri e altri venditori di vino vi tenevano un eremita e lo
mantenevano con le elemosine che il loro Camerlengo estraeva mensilmente dalle cassette
situate in ogni bettola a tale scopo. Vi si diceva Messa tutte le feste; e negli ultimi venerdì
di marzo vi si celebrava la festa. Nel 1741 dal Beato Leonardo da Porto Maurizio, che vi
faceva le missioni, furono piantate le ultime tre croci delle Stazioni della Via Crucis che
principiando da Porta Maddalena (Porta Romana) quivi avevano termine per un totale di
quattordici, alle quali concorreva il popolo per lucrare delle indulgenze nell’esercizio di
meditare la Passione di N.S. Gesù Cristo.
Secondo il Falzacappa qualche cognizione risale all’anno 1706 allorché venne
edificata nel luogo detto Poggio della Giustizia. Venne concessa all’Università degli Osti da
monsignor Bonaventura, mentre ad officiarla vennero incaricati i Padri Minori Osservanti
della vicina chiesa di S. Francesco.
Oggi la chiesa è completamente scomparsa: solo rimane il nome di Calvario ad una
località di fronte a Villa Tarantola, e quello delle Croci alla strada che dal Piazzale Europa
conduce a Via Ripagretta, verso la Clementina. Venne in seguito distrutta per ordine del
Comandante delle truppe francesi, sig. Comuneau, che presidiando Corneto temeva
potesse servire di appoggio agli insorti che assediavano la città dall’esterno. Il quadro
dell’unico altare venne trasferito a S. Croce, e rappresentava la Madonna Addolorata con il
Cristo morto sulle sue ginocchia.
Con un breve di Pio VI del 18 marzo 1775 si concedevano molte indulgenze nei
venerdì di marzo di passione e per l’esaltazione della Croce.
LA MADONNA DELLE CARCERI, piccola cappella fuori della Porta Maddalena,
sopra alla cosiddetta Grotta degli Zingari, lungo la strada della Gabelletta. Era situata sulla
90
roccia, nel fondo dell’attuale via Tarquinio il Superbo, sulla sinistra. Esistevano i muri
perimetrali fino a pochi anni fa, prima ancora che si desse inizio alla lottizzazione di quello
che era noto come il giardino di Mastai sul fianco destro di viale L. Dasti. Era di “jus
patronato” del sig. Agapito Aldanesi, concessagli il 13 aprile 1819. Spettava prima ancora al
tenente Fabrizio Ratti e come tale venne visitata dal vescovo Garampi nella visita pastorale
del 1779 (visita vescovile 1779, pag. 15).
CHIESA DELL’ADDOLORATA O CHIESUOLA. Venne aperta al culto il 21
novembre 1746, avendone i Padri Serviti ottenuta l’approvazione il 3 dicembre 1745 dalla
Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, che permisero loro di abitare sempre in
Corneto. Ma sotto il pontificato di Pio VII, dalla stessa Congregazione, con decreto dell’8
marzo 1780, fu loro ingiunto di abitarvi la sola estate, dovendo nell’inverno abitare
nell’antica Chiesa di Valverde. Essa è posta sulla piazza Trento e Trieste con annesso
convento, oggi in uso all’Asilo Infantile “Margherita di Savoia”.
CHIESA DEL SUFFRAGIO sorge sulla piazza maggiore della città, dedicata alla
Madonna del Suffragio ed officiata dalla Confraternita omonima. Per la costruzione si
ebbero parecchi contrasti: il primo fondatore fu il tenente Fabrizio Ratti il quale, col
permesso del proprio fratello Stefano, fece dono di alcune case dirute di loro pertinenza,
situate nella piazza dentro i limiti della parrocchia di S. Pancrazio. Accettata a pieni voti
tale donazione da parte della Confraternita, si dette inizio alla fabbrica. L’incombenza alla
somma vigilanza venne affidata al primo primicerio Leonardo Falzacappa il quale,
esaminato con somma prudenza il sito, lo ritrovò angusto se non vi si aggiungevano altri
luoghi adiacenti. Questi vennero donati mentre altri vennero acquistati dallo stesso
Falzacappa.
Si diede inizio alla costruzione con solenne processione dei Confratelli e con
l’intervento del Reverendissimo Capitolo e con i soliti riti; venne posta la prima pietra di
fondazione.
Fu terminata sotto il vescovato di monsignor Saverio Giustiniani che nel 1761, il 19
aprile, benedisse la nuova Chiesa, celebrandovi la prima Messa il Vicario Generale
Canonico, don Lorenzo Paluzzi,
e dopo di lui, molti altri sino alle ore una dopo il
mezzogiorno.
Tutta la città concorse alla costruzione della chiesa: ed essendo state concesse le
indulgenze di 10 giorni a chi concorresse alla detta fabbrica, si vide ogni sera molto
91
numero di ogni sorta di persone che trasportavano sassi, calce, arena di modo che con le
sole elemosine, nel giro di nove anni, si spesero circa 18 mila scudi.
CHIESA DELLA PRESENTAZIONE. Venne costruita da S. Paolo della Croce
per le Suore Passioniste che qui ebbero il loro primo convento, dopo il 1769. Nella piccola
chiesa furono seppelliti temporaneamente i resti mortali di Madama Letizia Ramolino,
madre di Napoleone I e sorellastra del Cardinale Giuseppe Fesch che vi venne sepolto nel
1839, per essere stato nominato protettore della chiesa e del convento annesso.
Successivamente i resti mortali di entrambi vennero trasferiti nell’isola di Corsica, ad
Ajaccio, terra natale dei Buonaparte. Il nome è venuto da un’immagine di Maria SS.,
chiamata appunto della Presentazione, che venne trovata prodigiosamente sulle antiche
mura della città, durante la costruzione del suddetto convento. L’affresco è conservato
sull’alto dell’unico altare.
S. ANGELO CUSTODE. Quando nel 1638 i Padri Serviti ottennero dalla Sacra
Congregazione dei Vescovi e Regolari il permesso di fabbricare un ospizio per respirare
una migliore aria, essendo in Valverde soggetti a malattie e spese, fu allora che venne
edificata questa costruzione, piuttosto cappella che chiesa, sulla strada che dalla Casa
Lucidi portava alla parrocchia di S. Giuseppe, ove esisteva il fabbricato Manzoli. Nel 1640
l’oratorio venne benedetto dal Vicario Generale di Corneto, riponendovi il Sacramento e
permettendovi le sepolture. Dopo qualche tempo sorsero forti contestazioni fra la
Magistratura e i Padri Francescani contro gli stessi Padri Serviti per cui la chiesetta dovette
essere abbandonata e demolita. L’unico quadro dedicato al S. Angelo Custode si conserva
ora nella chiesa dell’Addolorata, che apparteneva agli stessi Padri Serviti.
CAPPELLA DEL PALAZZO COMUNALE. In un documento dell’Archivio
Storico Comunale, nelle cosiddette “Reformationes” si legge al foglio 97 dell’anno 1423
“Fatta a Corneto nella sala della Cappella del Palazzo di residenza dei prefati signori alla
presenza di Giovanni Coco e di Tartaglia, famigli del Palazzo....”.
Nella stessa pagina poi si legge l’inventario degli oggetti affidati ai Consoli o ai Priori
fra cui un altare di legno, una campanella di metallo ed altre cose. Ogni due mesi poi, e
proprio nella Cappella Comunale, si eleggevano gli officiali e i deputati delle terzerie, cioè
del Poggio, della Valle e di Castro Nuovo; nonché il Camerlengo generale, il Capitano dei
500 e il notaro della Gabella.
92
Ce ne dà conferma la presenza di un affresco, scoperto recentemente nella sala del
Consiglio Comunale, che rappresenta una Crocifissione; mentre sul tetto è ancora visibile il
piccolo campanile a vela, che era il campanile della suddetta cappella comunale.
Essa venne abolita per dar luogo, verso il 1772, alla costruzione di un teatro
comunale, oggi scomparso.
LA CATTEDRALE che chiude il discorso sulle chiese di Corneto, era nota, anche
dalle letture già fatte e dagli episodi già incontrati, come Chiesa di S. Maria e S.
Margherita: prima aveva l’ingresso “verso oriente e l’altare maggiore ad occidente con una
sola navata che occupava tutto il posto o sito poco più di quanto ora comprende la cappella
del Rosario”. L’attuale presbiterio non era che la cappella fatta costruire e affrescare dal
vescovo Bartolomeo Vitelleschi per seppellirvi le ossa dello zio cardinale, Giovanni
Vitelleschi, e tutti gli altri membri della famiglia patrizia.
Venne eretta in Cattedrale nel 1435 da Eugenio IV, con la soppressione di due
collegiate delle quali una era la Chiesa di S. Maria in Castello e l’altra, la medesima chiesa
di S. Maria e Margherita. Con i propri denari il vescovo Saverio Giustiniani, ritrovandosi
nel 1758 la cattedrale ancora a tetto, la fece interamente soffittare con tavole di abete
dipinto e dorato; mentre nel 1761, per elemosina del canonico Ippolito Bruschi che dette
circa 200 scudi, fu fatta la gradinata di marmo che separa l’altare maggiore dalla
rimanente chiesa.
Quivi si dava sepoltura agli uomini dell’Arte dei Casenghi. A questa chiesa, che andò
integralmente distrutta nell’incendio del 1642 (come più volte accennato nel presente
scritto), furono unite, oltre la chiesa di S. Maria in Castello, anche le altre di S. Martino, di
S. Bartolomeo, di S. Andrea che nel 1612 si trovavano già abbandonate e ruinate. La
distruzione di molte altre chiese venne suggerita dalla necessità di dare costruzione alla
Cattedrale di oggi.
Gli ultimi definitivi restauri furono eseguiti nel 1878, secondo un progetto
dell’architetto Francesco Dasti, cornetano, fratello del sindaco Luigi Dasti.
***
Anche se esistono altre documentazioni su probabili chiesuole o cappelle sia in città
che nel territorio, non si crede opportuno farne menzione, proprio per mancanza di notizie
più precise e più attendibili; e, dato l’enorme tempo trascorso, appare sempre più difficile
averne una comprova.
93
Nel nostro tempo nuove chiese del resto sono sorte: una nella zona detta del
Peparello, intitolata alla santa tarquiniese Lucia Filippini, officiata dai Padri Passionisti;
una chiesetta al Lido di Tarquinia, annessa all’Ospizio Marino “Filippo Giorgi” dell’Istituto
Orfanotrofio “Marcantonio Barbarigo”; e una terza, a forma di tettoia, intestata alla
Madonna Stella del Mare, al Lido di Tarquinia, per la celebrazione della Messa nei giorni
festivi per i bagnanti e per la gente che attualmente vi abita, in attesa di costruirne una
nuova, in muratura. Altra cappella è stata costruita alle Saline, denominata Madonna della
Pace.
Cappelle esistono pure alla Vaccareccia dei marchesi Sacchetti per l’assistenza
religiosa ai coloni che vi dimorano; al Borgo dell’Argento; a Fontanil della Torre, per conto
dell’Ente di Riforma; e alla Doganaccia dei marchesi Malvezzi - Campeggi. Nonché altre
nel Cimitero Comunale, nella Villa Bruschi - Falgari e nella zona delle Piantate, dietro la
proprietà dell’Ospedale Civile della nostra città.
Uno studio e una ricerca più accurati sulle chiese vedranno la luce per
interessamento dei sigg. Pardi Antonio e Corteselli Mario, i quali hanno accuratamente
fatto ricerca in tutti gli archivi sia pubblici che privati per fare una catalogazione esatta, dal
punto di vista storico e topografico, di tutte le chiese cornetane. Il presente lavoro non
vuole essere che un motivo di curiosità perché altri dedichino più cura, più tempo e più
interesse a favore di una ricerca, ancor prima che le antiche documentazioni vadano
disperse per incuria delle pubbliche e private amministrazioni.
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