Totalitaria - Progetto Fahrenheit

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Totalitaria - Progetto Fahrenheit
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI NAPOLI
«FEDERICO II»
FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA
IN
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
LA
CATEGORIA
TOTALITARISMO
NELLA PROSPETTIVA DEL PENSIERO
DI
HANNAH
ARENDT
Relatore:
Ch.mo prof.
GIANFRANCO
BORRELLI
ANNO
ACCADEMICO
Candidata:
FILOMENA CASTALDO
matr.: 04/9096
1997-98
CAPITOLO PRIMO
GENEALOGIA E TOPOLOGIA
DI UN CONCETTO ATTRAVERSO
LE INTERPRETAZIONI
STORICO-FILOSOFICHE
DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50
«Possiamo prendere tutti i termini,
tutte le espressioni del nostro
vocabolario politico,
e aprirli;
al loro interno troveremo
il vuoto».
(S. Weil)
3
1. Il concetto ‘totalitarismo’
A cosa rinvia la semantica totalitarismo?1
E’ una categoria politica nuova, tutta novecentesca? Va considerata per la sua validità euristica oppure no? E qual è il quid novi che la caratterizza come
forma politica che si è storicamente concretizzata e
che Hannah Arendt profeticamente aveva individuato
nei soli regimi di Hitler in Germania e di Stalin in
Russia?
Un punto dobbiamo tener ben fermo: il totalitarismo non è autoritarismo.2
______________________________
1
In termini generali si veda: M. Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio,
N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Torino, UTET, 1983;
V. Dini, Totalitarismo e filosofia, un concetto tra descrizione e comprensione, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997; M. Tarchi, Il
totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», a. XI,
cit., pp. 63-79.
2
Sul piano lessicale, prima ancora che concettuale, si registra, in particolar modo nei testi di alcuni esponenti del mondo intellettuale tedesco
degli anni ‘30, una certa confusione ed un uso spesso interscambiabile
dei termini ‘autoritario’ e ‘totale’, pur avendo come obiettivo polemico
comune la forma-Stato moderna. Così fa notare C. Galli: « Si può fin
4
In generale, si considerano autoritari tutti quei
regimi non democratici, caratterizzati dall’assenza del
parlamento e delle elezioni popolari, o da una loro attività apparente, nonché dall’indiscusso predominio del
vertice dell’esecutivo. E’ assente la libertà dei sottosistemi, sia formale che effettiva: l’opposizione politica
è soppressa o imbavagliata; il pluralismo dei partiti è
______________________________
d’ora affermare che ‘totalità’ vale sempre per ‘corpo sociale integralmente politicizzato e integralmente conflittuale’, e, in parallelo, per
‘estensione integrale della politica’; insomma, per la sua onnipervasività. E che ‘autorità’ è termine a minore capacità denotativa e di uso più
generico, così da valere per ‘sovranità’, ‘potere’, ‘governo’; ma che in
generale assume più spesso valenze di stabilizzazione politica. E’ così
possibile rigorizzare, senza violentarne lo spirito, le diverse posizioni e
sostenere che la locuzione ‘Stato totale’ pare più orientata a descrivere al di là del valore che i singoli autori ne danno -una situazione che tendenzialmente supera o sfonda, o comunque confonde portandole all’estremo, le logiche e gli assetti politico-istituzionali dello Stato moderno;
mentre l’espressione ‘Stato autoritario’ - differenziato da una forma politica obsoleta come il tradizionale Obrigkeitsstaat- si può intendere una
strategia di rivitalizzazione, pur nelle mutate condizioni, del comando
dello Stato sulla società, in una ritrovata distinzione e gerarchizzazione
dei due ambiti in una rinnovata articolazione per ‘cerchie’ del corpo
sociale». C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», cit.,
pp. 27-61.
5
vietato o ridotto a simulacro; l’autonomia degli altri
gruppi è tollerata o distrutta, secondo l’interesse del
capo o dell’élite al governo.
E’ chiaro che, in questo senso molto generale, il
concetto di autoritarismo può ricomprendere legittimamente quello di totalitarismo, svuotandolo, però,
facendo del secondo un indicatore di intensità di certi
tratti del contesto autoritario, privando, cioè, il concetto di totalitarismo di una specificità che pure va riconosciuta.
Il sociologo politico Juan J. Linz, nel suo Totalitarian and Authoritarian Regimes,3 definisce i regimi
autoritari come sistemi politici con un pluralismo limitato e non responsabile; senza una ideologia elaborata e propulsiva (ma con delle caratteristiche mentalità); senza una mobilitazione politica intensa o vasta
(eccetto che in taluni momenti del loro sviluppo); in
______________________________
3
J. J. Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Greenstein e Polsby (a cura di), Handbook of Political Science, Addison-Wesley, Reading (Mass.), 1975.
6
cui un capo (talora un piccolo gruppo) esercita il potere entro limiti che sono formalmente mal definiti ma
di fatto agevolmente prevedibili.
Il totalitarismo è speculare ed opposto.
Lo stesso Linz, precisando i limiti e i confini tra
totalitarismo-democrazia e totalitarismo-autoritarismo, presenta una teoria secondo cui gli elementi indispensabili per definire totalitario un sistema politico sono: 1) l’ideologia, fonte di legittimazione del
potere e della prassi; 2) un partito unico di massa, strumento di pressione sulla popolazione; 3) una leadership, sia individuale che di una élite di dirigenti che
operano senza limiti legali definiti.
Riconosce, invece, come autoritari i regimi posttotalitari, rappresentati dai sistemi comunisti dopo
il processo di destalinizzazione, risultato combinato
da un pluralismo limitato e in conflitto, da una parziale depoliticizzazione delle masse, da un ruolo attenuato del partito unico e della ideologia, da un’accentuata burocratizzazione; ed un totalitarismo im-
7
perfetto, che di solito è una fase transitoria di un sistema politico il cui sviluppo verso il totalitarismo
viene arrestato per poi trasformarsi in qualche altro
regime autoritario.
Con Roman Schnur,4 possiamo aggiungere che un
elemento fondamentale della distinzione tra autoritarismo e totalitarismo è che se il primo tende a proporre
una visione del potere sovrano come «qualcosa di esteriore, utilizzabile cioè per ottenere un’obbedienza esteriore, senza che con ciò venga mai toccata la loro interiorità, la coscienza», il secondo mira a piegare e distruggere l’interiorità non solo perché non ci sia opposizione, quanto per creare un uomo nuovo, una realtà
nuova secondo un preciso scopo ideologico, secondo
la volontà di chi detiene il potere.
«Il regime totalitario nella sua fase iniziale deve
comportarsi come una tirannide e radere al suolo i
limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia
______________________________
4
R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Milano, Giuffrè, 1979.
8
dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per
imporre la volontà tirannica o il potere dispotico di
un individuo su tutti gli altri e, men che meno, l’anarchia di una guerra di tutti contro tutti.
Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione
fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche.
Abolire i confini delle leggi fra gli individui,
come fa la tirannide, significa annullare le libertà
umane, distruggere la libertà come realtà politica vivente; perché lo spazio fra gli individui, com’è circoscritto dalle leggi, è lo spazio vivo della libertà.
Il terrore totale usa questo vecchio strumento della tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel deserto, senza leggi e senza barriere, dominato dalla
reciproca diffidenza, che è propriamente della tirannide.
Questo deserto non era, certo, uno spazio vivo di
libertà, ma lasciava ancora un po’ di posto ai movi-
9
menti timorosi e alle caute azioni dei suoi abitanti».5
Se, cioè, sotto un governo autoritario e tirannico, ci
sono margini perché si crei un’opposizione, perché le
persone dissenzienti possano in qualche modo operare ed agire, con il totalitarismo siamo al grado zero
della comunicazione e delle differenze, al conformismo come alienazione dalla politica e dal mondo, al
dominio che permea le coscienze in modo totale.
La Arendt utilizza l’immagine della cipolla per focalizzare il concetto di totalitarismo: al centro «quasi in uno
spazio vuoto, si trova il capo. Quale che sia la funzione di
questi (integrare il corpo sociale, come una gerarchia autoritaria, o opprimere i sudditi, come un tiranno), egli la
compie dall’interno non dall’esterno o dall’alto. Tutte le
innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni collaterali extra-partitiche, le varie associazioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del partito, le forma______________________________
5
H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace &World,
Inc., III ed. New York, 1966; trad. it. Le origini del totalitarismo, a cura
di A. Guadagnin, Milano, Edizioni di Comunità, 1996.
10
zioni di élite e i gruppi di polizia sono reciprocamente in
una relazione tale da costituire, a seconda del punto di
vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a
uno strato costituiscono il normale mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano il radicalismo più
estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a
ciascuno strato del movimento, nonostante il regime totalitario, la finzione di una realtà normale, insieme, la convinzione di differenziarsene e di essere più radicale (...).
La struttura a cipolla rende il sistema organizzativamente
inattaccabile dall’urto della realtà effettiva».6
Tendenzialmente - tale è la proposta di B. R. Barber7 - nel definire il totalitarismo si fa riferimento a
due approcci, l’uno essenzialista, che, «generalmente
legato a spiegazioni monocausali, procede attraver______________________________
6
H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, London,
Faber & Faber, 1961; trad. it. Che cos’è l’autorità? in Tra passato e
futuro, Milano, Garzanti, 1991.
7
B. R. Barber, Conceptual Foundations of Totalitarianism, in C. J. Friederich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism im Perspective: Three
Views, New York, Praeger, 1969.
11
so ricostruzioni impressionistiche piuttosto che per
riscontri empirici, e tende a sottolineare proprietà
astratte e non misurabili, come gli scopi ultimi e i
connotati ideologici, dei regimi che sono considerati totalitari»;8 l’altro fenomenologico, che analizza
«quegli stessi regimi in una prospettiva multifattoriale empirica, cercando di isolarne gli attributi obiettivi, le caratteristiche formali e al limite misurabili,
con la dichiarata intenzione di tracciare un modello
di totalitarismo e gettare le basi di una teoria che
possa spiegarne la genesi e gli sviluppi, stabilendo
nel contempo precise frontiere del campo di applicazione della parola».9
Decisive sono le puntualizzazioni di L.
Schapiro,10 che insiste sul carattere analitico-descrittivo del termine in oggetto in relazione a regimi del
______________________________
8
M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», cit., p. 67.
9
Ibidem.
10
L. Schapiro, Totalitarianism, Pall Mall, Londra, 1972.
12
nostro tempo che sarebbero altrimenti analizzati con
categorie anacronistiche e non esaustive.
Già nel 1956 Carl J. Friederich e Zbigniew K.
Brzezinski avevano colto la nuova portata politica del
totalitarismo, fenomeno storicamente unico e sui generis, riconoscendo questi caratteri: 1) esistenza di una
ideologia ufficiale, riguardante tutti gli aspetti della
esistenza e dell’attività dell’uomo; 2) partito unico di
massa guidato da un dittatore e strutturato gerarchicamente in modo da garantire capillarmente l’adesione
all’ideologia e alla volontà del capo; 3) sistema terroristico poliziesco che controlla i nemici reali e potenziali, nonché il partito stesso; 4) monopolio tendenzialmente assoluto dei media; 5) monopolio tendenzialmente assoluto degli armamenti sulla base della
tecnologia moderna; 6) direzione centralizzata dell’economia.
Definendo i regimi fascisti e comunisti «fondamentalmente simili», applicando l’etichetta di dittature totalitarie anche alle democrazie popolari dell’Eu-
13
ropa orientale e alla Cina maoista, gli autori di Totalitarian Dictatorship and Autocracy 11 hanno descritto
il totalitarismo come sindrome totalitaria, cioè come
un insieme di caratteri interrelati che tipizza taluni sistemi politici. Di tale modello, tuttavia, sono stati sottolineati spesso i punti deboli: essenzialmente si tratta
di un modello statico, di natura monolitica, che non dà
grande spazio al mutamento e alla dinamica interna
del sistema.
Ribadendo che «un concetto analitico rimane patrimonio conoscitivo anche se la realtà da esso richiamata non è più presente»,12 Domenico Fisichella accoglie le tesi di Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo e assegna al concetto di totalitarismo, purché corroborato in chiave di «analisi delle condizio______________________________
11
C. J. Friederich e Z. K. Brezinski, Totalitarian Dictatorschip and
Autocracy, Harvard University Press, 1956. Tale testo, in merito, è considerato, parimenti a quello della Arendt, un classico di teoria politica.
12
D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma, NIS,
1987, p. 20.
14
ni», oltre che un ufficio di interpretazione storica, anche la portata di una categoria predittiva.
Egli non considera il totalitarismo in modo monolitico, pur se l’ispirazione è monistica; ne riconosce
la vocazione e la carica antipluralista.
«Il regime totalitario, dunque, non è un sistema
pluripartitico, rappresentativo-competitivo, pluralistico
in senso liberale»;13 è connotato «dall’assenza di strutture e controlli parlamentari, dalla presenza di un partito unico, dal rifiuto del pluralismo a pro dell’unitarismo e dell’onnicomprensività».14
Un’attenzione particolare è assegnata all’ideologia di chi detiene il potere, al terrore come principio
politico, al disordine istituzionalizzato, il quale è, per
così dire, il nucleo genetico e il perno della sua dinamicità.
In questa considerazione idealtipica, l’analisi fe______________________________
13
14
Ibidem, p. 22.
Ibidem, p. 15.
15
nomenologico-descrittiva si arricchisce di contenuti
empirici che non sono destinati comunque a generalizzazioni ed appiattimenti.
Nel lessico storiografico, invece, le cose non sono
considerate in modo sufficientemente chiaro: non è
infrequente che gli storici replichino contro la univocità del concetto e quel metodo di reductio ad unum
tipico delle scienze politologiche.
Ne Il Secolo breve, Eric J. Hobsbawn scrive con
una certa imprecisione: «Fino al 1945 il termine “totalitarismo”, originariamente inventato per descrivere il
fascismo italiano (e usato con questa funzione dai fascisti stessi), fu applicato soltanto ai regimi fascisti o
filofascisti».15
E’ più semplice la ricezione nell’assunto politico
piuttosto che la problematizzazione del concetto sotto
il profilo storico. Pensiamo a quanto scrivono Franço______________________________
15
E. J. Hobsbawn, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 19141991, 1994; trad. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995.
16
is Furet,16 Renzo De Felice,17 Emilio Gentile18 ed Enzo
Collotti,19 autori che ne marcano, comunque, la marginalità. Totalitarismo, nelle migliori delle ipotesi, è considerato un concetto polisemico, che si connota secondo il contesto di applicazione, un parametro, cioè, con
cui misurare la realtà storica senza peraltro estinguerla in esso. L’obiezione fondamentale degli storici è
non solo l’estensione del concetto a diverse esperienze storiche dall’antichità ad oggi, ma, soprattutto, di aver accentuato le analogie piuttosto che le differenze di ideologia e di base sociale dei due eventi
a cui sottendono l’esperienza nazionalsocialista e
l’esperienza comunista. Differenze sostanziali ci sono,
eccome!, con effetti rilevanti sulla stessa prassi totalitaria,
______________________________
16
F. Furet, Le passé d’une illusion, Paris, Editions Robert Laffont, 1995;
trad. it. Il passato di un’ illusione, Milano, Mondadori, 1995.
17
R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma - Bari, Laterza,
1991.
18
E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel
regime fascista, Roma, NIS, 1995.
19
E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.
17
ma si potrebbe dire che queste obiezioni non sono pertinenti a delegittimare l’uso del concetto di totalitarismo perché, pur se con contenuti diversi, si possono costruire prassi
di dominio politico sostanzialmente analoghe, come è accaduto, appunto, per la Germania hitleriana e per la Russia staliniana, più precisamente dopo il 1930. E’ d’obbligo, tuttavia, che gli storici di professione comincino a misurarsi in sede critica con le esperienze storiche che sottendono alla nozione totalitarismo, al fine di evitare confusioni e pregiudizi che possano inficiare il modello interpretativo, in modo particolare oggi, in tempo di revisionismo storico, e promuovere ricerche comparate sui paesi
definiti totalitari.20
______________________________
20
Di questo avviso ci sembrano G. Ruocco e L. Scuccimarra, Totalitarismo e ricerca storica, in «Storica», a. II, n. 6/1996; B. Bongiovanni,
Revisionismo e totalitarismo, in «Teoria politica», a. XIII, n. 1/1997. Di
recente si è tenuto un convegno internazionale organizzato dalla città di
Siena su «L’esperienza totalitaria nel XX secolo», Certosa di Pontignano, 28 settembre - 1° ottobre 1997, i cui atti sono apparsi in forma meno
elaborata in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a
confronto, a cura di M. Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998.
18
2. Genealogia del termine ‘totalitarismo’
1. Area italiana
Il termine totalitarismo viene per la prima volta adoperato in forma aggettivata e in un significato del tutto
negativo dall’italiano Giovanni Amendola in un suo articolo del 22 maggio 1923, a proposito della manomissione
generale da parte dei fascisti delle elezioni amministrative: il partito dominante aveva presentato la lista di maggioranza e di minoranza, evitando con la forza e l’insinuazione la formazione di una lista di opposizione ed ogni
fisiologica dialettica politica.
Amendola chiama questo modo di procedere «sistema totalitario», cioè «promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa».21
______________________________
21
G. Amendola, Maggioranza e minoranza, in «Il Mondo», 12 maggio
1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1960.
19
La parola totalitario, sottolinea il Petersen,22 è
usata qui in senso quasi tecnico, indicando un nuovo
sistema elettorale in sostituzione di quello maggioritario e minoritario, anche se l’opposizione aventiniana mal riusciva a definire la sostituzione del sistema parlamentare pluralistico con una dittatura
unipartitica. Nell’articolo del 28 giugno 1923 Amendola applica questa sua interpretazione al dibattito
sulla legge Acerbo: egli attaccava il tentativo fascista di fare di Cavour «l’ispiratore divino della riforma elettorale fascista e del sistema totalitario», si
opponeva all’immagine «di un Cavour plasmatore
elettorale di un gregge di ascari totalitari».23
La distruzione del sistema pluralistico e dello stato di diritto veniva sentito più profondamente in quei
settori della società italiana dove andava maturando,
______________________________
22
J. Petersen, La nascita del concetto di “Stato totalitario” in Italia, in
«Annali dell’ Istituto storico italo-germanico in Trento», I, 1975, pp.
143-168.
23
G. Amendola, Cavour e Pansoja, in «Il Mondo», 28 giugno 1923 e in
Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.
20
talora con enfasi apocalittiche, l’idea di essere di fronte a una trasformazione politica e istituzionale di tipo
dittatoriale e totalitaria. Pensiamo all’opposizione antifascista liberale, democratica, socialista e cattolica.
Pensiamo a Salvatorelli, a Ferrero, a Gobetti, a Turati,
a Lelio Basso.
Ad Amendola come a Sturzo, già alla fine del
1923, la caratteristica propria del moto fascista apparve «lo spirito totalitario, il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto
romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate alla confessione: “credo”.
Questa singolare “guerra di religione” che da oltre un
anno imperversa in Italia non vi offre una fede (...) ma
in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza la vostra e non l’altrui- e vi preclude con una plumbea
ipoteca l’avvenire».24
______________________________
24
G. Amendola, Un anno dopo, in «Il Mondo», 22 novembre 1923;
anche in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.
21
Nel gennaio del 1924, Monti scrisse ne «La Rivoluzione Liberale» che il fascismo si accingeva a fare
«dopo le elezioni totalitarie nei comuni e nelle province, l’elezione totalitaria per la Camera dei deputati».
Sturzo descrisse la nuova concezione fascista di statopartito tendente alla «trasformazione totalitaria di ogni
e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa».
Occupandosi delle elezioni parlamentari nella primavera del 1924, Gobetti parlò dei «piani governativi»
che puntavano sul «gioco totalitario della demagogia
fascista». Egli riteneva che Mussolini non sarebbe mai
potuto diventare un tiranno, i suoi restavano «sogni
totalitari».
Anche il Giordani, sulle pagine del «Popolo», nel
maggio del 1924, scrisse della «anima totalitaria» del
fascismo e dei suoi «quadri dell’occupazione totalitaria».
Tra il giugno e il dicembre del 1924 sembra che il
termine totalitario sparisca dal vocabolario dell’opposizione, come se la questione morale dovesse esse-
22
re combattuta non già sul piano del nascente novus
ordo statale quanto su quello etico.
Tenta di sostantivare l’aggettivo Lelio Basso, in un
intervento pubblicato su «La Rivoluzione liberale» del 2
gennaio 1925, accusando il primo ministro di voler imporre l’egemonia di «un solo partito che si fa interprete
dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto».25
Nel discorso del 15 giugno 1925, alla chiusura
del primo e ultimo congresso dell’Unione Nazionale,
Amendola stigmatizza il fascismo per la sua feroce
intransigenza, la sua «ansiosa volontà totalitaria». E
Mussolini, nel suo discorso del 22 giugno 1925, riprende la citazione letterale del discorso amendoliano
parlando della «nostra feroce volontà totalitaria» e di
«fascistizzare la nazione» al cento per cento.
Questo è certamente un punto d’incrocio, il momento in cui il concetto totalitario come espressione
______________________________
25
Prometeo Filodemo (L. Basso), L’antistato, in «La Rivoluzione liberale», 2 gennaio 1925, ora in Le riviste di Pietro Gobetti, a cura di L.
Basso e L. Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961.
23
della tenace volontà di opposizione liberaldemocratica antifascista viene usurpato dal fascismo stesso per
una nuova valenza affatto positiva: «Totalitario esprime (...) uno spirito fiero e la determinazione di una
totale trasformazione della società, in parte attraverso
una sorta di monismo religioso e in parte attraverso la
sana ordalia della violenza- molto nello spirito dello
squadrismo».26 Mussolini sottolinea la nuova centralità dello Stato nel contesto della vita sociale, elaborando la formula «tutto nello Stato, niente al di fuori
dello Stato, nulla contro lo Stato».27
Dichiara Forges Davanzati in un suo discorso all’Istituto di cultura a Firenze del 28 febbraio 1926:
«Se gli avversari ci dicono che siamo totalitari, che
siamo domenicani, che siamo intransigenti, che siamo
tirannici, non vi spaventate di questi aggettivi.
______________________________
26
A. Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War,
NewYork- Oxford, Oxford University Press, 1995.
27
B. Mussolini, Discorso del 28 ottobre 1925, in Id., Opera Omnia, a
cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1967, XXI, p. 425.
24
Prendeteli con onore ed orgoglio... Sì, siamo totalitari! Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera,...
vogliamo essere domenicani..., vogliamo essere tirannici!».28
Nella voce «Fascismo» della Enciclopedia Italiana, attribuita a Benito Mussolini e in parte anche a
Giovanni Gentile, il filosofo che ha offerto il suo magistero come sostrato ideologico di tale movimento,
l’aggettivo totalitario è così formalizzato: «Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è
per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato,
coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua
esistenza storica (...). E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio
a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa
essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello
______________________________
28
R. Forges Davanzati, Fascismo e cultura, Firenze 1926, p. 39 e ss.
25
stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno
ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è
totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni
valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del
popolo».29
E’, dunque, forte la connotazione statalista del
termine totalitario nel seno del regime fascista.
Già in un corso di lezioni di filosofia del diritto svolto
all’Università di Pisa, Gentile aveva contrapposto alla societas inter homines una societas in interiore homine.
Quando la sua dottrina dello stato sarà elevata a dottrina
quasi ufficiale del regime fascista, nel primo Discorso di
religione, fa la sua apparizione lo stato in interiore homine, contrapposto allo stato esterno, esteriorizzato, del liberalismo individualistico.
«Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a saper bene tutti, non è inter homines, ma in interiore
______________________________
29
Voce Fascismo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’ Enciclopedia Italiana, 1932, XIV, p. 847.
26
homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma
quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto
entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplicemente pensando, e creando col pensiero una realtà, un
movimento spirituale, che prima o poi influirà sull’esterno, modificandolo».30
La stessa accezione positiva è nella rivendicazione
fatta più tardi da Pio IX, in polemica concorrenza con il
fascismo: «Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve essere dello Stato, ed ecco lo Stato totalitario, come lo si
chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi
è una falsità così evidente, che fa meraviglia che uomini,
del resto seri e dotati di talento, lo dicano e lo insegnino
alle folle. Infatti come lo Stato potrebbe essere veramente
totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come
potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione interiore - perché si tratta di cristiani - per la santificazione e
______________________________
30
G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957, p. 25.
27
la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggono alla possibilità dello Stato, nella vita presente e in vista
della vita futura, eterna! E in questo caso ci sarebbe una
grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario totalitario di fatto e di diritto - è il regime della Chiesa,
perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve
appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio,
egli è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di
Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il
rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio
non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli
individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa,
perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su
questo punto, per chi non voglia negare tutto».31
E’ la sindrome totalitaria.
______________________________
31
Pio XI, L’unico regime totalitario di fatto e di diritto è la Chiesa,
discorso del 18 settembre 1938 riportato in E. Rossi, Il “Sillabo” e dopo,
Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 87-88. Anche in D. Settembrini, La
Chiesa nella politica italiana (1944-1963), Roma, Rizzoli, Milano 1977,
p. 112.
28
Diversamente dall’opposizione antifascista, Antonio
Gramsci conduce una riflessione molto più pregnante sulla dimensione totalitaria della politica che mira ad «ottenere che i membri di un determinato partito trovino in
questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere
tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali
estranei» e «a distruggere tutte le altre organizzazioni o a
incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di
una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando
il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice
di una nuova cultura, diventi essa “totalitaria”; e si ha una
fase regressiva e reazionaria, oggettivamente, anche se la
reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e
cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura».32
Gramsci, in contrapposizione a Gentile, non ridu______________________________
32
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975, II, Quaderno 6 (VIII),
par. 136, p. 800.
29
ce lo Stato alla funzione di «dominio» e di «coercizione», a mero momento della forza, a «guardiano notturno» che impone, controlla e tutela l’ordine sociale,
altrimenti «Stato = società politica + società civile, cioè
egemonia corazzata di coercizione».33
2. Area tedesca
In Germania il sedimento concettuale di totalitarismo è nel dibattito politico sullo Stato totale, cioè sulla
nuova posizione assunta dallo Stato nei rapporti sociali.
E’ una direttiva alquanto diversa da quella italiana che
abbiamo preso come riferimento iniziale: manca, del resto
in Germania, negli anni venti, un soggetto politico forte
che punti ad una profonda trasformazione sociale secondo una feroce volontà di potenza.
Stato totale o Stato totalitario è sinonimo di Stato
autoritario, possibile categoria con cui definire la crisi della forma-Stato e il tracollo dei soggetti politici.
______________________________
33
Ibidem.
30
Classico è il riferimento al saggio di Ernst Jünger,
del 1930, Die totale Mobilmachung,34 dove sebbene si
escluda ogni stabile collegamento con i regimi dittatoriali già in fase di consolidamento, si individua la
caratteristica qualificante dello Stato novecentesco:
imporre ai cittadini una mobilitazione totale come se
fossero minuscoli ingranaggi di un meccanismo che
funziona incessantemente; i paesi diventano gigantesche «officine metallurgiche» e «ciascuna singola vita
si trasforma sempre più chiaramente nella vita di un
lavoratore», di un «milite del lavoro» completamente
trasformato in ogni sua cellula in Stato, in servizio dello
Stato.
In questa metamorfosi antropologica, Jünger individua la disponibilità alla mobilitazione come caratteristica dell’uomo contemporaneo, la cui vita sin______________________________
34
E. Jünger, Die totale Mobilmachung, in Sämtliche Werke, VII, Essays
I: Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980, p. 121 e ss. Cfr.
M. Ghelardi, Alcune osservazioni su Carl Schmitt ed Ernst Jünger, in
Ernst Jünger, un convegno internazionale, a cura di P. Chiarini, Napoli,
Shakespeare & Company, 1987.
31
gola è compromessa non già da una volontà totalitaria
quanto dall’irrompere della tecnica. Essa «è realizzata
molto meno di quanto essa stessa si realizzi, e in guerra e in pace è l’espressione della pretesa segreta e coattiva a cui questa vita nell’epoca delle masse e delle
macchine ci assoggetta». Tali intuizioni verranno private di ogni alone metafisico da Carl Schmitt e ricomprese nell’analisi politica sulla crisi dello Stato liberale del XIX secolo.
Lo Stato diviene, per Schmitt, «l’auto-organizzazione della società», di fatto non più separabile da essa.
«Se la società stessa si organizza in Stato, Stato e
società devono essere fondamentalmente identici, cosicché tutti i problemi sociali ed economici diventano
immediatamente problemi statali e non si può più distinguere fra ambiti statali-politici e sociali-non politici. Tutte le contrapposizioni finora correnti, basate
sul presupposto dello Stato neutrale, che appaiono in
seguito alla distinzione di Stato e società e sono soltanto casi di applicazione e delimitazioni di questa di-
32
stinzione, vengono ora a cessare (...). La società divenuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura,
dell’assistenza, della beneficenza, della previdenza; lo
Stato divenuto autorganizzazione della società, quindi di fatto da essa non più separabile, abbraccia tutto il
sociale, cioè tutto quanto concerne la convivenza umana. Non c’è più nessun settore rispetto al quale lo Stato possa osservare un’incondizionata neutralità nel
senso del non-intervento (...). Nello Stato divenuto
autorganizzazione della società non c’è più nulla che
non sia almeno potenzialmente statale e politico».35
Si passa così dallo Stato neutrale del sec. XVIII
ad uno Stato potenzialmente totale che «ha assunto
una tale estensione da produrre non solo una crescita
______________________________
35
C. Schmitt, Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo,
Milano, Giuffré, 1981, p. 123. Anche Id., La dittatura. Dalle origini
dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, RomaBari, Laterza, 1975. Sul pensiero di Schmitt, vedi N. Bobbio, Thomas
Hobbes, Torino, Einaudi, 1989; C. Galli, Presentazione di C. Schmitt,
Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986; G. Duso (a cura di),
La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981
33
quantitativa ma anche un cambiamento qualitativo, un
“mutamento strutturale”, e da influenzare non solo gli
affari propriamente finanziari ed economici, ma tutti
quanti i settori della vita pubblica ».36
E’ un riferimento polemico alla Repubblica di
Weimar, considerata un coacervo conflittuale di formazioni partitiche incapaci di realizzare un autentica
unità politica.
In un saggio del 1933, Schmitt scrive che lo Stato
totale realizzato in Germania «è uno Stato che si intromette indifferentemente in tutti gli ambiti, in tutte le
sfere dell’esistenza umana, che non riconosce più alcuna sfera libera dallo Stato perché in generale non
può distinguere più nulla. Esso è totale in un senso
puramente quantitativo, nel senso del mero volume,
non dell’intensità e dell’energia politica (...). Il suo
volume è cresciuto in modo mostruoso. Esso interviene in tutti i possibili affari e in tutti i campi dell’esi______________________________
36
Ibidem, p. 125.
34
stenza umana, non solo nell’economia (...) bensì anche nelle questioni culturali e sociali, che una volta si
consideravano volentieri faccende “puramente private” (...). Questa è naturalmente una totalità solo nel
senso del mero volume e il contrario della potenza o
della forza. L’odierno stato tedesco è totale a partire
dalla debolezza e dall’incapacità di resistenza, dalla
incapacità di opporsi all’assalto dei partiti e degli interessi organizzati. Esso deve dare a ognuno, accontentare ognuno, sovvenzionare ognuno ed essere nello stesso momento a favore dei più diversi interessi.
Come si è detto, la sua espansione è la conseguenza
non della sua forma ma della sua debolezza».37
Le riflessioni schmittiane vengono sviluppate, con
Hitler al potere, da teorici di regime come Rosenberg,
Goebbels, Forsthoff e, ovviamente, dallo stesso Hitler
______________________________
37
C. Schmitt, Weiterentwicklungen des totalen Staat in Deutschland, in
«Europäische Revue», IX, 1933, 2, ripubblicato in Id., Positionen und
Begriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg-Wandsbek 1940.
35
nei suoi discorsi del 1933, in cui sottolinea che la terza fase della rivoluzione deve essere la creazione dello Stato nella sua totalità secondo la concezione del
movimento nazionalsocialista: lo Stato come depositario dei suoi valori spirituali.
In un articolo pubblicato sul numero del 1° gennaio
1934 del «Völkischer Beobachter», scrive Artur Rosenberg: «La rivoluzione del 30 gennaio 1933 non continua
lo Stato assolutista sotto un nuovo nome, ma pone lo Stato
in un nuovo rapporto col popolo (...) diverso da quello che
era prevalso nel 1918 o nel 1871. Ciò che ha avuto luogo
nel 1933 (...) non è l’instaurazione della totalità dello Stato bensì della totalità del movimento nazionalsocialista.
Lo Stato non è più un’entità giustapposta al popolo e al
movimento, non è più concepito come un apparato meccanico e uno strumento di dominio; lo Stato è lo strumento della concezione nazionalsocialista della vita».38
In effetti la categoria totale/totalitario viene am______________________________
38
A. Rosemberg, Totaler Staat?, in « Vökischer Beobachter», 1° gennaio 1934.
36
pliata ai nuovi soggetti dell’ideologia nazionalsocialista, il movimento e il popolo, in una variante diversa
da quella fascista, perché nella dualità liberale Statosocietà si inserisce una terzo elemento, il partito, che
se permane nella concezione dello Stato a tre membra
tedesco, in quello fascista tende ad essere interamente
assorbito nello Stato unitario e totalitario.
Sul versante anti-nazista, Marcuse è tra i primi teorici
marxisti a rendersi conto che il termine totalitär rimanda
ad una nuova Weltanschauung politica che «è divenuta il
bacino di raccolta di tutte quelle correnti che, dalla guerra
mondiale in avanti, si sono rivolte contro la concezione
«liberistica» dello stato e della società»39 ed hanno accompagnato l’ascesa del nazionalsocialismo.
______________________________
39
H. Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitaren
Staatsauffassung, in «Zeitschrift für Sozialforschung», 1934, 3, poi ripubblicato in Id., Kultur und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M.
1965; trad. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria
dello Stato, a cura di C. Ascheri, H. Ascheri Osterlow e F. Cerutti, in H.
Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino,
Einaudi, 1969.
37
Lo Stato totalitario ed autoritario ha lo stesso background dello Stato liberale, anzi, ne è il suo perfezionamento, «fornisce l’organizzazione e la teoria della
società che corrispondono allo Stadio monopolistico
del capitalismo».40
Non a caso Marcuse parla di una forma di totalità
organica intesa non come somma dei suoi componenti, ma «come unità unificatrice delle parti, in cui soltanto ogni parte si realizza e si compie». In modo inquietante egli si pone l’interrogativo se non sia stata la
cultura intellettuale stessa a preparare la sua liquidazione. Totalitaria si può definire quella società industriale che opera secondo le pressioni degli oligopoli,
secondo meccanismi manipolativi che comportano la
monodimensionalità. «Il termine totalitario, infatti, non
si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera me______________________________
40
Ibidem, p. 19.
38
diante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di
una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di
dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure
un sistema specifico di produzione e di distribuzione,
sistema che può essere benissimo compatibile con un
“pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”».41
Per Franz Neumann, che, secondo Collotti, rifiuta l’assunzione della società nello Stato ed è attento,
piuttosto, alle modifiche del rapporto Stato-società, con
occhio particolare alla tecnica di manipolazione delle
masse, sotto l’apparenza totalitaria si celano ben quattro gruppi fondamentali, il partito, l’esercito, la burocrazia e l’industria.
Nella Germania nazista, tali forme di potere, che
in una normale democrazia si avvalgono di rapporti
______________________________
41
H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società
industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1968.
39
regolati da norme vincolanti universalmente, operano
ciascuna in base al Führerprinzip, cioè all’obbedienza assoluta alle decisioni del capo, secondo un potere
legislativo, esecutivo e giudiziario autonomo e secondo quei compromessi raggiunti dalle quattro dirigenze, la cui unificazione non è istituzionalizzata, quindi,
ma personalizzata.
Non c’è Stato, né in un’accezione ristretta, né in
quella dualità riconosciuta da Ernst Fraenkel,42 secondo cui esiste uno stato in cui si contrappongono lo ‘Stato normativo’ e lo ‘Stato discrezionale’ , basato quest’ultimo su prerogative individuali e irrazionali.
«Direi che siamo di fronte a una forma di società
in cui i gruppi dominanti controllano il resto della popolazione in modo diretto, senza la mediazione di quell’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi
conosciuto come lo stato. Questa nuova forma sociale
non è ancora pienamente realizzata, ma esistono ten______________________________
42
E. Fraenkel, Il doppio Stato, Torino, Einaudi, 1983.
40
denze che definiscono l’essenza stessa del regime».43
Le classi dominanti, fortemente antagoniste, sono
cementate dalle logiche del profitto, dal potere e soprattutto dalla paure delle masse.
Neumann, che è prudente nell’uso del termine totalitario, attribuisce un ruolo decisivo alla propaganda e al terrore come due aspetti di un unico processo:
«la trasformazione dell’uomo nella vittima passiva di
una forza onnipresente che lo seduce e lo terrorizza,
lo innalza e lo spedisce nei campi di concentramento».44
Ecco la metafora del Beemoth: lo stato totalitario, pur se respinto ideologicamente, è una forma di
non-Stato, «un caos, una situazione di illegalità e di
anarchia».45
______________________________
43
F. Neumann, Beemoth.The structure and Practice of National Socialism, Oxford University Press, New York Inc., 1942; trad. it. di M. Baccianini, Beemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Milano,
Feltrinelli, 1977.
44
Ibidem, p. 209.
45
Ibidem, p. 21.
41
3. Area anglo-americana
La traduzione inglese, nel maggio del 1926, di Italia e fascismo di Luigi Sturzo, da parte di B. B. Carter,
consegnerà gli italianismi totalitario e totalitarismo
al vocabolario politico dei paesi anglofoni. Con una
valenza negativa, essi connoteranno un fenomeno
moderno e regressivo, plebiscitario e dittatoriale, intimamente contraddittorio, nonostante che, nel 1928, la
rivista americana «Foreign Affairs» traduca uno scritto di Giovanni Gentile, The Philosophical Basis of
Fascism, in cui, con toni altisonanti e apologetici, viene definita totalitaria la dottrina fascista.
Il «Times», nel 1929, accomuna in un fondo anonimo con il termine totalitarianism fascismo e bolscevismo, seguendo un percorso di riflessioni comparativistico, ampliando l’orizzonte di riferimento al regime monopartitico dell’Unione sovietica.
Nel 1933, Victor Serge, comunista dissidente, in
una lettera fatta pervenire clandestinamente in Francia all’opposizione di sinistra, prima che venisse de-
42
portato, definisce come «totalitario», «castocratico» ed
«ebbro della propria potenza» il regime sovietico.
Pur non conducendo analisi di tipo comparativo
o socio-politologico, utilizza, tuttavia, lo stesso termine con cui si è autodefinito il fascismo italiano.
Lo stesso diranno altri menscevichi russi in esilio
a Parigi. Anche Trotzki, nel volume La rivoluzione
tradita, del 1938, stigmatizza come totalitaria la degenerazione autoritaria in atto nell’Unione Sovietica
da parte di una classe che ha espropriato ed usurpato il
proletariato.
Le analisi comparativistiche americane tenderanno a mettere in evidenza un comune nucleo strutturale
tra i due sistemi politico-istituzionali, fascismo e comunismo, dando più attenzione alle loro affinità piuttosto che alle divergenze.
In uno dei saggi raccolti in Dictatorship in the
Modern World, pubblicato nel 1935 a cura di Guy Stanton Ford dell’Università del Minnesota, Max Lerner
così intende il termine totalitarian : lo stato totalitario
43
è uno stato caratterizzato dalla «organizzazione dei
gruppi economici che competono per la distribuzione
del reddito nazionale in associazioni o “corporazioni
supervisionate dallo Stato” e da un governo che tiene
rigidamente in pugno l’equilibrio del potere. Uno “Stato forte” nel quale tutti i conflitti aperti in forma di
sciopero e serrata sono banditi e il movimento dei lavoratori è nazionalizzato».
E’ evidente la mutuazione dell’esperienza italiana.
«Comunismo e Fascismo sono sostanzialmente
simili perché entrambi significano l’esaltazione della
forza, che non sopporta alcuna opposizione e che subordina l’individuo alle richieste dello Stato».46
Lo storico del pensiero politico George Sabine
considera, invece, il concetto totalitarismo come sinonimo di unitary e, nella voce State della International
______________________________
46
«Christian Science Monitor», estate 1939, in A. Gleason, Totalitarianism, cit.
44
Encyclopedia of the Social Sciences, lo applica a tutti
i sistemi monopartitici, Urss inclusa.47
Particolare diffusione - e confusione concettuale
- si ha durante le elezioni presidenziali del 1940. Sia
da parte democratica che da parte repubblicana si usa
il termine totalitarian in modo irresponsabile e poco
scrupoloso. In un infiammato articolo sull’American
Mercury, Herbert Hoover sottolinea dirette analogie economiche, politiche e psicologiche- tra lo sviluppo
dei regimi totalitari europei e la situazione degli Stati
Uniti sotto il New Deal. Anzi, giunge a definire Roosvelt e i suoi consiglieri come totalitarian liberals e lo
stesso New Deal come un incipiente totalitarismo: sembra che lo confonda con socialistic.48
E di fatto, con la caduta dei regimi fascista e nazionalsocialista, con il deterioramento dei rapporti sovietico-americano, con la proclamazione della dottri______________________________
47
G. H. Sabine, voce State, in Encyclopedia of the Social Sciences,
New York, Macmillan, 1934, vol. XIV, p. 330.
48
A. Gleason, Totalitarianism, cit., p. 52 e ss.
45
na Truman, «il termine giocava un ruolo essenziale
nel collegare l’antico alleato sovietico dell’America
con la Germania Nazista. Forse l’apice di questo periodo si ebbe alla fine del 1950 quando il Mc Carran
International Security Act sbarrò ai «totalitarian» - vale
a dire ai comunisti - l’ingresso negli Stati Uniti. Durante questi cinque anni, l’idea che gli Stati Uniti dovessero affrontare la sfida totalitaria tornò ad esercitare una influenza indiscussa come la chiave del futuro
americano ed ebbe la sua influenza più diretta sul pensiero politico e sulla politica estera americana».49
Siamo alle soglie della Guerra Fredda, quando «il
nemico totalitario sembrava a prima vista , trascendere le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra, che
venivano senza dubbio operate negli anni ‘30. Molti
di coloro che allora lo utilizzavano lo facevano in contesti che suggerivano che al centro della discussione
erano solo il nazismo o il fascismo. La sua rinascenza
______________________________
49
Ibidem, p. 61.
46
nel 1945 servì a canalizzare il potente sentimento antitedesco nel nascente sentimento anti-comunistico e allo
stesso tempo agevolò la formazione di nuove alleanze
internazionali».50
______________________________
50
Ibidem, pp. 61-62. Segnaliamo anche gli studi, negli stessi anni, di J.
L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino,
1967; R. C. Tucker, Towards a Comparative Politics of Movement-Regimes, in «American Political Science Rewiew», vol. LV, 1961; K. A.
Wittfogel, Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968.
CAPITOLO SECONDO
«IO PROCEDO DA FATTI
E DA AVVENIMENTI»
L’INDAGINE CONTESTUALE
DI HANNAH ARENDT
PER COMPRENDERE L’EVENTO
CHE CARATTERIZZA IL XX SECOLO:
IL TOTALITARISMO.
Siamo contemporanei fin
dove arriva la nostra comprensione.
Se vogliamo andare d’accordo
con il mondo,
foss’ anche a costo di essere d’accordo
con questo secolo,
dobbiamo partecipare
al dialogo incessante con la sua essenza.
(H. Arendt).
48
1. Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933
1951. Hannah Arendt, ebrea tedesca emigrata negli Stati Uniti nel maggio 1941 dopo un periodo di
internamento nel campo francese di Gurs, pubblica
un’opera dalla grande carica emotiva, Le origini del
totalitarismo, che, nonostante le critiche, è considerata subito un classico di filosofia politica.
E’ curioso sapere che il titolo provvisorio dell’abbozzo, risalente alle prime settimane del 1945, era Gli
elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo
e razzismo; anzi, a volte, la Arendt più enfaticamente
lo chiamava I tre pilastri dell’inferno, pilastri, condizioni sine quibus non, che sorreggono, ma non in senso che determinano, la struttura totalitaria.
Forte, per lei, era l’accusa contro l’Europa del XIX
sec., perché quel secolo borghese aveva creato gli elementi da cui si sarebbe cristallizzato il totalitarismo in
Germania e in Russia; forte, per lei, era l’incredulità
per quanto stava avvenendo storicamente e politica-
49
mente, non tanto per la svolta del suo paese nel 1933,
quanto, soprattutto, per Auschwitz.
«Da principio non ci credevamo. Anche se mio
marito, e anch’io, avevamo sempre detto che da quella banda potevamo aspettarci di tutto. Ma questo non
potevamo crederlo, perché era assolutamente contrario a ogni bisogno o necessità militare. Mio marito un
tempo era uno storico militare, e di queste cose ne capiva abbastanza. E mi disse: “Non lasciarti mettere in
testa queste storie! E’ una cosa che non possono fare.”
Ma un mezzo anno più tardi, quando ci furono le prove, dovemmo crederci. E fu davvero un brutto colpo.
Prima si diceva: ma sì, tutti hanno dei nemici, è una
cosa del tutto naturale, perché un popolo non dovrebbe avere nemici? Ma questo era qualcosa d’altro. Era
davvero come se si fosse spalancato un abisso. Perché
si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto il
resto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto
si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe
mai dovuto accadere. E non mi importa il numero del-
50
le vittime. M’importa la produzione in massa dei cadaveri e il resto (...) e non c’è bisogno che mi dilunghi
oltre. Questo non doveva succedere. E’ successa una
cosa per la quale nessuno di noi era preparato».51
Passarono altri sei anni prima che si arrivasse al
titolo definitivo, Le origini del totalitarismo, che pure
sembrava ricordare uno studio di genetica, come Le
origini della specie di Darwin. Si trattava di un titolo
fuorviante, molto più di quello scelto dall’editore inglese, The Burden of Our Time (Il fardello del nostro
tempo), perché non riusciva a tradurre lo spirito dell’autrice: occorreva ‘riflettere’ il metodo di lavoro seguito, non si cercavano origini nel senso di cause, non
si cercavano giustificazioni, non si scriveva di storia.
L’alternativa metodologica allo zelo dello storico
______________________________
51
Intervista concessa nel 1964 a Gunther Gaus, Was bleibt? Es bleibt
die Mutterspräche, in G. Gaus, Zur Person: Portrats in Frage und Antwort, Feder, München, 1964; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 19061975: per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 221;
in H. Arendt, La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Milano, Mimesis, 1993, p. 43.
51
fu quella di «individuare gli elementi principali del
nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi
politici reali alla loro base (...). Scopo del libro non è
dare risposte, bensì preparare il terreno».52
Per la Arendt gli eventi eccedono sempre le loro
cause, non c’è deduzione, non c’è necessità ma solo
caotiche verità di fatto il cui senso aspetta di essere
dischiuso come in un remake narrativo.
«Gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue
origini, purché per “origini” non si intenda “cause”.
La causalità, cioè il fattore di determinazione di un
processo di eventi in cui un evento sempre ne causa
un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel
regno delle scienze storiche e politiche. Probabilmente gli elementi in se stessi non causano mai alcunché.
Essi divengono l’origine di un evento se e quando si
cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo
______________________________
52
E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo,
op. cit., p. 239.
52
allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia.
L’evento illumina il suo passato ma non può essere
dedotto da esso».53
Per la Arendt la parola origine si ricollega all’idea di
quel principio casuale, contingente, che getta luce sull’evento che avviene ed esplicita la realtà su cui si fonda; a
posteriori evoca quegli elementi della realtà che hanno
acquisito pieno significato nella nuova esperienza, esperienza che resta possibile ed imprevista ai «problemi reali
ed irrisolti» che erano dietro a quei «precedenti».
«Dietro l’antisemitismo, la questione ebraica, dietro
il decadimento dello stato nazionale, il problema irrisolto
di una nuova concezione del genere umano, dietro l’espansionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo».54
Bisogna, quindi, che si passi non già dalle origi______________________________
53
H. Arendt, The Nature of totalitarianism, conferenza inedita (1954),
Congresso; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.
54
Lettera a Mary Underwood, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.,
p. 240.
53
ni, questo oscuro materiale destinato a cristallizzarsi
come un possibile esito, all’evento, bensì dall’evento
verso quegli elementi del passato in cui possono balenare i tratti della cristallizzazione finale. In questo senso l’analisi più che storica diviene tipologica e sociologica.
Il totalitarismo, dunque, è l’evento e la sua originalità terrificante consiste in atti che rompono con tutta la nostra tradizione, polverizzando letteralmente le
nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio
morale. Obsoleti sono anche gli strumenti concettuali
della nostra tradizione filosofica.
A Voegelin, che nella recensione a Le origini del
totalitarismo la accusava di perdere i contatti con la
trascendenza, con la dimensione spirituale e ideologica per cui «le origini del totalitarismo non andrebbero
viste principalmente nel destino dello stato nazionale
e nei seguenti cambiamenti sociali ed economici iniziati nel XVIII secolo (come fa la Arendt), ma piuttosto nell’ascesa del settarismo immanentista dell’Alto
54
Medioevo»,55 senza indugi, la Arendt replica: «Ciò che
è senza precedenti nel totalitarismo non è primariamente il suo contenuto ideologico, ma l’evento stesso
della dominazione totalitaria. Ciò si può chiaramente
intendere se ammettiamo che le conseguenze delle sue
politiche hanno fatto esplodere le categorie tradizionali del pensiero politico (il dominio totalitario è diverso da tutte le forme di tirannia e di dispotismo che
conosciamo) e i criteri del giudizio morale (i crimini
totalitari sono descritti in modo del tutto inadeguato
come “assassinii” e i crimini totalitari possono difficilmente essere puniti come “assassinii”). Il signor Voegelin sembra pensare che il totalitarismo sia soltanto
l’altra faccia del liberalismo, del positivismo e del pragmatismo. Ma si concordi o no col liberalismo (io posso dire qui con assoluta certezza di non essere né una
______________________________
55
Pubblicata, insieme alla risposta della Arendt e ad una sua conclusione, in «The Review of Politics», XV, n. 1, 1953; trad. it. in G. F. Lami (a
cura di) Eric Voegelin. Un interprete del totalitarismo, Roma, 1978. Cfr.
Filosofia politica e pratica del pensiero. E. Vögelin, L. Strauss e H.
Arendt, a cura di G. Duso, Milano, 1988.
55
liberale, né una positivista né una pragmatista), il punto
è che i liberali non sono chiaramente dei totalitari.
Spero di non insistere indebitamente su questo punto.
Per me è importante perché credo che ciò che separa
la mia impostazione da quella del signor Voegelin è
che io procedo da fatti e avvenimenti invece che da
affinità ed influenze spirituali.
Ciò è forse un po’ difficile da scorgere perché io
sono naturalmente molto interessata alle implicazioni e ai cambiamenti filosofici nell’ auto-interpretazione spirituale. Ma questo certo non significa che
io abbia descritto “una rivelazione graduale dell’essenza del totalitarismo dalle sue forme incipienti nel
XVIII secolo a quelle pienamente sviluppate”, perché questa essenza non esiste prima di essere venuta
alla luce.
Perciò parlo di “elementi” rintracciabili nel XVIII
secolo, altri forse ancora più indietro (benché io dubiterei della teoria personale di Voegelin, secondo cui
l’ascesa del settarismo immanentista del Medioevo si
56
sarebbe conclusa alla fine del totalitarismo)».56
Pensare il totalitarismo come l’altra faccia del liberalismo, del positivismo, del pragmatismo, lo priverebbe di ogni carattere di novità, di ogni significato
fruttuoso per l’analisi del mondo moderno.
La portata epocale del totalitarismo non è nel suo
contenuto ideologico, ma nella sua eventualità, nella
fattualità di un dominio realizzato con violenza e terrore attraverso la tragicità dei campi di sterminio. Questo è il fatto che interessa la Arendt.
Questo procedimento ermeneutico spiega anche
l’assimilazione del regime nazista con quello staliniano nella tipologia del totalitarismo, in quanto, pur se
permeati da ideologie differenti, l’una basata sul dominio della razza, l’altra sul principio della lotta di classe,
ambedue ricorrono al «culto della personalità», al terrore istituzionalizzato, ai campi di concentramento e
all’abolizione delle libertà civili.
______________________________
56
Ibidem.
57
E’ vero; solo marginalmente la Arendt si occupa
dello stalinismo.
L’opera doveva essere completata da uno studio
adeguato sulle matrici totalitarie dell’ideologia marxista e le differenze tra marxismo e nazismo.
Il tentativo fu intrapreso, alcuni anni più tardi, a
seguito di una conferenza nel 195357 in cui si sottolineavano le trasformazioni che il marxismo aveva subito prima nell’interpretazione di Lenin poi di Stalin.
Ma The marxist elements of totalitarianism non fu mai
completato, rimase una disamina critica della tradizione
filosofica occidentale e un confronto con Marx, il cui
pensiero pure aveva avuto rilievo nella formazione
della Arendt.58
______________________________
57
Conferenza inedita del 1953, Karl Marx and tradition of western political thought, presso la Library of Congress, Washington, Manuscripts
Division, « The Papers of H. Arendt», box 64; trad.it. Karl Marx e la
tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti,
in «MicroMega», n.5, pp.35-108.
58
Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, Milano, FrancoAngeli, 1996.
58
Nella prefazione del giugno 1966 a Le origini del
totalitarismo, la Arendt fa riferimento al discorso di
Kruscev, nel 1957, dinanzi al XX Congresso del partito, atto con cui si è aperto il processo di detotalitarizzazione dell’ ex-Unione Sovietica.
Secondo la Arendt, il più chiaro segno della detotalitarizzazione sovietica non è stato tanto la liquidazione di
buona parte del sistema poliziesco o la chiusura della maggior parte dei campi di concentramento, oppure il fatto
che non sono state più promosse spettacolari epurazioni
contro i nemici del partito, ora destituiti e allontanati da
Mosca, quanto la ripresa feconda delle attività culturali,
arte e letteratura in particolare.
«Quando Stalin morì, i cassetti degli scrittori e degli
artisti erano vuoti, oggi esiste tutta una letteratura che circola in manoscritti, e ogni via della pittura moderna viene
tentata negli ateliers dei pittori e le loro opere vengono conosciute anche quando non sono esposte a una mostra».59
______________________________
59
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XLV.
59
Da un sistema totalitario si è passati ad una dittatura a partito unico.
Utilizzando il termine totalitarismo con parsimonia e prudenza, la Arendt si chiede, tuttavia, se esso
sia applicabile60 anche alla Cina comunista, di cui all’epoca non si conosceva niente a causa dell’efficace
isolamento dietro cui il paese si era trincerato. Rispetto all’esempio tedesco e russo le differenze sono notevoli: dopo il periodo iniziale della dittatura contrassegnato dallo spargimento di sangue e da una decimazione della popolazione, dopo la scomparsa dell’opposizione, non si è verificato l’inasprirsi del terrore e
del massacro, l’irrigidimento della burocrazia al potere, il sorgere di una categoria di ‘nemici oggettivi’,
______________________________
60
Per la Arendt il concetto «totalitarismo» non si applica neanche al
fascismo italiano. Mussolini aveva creato uno stato corporativista, più
che totalitario, in quanto aveva tentato di ‘statalizzare’ la società e lo
stesso partito non si pose al di sopra dello stato ma si identificò con la
massima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu «il vero usurpatore nel senso della dottrina politica classica», in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 360 e ss. Sul fascismo italiano vedi A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, 1965.
60
cioè il permanere di quei caratteri che per la Arendt
tipizzano il totalitarismo.
Indubbiamente riconosce una pretesa totalitaria nel
programma ideologico del partito comunista cinese,
ancor più manifeste in politica estera con l’inasprirsi
dei rapporti cino-sovietici e con l’accusa alla Russia,
che pure aveva sostenuto Pechino, di ‘deviazione revisionista’ dopo la morte di Stalin e l’avvio di una
politica di distensione.
Pur denunciando la scarsità delle fonti, assumendo una posizione piuttosto ambigua, la Arendt accenna a quella forma di terrore e di controllo sociale che
era «il modellamento e rimodellamento delle
menti»,61 la pervadente ‘riforma della mente umana’
che è il corrispettivo cinese della creazione dell’uomo
nuovo tipico dello spirito totalitario.
Un totalitarismo fondato sul consenso, direbbero
oggi i critici.
______________________________
61
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XXXI.
61
Una osservazione, comunque, va fatta a proposito de
Le origini del totalitarismo: c’è uno squilibrio tra le prime
due parti, più storiche, più politiche, e la terza parte che
punta sull’essenza del totalitarismo, sull’individuazione
della sua tipicità. Potremmo dire che dallo «stare ai fatti»
si passa meglio e volentieri ad un’analisi concettuale raffinata, ad una sintesi tipologica, in particolare nel capitolo
dal titolo Ideologia e terrore.
La domanda che ella si pone, in effetti, e che segna la
portata del totalitarismo come evento -come sia potuto
succedere?- filtra la domanda sull’eclissi del politico.
Andrè Enégren scrive: «In un certo senso il totalitarismo disegna in cavo tutto ciò che conferisce rilievo al politico arendtiano: alla chiusura radicale di
un dominio senza incrinature, la Arendt oppone uno
schema normativo senza governanti né governati al
cui interno viene riconosciuto il diritto di ciascuno ad
agire, giudicare e decidere in comune; al flusso totalitario che sradica e livella, lei risponde con una riflessione incentrata sulla stabilità della legge che stabili-
62
sce il potere, sull’autorità come memoria capace di fissare la politica nella permanenza di un mondo differenziato. Mentre il totalitarismo si affida a una logica
inflessibile sempre pronta a riassorbire gli eventi in
un ordine superiore, essa dà la fiducia al visibile, all’opinione e al giudizio che, solo, consente di tenere
testa alla dissoluzione della tradizione».62
La Arendt legge il fenomeno totalitario come assoluta
eccezionalità, in qualche modo reso possibile, ma non necessario, da tutti i rovesciamenti a catena, natura e società,
politica e storia, che insieme oppongono e legano la modernità alla tradizione classica. Il totalitarismo nasce con la
modernità, ma non come qualcosa di originariamente inscritto nel suo patrimonio genetico, come esito predeterminato; piuttosto è il prodotto di una serie di opzioni soggettive che convergono su di una contrazione ed uno schiacciamento del ‘politico’ su altre modalità del «fare»: il sistema
totalitario è estraneo alla vita politica autentica.
______________________________
62
A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, Edizioni
Lavoro, 1987.
63
2. L’ antisemitismo politico e la questione ebraica.
Perché iniziare un’opera politica con un’analisi
sull’antisemitismo, le sue origini, le sue sfaccettature,
i suoi esiti, catastrofici, per un popolo, quello ebreo,
che mai si è occupato di politica e che storicamente è
stato considerato ‘apolide’?
La Arendt considera l’antisemitismo come l’ideologia laica del sec. XIX e l’originale prospettiva con
cui tale fenomeno è analizzato le permette di mettere
alla prova ciò che va via via elaborando intorno alla
autonomia e al primato dell’agire politico. Il popolo
ebraico, caso storico concreto, diviene simbolo dell’alienazione dell’uomo nel mondo moderno perché
l’esperienza dell’esilio lo ha privato di uno spazio pubblico per l’azione. E’ popolo senza governo, senza
paese, senza lingua.
La condizione ebraica porta a riflettere su quell’irriducibile unicità che è inerente alla condizione della
nascita, unicità intesa come tradizione culturale, ap-
64
partenenza etnica, fede religiosa, che deve poi condurre a trascendere la propria singolarità nel conseguimento di fini condivisi.
E’ sottesa una ricerca filosofica che sarà presente
in modo più evidente nelle opere della maturità, vale a
dire l’individuazione di uno spazio politico che sia
comune a tutti gli uomini, in cui le aspirazioni ebraiche all’emancipazione possano integrarsi con l’aspirazione di tutti i popoli all’autodeterminazione. Allora l’ebraismo diviene simbolo della ribellione universale nei confronti dell’oppressione.
Nella biografia di Rahel Varnhagen,63 i cui primi
capitoli vennero scritti nel 1933, anno di fuga della
______________________________
63
H. Arendt, Rahel Varnhagen. The Life of a Jeweness, East and West
Library (for the Leo Baeck Institut of a Jews from Germany), London
1957; trad. it., Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, a cura di L. Ritter
Santini, Milano, Il Saggiatore, 1988. Il libro fu pubblicato nel 1957 in
inglese su iniziativa del Leo Baeck Institut; nel 1959 uscì in edizione
tedesca presso Piper. Il manoscritto, fatta eccezione per gli ultimi due
capitoli, era già pronto nel 1933 quando la Arendt dovette lasciare la
Germania. Nel 1938 venne completato per l’insistenza di Heinrich
Blücher e Walter Benjamin.
65
Arendt dalla Germania nazista, mentre gli ultimi tre
verso il 1938, quando la Arendt si era rifugiata in Francia, è presente un’acuta critica all’assimilazione per la
difesa della tradizione e dell’autonomia di ciascun
popolo, e non solo quello ebraico, sottolineando che
in un mondo civile l’uguaglianza giuridica e politica
dei gruppi non può che essere indiscutibile.
La Arendt rifiuta l’assimilazione come possibilità di integrazione degli ebrei nel corpo della nazione.
Essa ha indotto alla perdita della propria identità, dei
valori religiosi, della tradizione.
In Le origini del totalitarismo, mostra come l’antisemitismo, che non è un nazionalismo latente, perché la sua espansione coincide con la crisi dello Statonazione, sia stato il prodotto di un progetto storico e
sociale determinato a cui ha contribuito il generale
declino delle comunità ebraiche dell’Europa centrooccidentale ed anche quella perenne indecisione degli
ebrei di essere un «elemento non nazionale in un sistema di stati nazionali», di essere un parvenu piutto-
66
sto che un libero pariah, di non trovare un equilibrio
tra vita pubblica ed esperienza interiore.
Già alla fine del Settecento64 si distingueva una massa di paria e piccole comunità ricche e privilegiate.
Paria, secondo la Arendt, sono quell’insieme di
gente che vive un’esclusione politica e sociale, senza
per questo essere degradata sul piano morale come,
invece, aveva sostenuto Nietzsche in Genealogia della morale, dove paria è l’individuo formato alla morale del risentimento e della ipocrisia. L’accettazione
______________________________
64
Sulla nascita della «questione ebraica» in epoca illuministica, cfr. H.
Arendt, Aufklärung und Judenfrage, trad. it. Illuminismo e questione ebraica, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437. Cfr. A. Dal Lago, Introduzione ad H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Sullo
sviluppo di una filosofia ebraica «che non sarebbe stata tale perché dovuta
alla creatività di pensatori ebrei, ma perchè sarebbe stata rivolta a costruire i
suoi edifici concettuali sulle fondamenta della tradizione ebraica e non avrebbe nascosto la sua intenzione di servirsi dei suoi concetti per ridefinire i
lineamenti dell’identità ebraica» vedi G. Lissa, Filosofia ebraica oggi, in
«Rivista di storia della filosofia», n. 4, 1994. Lissa, a partire dall’analisi
della situazione ebraica fatta dalla Arendt in Le origini del totalitarismo,
mette in evidenza come esista un rapporto imprescindibile tra la tradizione
ebraica e la sua potenza dominante, la religione, rapporto su cui si gioca il
destino stesso dell’identità ebraica.
67
dell’ebreo era sul piano della ‘eccezione’, o per ricchezza o per sapere, come persona ‘particolare’, giacché come popolo sarebbe stato disprezzato.
L’ebreo di corte, ad esempio, era il finanziatore
della corona, deteneva privilegi un tempo prerogativa
solo della nobiltà. Poteva portare armi, scegliere la
residenza, viaggiare e spostarsi secondo il proprio piacere, ovunque era protetto dalle autorità locali. Poteva
contrarre matrimonio con la nobiltà, sebbene le ereditiere ebree con la loro dote non facevano che rimpinguare il patrimonio dei nobili rampolli. Questo ruolo
super partes, mediatore senza rappresentanza politica, cominciò a vacillare quando, dopo il 1791, si ottenne la parità giuridica. Anzi, quanto più fu riconosciuta la parità giuridica tanto più aumentò la discriminazione sociale.
L’aristocrazia fu il primo gruppo sociale a diventare antisemita, considerando gli ebrei il prototipo del
borghese egualitario e moderno. Ancora più radicale
fu la posizione della borghesia che identificava l’ebreo
68
con il banchiere, parassita della miseria e delle sofferenze, in stretto rapporto con il potere centrale. La
borghesia, inoltre, detestava la capacità degli ebrei di
essere mediatori di pace e di intervenire di conseguenza
nelle relazioni di politica internazionale. Il tedesco W.
Rathenau, che aveva cercato di ottenere condizioni di
pace, dopo la prima guerra mondiale, piuttosto favorevoli per la Germania grazie al riconoscimento internazionale delle sue capacità di statista, venne ucciso
da un antisemita. Agli occhi dei borghesi antisemiti
sembrava che gli ebrei governassero i troni di nascosto e che fossero i registi di una trama cospiratoria internazionale.
Tale teoria che era stata espressa nel testo La congiura dei saggi di Sion, un falso a cui avevano creduto in
molti e che venne usato da Hitler come ulteriore convalida delle sue tesi sulla razza. Ogni volta che un gruppo
nazionale o una classe entrava in conflitto con il potere
centrale dello stato, invece di attaccare direttamente questo, aggrediva gli ebrei. Sfiorando il sociologico, la Aren-
69
dt descrive l’antisemitismo del liberale austriaco Schoenerer, di Lueger, capo del partito cristiano-sociale, e del
cappellano tedesco Stoecker, per indicare non solo che in
Austria e in Germania si stava diffondendo l’antisemitismo più forte e virulento ma come in esso si confondesse
nei conflitti di nazionalità sia da parte dei democratici che
da parte dei liberali.
In effetti, la spinta antisemita aveva travolto anche partiti altrove più vigilanti, fatta eccezione dei
partiti operai e di sinistra, che, presi dalla lotta di classe contro la borghesia, si disinteressavano di politica
estera.
La Arendt sottolinea che, oltre a cause strettamente
politico-economiche, sociologiche e ideologiche, all’antisemitismo contribuiva anche quella considerazione da parte degli ebrei di essere il popolo eletto, ipotesi che si fondava sull’idea che il Messia sarebbe venuto per la salvezza di tutti i popoli. Tale tesi, tuttavia,
nel corso storico, aveva perso ogni carattere universalistico.
70
Con la formazione degli stati nazionali nel XVI
secolo, gli ebrei si erano definiti come gruppo con un
forte senso di appartenenza e del privilegio. Ed in questo è consistito l’errore politico: 1) l’essersi considerati popolo superiore, non riuscendo, tuttavia, a coesistere con la propria identità, perché al di là di uno sparuto gruppo di privilegiati il resto era una massa di
paria, 2) l’ essersi disinteressati della politica, soprattutto della rivendicazione dei propri diritti, creando un
potere economico sul vuoto politico.
La Arendt fa suo lo schema analitico di Tocqueville,
che nell’opera L’Ancien Régime et la Révolution descrive
la crisi della nobiltà alla fine dell’antico regime.
I nobili furono attaccati ed odiati quando persero
le loro funzioni, soprattutto quelle militari, erano ricchi ma senza alcuna funzione sociale. Lo stesso era
per gli ebrei: essi attiravano odio in particolare per il
loro disinteresse politico.
L’assenza di una rappresentanza di potere riconosciuta in seno allo stato, l’impotenza e la conseguente
71
‘innocenza politica’ aveva impedito agli ebrei di capire come l’ostilità sociale sarebbe presto confluita in
tragedia.
Non aveva alcuna validità la tesi del capro espiatorio né l’antigiudaismo: il problema era essenzialmente politico.
La differenza andava ‘protetta’; assumere la dolorosa identità del paria era l’unica strada per confermare la propria presenza al mondo. E il politico andava distinto dal sociale.
Il sociale avanza un’ipotesi di uniformità perché
spinto da pulsioni privatistiche, concepisce il diverso
come il nemico. L’uguaglianza politica non è l’uguaglianza sociale, né si può dar luogo ad un suo pervertimento.
«Le moderne società di massa offrono innumerevoli esempi della facilità con cui si scambia l’eguaglianza per una qualità innata di ciascun individuo,
che viene definito “normale” quando è come gli altri e
“anormale” quando se ne differenzia. Questo perver-
72
timento di un concetto politico è particolarmente pericoloso quando la società lascia alle differenze uno spazio relativamente esiguo, dando così luogo ad una
quantità di conflitti».65
Analizzando il caso Dreyfus, ad esempio, la Arendt mette in rilievo come dal sociale si fosse presto passati alla strumentazione politica. Contro l’ebreo spione e traditore non solo si erano mobilitati i membri
dell’esercito che rifiutavano un ebreo nello stato maggiore, ma anche il clero, che mal tollerava la diversa
confessione tra gli ufficiali.
Sul piano politico nacque il conflitto: essere antidreyfusardi significava essere antidemocratici e antirepubblicani, contrari all’uguaglianza giuridica e politica che prima la rivoluzione francese poi la Terza
Repubblica avevano consacrato. Gli ebrei, che cercavano di far prevalere la tesi dell’errore giudiziario,
continuavano a non capire il terreno di scontro.
______________________________
65
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
73
In Francia e negli altri stati europei, per lungo tempo si discusse del caso Dreyfus: da una parte erano
schierate le forze progressiste, dall’altra quelle conservatrici di estrema destra, antisemite e antidemocratiche. La xenofobia, di cui pure si alimentava l’antisemitismo francese, resto qualcosa di inoffensivo. Solo
Céline, che nel 1937 aveva pubblicato Bagattelles pour
un massacre e nel 1938 L’école des cadavres, raggiunse la paranoia incitando al massacro degli ebrei ritenuti diabolicamente responsabili di ogni male. Comunque, la conseguenza più importante dell’affare Dreyfus
fu la nascita del movimento sionista ad opera del giornalista austriaco T. Herzl, «l’unica risposta politica che
gli ebrei seppero trovare al movimento antisemitico e,
insieme, l’unica loro ideologia che prese sul serio quell’ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avvenimenti mondiali».66
______________________________
66
Ibidem, p. 168.
74
3. La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei
in crisi: l’imperialismo come preludio politico
ai movimenti totalitari.
La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani.
Le fila dell’opera sono tenute insieme da un unico tema centrale: la storia della dissoluzione dello Stato-nazione in aggregati di uomini «superflui».
Antisemitismo e imperialismo, risultato di pratiche non democratiche, pur se delimitati in modo esclusivo, sono perciò intimamente connessi.
Riassunto nello slogan «l’espansione per l’espansione», l’imperialismo è analizzato come una nuova
forma di colonialismo, ben diverso dal precedente
(1500-1700) che si limitava a trarre il massimo delle
ricchezze dalle colonie. Esso fu essenzialmente una
politica di potenza di matrice economica, che diede
luogo ad un processo distruttivo delle società nazionali inarrestabile, preludio dei fenomeni totalitari del
XX secolo.
75
La Arendt associa al fenomeno ragioni di tipo economico, sostenendo che era stata la crisi economica
degli anni ‘60 e ‘70 a spingere gli uomini di affari ad
occuparsi di politica internazionale. Si era verificata
«una sovrapproduzione di capitale che, non potendo
più trovare un investimento produttivo entro i confini
nazionali, costituiva una massa di denaro “superfluo”.
Per la prima volta gli strumenti del potere politico,
anziché aprire la via, seguirono supinamente il denaro
esportato».67
Gli uomini dell’imperialismo erano persuasi che
politica ed economia non erano disgiunte, anzi avevano posto la seconda al servizio della prima. Perché ci
fosse espansione economica continua occorreva il sostegno del potere politico. E la politica fu essenzialmente politica economica.
E’ in questo, secondo la Arendt, che si realizza
l’emancipazione politica della borghesia, nel senso che
______________________________
67
Ibidem, p. 188.
76
se fino ad allora l’interesse prioritario era la conquista
economica senza aspirare al dominio politico, adesso
la borghesia tentava di usare lo stato e i suoi strumenti
di violenza per l’espansione dei suoi interessi economici, indebolendo così la posizione dei finanzieri in
genere, in particolare quelli ebrei.
La Arendt, tuttavia, non tiene conto che già all’epoca del mercantilismo la classe borghese si era interessata della politica economica degli stati. Ciò che
si ebbe nell’Ottocento, semmai, fu l’opinione che effettivamente il potere politico potesse proteggere gli
interessi economici di uno stato, in modo particolare
nelle colonie.
La definizione che la Arendt tenta di dare dell’imperialismo si rifà alle tesi della sinistra marxista, Rosa
Luxemburg in particolare, la quale, secondo la teoria
del sottoconsumo, riteneva che, per essere assorbita la
produzione corrente in modo integrale, poiché la classe lavoratrice non poteva avere un alto potere di acquisto per le sue miserevoli condizioni, occorreva una
77
«terza persona», un compratore esterno al sistema capitalistico. A fianco, cioè, del mondo capitalistico, era
necessaria l’esistenza di un mondo non capitalistico
perché il sistema del primo non si inceppasse.68
E’ la logica degli sviluppi ineguali di cui aveva
parlato anche Lenin in modo più complesso e critico.
Un contributo sicuramente decisivo, tuttavia, per
la Arendt, sono state le analisi del liberaldemocratico
Hobson e del socialdemocratico Hilferding: quest’ultimo, con il quale converge anche Kautsky, considerava il fenomeno come una politica del capitalismo.
Nel segno di una apparente razionalità, l’imperialismo aveva promosso l’espansione geografica secondo una crescita economica che era l’immediato riflesso dell’accumulazione capitalista illimitata.
«Annetterei i pianeti, se potessi» era solito dire
Cecil Rhodes, quasi a suggello della nuova politica
mondiale.
______________________________
68
R. Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals, Berlin, Singer, 1913;
trad. it. L’accumulazione del capitale, Milano, Feltrinelli, 1976.
78
Espansione acquisiva il significato di continuo
ampliamento della produzione industriale e delle transazioni economiche.69
Si trattava di un concetto non politico, tanto è
vero che l’obiettivo degli imperialisti era quello di
ampliare la sfera di potere, potere economico in primo luogo, senza creare un corrispondente corpo politico.
Era il caso, ad esempio, dei francesi che trattarono l’Algeria come una provincia del territorio metropolitano senza imporre le loro leggi alla popolazione
araba, creando un ibrido per cui il territorio era nominalmente francese, giuridicamente parte integrante
della Francia, uno dei suoi dipartimenti, ma gli abitanti non erano cittadini francesi, anzi, vennero considerati quella «force noire» che doveva proteggere la Francia, o, per dirla con il Poincaré, era «carne da cannone, ottenuta con metodi di produzione di massa».70
______________________________
69
70
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 175.
Ibidem, p. 180.
79
Anche l’Inghilterra, per il fatto di essere uno stato
nazionale, non creò mai un «Commonwealth of Nations» nel senso dell’assimilazione e incorporazione
dei popoli sottomessi, ma «una nazione sparsa nelle
varie parti del mondo».71
L’esempio irlandese decretò il fallimento della
politica estera inglese perché con il riconoscimento
dello status di dominion si era ravvivato lo spirito di
resistenza nazionale dell’Irlanda.
L’imperialismo, quindi, creò una pericolosa contraddizione tra la struttura dello stato nazionale e la
politica di conquista, perché «dovunque si è presentato nella veste di conquistatore, ha infatti destato la
coscienza nazionale e la volontà d’indipendenza del
popolo vinto, mandando a monte il tentativo di costruzione di un impero duraturo».72
Diversamente accadde nell’antica Roma, per la
quale la Arendt esprime la sua ammirazione: tipica______________________________
71
72
Ibidem, p. 178.
Ibidem, p. 177.
80
mente romana era quella capacità di esportare il diritto, collante tra popoli diversi ma egualmente riconoscentisi come cittadini romani, nonché perno della creazione di un impero stabile e duraturo.
L’imposizione di una legge comune permetteva
l’uguaglianza giuridica e il diritto alla cittadinanza di
popoli eterogenei, favorendo l’integrazione, laddove
lo stato nazionale, che si basava sul consenso attivo di
una popolazione omogenea, in caso di conquista, imponeva il consenso cercando di assimilare, degenerando talora molto velocemente in tirannide.
Gli imperialisti non avevano, quindi, esportato la
legge, bensì il dominio.
La prima conseguenza fu l’esportazione del rule
by force, il governo mediante la forza, che sostituì la
fondazione del corpo politico.
«Violenza, la polizia e le forze armate, che nell’ambito della nazione erano soggette al controllo delle autorità civili, si arrogarono le prerogative di rappresentanti nazionali nelle colonie, dove erano state
81
dislocate come custodi del capitale investito. Qui in
regioni arretrate senza industrie e organizzazione politica, dove la violenza aveva più libertà d’azione che
in qualsiasi paese occidentale, si consentì alle cosiddette leggi del capitalismo di diventare realtà».73
Lontano dal potere delle leggi, lontano da quella
funzione costituzionale che è loro propria, l’esercito e
la polizia diventano strumenti di violenza dalla forza
incontrollabile. Si era violato uno dei principi fondamentali dello stato costituzionale.
Scambiando espansione per conquista, inoltre, gli
imperialisti governavano, piuttosto che per leggi, per
ordinanze e decreti.
La confusione tra potere esecutivo e legislativo in effetti le ordinanze e i decreti erano atti del potere
esecutivo- dava luogo nelle colonie all’arbitrarietà e
all’arroganza dei funzionari, i quali preferivano che
«l’africano restasse africano»74 per salvaguardare i
______________________________
73
74
Ibidem, p. 190.
Ibidem, p. 182.
82
propri affari laddove le leggi, invece, avrebbero garantito la legittimità del riconoscimento paritario tra
coloro che erano sottomessi al medesimo governo.
Pertanto le istituzioni democratiche esistenti erano
pericolose perché, come si legge da un discorso di Lord
Cromer in parlamento, non si poteva governare «un
popolo per mezzo di un altro popolo, il popolo indiano per mezzo del popolo inglese».75
«La burocrazia era un governo di tecnici, una
“minoranza esperta”, che doveva resistere alla costante pressione della “maggioranza inesperta”»,76 il popolo, a cui non era possibile affidare la cura dell’amministrazione delle colonie.
I funzionari erano abilmente manipolati dagli uomini di affari, non avevano idee politiche generali né
erano eccessivamente patriottici, anzi, le loro qualità
erano la segretezza, l’anonimato, il potere da eminenza grigia.
______________________________
75
76
Ibidem, p. 298.
Ibidem, p. 298.
83
Gli uomini dell’imperialismo erano individui ‘declassati’, senza un’effettiva funzione sociale, alienati
dal corpo sociale, parassiti senza identità che si appassionarono all’avventura imperialista pensando di poter gestire un potere assoluto o segreto. «L’alleanza
plebe e capitale è all’origine di ogni coerente politica
imperialista».77
La Arendt chiarisce che non bisogna confondere
la plebe né con il proletariato industriale, né con il
popolo nel suo insieme: essa è formata dagli scarti di
tutte le classi sociali, è «una massa di persone priva di
qualsiasi principio e numericamente così forte da superare la capacità dello stato di occuparsene».78
Direttamente prodotta dalla borghesia, con questa rivela una profonda affinità sul piano politico,
lontana da ipocrisie e falsi valori e fortemente entuasiasta delle teorie razziali che escludevano in linea di principio l’idea di umanità e ogni possibile
______________________________
77
78
Ibidem, p. 216.
Ibidem, p. 219.
84
relazione con il diverso, il selvaggio, che non fosse
di mera sudditanza.
Per dare meglio un quadro degli uomini dell’imperialismo, la Arendt cita alcuni esempi, da Lawrence
d’Arabia a Lord Cromer fino ai personaggi dei romanzi
di Kipling e di Cuore di tenebra di Conrad.
Quello che le preme sottolineare, in effetti, è che
erano uomini annoiati o falliti nel loro paese di origine di cui avevano rifiutato i valori e pronti a tutto nelle
colonie per conquistare un’identità e condizioni di vita
soddisfacenti.
I tratti distintivi dell’imperialismo, dunque, sono
1) le teorie razziste, che sostituirono la razza alla nazione come base della struttura politica, e 2) l’organizzazione burocratica, che ne fu lo strumento.
Il razzismo come strumento di dominio venne usato, ancor prima che l’imperialismo lo definisse come
idea politica, dai boeri nel Sudafrica, i quali, emigrati
intorno al XVII secolo dall’Olanda, ripudiarono l’ethos
europeo e, vivendo in un ambiente che non erano in
85
grado di trasformare, non trovarono altro valore più
alto che in se stessi. Essi si considerarono individui
più che umani, scelti da Dio per essere gli dei del popolo nero, inferiore non tanto per il colore della pelle
quanto per ragioni economiche: a stretto contatto con
la natura, gli indigeni non avevano creato né modificato il mondo e la realtà umana. Con la scoperta di
giacimenti auriferi e diamantiferi, il Sudafrica fu terra
di investimento per i finanzieri ebrei, i quali divennero immediatamente bersaglio di odio antisemita da
parte dei boeri per il pericolo di innovazioni nella loro
società razziale. Essi erano potenziali elementi destabilizzanti presso una comunità che temeva fanaticamente l’industrializzazione del paese.
Il Sudafrica ebbe una particolare influenza sui
popoli europei: «insegnò alla plebe quel che essa aveva vagamente presentito, che bastava la mera violenza
per creare a piacimento strati inferiori o sfruttati, che a
tale scopo non occorreva neppure una rivoluzione, ma
si poteva contare sull’aiuto di certi gruppi delle classi
86
dominanti, e infine che i popoli stranieri o arretrati
offrivano la migliore occasione per l’ascesa nella società».79
Se Hobbes poteva essere ritenuto il teorico antesignano della politica imperialista, alcuni nobili francesi del Settecento avevano creato i prodromi per le
teorie razziste che vennero messe in atto nel corso del
Novecento. Il conte de Boulainvilliers, ad esempio,
aveva sostenuto che la nobiltà francese era di origine
germanica e che aveva conquistato la terra di Francia,
ora depredata da quell’alleanza della monarchia con il
terzo stato.
Nessuno avrebbe mai sospettato che si preparava
la guerra civile, quella rivoluzione che rivendicava
eguali diritti civili per i cittadini di tutta la nazione
francese. L’aristocrazia, in effetti, affermava la sua
superiorità per un’azione di conquista e non già per
fattori biologici.
______________________________
79
Ibidem, pp. 287-288.
87
Diversamente fu per la Germania.
Il pensiero razzista tedesco nacque, secondo la
Arendt, dopo la disfatta dei prussiani da parte di Napoleone. Si cercò di fare appello ad un generico sentimento di nazione per rafforzare l’unità interna di un
popolo che si riconosceva dapprima nell’unità linguistica, poi nelle teorie fondate sulla razza, poiché mancava sia l’unità territoriale sia la memoria storica. Furono i razzisti tedeschi che identificarono il popolo
con la razza, idealizzando sulla scia romantica il Medioevo e il Sacro Romano Impero.
Accanto a queste analisi storico-comparative, di
cui marcato è il tono sociologico, la Arendt menziona
anche la portata delle teorie eugenetiche e del darwinismo sociale, con cui si negava l’origine unica e biblica dell’uomo.
Se l’imperialismo coloniale, comunque, aveva
minato la stabilità della politica estera degli Stati europei, creando una dicotomia tra governo metropolitano e colonie, è l’imperialismo continentale, soste-
88
nuto dai movimenti panslavisti e pangermanisti, che
disintegrerà internamente la struttura dello Stato-nazione.
L’imperialismo continentale fu proprio dell’area
orientale dell’Europa, di quegli Stati che non avevano
partecipato all’espansione geografica d’oltremare e
che, secondo una soluzione di continuità geografica,
pretendevano di creare colonie sul continente.
«L’imperialismo continentale ebbe realmente inizio in patria».80
Esso esprimeva esigenze nazionali, contrapponendo all’economia «un’ “ampliata coscienza etnica” che
si supponeva unisse tutte le persone della stessa origine etnica, indipendentemente dalla storia, dalla lingua
e dal luogo di residenza».81
Questa sorta di nazionalismo tribale, come spregiativamente è definito dalla Arendt, aveva in comune
con l’imperialismo coloniale il razzismo, inteso come
______________________________
80
81
Ibidem, p. 312.
Ibidem, p. 312.
89
rifiuto del diverso, inferiore e sottoposto, e la burocrazia, ampiamente descritta da Kafka nei suoi romanzi.
Esso aveva fatto sue le teorie razziali distinguendo non più tra pelle bianca o bruna, bensì tra anima
ariana e non ariana; aveva fatto della nazionalità una
qualità permanente proclamando l’origine divina del
proprio popolo; si era proclamato indipendente dal territorio osteggiando tutti gli organismi statali esistenti
e identificando il cittadino con il membro del gruppo
nazionale.
Pur mancando di un preciso programma politico,
centrale nella sua ideologia divenne l’antisemitismo
come se fosse una visione generale del mondo, isolando così l’odio ebraico da ogni concreta esperienza
politica, sociale ed economica.
Il nazionalismo tribale nacque in un’atmosfera di
profondo sradicamento.
Panslavisti e pangermanisti si riconoscevano non
già per avere una patria territorialmente e giuridicamente definita, bensì come ‘tribù’.
90
In questo senso, sottolinea la Arendt, il popolo si
riconosce in quanto massa, orda in movimento, e la
sua forma di rappresentanza non poteva più essere il
partito ma il movimento stesso.
I partiti, in effetti, mediavano nella vita politica di
un paese, ma non si era dimostrati efficaci, poiché,
molto più legati al potere che a ideali democratici e
parlamentari, si erano macchiati di abusi e corruzione
escogitando giustificazioni ideologiche che facevano
coincidere interessi privati con quelli più generali dell’umanità. Il risultato fu il progressivo allontanamento dal governo delle masse, sempre più antiparlamentari e antidemocratiche, anzi, proprio per il clima di
sfiducia che si era venuto a creare veniva richiesta la
presenza di un dittatore come guida del paese.
La Arendt affronta su un piano comparativistico
la questione della disgregazione dei partiti, che è, in
fondo, la disgregazione dello Stato-nazione nel senso
della perdita dei valori democratici e parlamentari,
nonché del diritto alla cittadinanza.
91
Lo svolgimento è stato ben diverso nei paesi dell’Europa occidentale rispetto a quella orientale. In Inghilterra, ad esempio, il sistema rappresentativo era
solido grazie al bipolarismo, all’alternanza dei due
partiti al potere; mentre in Germania lo Stato «svirilizzava»82 i partiti, nel senso che «il sistema tedesco
faceva del parlamento un campo di battaglia di interessi e di opinioni contrastanti, la cui funzione pratica
per la direzione degli affari statali era estremamente
discutibile».83
L’antagonismo stato-società venne poi spazzato
via dai seguenti movimenti totalitari.
La crisi interna allo Stato-nazione viene acuita
dalla situazione degli ‘apolidi’, gli Heimatlose, gruppi che con la guerra del 1914 erano emigrati da un
paese ad un altro privati dei diritti umani garantititi
dalla cittadinanza, condannati all’ apolidicità come
‘schiuma della terra’.
______________________________
82
83
Ibidem, p. 357.
Ibidem, p. 357.
92
Cechi, sloveni, ebrei, russi bianchi e altre minoranze costrette allo spostamento territoriale per la caduta dell’Impero russo, austro-ungarico e ottomano,
erano unicamente tutelati per una serie di trattati internazionali, i Minority Traties, spesso rimasti pura entità astratta.
In molti Stati europei, inoltre, erano state introdotte leggi che permettevano la denazionalizzazione e
la denaturalizzazione; il primo provvedimento venne
preso in Francia già nel 1915 in relazione ai cittadini
naturalizzati provenienti da un paese nemico; poi nel
1922 il Belgio annullava la naturalizzazione delle persone che avevano commesso atti antinazionali durante la guerra; nel 1926 in Italia il regime di Mussolini
emanò una legge analoga per quei cittadini che si erano mostrati «indegni della cittadinanza italiana o rappresentavano una minaccia per l’ordine pubblico»;
l’Austria nel 1933 per chi avesse commesso azioni
ostili nei suoi confronti e via via fino al 1935 quando
con le leggi di Norimberga la Germania distinse i te-
93
deschi in cittadini a pieno titolo e cittadini senza diritti
politici.84
La Arendt, considerando l’apolidicità un fenomeno di massa tutto contemporaneo, tiene a precisare la
differenza tra minoranze e apolidi.
«Le minoranze erano senza stato solo a metà; almeno de jure appartenevano a un organismo statale,
anche se avevano bisogno di una protezione supplementare e di speciali garanzie per godere di certi diritti. (...) Le minoranze potevano essere considerate come
un fenomeno eccezionale, proprio di determinati territori che deviavano dalla norma».85
E i trattati sulle minoranze dicevano quello che
già era implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè
che solo l’appartenenza alla nazione dominante dava
veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione
giuridica, per cui i ‘gruppi allogeni’ erano soggetti solo
______________________________
84
Ibidem, nota p. 387 e ss. Cfr. anche G. Agamben, Mezzi senza fini.
Note sulla politica. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
85
Ibidem, p. 384.
94
a leggi eccezionali fino a quando non si compiva l’assimilazione. A tutela era stata creata la Lega delle nazioni.
Gli apolidi, invece, erano stati privati della cittadinanza, nel senso che «essa presupponeva una struttura statale che, se non ancora completamente totalitaria, non tollerava alcuna opposizione e preferiva perdere dei cittadini piuttosto che albergare nel suo seno
dei dissenzienti».86
Quanto fosse perverso questo meccanismo e quanto sia attuale, viene sottolineato dalla Arendt investendo della sua critica anche il paese democratico per
antonomasia, gli Stati Uniti, allorquando si era creata
la possibilità, durante il periodo maccartista, di privare della cittadinanza gli americani comunisti.
La perdita della cittadinanza è quanto di più offensivo si possa fare ad un uomo, agli uomini, perché
significa la privazione di uno spazio pubblico di rico______________________________
86
Ibidem, p. 387.
95
noscimento, di un agire politico di concerto che dia
peso alle opinioni e alle azioni e che, secondo la Arendt, può realizzare quella dignità di essere-uomini.
In questo senso vengono messi in questione gli
stessi diritti dell’uomo ritenuti inalienabili dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789, con cui, per l’appunto, si è creata la perfetta coincidenza di uomo e cittadino.
L’apolide segna la crisi di questo rapporto e, di
riflesso, anche la crisi dello Stato-nazione perché viene meno quella triade Stato-nazione-territorio, quindi
lo stesso concetto di sovranità.
Rimedi furono considerati il diritto all’asilo, il rimpatrio e la naturalizzazione, ma nessuno di questi fu
storicamente e politicamente adeguato.
Gli apolidi furono costretti, infatti, ad un’esistenza crepuscolare.
La Arendt prende così una posizione netta e precisa anche rispetto al problema palestinese, quando,
cioè, venne creato in Palestina lo Stato d’Israele.
96
Sembrava, infatti, che la questione ebraica non
dovesse avere una risoluzione, eppure venne affrontata con la colonizzazione e la conquista di un territorio,
producendo, non a caso, una nuova categoria di apolidi, i profughi arabi.
Quella degli apolidi è una nuova categoria da cui
ripensare la comunità politica e la stessa figura di popolo. E’ come una maledizione che accompagna «il
sorgere di nuovi stati, fondati sulla falsariga dello stato nazionale. Questa maledizione contiene i germi di
una malattia mortale per i nuovi organismi. Perché lo
stato nazionale non può esistere una volta infranto il
principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
Senza questa uguaglianza, che in origine era destinata
a sostituire i vecchi ordinamenti della società feudale,
esso si dissolve in una massa anarchica di privilegiati
e di diseredati. Le leggi che non sono uguali per tutti
danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la
stessa natura dello stato nazionale. Quando questo non
è in grado di trattare gli apolidi come soggetti politici
97
e lascia ampio campo d’azione all’arbitrio delle misure poliziesche difficilmente resiste alla tentazione di
privare tutti i cittadini del loro status e di governarli
con una polizia onnipotente».87
Secondo tale prospettiva, potremmo dire che sia il
capitolo sull’Antisemitismo che quello sull’Imperialismo
altro non sono che una continua ricerca, da parte della
Arendt, delle ragioni della perdita dell’identità individuale e collettiva da parte della comunità politica occidentale.
L’errore è stato quello di non aver trovato nulla di
sacro nell’astratta nudità dell’essere nient’altro-cheuomo.88
«La nostra vita politica si fonda sul presupposto
che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e
soltanto con essi».89
______________________________
87
Ibidem, p. 402.
88
Ibidem, p. 415.
89
Ibidem, p. 417.
98
La messa la bando e la riduzione dell’uomo a mera
esistenza ha strappato ogni legame del singolo con
l’umanità, ha impedito il rispetto della pluralità e il
riconoscimento che l’uguaglianza dei popoli è solo, e
non può essere che solo giuridica, «risultato dell’organizzazione umana nella misura in cui si fa guidare
dal principio di giustizia. Non si nasce uguali; si diventa uguali come membri di un gruppo in virtù della
decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti».90
Ciò che è andato storto nella politica, e che ha
dato corpo all’evento totalitarismo, è stato la confusione tra sfera pubblica e sfera privata, lo schiacciamento del politico sul sociale, la perdita dello spazio
pubblico dell’azione.
______________________________
90
Ibidem, p. 417 e ss.
CAPITOLO TERZO
LA CATEGORIA ‘TOTALITARISMO’
«Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
e mangio e bevo e dormo e vesto panni».
(Levi, Il superstite, 1984)
Che cosa resta? Resta la lingua materna.
(H. Arendt)
100
1. Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:
la nuova società di massa
Rompendo quella linea di continuità causa ed
effetto, in alternativa, quindi, al metodo ‘continuista’ dello storico,91 la Arendt rintraccia nella crisi di
valori e nella rottura della tradizione dell’ Europa
occidentale i germi da cui prenderà corpo il totalitarismo. Antisemitismo, imperialismo, crisi dello Stato-nazione, atomizzazione della società rappresentavano il collasso della società illuministica e vengono puntualmente esaminati sul piano storico, politico, sociologico e psicologico, dalla Arendt, perché fenomeni nuovi, che mettono in discussione il
______________________________
91
Circa il rapporto H. Arendt-metodo storico, cfr. in particolare: M.
Salvati, Hannah Arendt e la storia del novecento, in Aa. Vv., Nazismo,
fascismo, comunismo, Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores,
Milano, Bruno Mondadori, 1998; V. Marchetti, Resistenza ebraica,
antisemitismo, totalitarismo, in Aa. Vv., Nazismo, op. cit.; A. Enégren,
op. cit.; G. Even-Gramboulan, Hannah Arendt face à l’histoire, in Aa.
Vv., Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. M. Roviello, Vrin,
1992.
101
lessico politico e filosofico e impongono nuove modalità di comprensione.
Che cosa sia il totalitarismo e che cosa abbia significato per quella sua carica dirompente nella vita
della comunità politica è analizzato nella terza parte
de Le origini del totalitarismo in modo meno schematico, ma con altrettanta intensità, a partire dal tramonto della società classista e da quel processo di massificazione a cui hanno rivolto la loro attenzione filosofi
e storici come T. W. Adorno, W. Reich, E. Canetti, E.
Broch, G. Mosse.92
Maggiore influenza per la Arendt ha avuto State
of the Masses di E. Lederer, in cui l’autore contrappone alla società dell’opinione pubblica la minaccia di
una società senza classi. Lederer ha studiato il rappor______________________________
92
Sull’opera di W. Reich circa la psicologia delle masse e il fascismo e
sugli accenni fatto da Adorno sullo stesso argomento, cfr. S. Moscovici,
L’âge des foules, Paris, Complexe, 1985; E. Canetti, Masse und macht,
Hamburg, Classen, 1960, trad. it. Masse e potere, Milano, Rizzoli, 1973;
H. Broch, Massenpsycologie, Zürich, Rhein, 1959; G. Mosse, L’uomo e
le masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1995.
102
to privilegiato della massa con il capo totalitario e ha
definito lo stato dittatoriale come fondato sul terrore
«distruggendo i gruppi sociali di ogni tipo, sradicando
la ragione, consegnando l’uomo alle sue emozioni» e
istituzionalizzando inevitabilmente le masse.93
Nella bibliografia de Le origini del totalitarismo,
si fa riferimento anche al testo di Ortega y Gasset, La
ribellione delle masse,94 di cui la Arendt non condivide l’ipotesi ‘deterministica’ secondo cui è meccanico
ed inevitabile che la società moderna arrivi alla massificazione, giacché essa è fondata su individui isolati,
privi di interessi e responsabilità.
In questo senso la Arendt è molto più prossima a Tocqueville e al pessimismo di Burckhardt, che pure avevano
sottolineato i rischi di un’attrazione a dir poco naturale e
______________________________
93
E. Lederer, The State of masses. The Treat of the Classless Society,
New York, W. W. Norton, 1940, trad. it. parziale, Lo Stato delle masse,
in M. Salvati, Da Berlino a New York, Bologna, Cappelli, 1989.
94
J.Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Madrid, «Revista de
Ocidente», 1929; trad. it. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino,
1962.
103
spontanea verso sistemi dispotici e autoritari di individui
completamente deresponsabilizzati e «superflui», appartenenti peraltro a tutte le classi sociali.
«Il termine “massa” si riferisce soltanto a gruppi
che, per l’entità numerica o per indifferenza verso gli
affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono
inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza
di interessi, in un partito politico, in un’ amministrazione locale, in un’associazione professionale o in un
sindacato. Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e
forma la maggioranza della folta schiera di persone
politicamente neutrali che non aderiscono mai ad un
partito e fanno fatica a recarsi alle urne».95
La Arendt non riconosce alcuna capacità di azione alla ‘massa’, che è soggetto passivo, facilmente
manipolabile, diversamente dall’interpretazione della
critica socialista e marxiana che ne dà una valenza
positiva.96
______________________________
95
96
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 431.
R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968.
104
Indubbiamente ella rimarca che le masse sono il
portato della degenerazione dell’individualismo borghese e di una società atomizzata in cui la competitività e il senso di solitudine dell’individuo erano state
contenute dall’appartenenza ad una classe, tant’è che
la peculiarità dell’uomo di massa era l’isolamento e la
mancanza di relazioni sociali, piuttosto che la brutalità e la rozzezza. Potremmo dire con il Kornhauser che
«sotto il profilo oggettivo è società atomizzata, sotto
il profilo soggettivo è popolazione alienata».97
«Il crollo della muraglia protettiva classiste trasformò le maggioranze addormentate, fino ad allora a
rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata ed amorfa, di individui pieni di odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che le speranze degli esponenti politici in un ritorno dei bei tempi
andati fossero campate in aria e che quindi i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri
______________________________
97
W. Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe,
1959.
105
più preparati e perspicaci fossero in verità dei folli,
alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella
loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla
rovina».98
E’ una massa di uomini disperati e insoddisfatti,
come i deracinés dei salotti borghesi del tardo Ottocento e i parassiti e gli avventurieri dell’imperialismo.
Sono la «generazione del fronte», totalmente spoliticizzata, educata alla guerra e alla vita di trincea, ad
un attivismo e ad una esaltazione del proprio io che si
riduceva ad un «fare qualcosa, di eroico o di criminale, che fosse imprevedibile e indeterminato da altri».99
Il terrorismo di cui si vantavano esprimeva la frustrazione e l’odio di quanti consideravano la guerra,
con la sua implacabile arbitrarietà, simbolo della morte e legge dell’universo nonché origine di un nuovo
ordine mondiale.
______________________________
98
99
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 436.
Ibidem, p. 459.
106
Il processo di ‘massificazione’ rifletteva la dissoluzione dei legami sociali, l’appiattimento della piramide sociale, l’annullamento delle differenziazioni
individuali e di quelle strutture che garantiscono il pluralismo in un istituzione democratica.
Più specificamente la società di massa è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’instaurazione di un regime totalitario.
La Arendt osserva che «per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Stalin dovette prima creare artificialmente quella società
atomizzata che in Germania per i nazisti era stata preparata dagli avvenimenti storici».100 Fu necessario,
cioè, distruggere quegli antichi rapporti di classe, famiglia e villaggio molto radicati in Russia fin dal Medioevo; annientare le vecchie classi; cancellare le memorie del passato; operare quello sradicamento che
nell’Europa occidentale si era venuto svolgendo già
______________________________
100
Ibidem, p. 441.
107
da tempo. La destrutturazione della società era finalizzata alla edificanda società totalitaria, al «nuovo
ordine» in cui, tuttavia, occorreva mantenere la mobilitazione, i fattori disgreganti e le spinte massificanti,
in modo da impedire la stabilità e il dimensionamento
in dittatura monopartitica.
Aclassista, antipluralista, il totalitarismo, che pure
si basa sulla ‘disponibilità’101 di base della società di
massa, crea «il dominio permanente di ogni singolo
individuo in qualsiasi aspetto della vita».102
In questo sfacelo generale di valori e di aspirazioni, sia la plebe che l’élite intellettuale erano attratte
dall’impeto dei movimenti totalitari.
Il culto della violenza e il gangsterismo sembravano smascherare l’ipocrisia della borghesia. La «morale a doppio uso» era bersaglio di aspri attacchi da
______________________________
101
S. Neumann, Permanent Revolution, Harper, New York 1942; D.
Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, Il
Mulino, 1983.
102
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 451
108
parte degli artisti e degli intellettuali, sia dell’arte delle avanguardie che della letteratura e del teatro. Particolarmente significativa, a proposito, fu la calda accoglienza della ironica Dreigrischenoper di Brecht nella
Germania prehitleriana, dramma che identificava i
gangsters come rispettabili affaristi e gli affaristi come
rispettabili gangsters.
«La plebe applaudiva perché prendeva l’affermazione alla lettera; la borghesia, perché era stata così a
lungo ingannata dalla sua stessa ipocrisia da essere
stanca della tensione e da trovare una profonda saggezza nell’espressione della banalità con cui viveva;
l’élite, perché lo smascheramento dell’ipocrisia era un
divertimento meraviglioso.
L’effetto era l’opposto di quello che si era prefissato Brecht».103
Questa distorta alleanza fra plebe ed élite era basata su un equivoco accidentale: la plebe, in quanto
______________________________
103
Ibidem, p. 464.
109
scarto della borghesia, pensava che grazie alle masse
avrebbe potuto ottenere il potere e rimpiazzare i vecchi strati della società borghese; l’élite, affascinata dal
radicalismo totalitario, riusciva grazie ad un certo fanatismo rivoluzionario, a manipolare e mobilitare le
masse, escludendole dai centri vitali del potere.
In ogni caso era necessario imbrigliare e allineare la
massa di filistei, in cui si identificava «il borghesuccio gretto che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a cuore
soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare
ogni cosa -fede, onore, dignità- al minimo pericolo.
Nulla si rivelò più facilmente distruttibile dell’intimità e della moralità privata di gente che pensava
unicamente a salvaguardare l’ininterrotta normalità
della propria vita».104
______________________________
104
Ibidem, p.469. Ancora più incisiva è la Arendt quando individua nel
buon padre di famiglia il tipo dell’uomo-massa: «Credo sia stato Péguy a
chiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20° siècle”, ma è morto
troppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande criminale del secolo. Eravamo talmente abituati ad ammirare o a canzonare garbatamante il padre di famiglia per le sue affettuose premure e la sua assidua
110
E saranno proprio costoro a macchiarsi dei più
nefandi crimini, dopo anni di livellamento per mezzo
di una propaganda menzognera e una capillare organizzazione di potere.
______________________________
dedizione al benessere della famiglia, per la sua solenne determinazione ad
assicurare alla moglie e ai figli una vita agiata, che non ci siamo accorti di
quanto il devoto paterfamilias, la cui preoccupazione principale era la propria sicurezza, si fosse involontariamente trasformato, sotto la spinta della
caotica situazione economica del nostro tempo, in un avventuriero, al quale
non bastava una grande industriosità ed accortezza per essere certo di quello
che il giorno sucessivo gli avrebbe riservato. (...) Ci voleva solo il genio
satanico di Himmler per scoprire che, dopo una simile degradazione, quest’uomo sarebbe stato completamente disposto a fare letteralmente di tutto
quando la posta si fosse alzata e la piatta esistenza della sua famiglia fosse
minacciata. (...) Così oggi può accadere che quella stessa persona, il tedesco
medio, che anni di propaganda nazista non erano riusciti a convincere ad
uccidere un ebreo (neppure quando divenne abbastanza chiaro che un siffatto omicidio sarebbe rimasto impunito), accetti senza opporsi di mettersi al
servizio della macchina della distruzione. (...) Diversamente dalle prime
unità delle SS e della Gestapo, l’organizzazione totale di Himmler non conta sui fanatici, né sugli assassini per natura, né sui sadici; essa fa interamente
assegnamento sulla normalità dei lavoratori e dei padri di famiglia», in Colpa organizzata e responsabilità universale, articolo del gennaio 1945, ora in
Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 1993. La
Arendt rimarca questo carattere della ‘normalità’ anche quando ritrae Eichmann in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1993.
111
2. Gli strumenti del totalitarismo:
propaganda, polizia segreta e burocrazia.
L’ideologia come «logica di un’idea».
La Arendt ritiene che la propaganda sia lo strumento di cui il movimento totalitario si serva, almeno
in un momento iniziale, perché sia possibile «trasformare la natura dell’uomo».
Essa è rivolta in particolare alla sfera esterna, cioè
agli strati non totalitari della popolazione o ai paesi stranieri perché evitassero qualsiasi ingerenza interna.
La propaganda utilizzava la menzogna e la falsificazione, che erano sì accorgimenti potestativi ma con
la subdola finalità di sommergere le masse in un mondo irreale di modo che fossero incapaci di lottare per i
propri interessi concreti, si sentissero profondamente
sradicate dal tessuto economico-sociale e aderissero
pienamente alle astrazioni dell’ideologia totalitaria.
La specificità tecnica della propaganda totalitaria
è quella di investire gli uomini fin nella profondità
112
psichica usando come espediente il terrore. Pertanto,
oltre a forme di propaganda diretta, vi erano altrettante forme di propaganda indiretta, miranti a sostenere
la mobilitazione totale, la guerra di una popolazione
contro se stessa.
Ma cosa veniva propagandato?
«Nessuna propaganda basata sull’interesse puro
e semplice può avere effetto fra masse che essendo
caratterizzate principalmente dall’estraneità a qualsiasi corpo sociale e politico, presentano un vero caos
di interessi individuali.
Il fanatismo dei militanti dei movimenti totalitari,
così diverso qualitativamente dall’attaccamento dei
membri dei partiti normali, è prodotto dalla mancanza
di un interesse egoistico delle masse, che sono pronte
a sacrificarsi.
I nazisti hanno dimostrato che si può condurre in
guerra un intero popolo con lo slogan «vittoria o distruzione» (qualcosa che la propaganda bellicista del
1914 avrebbe accuratamente evitato), e ciò non in un
113
periodo di miseria, disoccupazione o ambizioni nazionali deluse».105
I movimenti totalitari, secondo la Arendt, svuotano
di ogni contenuto utilitaristico i propri fondamenti dottrinari e annunciano le loro finalità politiche attraverso forme di predizione infallibile. In questo senso fanno dichiarazioni legate al futuro piuttosto che richiamandosi al glorioso passato, pensano nei termini del ‘millennio’ a venire, alimentano la fuga dalla realtà delle masse.
«Prima di tirare intorno a sé una cortina di ferro
per impedire che il più lieve rumore esterno turbi la
spaventosa quiete di un mondo interamente immaginario, essi possiedono già, grazie alla loro propaganda, la forza di segregare le masse del mondo reale».106
La finalità della propaganda, inoltre, non è tanto la
persuasione quanto l’organizzazione, «l’arte di accumulare il potere senza possedere gli strumenti di potere».
______________________________
105
Ibidem, p.481. Cfr. G. Sartori, Cosa è “propaganda” ?, in «Rassegna italiana di sociologia», IV, 1962.
106
Ibidem, p.488.
114
Per avere un’idea di come si strutturi l’organizzazione totalitaria, la Arendt, in Che cos’è l’autorità,107 la descrive in modo molto più semplice come una cipolla: «nel
centro della quale, quasi in uno spazio vuoto, si trova il
capo (...). Tra le innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni collaterali extrapartitiche, le varie associazioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del
partito, le formazioni di élite e i gruppi paramilitari sono
reciprocamente in una relazione tale da costituire, a seconda del punto di vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a uno strato costituiscono il normale
mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano
il radicalismo più estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a ciascuno strato del movimento, nonostante il regime totalitario, la finzione di una realtà normale e, insieme, la convinzione di differenziarsene e di essere più radicale».
______________________________
107
H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercices in Political Thought, London, Faber and Faber, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991
115
In questo modo, ritenendo che ci sia solo una differenza quantitativa tra ciascuno degli strati, nessuno
è a conoscenza dell’ abisso che si è venuto a creare tra
il mondo artificiale in cui vive e quello reale che lo
circonda.
Attraverso le organizzazioni frontiste e dei simpatizzanti viene creata una nebbia di normalità e rispettabilità che inganna sui veri caratteri dell’ideologia del movimento totalitario. Nell’isolamento dalle
realtà, il capo totalitario prende le decisioni dall’interno della struttura stessa, né dall’esterno né dall’alto: il
suo compito è «fare da magica difesa contro il mondo
esterno e insieme da ponte con esso».108
La figura del capo come leader del movimento
non è, comunque, la conditio sine qua non dell’instaurazione del regime totalitario, anche se il Führerprin______________________________
108
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 516. Sulla figura del
‘capo’: L. Cavalli, Il capo carismatico, Bologna, Il Mulino, 1981; M.
Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, cit.
116
zip e il culto della personalità non sono poi irrilevanti.
La Arendt, infatti, chiarisce che «il principio del capo»
non è di per sé totalitario ma ha colto elementi dall’autoritarismo e dalla dittatura militare.
Il Führerprinzip poteva collegarsi ad una forte tradizione tedesca, ancor più sentita durante gli anni del
sistema presidenziale della repubblica di Weimar, con
la reggenza di Hidemburg, e presente nelle forme militarizzanti delle associazioni giovanili e d’arma, nel
diffuso atteggiamento antidemocratico, nelle ideologie dominanti nella burocrazia e nell’esercito.
Le crisi del 1923 e del 1930 avevano dato nuovo
slancio all’appello verso l’uomo forte, un capo carismatico, attraverso cui il Führerprinzip diventava una
sintesi di idee di ordine autoritario e militaresco con
forme di legittimazione pseudodemocratico-plebiscitaria, manipolate attraverso la propaganda di massa.
E’ la «volontà del Führer» che diventa legge suprema
in uno stato totalitario e non i suoi ordini che definirebbero una struttura gerarchica.
117
«L’autorità non filtra dal vertice agli strati intermedi fino alla base del corpo politico come nel caso
dei regimi autoritari. La ragione effettiva è che non
c’è gerarchia senza autorità e che, malgrado i numerosi equivoci sulla cosiddetta “personalità autoritaria”,
il principio di autorità è, in tutti gli aspetti importanti,
diametralmente opposto a quello del dominio totalitario. A prescindere dalla sua origine nella storia romana, l’autorità in qualunque sua forma è sempre destinata a ridurre o limitare la libertà, ma mai ad abolirla.
Il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla, ad
eliminare la spontaneità in genere, e non si accontenta
affatto di una sua riduzione, per quanto tirannica».109
Tutto deve convergere alla costruzione di un mondo fittizio: il mondo viene spogliato di quella multiformità, di quel pluralismo che è elemento di disorientamento e disintegrazione per le masse.
La Arendt tende a sfatare così un luogo comune
______________________________
109
Ibidem, p. 555.
118
dei regimi totalitari, che essi siano garanti dell’ordine
e della stabilità. Hitler e Stalin si servirono delle promesse di stabilità per nascondere la loro intenzione di
creare uno stato di instabilità permanente.
«Per un movimento totalitario entrambi i pericoli
sono mortali: l’evoluzione verso l’assolutismo metterebbe fine al suo impeto interno, e un’evoluzione verso il nazionalismo impedirebbe l’espansione esterna,
senza la quale non può sopravvivere. Esso deve ricorrere a quella che, con Trotsky, si potrebbe chiamare
“rivoluzione permanente”».110 La rivoluzione totalitaria, dunque, è «rivoluzione permanente» in quanto
risponde necessariamente a quella logica di perpetuazione della guerra civile che l’ha originata.
______________________________
110
Ibidem, p. 536. Il termine ‘rivoluzione permanente’ compare già in
Trotsky nel 1905 a proposito del fallimento dell’esperienza dei soviet di
Pietrogrado e, in seguito, in polemica contro la cristallizzazione teorica
fatta da Stalin del socialismo in un solo paese. Vedi R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, a cura di P.P. Portinaro, Milano, Giuffrè, 1986; L.
Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni, Milano, Sugarco,1974. Cfr. anche
H. Arendt, On revolution, Viking Press, New York, 1963; trad. it. a cura
di M. Magrini, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni Comunità 1996.
119
All’ instabilità permanente fa da contrappeso la
completa assenza di struttura: lo stato totalitario non è
monolitico, anzi, come sistema monopartitico, esso,
in concreto, si caratterizza secondo il dualismo Statopartito o, per alcuni critici, secondo la divisione tra
potere reale e potere apparente.111
La Arendt sostiene che «se si considera lo stato
totalitario esclusivamente come uno strumento di potere lasciando da parte l’efficienza amministrativa, industriale ed economica, la sua “mancanza di struttura” appare il mezzo ideale per l’attuazione di quello
che i nazisti chiamavano il principio del capo. La continua concorrenza fra gli uffici che, oltre a sconfinare
______________________________
111
cfr. F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National
Socialism, Harper & Row, New York 1966. Neumann afferma che il
regime nazional-socialista si caratterizzava attraverso quattro centri di
potere fondamentali, ciascuno con il proprio esecutivo, legislativo e giudiziario. Fraenkel, ne Il doppio Stato, cit., teorizza, invece, la compresenza di uno Stato «normativo», non sospeso del tutto, che regola la
produzione, ed uno Stato « discrezionale», in cui si esprimono gli obiettivi programmatici del nazismo, obiettivi accettati dal capitalismo tedesco purché gli sia riconosciuto il predominio nella sfera produttiva.
120
con l’esercizio delle proprie funzioni nei settori altrui
sono incaricati di compiti identici, rende pressoché
impossibili l’opposizione e il sabotaggio».112
Il segno più evidente della mancanza di una gerarchia è la moltiplicazione dell’apparato burocratico, tant’è che «il cittadino del Terzo Reich era costretto a vivere sotto l’autorità simultanea e spesso
contrastante di poteri concorrenti, come l’amministrazione statale, il partito, la SA e le SS; e non sapeva mai, perché nessuno glielo diceva esplicitamente,
quale di queste istanze possedeva un’autorità maggiore. Egli doveva sviluppare una specie di sesto
senso per capire a un dato momento a chi obbedire e
chi ignorare».113
Lo stesso accadde in Russia, dove «il regime era
ricorso in misura ancora maggiore alla continua creazione di nuovi uffici per relegare nell’ombra i vecchi
centri di potere. Solo che il gigantesco sviluppo buro______________________________
112
113
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 554.
Ibidem, p. 548.
121
cratico, inerente a questo metodo, veniva frenato dalle
ripetute epurazioni».114
La differenza sostanziale, secondo la Arendt, tra i
due sistemi, nazional-socialista e sovietico, era che
«Stalin, ogni qual volta trasferiva il potere da un apparato all’altro, tendeva a liquidare insieme con l’apparato declassato il suo personale, mentre Hitler, malgrado lo sprezzante giudizio sulle persone “incapaci
di saltare al di là della propria ombra”, era perfettamente disposto ad utilizzare tali ombre anche in seguito, magari in un’altra funzione».115
Lo Stato funge da facciata, rappresentando il paese per interessi di politica estera; in realtà il vero centro di potere è la polizia segreta, le cui agenzie sono le
«cinghie di trasmissione» che danno dinamismo all’azione dello stato totalitario.
La polizia segreta è completamente soggetta alla
volontà di chi detiene il potere, è «interamente alla
______________________________
114
115
Ibidem, p. 553.
Ibidem, pp. 550-1.
122
mercé delle massime autorità per la conservazione del
suo lavoro. Al pari dell’esercito in uno stato non totalitario, si limita ad eseguire la politica decisa da altri,
avendo perso tutte le prerogative godute nelle burocrazie dispotiche».116
La sua caratteristica, dunque, è ridotta ad un piano meramente esecutivo e «una delle ragioni della
moltiplicazione dei servizi segreti, i cui agenti non si
conoscono, è l’esigenza di una estrema flessibilità. Per
usare il nostro esempio, poteva darsi che le massime
gerarchie, al momento della comunicazione del loro
ordine, fossero ancora indecise fra una maggiore provvista di tubi e un’epurazione. La moltiplicazione consentiva i mutamenti all’ultimo momento: era così possibile che, mentre gli agenti di un servizio preparavano la concessione dell’ordine di Lenin al direttore della fabbrica, quelli dell’altro servizio si apprestassero
ad arrestarlo. L’efficienza della polizia consisteva nel
______________________________
116
Ibidem, p. 585.
123
fatto di poter preparare simultaneamente l’esecuzione
di incarichi così contraddittori».117 La polizia segreta,
che è uno strumento di repressione terroristica, «non
ha il compito di scoprire gli autori di delitti, ma quello
di essere pronta quando il governo decide di arrestare
una certa categoria della popolazione. La sua unica
distinzione è di essere la sola a godere la fiducia della
massima autorità e a sapere quale linea politica sarà
attuata».118 Attraverso la provocazione, i processi e le
epurazioni, gli agenti segreti hanno il compito di stanare l’opposizione. Cosa significa?
Ogni forma di governo ha degli oppositori; anzi,
in via analitica, possiamo distinguere tra: 1) nemici
reali, 2) nemici potenziali, 3) nemici oggettivi, 4) «autori» di delitti possibili, 5) innocenti, 6) amici e seguaci.
Ma ciò che caratterizza il totalitarismo è il perseguitare in particolar modo persone e gruppi ricompre______________________________
117
118
Ibidem, p.583.
Ibidem, p.583.
124
si sotto il cliché di «nemico oggettivo» e definiti tali
ideologicamente già prima di conquistare il potere.
A sua discrezione, il gruppo di potere individua e
persegue un «portatore di tendenze»119 che in futuro
potrebbe risultare oggettivamente ostile, una categoria di persone la cui inimicizia può apparire plausibile
ideologicamente, soprattutto all’estero.
E’ il «nemico oggettivo», che differisce dal sospetto,
individuato dalle polizie segrete, in quanto la sua identità
è determinata dall’orientamento politico del governo, non
dalla attività sovversiva di cui è autore.
Per questo, riflettendo quel dinamismo intrinseco
al movimento totalitario stesso, esaurita una categoria, si dichiara guerra ad un’altra, procedendo così alla
tassonomia dei subumani. Ogni operazione contro il
«nemico oggettivo» di turno -il che ci induce a pensare che l’unico ‘innocente’ è solo chi detiene il potereviene legittimata sul piano ideologico, secondo la ‘raz______________________________
119
Ibidem.
125
za’ per i nazionalsocialisti, come ‘nemico della classe
operaia’ per i comunisti.
L’esasperazione del «nemico oggettivo» conduce
alla nozione di «delitto possibile», cioè la presunzione che il crimine possa essere costruito in anticipo su
basi ritenute oggettivamente attendibili, anche se in
concreto assolutamente improbabili. In questo modo
il governo totalitario ammanta con proprie giustificazioni le misure terroristiche adottate.
La Arendt, tuttavia, è dell’avviso che con la completa realizzazione del terrore totalitario, vengono abbandonati i concetti di «nemico oggettivo» e «delitto
logicamente possibile» per una coerente arbitrarietà:
le vittime, innocenti, verranno scelte a caso, senza alcuna accusa, solo perché dichiarate indegne di vivere.
E’ il modo più efficace di negare la libertà umana.
Principio d’azione, allora, è l’ideologia, che la
Arendt definisce «come logica di un’idea».120
______________________________
120
Nessun termine presenta una vasta gamma di significati così disparati quanto il termine ‘ideologia’. N. Bobbio distingue un significato
126
«La sua materia è la storia, a cui la “idea” è applicata;
il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un
processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso
degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”.(...) Le ideologie non
si interessano mai del miracolo dell’essere».121
______________________________
«debole» da uno «forte». Nel significato «debole» designa un’insieme di
idee e valori che riguardano l’ordine politico e hanno la funzione di
guidare i comportamenti politici collettivi. Per il significato «forte» fa
riferimento a Marx che considera l’ideologia una credenza falsa, la falsa
coscienza dei rapporti di dominazione tra le classi. Nella scienza e nella
sociologia politica contemporanea prevale il primo significato, ideologia come concetto neutro, quindi, contrapposto in modo esplicito o implicito a ciò che è «pragmatico» e arricchito di certi elementi tipici come
il dottrinarismo, il dogmatismo, una forte componente passionale e via
dicendo. L’ideologia è lo strumento fondamentale che le élites politiche
hanno a disposizione per operare la mobilitazione politica delle masse e
per portare ad un grado massimo la loro manipolazione. Cfr. M. Stoppino, Ideologia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di
politica, cit. Per il nesso ideologia-simulazione, E. Voccia, L’ideologia
della provocazione, in «Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia - Simulazione», Napoli, primavera-estate 1996, pp. 6-12.
121
Ibidem, p. 642. Tre anni prima nel lavoro della Arendt, così Orwell
scriveva: « Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno,
che esiste per proprio conto. E credi che anche la natura stessa della
127
Con certezza assoluta, l’ideologia pretende di spiegare, indipendentemente da ogni esperienza ed accertamento fattuale, la storia, di obiettivare l’intero corso
storico, di ‘produrre’ e dimostrare come eliminabile il
nemico, non in quanto oppositore ma come simbolo
dell’alterità. E’ il diverso che, necessariamente, dev’essere ricompreso nella totalità dell’esistente e annientato perché non riconosciuto.
L’ideologia suggella la totale non appartenenza
al mondo degli uomini, la loro «superfluità», perché
trasforma l’isolamento e la solitudine in estraneazione, in perdita non solo dello spazio pubblico ma, soprattutto, del proprio io.
______________________________
realtà sia evidente per se stessa. Se ti persuadi che stai pensando qualcosa, credi che tutti gli altri vedano quella stessa cosa. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questa
o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è
destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è
collettiva e immortale. Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera.
E’ impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito», in
G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1973.
128
E il totalitarismo, abolendo l’umanità che è in ogni
uomo, disprezzando la realtà e la fattualità, attua quel
supersenso ideologico che può essere definito come
l’eccedenza di senso su cui fa perno la stessa ideologia, una logica coerente che fa apparire degno di senso ogni atto arbitrario, ribaltando la situazione-limite
in quotidianità, l’illegale nel legale, l’insensato nel
sensato.
«La società dei morenti, in cui la punizione viene
inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto
senza prodotto, è un luogo dove quotidianamente si
crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve
permettere che contamino la popolazione; se hanno
un’ “anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di
sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi
129
il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina
con troppa coerenza».122
Il supersenso ideologico ritiene di aver scoperto
la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell’universo, senza tener conto della fattualità, anzi, disprezzandola, e, attraverso una logica deduttiva e coercitiva, edificando il suo artificioso sistema.
L’antiutilità, l’antieconomicità e l’insensatezza123
sono caratteri dominanti per la preservazione del potere totalitario.
«Totalitaria non è la pretesa della Russia rivolu______________________________
122
Ibidem, p. 626.
Sul carattere irrazionale del totalitarismo, inteso nell’assoluta incongruenza tra fini da perseguire e mezzi impiegati per perseguirli, cfr. Barrington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia,
Torino, Einaudi, 1971; R. Conquest, Il grande terrore, Milano, Mondadori, 1970; M. Curtis, Retrat from Totalitarianism, in C. J. Friedrich, M.
Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Praeger, New York 1969; A. B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Firenze, Vallecchi, 1967. Contestano questa interpretazione, a favore di una razionalità
intrinseca al totalitarismo, R. A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Milano,
Comunità 1957; J. G. Gliksman, Social Prophilaxis as a From of Soviet
Terror, in C. J. Friedrich, Totalitarianism, cit.
123
130
zionaria che nelle condizione esistenti la dittatura del
proletariato sia la miglior forma di governo, bensì la
catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totalitario, in base alla quale risulta logicamente che senza
tale sistema non si può costruire una metropolitana,
che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di
Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima
deduzione e che, quindi, se fosse possibile, bisognerebbe distruggere questa metropolitana, che invero non
sarebbe mai dovuta esistere».124
______________________________
124
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 627.
131
3. Terrore e campo di concentramento.
La società dei morenti e il male radicale.
La Arendt sottolinea marcatamente che il terrore
è l’essenza del potere totalitario e il campo di concentramento è la sua istituzione centrale.
Possono considerarsi questi tratti distintivi del
regime totalitario?
1. Il terrore totalitario
Il terrore è, secondo una definizione da dizionario, lo strumento di emergenza cui un governo ricorre per mantenersi al potere: l’esempio più noto è
quello del periodo della dittatura del Comitato di
salute pubblica guidato da Robespierre e da SaintJust durante la Rivoluzione francese (1793-1794).
Potremmo riecheggiare Machiavelli, che già tre secoli prima ricordava che per «ripigliare lo stato», per
conservare il potere, era necessario periodicamente
spargere terrore e paura; anche Montesquieu ed
132
Hobbes,125 che riconoscono il terrore l’uno come elemento qualificante di comparazione fra gli Stati, l’altro come concausa del sorgere del Leviatano sovrano.
Il terrore totalitario è ben di più: è qualcosa di
pervasivo che si insinua generando un clima di repressione e colpa; è una violenza imprevedibile intesa come
minaccia generica fissa contro l’individuo; è un timore paralizzante, che si instilla anche in quelli che potrebbero opporsi attivamente all’oppressione.
Attraverso la lettura psicoanalitica di Franz Neumann, potremmo dire che ogni sistema politico si fonda su una angoscia nevrotica, che, pur avendo una base
reale, allontanare la minaccia di un pericolo, è prodotta interiormente attraverso l’Io.126
Per il grado di alienazione dell’uomo moderno,
______________________________
125
Cfr. Ch. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di
S. Cotta, Torino, UTET, 1952; N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli,1995; Th. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 1974.
126
F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, Il
Mulino, 1973.
133
soprattutto per l’alienazione politica che permette una
totale obliterazione dell’Io, cioè l’identificazione delle masse con un leader abile nel manipolare le coscienze attraverso teorie cospiratorie, viene a crearsi un contesto fittizio in cui si verificano le seguenti
condizioni: «che le masse si trovino in una situazione di pericolo oggettivo, che siano incapaci di capire il processo storico e che l’angoscia attivata dal
pericolo venga trasformata, attraverso la manipolazione operata da altri, in angoscia nevrotica persecutoria (aggressiva)».127 Se l’angoscia reale sembra
propria nei regimi di tipo liberale, l’angoscia nevrotica è istituzionalizzata in un sistema totalmente repressivo. Il terrore, per Neumann, allora, è l’incalcolabilità delle sanzioni: l’assenza di una certezza
giuridica genera quell’angoscia nevrotica persecutoria di cui si avvantaggia il leader o l’élite per il
mantenimento del potere.
______________________________
127
Ibidem.
134
Così la Arendt, in Le origini del totalitarismo,
scrive: «Il terrore estremamente sanguinoso dello stato iniziale del regime totalitario serve invero soltanto a sbaragliare gli avversari e a rendere impossibile
ogni ulteriore opposizione; ma il terrore totale si scatena solo quando, superato questo stadio, il regime
non ha più nulla da temere dagli oppositori.
In proposito si è spesso osservato che in tal caso
il mezzo è diventato il fine, ma ciò dopotutto equivale semplicemente ad ammettere, in maniera paradossale, che la categoria mezzo-fine non è più valida, che il terrore non è più lo strumento per incutere
paura alla gente».128
2. Il campo di concentramento
Il terrore totalitario, che si nutre del «nemico oggettivo», si attua, sostiene la Arendt, nella creazione
______________________________
128
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. Cfr. R. Conquest, Il grande terrore, cit. ; A. Devoto, La tirrannia psicologica, Firenze, Sansoni,
1960.
135
di un universo concentrazionario.129
I lager sono l’istituzione centrale del potere totalitario. Perché?
«I campi di concentramento e di sterminio servono al
regime totalitario come laboratori per la verifica della sua
pretesa di dominio assoluto sull’uomo.(...) Il dominio totale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinità,
pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un
unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta ad un’immutabile identità di reazioni, in modo
che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa
che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la
cui unica “libertà” consisterebbe di “preservare la specie”.
Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideologico delle formazioni di élite sia col terrore assoluto dei
Lager.(...) I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di
______________________________
129
D. Rousset, L’universo concentrazionario, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.
136
eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la
spontaneità stessa come espressione del comportamento
umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa
che neppure gli animali sono. (..) In circostanze normali
ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può
mai essere interamente soffocata, connessa com’è non solo
alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice
rimaner vivo».130
Il campo di concentramento è il paradigma nascosto dello spazio politico della modernità; la sua
essenza consiste nella materializzazione dello stato di
eccezione e nella creazione di uno spazio in cui diritto
e fatto, norma e applicazione diventano indiscernibili.
Solo in questo senso possiamo comprendere perché esso è lo spazio del «tutto è possibile», quel principio nichilista in cui si cristallizzano la vita e i metodi
del campo tanto da apparire come un contenitore ermeticamente chiuso agli occhi del mondo dei vivi.
______________________________
130
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
137
Per il senso comune, infatti, tutto è avvolto in una
nube fumogena di insensatezza e le condizioni di inintellegibilità paradossalmente superano ogni cortina di credibilità. Anzi, dice la Arendt, «chi parla o scrive sui campi
di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se
è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è
talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se avesse scambiato un incubo per realtà».131
Solo l’ «indugio sugli orrori» potrebbe aiutare a comprendere quanto è avvenuto, anche se le memorie quanto
le testimonianze oculari restano prive di comunicativa.132
______________________________
131
Ibidem, p. 601. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1958.
Sull’inenarrabilità di quanto è accaduto e la testimonianza da affidare alla
memoria vedi: P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1963
e I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986; H. Langbein, Menschen in
Auschwitz, Europa Verlag, Wien 1972, trad. it. Uomini ad Auschwitz, Milano,
Mursia, 1984; B. Bettelheim, Surviving and Other Essay, Knopf, New York,
1979, trad. it. Sopravvivere, Milano, Feltrinelli 1991; J. Améry, Jenseits von
Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, F. Klett, Stuttgart, 1977, trad. it. Un intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri,
1987; R. Antelme, L’Espèce humaine, Paris, 1947, trad. it. La specie umana,
Torino, Einaudi, 1976. Per una riflessione cfr. G. Agamben, Quel che resta di
Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
132
138
E’ vero che né i campi di concentramento né i campi
di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria.
Le fonti133 sono alquanto scarse; si ritiene che i
primi sono stati costruiti dagli spagnoli a Cuba nel 1896
per internare ben 400.000 persone tra vecchi, donne e
bambini, senza per questo conoscere il numero totale
delle vittime della repressione del generale spagnolo
Valeriano Weiler y Nicolau, inventore dei campi di
concentramento. Furono organizzati dagli americani
nelle Filippine nel 1898 per lo scoppio di un’insurrezione e nel 1900 dai britannici in Sudafrica contro la
guerriglia dei boeri, in particolare quelli del libero Stato
di Oranje. Si ebbero accese manifestazioni di protesta
______________________________
133
Gli studi sui campi di concentramento e sulla loro organizzazione
non sono numerosi. Segnaliamo A. J. Kaminski, Konzentrationslager
1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, Münich, Piper, 1982;
trad. it. I campi di concentramento dal 1986 ad oggi. Storia, funzioni,
tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997. K. Hueser, Wewelsburg 1933
bis 1945. Kultund Terrorstatte der SS, Paderborn, Verlag BonifatiusDruckerei Paderborn, 1982; M. Broszat, «Nationalsozialistiche Konzentrationslager 1933-1945», in Anatomie des SS-Staates (Band 2), Munich, Deutsche Taschenbuch Verlag, 1967.
139
da parte dell’opinione pubblica, grazie alla filantropa
Emily Hobhouse che denunciò la disumanità e l’infanticidio del sistema dei campi, colpe infamanti che
macchiavano la classe politica inglese. E un ritorno
positivo non si fece attendere: i campi vennero chiusi.
Non esistono, invece, testimonianze sui campi di
concentramento eretti dal regime clerico-fascista austriaco prima del 1938. Poco dettagliate sono anche le
informazioni relative alle condizioni vigenti in Russia
prima del 1917: all’epoca zarista furono circa trentaduemila i condannati alla katorga, originariamente la
galera, poi pesante pena detentiva comportante i lavori forzati.
Si è cercato di schiacciare i campi nazionalsocialisti
su quelli inglesi ed ispano-coloniali, supposti modelli, ma
è questa una falsa opinione perché i secondi vennero utilizzati nel contesto di guerre coloniali, furono ‘campi per
ostaggi’, mentre i primi furono creati in tempi di pace e
all’interno del territorio nazionale allo scopo di segregarvi gli avversari ideologici, con un eccessivo zelo per di-
140
stogliere l’attenzione da quanto stava accadendo. Per
l’esperienza sovietica, si è utilizzato l’acronimo gulag
(Glavnoye upravleniye lagerej) che sta per «Amministrazione generale dei campi di lavoro», meglio noti come
«campi di concentramento», generando qualche confusione concettuale.
«Specialmente nel regime staliniano, i cui campi
di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto
nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava
di questo; il lavoro coatto era la condizione normale
di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di
spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitrariamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo».134
L’inserimento dei campi di concentramento nella
società sovietica veniva “giustificato” negli anni venti come conseguenza della pianificazione generale dell’economia.
______________________________
134
Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1986 ad oggi.
Storia, funzioni, tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
141
Il dubbio sull’opportunità di parlare di “campi di
concentramento” o meno nell’ Unione Sovietica nasce dal fatto che la maggioranza dei detenuti veniva
deportata - ricordiamo che i campi sovietici sono stati
aboliti da M. S. Gorbacev- per un periodo stabilito in
base ad una sorta di sentenza che richiamava talune
leggi penali, e, quindi, da una prospettiva giuridicoformale i gulag dovrebbero essere equiparati non già
ai campi di concentramento, bensì ai “campi di punizione” nazionalsocialisti.
Un aspetto significativo dei campi di concentramento sovietico consisterebbe nella legalizzazione
dell’arbitrario.
Gunther Specovius sostiene che «a differenza dello Stato nazionalsocialista, l’Unione sovietica conosce “soltanto” campi di punizione o le odierne colonie
di lavoro correzionale, per i quali è prevista una condanna a tempo determinato, mentre la condanna a campi di concentramento, come quelli istituiti dai nazisti,
prevedeva la detenzione a tempo indeterminato.
142
Le condanne a vita erano e sono estranee al diritto penale sovietico».135
Si sa, tuttavia, che soprattutto durante il periodo
delle purghe staliniane, i processi e le pene detentive
sono state delle farse e che i campi sono stati strumenti arbitrari della polizia finalizzati alla conservazione
di un potere politico totalitario. In particolare, nella
realizzazione unitaria di una società senza divisioni
interne, compatta, interamente votata ad uno scopo
comune attraverso le varie attività, attenta, quindi, ad
eliminare i parassiti, gli elementi nocivi ed i rifiuti, si
poteva essere condannati in base all’ art. 58 del Codice penale, consistente, nel capitolo dei «delitti contro
lo Stato», di 14 punti in cui si viene dichiarati «nemico del popolo». Si trattava di un autentico minestrone
perché era molto semplice affossare un uomo, soprattutto per due punti, talmente vaghi da poter essere applicati a chiunque, il punto 10: propaganda antirivo______________________________
135
Ibidem.
143
luzionaria, ribattezzata antisovietica; e il punto 12:
mancata delazione.
La delazione è uno degli strumenti in uso del totalitarismo, necessaria per creare quella fitta trama di
sospetto che rende il popolo nemico di se stesso, così
come la tortura e la presenza e l’attività della polizia
segreta, interamente alla mercé di chi detiene il potere. Si tratta, tuttavia, di caratteri comuni anche a forme di governo autoritari, non rappresentano caratteri
distintivi del totalitarismo quanto il terrore e l’istituzione dei campi di concentramento.
La domanda inquietante è: in questo spazio, che
non è esterno, eppure è posto fuori dell’ordinamento
giuridico riconosciuto -il campo di concentramento è
escluso ed incluso nello stesso tempo nel territorio
nazionale-, quale diritto, quale norma è riconosciuta?
Dovremmo identificare il campo come quello stato
di eccezione di cui parla Schmitt, in cui la norma è
sospesa e la decisione, in virtù dell’articolo 48 della
Costituzione di Weimar, è solo del capo dello Stato.
144
Dovremmo, anzi, sostenere che lo stato di eccezione è ‘voluto’, cioè per esso «il sovrano non si limita più a decidere sull’eccezione, com’era nello spirito
della costituzione di Weimar, sulla base del riconoscimento di una data situazione fattizia (il pericolo della
sicurezza pubblica): esibendo a nudo l’intima struttura di bando che caratterizza il suo potere, egli produce
ora la situazione di fatto come conseguenza della decisione sull’eccezione».136 E dovremmo aggiungere
che nella parvenza di un diritto totalitario viene mascherato il disordine, il caos, la violenza, anche la
mancanza di un conflitto in quanto si nega la diversità, l’esistenza dell’altro.
Colui che viene messo al bando non solo è messo
al di fuori della legge ed è indifferente a questa, ma è
abbandonato da essa, è esposto ad una soglia dove
vita e diritto, esterno ed interno si confondono.
«Il sistema dei campi era un mondo in cui non
______________________________
136
G. Agamben, Homo Sacer, Torino, Einaudi, 1995.
145
valevano le regole e i costumi morali che reggevano
la “normale” società tedesca. In quel nuovo mondo il
tedesco o la tedesca nazisti potevano trattare i tedeschi così come pareva loro giusto, in base alla concezione ideologica che avevano delle vittime, e ai più
bassi e profondi impulsi personali. Il nazismo, nel
mondo dei campi, lasciava loro mano libera».137
Del resto se partiamo dal presupposto che l’internato vive «una vita indegna di essere vissuta», è chiaro che ciò che il totalitarismo tende a creare è una società di morti viventi, interamente piegati, liquidati di
______________________________
137
D. J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e
l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. Lo storico ebreo, contrariamente alla maggior parte delle ricerche sull’Olocausto, sostiene l’idea della
responsabilità individuale dei tedeschi: «è l’opposto della colpevolezza
collettiva». In questo modo, passando da un’imputazione collettiva e
morale ad una personale, si eviterebbe la difficoltà implicita nel processare e nel condannare i criminali nazisti, la trasferibilità sul piano giudiziario. La Arendt non sarebbe d’accordo perché verrebbe meno un carattere del totalitarismo, la negazione di ogni filtro tra responsabilità
individuale e responsabilità collettiva. In un sistema totalitario, «colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso» cosicchè «ci sono
crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare», in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628.
146
ogni carattere umano, incapaci soprattutto di opporsi.
La Arendt li eguaglia al cane di Pavlov che è «l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di
reazioni che si comportano in modo identico, è il cittadino
modello di uno stato totalitario, un cittadino che può essere prodotto solo imperfettamente fuori dei campi».138
E’ solo in questo senso che può realizzarsi quell’ideale -che ogni buon senso ritiene un’utopia irrealizzabiledi società totalitaria, in cui è possibile impadronirsi interamente dell’uomo per trasformarlo in cittadino modello.
La «fabbricazione massiva e demenziale di cadaveri» non è che l’ultimo episodio di una pièce in tre atti di cui
il titolo potrebbe essere: «la preparazione storicamente e
politicamente intelligibile dei cadaveri viventi».139
______________________________
138
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624.
139
Ibidem, p. 612. E’ la «fabbricazione in massa» dei cadaveri, riflesso
di un meccanismo di produzione, la peculiarità del genocidio dei regimi
totalitari: la morte viene privata di ogni sacertà e l’individuo è interamente assoggettato al potere perché cadavere-vivente. Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1997; M. Foucault, Il faut défendre la société, Gallimard-Seuil, Paris, 1997.
147
Il primo passo avviene uccidendo il soggetto di
diritto che è nell’uomo, attraverso la snazionalizzazione e ponendo il Lager al di fuori del sistema penale
ordinario; poi si procede attraverso l’uccisione della
personalità giuridica; infine, con la soppressione della
personalità morale, trionfo dell’ideologia totalitaria,
per cui la coscienza non è più sufficiente e decidere
cosa sia bene e cosa sia male è come valutare assassinio e assassinio.
«Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della
madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale
dei suoi tre figli doveva essere ucciso?».140
Al fine di trasformare gli uomini in morti viventi,
l’atto conclusivo era l’annientamento della loro peculiare identità, la soppressione di quella spontanea unicità
«la quale è foggiata in parti uguali dalla natura, dalla volontà e dal destino, ed è diventata una premessa così evidente che persino gemelli identici ispirano un certo disa______________________________
140
Ibidem, p. 619.
148
gio, suscita un orrore che mette in ombra lo sdegno della
persona giuridico-politica e la disperazione della persona morale. E’ questo orrore che dà luogo alle generalizzazioni nichilistiche, le quali sostengono, abbastanza plausibilmente, che in fondo tutti gli uomini indistintamente
sono bestie. In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la natura è
umana soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la
possibilità di diventare qualcosa di estremamente innaturale, cioè un uomo».141
Se nel campo criminali e politici potevano ancora
rivendicare un brandello di capacità di riconoscimento
di se stessi e dei propri simili, «un ultimo autentico residuo della loro personalita giuridica»142 in quanto appartenevano ad una precisa categoria, avevano fatto
qualcosa, coloro che venivano del tutto annientati erano gli ‘innocenti’, vittime confuse di arresti arbitrari.
______________________________
141
142
Ibidem, pp. 623-624.
Ibidem, p. 616.
149
La Arendt ha osservato che l’arresto arbitrario
come pratica terroristica e strumento ideologico «distrugge la validità del libero consenso come la tortura
distrugge la possibilità dell’opposizione».143
L’arbitrarietà nella selezione del «nemico oggettivo»
è la linfa del sistema concentrazionario. Poiché il fine era
di avere una popolazione dei campi composta da innocenti, esso veniva a negare la libertà umana più efficacemente
che qualsiasi tirannide. In una tirannide, infatti, bisognava
essere un avversario per essere punito, essere all’opposizione e osare la libertà di opinione. Teoricamente, anche
in un regime totalitario si poteva scegliere di stare all’opposizione, ma siffatta libertà cessava nel momento in cui
si profilava la possibilità di appartenere a quella moltitudine scelta arbitrariamente perché ideologicamente indesiderabile per il regime.
«La libertà in questo sistema non solo è ridotta alla
sua ultima garanzia, palesemente indistruttibile, la possi______________________________
143
Ibidem, p. 617.
150
bilità del suicidio, ma ha anche perso il suo carattere distintivo, perché le conseguenze del suo esercizio sono
condivise con persone completamente innocenti».144
La spoliazione dell’individualità, inoltre, privava
l’uomo della sua stessa morte: niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno, come se
non fosse mai esistito.
«Nei paesi totalitari le prigioni e i lager sono organizzati come veri e propri antri dell’oblio in cui chiunque può
andare a finire senza lasciare neppure le usuali tracce dell’esistenza di una persona, un cadavere e una tomba. In
confronto di questa modernissima invenzione per eliminare la gente il vecchio metodo dell’assassinio, politico o
comune, appare davvero inefficiente e primitivo.
L’assassino lascia dietro di sé un cadavere e, benché si sforzi di fare sparire le tracce della propria identità, non ha alcun potere di cancellare l’identità della
vittima dalla memoria dei viventi.
______________________________
144
Ibidem, p. 592.
151
L’azione della polizia segreta, al contrario, riesce miracolosamente a far sì che la vittima non sia mai esistita».145
E’ l’irruzione del male radicale, quel male che la
teologia cristiana e la tradizione filosofica, in particolare Kant, non ha mai potuto definire se non in negativo, come deficienza dell’essere.
«Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che
non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi
motivi dell’interesse egoistico dell’avidità dell’invidia, del
risentimento, della smania del potere, della vigliaccheria;
e quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire».146
______________________________
145
Ibidem.
Ibidem, p. 628. Sul male radicale cfr. La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme, cit. Per un commento critico: Il male, in R. Esposito, Nove
pensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino,1993; P. Amodio, Il problema
del male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto dagli «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989. In particolare R. Esposito, associando il male con la libertà e la legge, scrive: «Il male in politica è
l’autosoppressione della libertà nella forma dell’eliminazione violenta del
suo stesso presupposto. E’ per questo che è portato al livello di massima
radicalità nell’esperienza totalitaria. E tuttavia ciò non significa che coinci146
152
Il male di cui parla la Arendt e che rende l’esperienza
di Auschwitz, inteso come la metafora del campo totalitario, del tutto singolare, è lo strappo della nostra realtà, la
lacerazione della nostra esperienza, il trauma del nostro
pensare.
Esso è il trionfo di un «sistema in cui tutti gli uomini
sono divenuti egualmente superflui», è l’acme di quel nonpensiero proprio dell’uomo-massa che ha eliminato ogni
possibilità di senso comune e spazio politico.147
______________________________
da con essa. Diciamo che il totalitarismo è il suo esito estremo, il suo compimento assoluto. Ma non la sua origine. Altrimenti verrebbe meno la contraddittoria compresenza di male e libertà. Perchè essa sia tenuta ferma è
necessario ipotizzare che quello stesso male che ha raggiunto il proprio culmine nel campo totalitario nasca all’infuori -e prima- di esso. Che anzi il suo
seme spunti all’origine della nostra concezione della politica e sia latente
addirittura in quell’evento che al totalitarismo paradigmaticamente si oppone come la genesi medesima della libertà.
147
Il problema del male rinvia a quello della responsabilità. Era possibile
non appoggiare i crimini politici legalizzati dal sistema? Sarebbe stato possibile evitare la responsabilità giuridica e morale? L’accettazione di un male
minore, come taluno ha sostenuto, è discusso insieme alla tematica della
responsabilità dalla Arendt nel saggio pubblicato su «MicroMega», 4, 1991,
pp. 185-206 dal titolo Responsabilità, ora anche in Aa. Vv., Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Milano, Bruno Mondadori, 1996.
CAPITOLO QUARTO
IL TOTALITARISMO A CONFRONTO
CON LA MODERNITÀ POLITICA
L’inizio,
prima di diventare avvenimento storico,
è la suprema capacità dell’uomo;
politicamente si identifica con la libertà umana.
Initio ut esset creatus est homo
(affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo),
dice Agostino.
Quest’inizio è garantito da ogni nuova nascita,
è in verità ogni uomo.
(H. Arendt)
154
1. Definizione del regime totalitario
Il totalitarismo è l’evento con cui necessariamente e costantemente dobbiamo confrontarci per comprendere il nostro presente.
Non possiamo spiegare quanto è accaduto dopo
Auschwitz o Kolyma se non teniamo conto della frattura che il totalitarismo, nella sua dimensione empirica, ha imposto al pensiero e all’esperienza democratica occidentale.
«Comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non
si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Significa piuttosto esaminare e portare coscientemente
il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle,
non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente
al suo peso.
Comprendere significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente, la realtà, qualunque essa
155
sia».148 E’ la riflessione, poi, che, in sede teorica, ci
consegna quell’idealtipo con cui operare la verifica,
chiudendo così il cerchio: noi partiamo dalla singolarità dell’evento per analizzarlo con strumenti concettuali nuovi e andarlo a verificare concretamente, tenendo conto delle analogie e differenze, variabili che
obbligatoriamente devono rientrare nell’analisi, una
volta che il modello euristico ha individuato le grandi
direttrici.
La Arendt non sarebbe d’accordo ad una estensione del totalitarismo ad altre forme che non siano i
regimi di Hitler e di Stalin. In questo è stata molto
chiara. Il totalitarismo nasce per la crisi della società
borghese, anche laddove, in Russia ad esempio, ne
arriva solo l’esperienza. Nasce per la crisi dei grandi
valori democratici; antisemitismo, imperialismo e per______________________________
148
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. XXXIV. Vedi anche
Understanding and Politics, in «Partisan Rewiew», XX, IV, !953; trad.
it. Comprensione e politica. in La disobbedienza civile, Milano, Giuffrè,
1985.
156
dita dei diritti umani ne sono gli elementi denotativi.
Nasce per la crisi dello Stato-nazione e la perdita dello spazio e del pluralismo politico.
Totalitario, dunque, è quel regime che presenta i
seguenti caratteri:
· atomizzazione della società ed estraneazione degli
individui;
· movimento rivoluzionario recante una ideologica visione del mondo;
· assenza di struttura per l’intrinseca capacità di mobilitazione;
· istituzionalizzazione del caos;
· terrore organizzato al fine di privare gli uomini di
ogni spontaneità;
· sistema dei lager e dei campi di concentramento.
E’ in questo senso che per la Arendt noi non possiamo confondere il totalitarismo né con le dittature a
partito unico né coi regimi autoritari.
Che il totalitarismo possa nuovamente accadere,
non è possibile prevederlo aprioristicamente.
157
Gli storici sono alquanto scettici, poiché concretamente di esso non se ne è mai data una realizzazione
completa, né secondo un modello di società né tramite
la creazione di ‘uomo nuovo’.
Il totalitarismo, in effetti, porta con sé i germi della propria autodistruzione.
E anche in questo senso la Arendt è stata profetica.
Scrive, infatti, nelle pagine conclusive de Le origini del totalitarismo: «Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica,
sociale od economica in maniera degna dell’uomo».149
Ma che senso ha parlare di tentazioni totalitarie?150
______________________________
149
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 429.
Secondo Habermas, la Arendt ha messo correttamente in evidenza
l’importanza del potere comunicativo nelle strutture della sfera pubblica, la cui mancanza o soppressione dà luogo ai movimenti di massa che
sottendono al regime totalitario. Parlare oggi di «tentazioni totalitarie»,
in un epoca post-totalitaria, dovrebbe farci pensare alla nuova forma di
massificazione imposta dai media, per i quali gli spettatori «elettronicamente irretiti» solo apparentemente «prendono posizione», nel senso che
150
158
Forse che esso può essere una deviazione della democrazia occidentale, qualora si diano particolari contingenze storiche? Cos’è che viene meno?
Se il totalitarismo rappresenta l’eclissi del politico nel XX sec., allora è proprio il politico che va ripensato attraverso un nuovo criterio: la libertà.
Non è un caso che la Arendt sostenga che «ciò
che è andato storto è la politica».151
Se per la modernità la politica -o il politico- si è
identificata con lo Stato, se è vero che la crisi dello
Stato-nazione ha contribuito all’accadere del totalitarismo, se è anche vero che con esso si è dato scacco al
pensiero occidentale, di cui già era stata preconizzato
______________________________
«permangono strutture che bloccano lo scambio orizzontale di spontanee prese di posizione (ossia l’uso delle libertà comunicative), e che
inducono gli isolati e privatizzati spettatori a collettivizzare in maniera
scoraggiante le loro idee». J. Habermas, Colloquio su alcuni problemi di
teoria politica. Un’intervista di M. Carleheden e R. Gabriels, in «Informazione filosofica», n. 28, maggio 1995, pp.21-22.
151
H. Arendt, Was ist Politik?, R. Piper GmbH & Co KG, München,
1993; trad. it. a cura di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni Comunità, 1995.
159
il tramonto, allora occorre operare dei distinguo nell’ordine del lessico politico, creare nuovi paradigmi
con cui decifrare la complessità dell’esistente: tornare, quindi, alle origini dell’esperienza umana, al di fuori
di ogni incrostazione metafisica, al di là di ogni confusione concettuale.
160
2. Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato
totalitario. Confronto legittimo?
In Le origini del totalitarismo, la polemica della
Arendt è non solo diretta alla grande scuola del diritto
degli anni ‘30, di cui Schmitt ne era il portavoce più
influente, ma anche ai teorici del pensiero borghese,
Hobbes e Rousseau, teorici della sovranità ovvero di
quella capacità dello Stato di essere un unico centro di
potere e il soggetto esclusivo della politica.
Il monismo statuale, inteso come reductio ad unum
della pluralità dell’azione umana, è uno dei caratteri
della modernità che ha contribuito alla formazione della
mentalità totalitaria. Con ciò, tuttavia, la Arendt non
vuol sostenere che Hobbes o Rousseau siano i padri
del totalitarismo.
Scrive la Arendt che Hobbes è l’unico grande filosofo della borghesia perché la sua concezione dell’individuo è «un ritratto quasi completo, non dell’Uomo in quanto tale, ma dell’uomo borghese, un analisi
161
che in trecento anni non ha perso d’attualità né è stata
superata».152
L’uomo borghese è una funzione della società e
la volontà di potenza è la sua passione fondamentale.
La relazione tra gli uomini che dovrebbe fondare il
corpo politico è, secondo la visione che la Arendt ha
della teoria politica hobbesiana, connessa esclusivamente all’interesse privato, senza, quindi, vincoli permanenti, né responsabilità e solidarietà.
In Hobbes l’uomo è sempre solo, le sue azioni
hanno carattere privato e lo stesso Commonwealth,
basato sulla delegazione dei poteri, in realtà, qualora
venissero meno i presupposti del patto, manifesta la
sua fragilità perché, non essendovi una comunità genuina, ognuno proteggerebbe se stesso. «Il “Commonwealth” di Hobbes è una struttura vacillante che
deve procurarsi sempre nuovi puntelli dall’esterno;
______________________________
152
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 196. Th. Hobbes,
Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1989. Per una lettura del pensiero hobbesiano: G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993.
162
altrimenti precipiterebbe di colpo nell’insensato assurdo caos degli interessi privati da cui è scaturito».153
Il privato, il sociale, si è confuso con la sfera pubblica; il potere e la necessità hanno avuto il monopolio sui diritti e la libertà.
Lo Stato-Leviatano di Hobbes precorre sul piano
ideale lo stato totalitario?
Sarebbe impossibile non pensarlo se tenessimo
solo conto dell’incisione a mo’ di frontespizio dell’opera hobbesiana: questo ‘sovrano’ mostruosamente grande che sovrasta il mondo reggendo la spada e il pastorale, simboli del potere temporale e religioso, il cui
corpo è formato da tanti minuscoli sudditi, i ‘molti’,
da cui esso prende vita e potere.
La Arendt mette in evidenza come la concezione unitaria dello Stato in Hobbes ha sacrificato la pluralità e ha
distrutto lo spazio politico: l’unità si è realizzata nel ‘dominio’. E il dominio distrugge lo spazio politico.
______________________________
153
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 198.
163
La ragion d’essere dello Stato hobbesiano è nel
bisogno di sicurezza dell’individuo che si sente minacciato dai suoi simili e l’uguaglianza tra i sudditi
non è l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla
legge perché hanno uguali diritti e uguale dignità,
bensì è un’uguaglianza che poggia le sue fragili basi
sulla concezione della forza nella lotta per il potere.
L’interesse privato, dunque, è il bene comune, il potere è la forza e ad una accumulazione illimitata di
beni corrisponde un’accumulazione illimitata di potere: da qui l’intrinseca instabilità del Commonwealth, basato, appunto, su una delegazione di potere
piuttosto che di diritti.
La versione verticale del potere che si trova in
Hobbes, in virtù del patto di soggezione, comporta
che ciascun individuo dia il suo consenso «ad essere
sottoposto ad un governo, il cui potere consiste nella
somma totale delle forze che tutti i singoli individui
hanno incanalato in esso, e che vengono monopolizzate dal governo per il preteso beneficio di tutti i
164
sudditi».154 L’azione dei pattuenti, cioè, è vincolata
alla rinuncia di uno spazio politico, quindi all’azione
interrelata, e ciò che ne deriva è l’isolamento, l’atomizzazione degli individui. «L’azione -dice la Arendt- non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati
significa essere privati della facoltà di agire».155
Più che come autore di una possibile Weltaschauung totalitaria, tuttavia, per la Arendt, Hobbes contribuisce a quella ideologia ‘progressista’ del tardo XIX
sec. che preannuncia l’ascesa dell’imperialismo.
Lo stessa critica, potremmo dire, traspare nella
valutazione della volontà generale in Rousseau, che
pure è considerato padre dei giacobini e teorico della
democrazia diretta. La Arendt mette in evidenza che
anch’egli opera quella reductio ad unum dello Stato
che azzera il pluralismo come singolare capacità
______________________________
154
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. L’opera, pubblicata dalla Arendt
nel 1963, è stata riedita nel 1965 con alcune «piccole ma importanti
modifiche».
155
H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1959; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 137.
165
d’azione degli individui e fa coincidere la volontà generale con la sovranità unica e indivisibile.
Secondo la Arendt la sovranità non può essere
confusa con l’autorità.
Tale identificazione darebbe luogo a deviazioni
dittatoriali perché da una stessa matrice,
sovranità=autorità, deriverebbero il potere e l’autorità, la legalità e la legittimità, istanze che, invece, dovrebbero restare separate per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche.
Ciò che ha a cuore la Arendt, in effetti, è capire come
sia possibile che le democrazie possano deviare in dittature e totalitarismo, se sono già in esse i germi di questa
devianza e quale è la condizione ottimale, se esiste, perché questa deviazione verso il terrore o verso il dominio
totalitario di una maggioranza non accada.
Il suo approccio ermeneutico consiste nello studiare l’origine delle democrazie moderne, la fondazione di queste come fondazione del nuovo, la creazione, nel senso romano del termine, di una tradizione
166
e di una autorità. Ella si pone, cioè, questo interrogativo: è stata possibile la fondazione di un nuovo corpo
politico in cui ogni singolo ha potuto partecipare alla
vita politica? E come? Cosa ha significato fondare un
corpo politico sulla libertà? Che cosa è storicamente
avvenuto?
167
3. L’inedito nella storia: le rivoluzioni.
‘Liberazione da’ o ‘libertà di’:
qual è il fondamento del nuovo corpo politico?
La politica come natalità.
La Arendt individua nella rivoluzione il momento in cui è possibile l’affermazione, nell’età moderna,
di una politica autentica, intendendo per ‘età moderna’ quel periodo di tempo in cui sembra che l’azione
politica progressivamente vada scomparendo fino ad
estinguersi del tutto con il totalitarismo.
La rivoluzione, anzi la storia delle rivoluzioni, quella
americana del 1776, quella francese del 1789, infine quella ungherese del 1956, diventano, quindi, la chiave interpretativa dei fenomeni storici moderni.156
______________________________
156
Alcune critiche sono state mosse a riguardo: 1) Habermas sostiene
che la Arendt abbia distinto e contrapposto una ‘buona’ ed una ‘cattiva’
rivoluzione, l’una politica, la rivoluzione americana, l’altra sociale, quella
francese. Si potrebbe obiettare che la Arendt comunque sottolinea che la
rivoluzione americana fallisce nei suoi effetti perché i cittadini poi intendono la libertà come libertà della sfera privata contro il mondo politico. 2) Lo storico Hobsbawm ritiene che la Arendt avrebbe dovuto te-
168
Che cosa s’intende per rivoluzione?157
La Arendt cerca di recuperare il significato autentico della nozione in relazione con i concetti di libertà e potere, anch’essi sclerotizzati da schemi e teo______________________________
nere in debito conto anche la prima rivoluzione inglese. Questo non è
possibile perché la Arendt è stata molto più attenta a quelle rivoluzioni
che sul piano delle istituzioni hanno dato luogo a delle reali modifiche:
la rivoluzione dei livellatori è stata una rivoluzione mancata, sebbene
abbia aperto la strada alla monarchia costituzionale. 3) Per Nisbet la
Arendt ha minimizzato la questione sociale presente in America. Questa
obiezione non tiene conto, tuttavia, che non c’era la stessa pressione sul
governo americano come dei sanculotti sui giacobini, né le stesse vertenze economiche.
157
«La rivoluzione è il tentativo accompagnato dall’uso della violenza
di rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle al fine di effettuare profondi mutamenti nei rapporti politici, nell’ordinamento giuridico-costituzionale e nella sfera socio-economica. (...) La necessità dell’impiego della violenza come elemento costitutivo di una rivoluzione
può essere teorizzato in astratto, ma senza fondamenta storiche, rilevando come le classi dirigenti non cedano il loro potere spontaneamente e
senza opporre resistenza e come quindi i rivoluzionari siano costretti a
strapparlo loro con la forza, e sottolineando inoltre che i mutamenti introdotti dalla rivoluzione non possono essere accettati pacificamente,
poiché significano perdita di potere, status e ricchezza per tutte le classi
colpite. (...) ...in taluni casi le rivoluzioni sono forzature della storia,
forse inevitabili ma pur sempre forzature». G. Pasquino, Rivoluzione, in
N. Bobbio, N. Metteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, op. cit.
169
rie reciprocamente escludentisi. Ella sostiene che non
esiste il mito della violenza rivoluzionaria creatrice,
né che la rivoluzione vada interpretata come una ‘figura’ del progressivo avanzare dello spirito assoluto
oppure come lo sbocco necessitato delle contraddizioni
economico-sociali.
Lontano dalla prospettiva hegeliana e marxista,
la Arendt opera un distinguo tra libertà e liberazione:
«la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca
automaticamente; (...) il concetto di libertà implicito
nella liberazione può essere solo negativo, e quindi
l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio
di libertà».158
La libertà non può essere ‘liberazione da’ così come
l’evento rivoluzionario non può essere necessitato o determinato da forze storiche. Esso, anzi, si sostanzia della
libertà che è ciò che appare nella relazione plurale tra gli
______________________________
158
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
170
uomini che partecipano alla vita pubblica, è capacità corale di dare vita e partecipare al nuovo assetto politico.
Libertà non è necessità né atto di volontà.
La rivoluzione, dice la Arendt, «si decide da sola»,
sulla base di fatti ed avvenimenti per i quali gli uomini
sono attori-spettatori e non autori.
Vicina alla teoria di Rosa Luxemburg, ella ritiene
che «una buona organizzazione dell’azione rivoluzionaria può e deve essere appresa nel corso stesso della
rivoluzione, allo stesso modo in cui si impara a nuotare soltanto nell’acqua. (...) Le rivoluzioni non sono
“fatte” da nessuno, ma erompono spontaneamente».159
Le rivoluzioni sono gli eventi che irrompono nella routine della storia e ne cambiano il volto; sono atti
inaugurali di un nuovo inizio, la cui conoscenza, da
parte dei protagonisti, emerge solo «dopo che essi erano
giunti, in gran parte contro la loro volontà, ad un punto da cui non si poteva tornare più indietro».160
______________________________
159
160
Ibidem.
Ibidem.
171
Il termine rivoluzione venne mutuato dall’astronomia e solo nel 1660 venne utilizzato per designare
un cambiamento politico, la restaurazione della monarchia in Inghilterra.
La rivoluzione era essenzialmente ‘rivoluzione
conservatrice’.
Chi era entrato nel gioco rivoluzionario credeva di
poter restaurare un antico ordine di cose, cose appartenenti al passato, e, solo nel corso stesso della rivoluzione, si
rese conto che ciò era impossibile. Si trattava di una impresa totalmente nuova, una novità assoluta.
«Ciò che essi avevano concepito come una restaurazione, un recupero delle loro antiche libertà, divenne invece una rivoluzione».
Gli uomini della rivoluzione si resero conto solo
dopo che avevano la possibilità non già di ripristinare
una tradizione consumata bensì creare un nuovo ordine politico, la repubblica, un novus ordo saeclorum.
E’ questo il significato autentico di rivoluzione,
la cui idea centrale «è l’instaurazione della libertà, os-
172
sia la fondazione di uno stato che garantisca lo spazio
in cui la libertà può manifestarsi».161
L’analisi comparativistica delle due importanti rivoluzioni dell’età moderna, quella americana e quella
francese, pur presentando delle limitazioni, tenta un
discorso che non si riduca all’astrattezza, che resti, cioè,
puramente teorico, anche se per gli specialisti questo
è un aspetto spesso insoddisfacente.
Il disegno della Arendt è seguire la tradizione democratica per raccontarne la fondazione e capire come
mai la tradizione filosofica, sia da Hobbes a Schmitt
che da Rousseau agli eredi dei giacobini, non è riuscita ad impedire il totalitarismo.
«In termini generali possiamo dire che nessuna
rivoluzione è addirittura possibile là dove l’autorità
dello Stato è veramente intatta (...). Le rivoluzioni
sembrano sempre riuscire con straordinaria facilità
nella loro fase iniziale e la ragione è che i loro arte______________________________
161
Ibidem.
173
fici all’inizio non fanno che strappare il potere ad un
regime in piena disgregazione.
Sono insomma la conseguenza non la causa del
crollo dell’autorità politica».162
Dovremmo pensare che l’avvento del nazionalsocialismo è stato conseguenza della crisi della Repubblica di Weimar: la vulnerabilità delle istituzioni
e il malcontento sociale hanno favorito il partito nazionalsocialista e la violenza adottata per giustificare la trasformazione radicale del ‘vecchio ordine’.
La presa di potere di Hitler in Germania era salutata dai nazionalsocialisti come «rivoluzione nazionale»163 : in realtà, sebbene «nei primi anni del loro
______________________________
162
Ibidem.
Cfr. Bracher, che sostiene «Propagandisti, politici e giuristi nazionalsocialisti fin da principio si preoccuparono particolarmente di sottolineare che
il governo hitleriano avrebbe significato l’inizio di una rivoluzione, di un
profondo mutamento di tutte le cose, ma che si trattava di un processo legale, svolgentesi nell’ambito del diritto e della costituzione. Mediante il concetto paradossale di rivoluzione legale vennero uniti artificiosamente due
assiomi della azione politica che si contraddicevano reciprocamente». K. D.
Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazional163
174
regime i nazisti riversarono sul paese una valanga di
leggi e decreti»,164 non venne mai abrogata la carta
costituzionale di Weimar, tant’è che essa era formalmente in vigore ancora al momento della dissoluzione della Germania e della morte del Führer.
La rivoluzione in quanto tale non può non condurre, secondo l’accezione arendtiana, ad una nuova costituzione, segno tangibile della fondazione del nuovo
corpo politico.165
Nonostante la dichiarazione di voler attuare una
______________________________
socialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. Anche Nolte scrive che in Germania
«si compì una rivoluzione senza alcuna violazione rivoluzionaria della legalità vigente (e insieme senz’ombra di rispetto per essa) ». E. Nolte, I tre
volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971.
164
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. , p. 541.
165
La costituzione è la struttura stessa di una comunità politica organizzata. L’esigenza di una costituzione scritta fu per la prima volta avvertita
in Inghilterra durante il periodo delle guerre civili, sebbene questa restasse poi fedele alla costituzione consuetudinaria. La prima costituzione scritta fu quella della Virginia nel 1776, a cui seguirono altri stati
americani, fino a che, nel 1788, venne portato a termine il processo costituente con la ratifica, da parte della maggioranza degli stati, della costituzione degli Stati Uniti d’America, stesa alla Convenzione di Filadelfia, costituzione da allora ancora vigente.
175
«rivoluzione permanente»,166 con il nazionalsocialismo, invece, non si è avuto alcun ammodernamento
delle istituzioni.
In America, invece, con la rivoluzione del 1776,
era accaduto proprio il contrario.
La rivoluzione americana aveva avuto il pregio di
mettere in evidenza la possibilità dell’agire politico
autentico: nel nuovo mondo, il patto sottoscritto l’11
novembre del 1620 sul Mayflower dai Padri Fondatori aveva coniugato potere politico e libertà, felicità e
vita pubblica grazie ad una nuova concezione del politico come «pratica di libertà». «Ciò che in realtà fece
la rivoluzione americana fu di portare alla ribalta la
nuova esperienza ed il nuovo concetto di potere americano. Come la prosperità e l’uguaglianza di condizioni questo nuovo potere era più antico della rivolu______________________________
166
La nozione di ‘rivoluzione permanente’ rinvia al carattere di movimento incessante, di mobilitazione che doveva impedire la stabilità del
governo. Per questo l’hitlerismo mette in atto una selezione razziale incessante affinché si prevenga l’anchilosi del Volk, mentre lo stalinismo
attua una lunga serie di epurazioni e trasferimenti della popolazione.
176
zione, ma non sarebbe sopravvissuto senza la fondazione di un organismo politico, destinato esplicitamente a difenderlo e a conservarlo; senza rivoluzione, in
altre parole, quel nuovo principio di potere sarebbe
rimasto nascosto».167
Diversamente era stato per la rivoluzione francese, il cui esito fu fallimentare, da una parte perché si
rivelò più astratta, progettata da intellettuali interessati ad elaborare idee e teorie piuttosto che pratica politica, dall’altra per l’emergenza della questione sociale, per cui la libertà veniva ad identificarsi con la liberazione dal bisogno.
Non la libertà pubblica era lo scopo dei rivoluzionari, bensì il benessere del popolo.
In concreto, «quando si scatenò questa forza, quando ognuno fu convinto che solo l’interesse nudo e il
______________________________
167
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. Peraltro, il patto dei Padri Pellegrini, che erano giunti sulle desolate spiagge di Cape Cod, servì a fondare
la comunità politica di Plymouth: fu il punto di avvio di altrettanti covenants ed agreements da cui, nel New England, nacquero numerose comunità.
177
bisogno erano senza ipocrisia, i malheureux si cambiarono in enragés, perché la rabbia è in realtà l’unica
forma in cui la miseria può diventare attiva».168
Per la Arendt viene a confondersi ciò che è necessariamente legato alla natura dell’uomo e ciò che gli
conferisce identità e dignità, poiché con la rivoluzione francese la politica viene subordinata alla questione sociale, ergo all’economico.
Tale confusione è particolarmente evidente nella
nozione di popolo.
«La definizione stessa del termine era nata dalla
compassione e la parola divenne sinonimo di sfortuna
e infelicità -le peuple, les malheurex m’applaudissent,
soleva dire Robespierre; le peuple toujours malheurex, come si esprimeva perfino Sieyès, una delle figure meno sentimentali e più lucide della Rivoluzione».169
Il termine popolo rinvia tanto al soggetto politico
costitutivo quanto alla classe che di fatto é esclusa dalla
______________________________
168
169
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
Ibidem.
178
politica. Sia nell’italiano popolo che nel francese peuple o lo spagnolo pueblo, con i connessi aggettivi, è
presente questa ambiguità semantica; lo stesso per l’inglese people, che conserva, anzi, un ordinary people
in opposizione alla nobiltà.170
Popolo e popolo, quindi, una frattura che ha deviato l’azione politica in Europa fin dalla Rivoluzione
francese.
In Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva
rimarcato che nel momento in cui il popolo tedesco si
era riconosciuto nella razza ariana era Volks per il diritto, corpo politico integrale, e sanciva così l’esclu______________________________
170
«Nella costituzione americana si legge, senza distinzioni di sorta,
“We, the people of the United States...”; ma quando Lincoln, nel discorso di Gettisburgh, invoca un “Governement of the people by the people
for the people”, la ripetizione contrappone implicitamente al primo popolo un altro», da G. Agamben, Mezzi senza fini, op. cit., p.30. L’abate
Sieyès, autore del famoso Qu’est-ce que le Tiers Etat? (1789) aveva
parlato della ‘nazione’ come se intendesse l’intero popolo francese. In
realtà il riferimento era per la borghesia: la ‘nazione’ borghese era un’unità compatta esprimente non l’empirica volontà generale, bensì l’assoluta volontà generale per cui si condannavano i partiti e le fazioni. Anche
in questo caso il termine popolo risulta equivoco.
179
sione dai diritti il cittadinanza degli ebrei e di quanti
identificava con la categoria di «nemico oggettivo».171
Una legge di natura, dunque, aveva finito per permeare il diritto rendendo ancor più catastrofica la frattura Popolo e popolo.
L’equivoco, dunque, che compromise il buon esito della rivoluzione francese fu il voler «emancipare
la natura», voler porre una soluzione ai bisogni naturali: «La necessità invase così il campo del politico,
l’unico in cui gli uomini possono essere liberi».172
In America esistevano delle precondizioni, la relativa eguaglianza e la mancanza di una radicale questione
sociale, le quali permisero che il sociale, il privato, non
inficiasse la politica. La felicità era ‘felicità pubblica’, il
consenso era ‘scambio di opinioni tra eguali’, la sovranità
del popolo non era concezione assoluta.
______________________________
171
Con la ‘soluzione finale’, i nazisti tentarono di eliminare dalla scena
politica gli ‘indesiderabili’, compito che essi ostinatamente andavano
ad assolvere anche per gli altri popoli europei.
172
H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
180
La pratica politica del Mayflower Compact, mai
interrotta dalla posterità dei Padri Fondatori, aveva
portato in risalto che la capacità umana di costituire il
mondo avrebbe di per sé garantito e tutelato gli uomini dalle pulsioni naturali.
Nessun ricorso, quindi, a finzioni circa la natura
dell’uomo, come volevano le classiche teorie contrattualistiche, né alcun ricorso all’Assoluto - Robespierre
aveva reclamato l’ «Essere Supremo» come garanzia
della stabilità della repubblica laddove nel contesto religioso, tipicamente europeo, si faceva ancora appello
al «Dio Onnipotente» che aveva dotato gli uomini di
«diritti inalienabili».
La rivoluzione francese non aveva fatto altro che
sostituire la volontà del popolo, che si rivela come
dispotismo della maggioranza, sul dominio dell’uomo
sull’uomo e riconoscere la sottomissione dell’uomo
alla legge divina o morale, mantenendo ben ferma la
confusione tra potere e dominio.
E per la Arendt il dominio è una interpretazione
181
falsificata e falsificante del potere.173 Non solo. Il buon
esito della rivoluzione francese sarebbe stato deviato
dal terrore.
La considerazione che il terrore sia lo strumento
che permetta la conservazione del potere e che la violenza sia necessaria per la creazione di un corpo politico viene confutata dalla Arendt facendo riferimento al racconto di Melville, Billy Budd, e all’episodio
del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij.
Ella si serve di queste due opere letterarie per
mostrare come, nella storia, chiunque, sia esso popolo, classe o individuo, si ponga come depositario del
bene assoluto risponda poi con la violenza all’ingiustizia. Non esiste nessuna violenza necessaria, anzi essa
testimonia di un vuoto del diritto e, quindi, di un vuo______________________________
173
Illuminante è il saggio di P. Ricoeur «Pouvoir et violence», in Politique et pensée. Colloque Hannah Arendt, Éditions Payot & Rivages, Paris, 1996. Questa raccolta di saggi è apparsa per la prima volta con il
titolo Ontologie et politique. Hannah Arendt, presso le edizioni Tierce,
1989.
182
to della giustizia. Lo stesso deve dirsi per il terrore
totalitario.
Durante la rivoluzione, in Francia, la compassione
dei miserabili si era impadronita degli animi più elevati e
li aveva spinti ad azioni non pertinenti alla politica. Il loro
obiettivo divenne lo smascheramento dell’ipocrisia, dell’inganno sociale, in un tempo, quello della monarchia assoluta, in cui facilmente si violavano i giuramenti e si passava all’intrigo. Già per Rousseau il male principale della
società era l’ipocrisia, cioè la mancanza di promesse, non
mantenute dal potere centrale, verso il popolo. Se per Socrate l’ipocrita era il falso testimone di se stesso, il peggiore degli uomini quindi, per Machiavelli, con cui la Arendt
è d’accordo, l’ipocrita è colui che appare quale vuole essere stimato.174
______________________________
174
Simulazione e dissimulazione sono termini chiave per il discorso sul
politico. Simulazione è mostrare di essere ciò che non si è ed ha uno
spettro di comportamenti ben più ampio, in campo politico, della dissimulazione, che, in quanto è nascondere ciò che si è realmente, si limita
alla sola sfera dell’inganno più o meno cosciente. cfr. N. Machiavelli, Il
Principe, Milano, Feltrinelli, 1995.
183
Nel campo delle relazioni umane, infatti, là dove c’è
apparenza di virtù, ci sono anche gli effetti della virtù e
poco importa se qualcosa di imperscrutabile vi si nasconda.
La deviazione verso il terrore per la rivoluzione francese deriva dal fatto che elementi moralistici erano, come
la compassione e lo smascheramento dell’ipocrisia erano
entrati nella pratica politica, scatenando furori e annullando il regno del diritto che garantisce e tutela tutti.
Lo stesso Robespierre, che pretendeva di essere il
depositario della virtù, era diventato l’uomo del terrore. Nel clima di sospetto che circondava i rivoluzionari, chiunque poteva essere sospettato di ipocrisia e di
essere nemico del popolo.
La Arendt, per questo motivo, sostiene la teoria
di Montesquieu,175 che, peraltro, contrappone a Rous______________________________
175
Montesquieu, fedele all’antica iurisdictio, teneva soprattutto all’indipendenza della funzione giudiziaria dal politico e al governo misto,
visto in funzione dei checs and balances, dei pesi e dei contrappesi per
realizzare un equilibrio costituzionale. Era, dunque, necessaria la separazione di «questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le
risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o giudicare le controversie dei privati».
184
seau. Secondo l’autore dell’ Esprit des lois la virtù non
è un assoluto, deve essere moderata e non deve entrare nella politica. Il teorico del costituzionalismo riteneva che la garanzia della pluralità risiedeva nella ripartizione del potere, in modo tale da mediare le tensioni e i rapporti di forza.
Riproporre Montesquieu e il contrattualismo anglosassone come riflessione sul patto e sulle istituzioni realmente esistenti, conduce la Arendt a riflettere
anche sulle modalità della rappresentanza.
La pluralità non può essere rappresentata, innanzitutto perché è l’unicità degli esseri che la esclude,
poi perché il concetto di rappresentanza implica l’assenza dei rappresentati, quindi la spoliticizzazione della
politica. La rappresentanza si definisce, dunque, come
rapporto di dominio di alcuni uomini su altri, come
organizzazione della forza dei governanti, come disciplinamento centralizzato della decisione. Non c’è
alcunché in comune se non uno spazio.
Alla constitutio libertatis, dunque, cosa occorre?
185
Storicamente in tutte le rivoluzioni si è attuata l’organizzazione spontanea dei consigli: in quella americana di
Jefferson, nella Comune di Parigi, nei Soviet, persino nella rivoluzione ungherese del 1956. Essi sono la manifestazione della vera democrazia perché si dà a tutto il popolo la possibilità di agire e di essere responsabili delle
proprie azioni e dell’andamento egli eventi.
E’ garantita l’imprevedibilità, la pluralità, la partecipazione diretta. Nella tradizione occidentale questi sono caratteri a cui si è pensato sempre di porre
rimedio, ad esempio con la formazione dei partiti.
Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva già
espresso un giudizio secco e negativo sull’attività dei partiti. Questi funzionavano come cinghia di trasmissione
dell’interesse individuale nell’interesse collettivo, come
gruppo di interesse senza riuscire a garantire la singolarità
che si manifesta nella relazione plurale.
Sono esposti alla corruzione e all’inefficienza;
sono antidemocratici per il fatto che indicano i candidati che il cittadino-elettore andrà a votare.
186
Nei consigli, invece, il popolo poteva gestire gli
affari politici direttamente; ogni consiglio avrebbe eletto i rappresentanti da inviare ai consigli superiori, secondo una piramide che avrebbe formato una élite affettivamente democratica.
Pur proponendo l’abolizione del suffragio universale, la Arendt ritiene che il metodo dell’alternanza di
due soli partiti possa preservare il sistema da eventuali blocchi e pericoli: l’opposizione di un periodo sarà
al potere in un altro momento, senza per questo perdere la responsabilità dell’azione politica. Una responsabilità che manca nel caso di più partiti al potere e del
tutto assente sia nella società di massa, in cui i singoli
sono deresponsabilizzati alla politica, sia nel totalitarismo, ove tutto è nelle mani del capo.
E’ chiaro che istituzioni e leggi sono il perno fondamentale per il corretto funzionamento della democrazia, quanto il consenso.
Quanto, però, i consigli, contrari all’isolamento del
singolo e luogo privilegiato della pluralità irrapresen-
187
tabile e dell’azione intesa come nuovo inizio, sono praticabili? L’orientamento della Arendt resta un’alternativa utopica o, quantomeno, non realistica?
CONCLUSIONI
189
In Le origini del totalitarismo la Arendt sottolinea spesso come il totalitarismo distrugge il presupposto di ogni libertà, annulla la capacità di agire di
concerto, azzera quello spazio che esiste tra ciascun
uomo libero estraniandolo.
Abbiamo visto come i prodromi dell’ideologia
totalitaria siano nella crisi dello Stato-nazione e nel
contesto socio-culturale-politico in cui si attua l’antisemitismo e l’imperialismo. Abbiamo visto come ai
margini della tradizione egemone siano esistite potenzialità politiche che si sono sottratte alla categoria del
dominio: l’esperienza della rivoluzione americana e
dei sistemi consiliari.
Se è necessario ripensare la politica, cosa la Arendt
intende per politica?
Un punto è da tener ben presente: la deviazione della
politica è stata evidente quando la sfera del privato si è
confusa, anzi, si è identificata con la sfera pubblica; in
altre parole, quando lo Stato si è aperto alla società o, se
vogliamo, la società è permeata nello Stato. Sono venute
190
meno le categorie tradizionali del pensiero politico: Stato,
sovranità, autorità, potere ed altre.
La Arendt non ha mai identificato il politico con
lo Stato, semmai ne ha rivendicato l’autonomia sottraendolo al dominio, lo strumento di coercizione con cui
da Platone in poi si è pensato il potere politico. Anzi,
nella tradizione del pensiero occidentale, il potere è
stato sempre connesso alla violenza come qualcosa di
inscindibile; invece, essi si escludono a vicenda.
I Padri Fondatori americani erano riusciti a istituire
uno spazio politico senza fare ricorso alla violenza, servendosi solo di una costituzione, anche non erano riusciti
a comunicare nel tempo a venire lo spirito della loro innovativa esperienza. E’ possibile una fondazione senza violenza; è possibile esercitare il potere senza violenza.
Nella tradizione occidentale, la Arendt rileva che
molti attori rivoluzionari confondono l’atto plurale e
politico della fondazione, da cui deriva l’autorità del
nuovo corpo politico, con la violenza. Ricordando
Machiavelli e Robespierre, dice che «il loro problema
191
era, alla lettera, quello di come fare un’Italia unita o
una repubblica francese, e la loro giustificazione della
violenza nasceva e riceveva la sua intrinseca plausibilità dall’argomentazione sottesa: come non si può fare
un tavolo senza abbattere degli alberi, o una frittata
senza rompere le uova, neppure si può fare una Repubblica senza uccidere qualcuno».176
Così dovremmo giustificare anche il terrore totalitario?
E’ indicibile il passaggio dal «tutto è permesso»
al «tutto è possibile» dei campi di concentramento e
della violenza psicologica che riduce gli uomini ad «un
unico fascio di reazioni».177
«Il dominio per mezzo della pura violenza entra
in gioco quando si sta perdendo il potere».178
______________________________
176
H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, cit.; trad.
it. Che cos’è l’autorità? , in Id., Tra passato e futuro, cit.
177
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
178
H. Arendt, On Violence, Harcourt, Brace & World, 1970, poi in The
Crisis of the Republic, San Diego- New York- London, Harcourt Brace
Jovanovich, 1972; trad. it. Sulla violenza, in Politica e menzogna, Milano, SugarCo,1985, p. 201.
192
E ancora: «La violenza può sempre distruggere il
potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla
canna di un fucile è il potere».179
Il potere è tale per l’essere-insieme degli uomini,
non è rappresentabile né alienabile, né coincide sull’unanimità.
La Arendt pensa il consenso nei termini di un ‘dissidio’ su cui si acconsente e si può continuare a dissentire. E’ rispetto delle differenze, riconoscimento
della pluralità.
Lo spazio in comune, che non è unicamente spazio fisico, territoriale, bensì è la possibilità dello stare-insieme avendo qualcosa in comune, è il mondo.
Il ‘mondo’ è la ‘casa’ che ‘abitano’ gli uomini. E’
lo spazio dell’apparenza, è il pubblico.
«Il termine “pubblico” equivale al mondo stesso,
______________________________
179
Ibidem, p. 202.
193
in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che
ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo
tuttavia non si identifica con la terra e con la natura,
come spazio limitato che fa da sfondo al movimento
degli uomini e alle condizioni generali della vita organica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con
le relazioni che intercorrono tra coloro che insieme
abitano il mondo fatto dall’uomo».180
La Arendt è preoccupata -e Le origini del totalitarismo lo confermano- per la riduzione degli uomini
in esemplari seriali nella ‘società di massa’, e, soprattutto, se si tratta di una società totalitaria.
E’ come se la vita stessa, nella sua nudità, fosse
entrata per necessità nel dominio pubblico creando
uniformità e spersonalizzazione.
«Il carattere monolitico di ogni tipo di società, il
suo conformismo che concede un interesse solo e una
______________________________
180
H. Arendt, The Human Condition, op. cit.
194
sola opinione, è in ultima analisi radicato nell’ essereuno del genere umano».181
La società è così omogenea perché tutti gli individui hanno i medesimi bisogni materiali, la stessa urgenza di provvedere alle necessità della vita. E se un
tempo la distinzione era il contrassegno dell’azione
politica, ora è la moda, l’atteggiamento stravagante,
l’effimero.
Pertanto è la burocrazia che politicamente la riflette.
«Ciò che noi tradizionalmente chiamiamo Stato e
governo lascia qui il posto alla pura amministrazione: a
quello stato di affari che Marx giustamente prediceva come
“l’estinzione dello Stato”, benché sbagliasse nel credere
che solo una rivoluzione potesse causarla».182
Si concretizza «the rule of nobody».
«Il governo di nessuno non è necessariamente un
non-governo; esso può, anzi, in certe circostanze, pro______________________________
181
182
Ibidem, p. 34.
Ibidem, p. 33.
195
dursi in manifestazioni ancora più crudeli e tiranniche
di quelle consuete».183
Il totalitarismo ne è il mostruoso esempio.
Ich selber wirchen? nein, ich will
verstehen. Und wenn andere menschen
verstehen-im sselben Sinne, wie
ich verstanden habe dann gibt mir
das eine Befriedigung wie ein Heimatgefühl.184
______________________________
183
Ibidem, p. 30.
«Io esercitare un influsso? No, io voglio capire. E se altri poi capiscono -alla stessa maniera in cui ho capito io- mi dà un senso di soddisfazione come una patria comune».
184
BIBLIOGRAFIA
197
SCRITTI DI HANNAN ARENDT
1929
Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation, J. Springer, Berlin 1929; trad. it. Il concetto d’amore in
Agostino, a cura di L. Boella, Milano, SE, 1992.
1930
Augustin und Protestantismus, in «Frankfurter Zeitung», n. 902, 12 aprile
1930.
Philosophie und Soziologie. Anlässlich Karl Manheim «Ideologie und
Utopie», in «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und politik», VII, 1930, pp. 163-176.
Rilkes Duineser Elegien, (in collaborazione con G. Stern), in «Neue
Schweizer Rundschau», XXIII, 1930, pp. 855-871; ristampato in
U. Füllerborn, M. Engel, (hrsg.), Rilkes «Duineser Elegien». Zweiter Band, Forschungsgeschichte, Frankfurt a. M., Surkamp, 1982,
pp. 45-65; trad. it. Le «Elegie Duinesi» di Rilke, in «aut aut», 1990,
nn. 239-240, pp. 127-144.
1931
(Recensione di:) H. Weil, Die Entstehung des deutschen Bildungsprinzips, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LXVI,
1931, pp. 200-205.
1932
Sören Kierkegaard, in «Frankfurter Zeitung», n. 75-76, 29 gennaio
1932.
Friederich von Gentz. Zu seinem 100. Todestag am 9 Juni, in «Kölnische Zeitung», n. 308, 8 giugno 1932.
198
Adam Müller - Renaissance?, in «Kölnische Zeitung», n. 501, 13 settembre 1932 e n. 510, 17 settembre 1932.
Aufklärung und Judenfrage, in «Zeitschrift für die Geschichte der Juden
in Deutschland, IV, 1932, nn. 2-3; ristampato in H. Arendt, Die
verbogene Tradition. Acht Essays, Frankfurt a. M. Suhrkamp, 1976,
pp. 108-126; trad. it. Illuminismo e questione ebraica, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437.
Berliner salon e Brief Rahels an Pauline Wiesel, in «Deutscher Almanach für das Jahr 1932», 1932, pp. 175-184 e 185-190.
1933
Rahel Varnhagen. Zum 100. Todestag, in «Kölnische Zeitung», n. 131, 7
marzo 1933; ristampato in «Judische Rundschau», nn. 28-29, 7
aprile 1933.
(Recensione di:) A. Rühle-Gerstel, Das Frauenproblem der Gegenwart.
Eine psychologische Bilanz, Leipzig, Hirzel, 1932; in «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und Politik», X, 1933,
pp. 177-179.
1942
A beliver in European Unity, in «The rewiew of politics», IV, 1942, n. 2,
pp. 245-247; recensione di P. R. Sweet, Friedrich von Gentz. Defender of the Old Order, Madison, The University of Wisconsin
Press, 1941.
From the Dreyus Affair to France Today, in «Jewish Social Studies»,
1942, n. 3, pp. 195-240; ristampato in Essays on Anti-semitism,
Conference on Jewish Relations, 1946; ripubblicato parzialmente
con il titolo Herzl and Lazare, in H. Arendt, The Jew as Pariah,
New York, Grove Press, 1978, pp. 125-130; trad. parziale, Herzl e
Lazare, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, Milano, Unicopli,
1986, pp. 27-33.
199
1943
We Refugees, in «Menorah Journal», XXXI, January 1943, pp. 69-77;
ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 55-66; trad. it. Noi profughi, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 35-49.
Why the Crémieux Decree Wa Abrogated, in «Contemporary Jewisch
Record», VI, 1943, n. 2, pp. 115-123.
Portrait of a Period, in «Menorah Journal», XXXI, October 1943, pp.
307-314; recensione di S. Zweig, The World of Yesterday: An Autobiography, New York, The Viking Press, 1943; ristampato in
The Jew as Pariah, cit., pp. 112-121; trad. it. Ritratto di un periodo, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 51-62.
1944
Race-Thinking Before Racism, in «The Rewiw of Politics», VI, 1944, n.
1, pp. 36-73.
The Jew as Pariah: A Hidden Tradition, in «Jewish Social Studies», VI,
1944, n. 2, pp. 99-122; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp.
67-90; versione tedesca ampliata: Die verbogene Tradition, in H.
Arendt, Sechs Essays, hrsg. von D. Sternberger, Heidelberg, L.
Schneider, 1948; ristampata in H. Arendt, Die verbogene tradition. Acht Essays, cit., pp. 46-73; trad. it. parziale della versione
tedesca, in frammenti con i segueni titoli: parte I, Heinrich Heine:
Schlemihl e principe del mondo di sogno; parte III, Charlie Chaplin:
il sospettato; parte IV, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in
H. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 63-71; 271-274; 73-84.
Concerning Minorities, in «Contemporary Jewish Record», VII, 1944,
n. 4, pp. 353-368.
Our Foreign Language Groups, in «Chicago Jewish Forum», III, 1944,
n. 1, pp. 23-34.
Franz Kafka: a Revaluation. On the Occasion of the Twentieth Anniver-
200
sary of his Death, in «Partisan Rewiw», XI, 1944, n. 4, pp. 412422; versione tedesca ampliata: Franz Kafka, in H. Arendt, Sechs
Essays, cit.; ristampata in H. Arendt, Die verbogene Tradition.
Acht Essays, cit., pp. 88-107; trad. it. della versione tedesca: Franz
Kafka: il costruttore di modelli, in H. Arendt, Il futuro alle spalle,
cit., pp. 85-103.
Das zeitweilige Büdnis Zwischen Mob una Élite, in «Hochland. Monatszeitschrift für alle Gebiete des Wissens», 1944, pp. 51-52, 511524.
1945
Organized Guilt and Universal Responsability, in «Jewish Frontier», XIII,
1945, n. 1, pp. 19-23; ristampato in R. Smith, (a cura di), Guilt:
Man and Society, New York, Doubleday Anchor, 1971; ripubblicato in The Jew as Pariah, cit., pp. 222-236; trad. it. Colpa organizzata e responsabilità universale, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 63-76.
Approaches to the German Problem, in «Partisan Rewiew», XII, 1945,
n. 1, pp. 93-106.
The Stateless People, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945, n.
2, pp. 137-153.
The Assets of Personality, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945,
n. 2, pp. 214-216, recensione di M. W. Weisgal, (a cura di), Chaim
Wiesmann.
Nightmare and Flight, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n.2, pp. 159260, recensione di D. de Rougemont, The Devil’s Share.
Dilthey as a Philosopher and Historian, in «Partisan Rewiew», XII, 1945,
n. 3, pp. 404-6; recensione di H. A. Hodges, Wilhelm Dilthey: An
Introduction.
Christanity and Revolution, in «The Nation», 22 settembre 1945, pp.
288-89.
201
The Seeds of a Fascist International, in «Jewish Frontier», giugno 1945,
pp.12-16.
Zionism Reconsidered, in «Menorah Journal», XXXIII, agosto 1945, pp.
162-196; ristampato in M. Selzer, (a cura di), Zionism reconsidered, New York, Macmillan; ripubblicato in The Jew as Pariah,
cit., pp. 131-163; versione tedesca Der Zionismus aus heutiger
Sicht , in H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1976, pp. 127-168;
trad. it. Ripensare il sionismo, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 77-116.
Imperialism, Nazionalism, Chauvinism, in «The Rewiew of Politics»,
VII, 1945, n. 4, pp. 441-463.
Parties, Movements and Classes, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n. 4,
pp. 504-512.
Power, Politics, Triumphs, in «Commentary», I, 1945, n. 1, pp. 92-92,
recensione di F. Gross, Crssroads of Two Continents.
1946
Über den Imperialismus, in «Die Wandlung», I, 1946, pp. 650-666; ristapato in H. Arendt, Sechs Essays, 1948; H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1976.
Privileged Jews, in «Jewish Social Studies», VIII, 1946, n. 1, pp. 3- 30;
ristampato in A: G. Duker e M. Ben-Horin, Emancipation and
Counteremancipation, New York, KtavPublishing House, 1947;
pubblicato in modo parzoale con il titolo The Moral of History, in
H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 96-105, trad. it. parziale La
morale nella storia, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp.
117-122.
The Nation, in «The Rewiew of Politics», VIII, 1946, n. 1, pp. 138-141;
recensione di J. T. Delos, La Nation, Editions de l’Arbre, Mpntreal.
Proof Positive, in «The Nation», 5 gennaio 1946, p. 22; recensione di V.
Lange, Modern German Literature.
202
The too Ambitious Reporter, in «Commentary», II, 1946, n.2, pp. 94-95;
recensione di A. Koestler, Twilight Bar e The Yogi and Commisar.
What is Existenz Philosophy?, in «Partisan Rewiew», XIII, 1946, n.1, pp.3456; trad. ted. in Sechs Essays, 1948; trad. it. Che cos’è la filosofia
dell’esistenza?, a cura di S. Maletta, Milano, Jaca Book, 1998.
Imperialism: Road to Suicide, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 27-35.
French Existenzialism, in «The Nation», 23 febbraio 1946, pp. 226-228.
Tentative List of Jewish Cultural Treasure in Axis-Occupied Countries,
in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n.1; curato
dal gruppo di ricerca «Commission on European Jewish Cultural
Reconstruction» sotto la direzione di H. Arendt.
Tentative List of Jewish Educational Istitutions in Axis-Occupied Countries, in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n. 3;
curato dal gruppo di ricerca «Commission on European Jewish
Cultural Reconstruction» sotto la direzione di H. Arendt.
The Street of Berlin, in «The Nation», 23 marzo 1946, pp.350-351; recensione di R. Gilbert, Meine Reime Deine Reime.
The Jewish State: 50 Years After, Where Have Herzl’Politics Led?, in
«Commentary», II 1946, n. 1, pp. 1-8; ristampato in Jew as Pariah, cit., pp. 164-177; trad. it. Lo stato ebraico: cinquant’anni
dopo. Dove ha portato la politica di di Herzl?, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 123-137.
The Image of Hell, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 291-95; recensione
di The Black Book: The Nazi Crime Against the Jewish People, curato da World Jewish Congress, e a M. Weinreich, Hitler’s Professor.
No Longer and not Yet, in «The Nation», 14 settembre 1946, pp. 300302; recensione di H. Broch, The Death of Virgil.
The Ivory Tower of Common Sense, in «The Nation», 19 ottobre 1946,
pp. 447-49; recensione di J, Dewey, Problem of Men.
Expansion and the Philosophy of Power, in «Sewanee Rewiew», LIV,
1946, pp. 601-16.
203
1947
Creating a Cultural Atmosphere, in «Commentary», IV novembre 1947,
pp. 424-426, ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.
91-95; trad. it. Creare un’atmosfera culturale, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 139-144.
The Hole of Oblivion, in «Jewish Frontier», luglio 1947, pp. 23-26; recensione di Anonimo, The Dark Side of the Moon.
1948
Sechs Essays, Heidelberg, L. Schneider, ristampati in H. Arendt, Die
Verbogene Tradition, 1972.
Jewish History Revised, in «Jewish Frontier», marzo 1948, pp. 34-38;
ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.96-105; trad.
it. Una rilettura della storia ebraica, in H. Arendt, Ebaraismo e
modernità, cit., pp. 145-156; recensione di G. Scholem, Major
Trends in Jewish History, New York, 1946.
Beyond Personal Frustation: The Poetry of Bertold Brecht, in «The
Kenyon Rewiew, X, 1948, n.2, pp.304-312, recensione di B. Brecht, Selected Poems.
To Save the Jewish Homeland: There is Still Time, in «Commentary», V,
maggio 1948, pp.398-406; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.178-192; trad. it. Salvare la patria ebraica: c’è ancora
tempo, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 157-173.
The Concentration Camps, in «Partisan Rewiew», XV, 1948, n.7, pp.743763; versione tedesca in «Die Wandlung», III, 1948, pp.309-330.
The Mission of Bernadotte, in «The New Leader», XXXI, 23 ottobre
1948, pp. 808-819.
About Collaboration, in «Jewish Frontier», XV, Ottobre 1948, pp. 5556; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 175-178.
cura del volume di B. Lazare, Job’s Dunheap, New York, Schocken
Books, 1948.
204
1949
Hermann Broch und der moderne Roman, in «Der Monat», I, 1949, nn.
8-9, pp. 147-151.
Totalitarian terror, in «The Rewiew of Politics», XI, n.1, pp. 112-115;
recensione di D. J. Dallin e B. I. Nicolaevsky, Forced labor in
Soviet Russia.
Single Track to Zion, in «Saturday Rewiew of Literature», XXXII, 1949,
n. 5, pp. 22-23; recensione di C. Waizmann, Trial and Terror: The
Autobiography of Chaim Waizmann.
Parteien und Bewegung, in «Die Wandlung», IV, 1949, pp. 451-473.
The rights of Man: What Are They?, in «Modern Rewiew», III, 1949, n.
1, pp. 24-37.
The Achievement of Hermann Broch, in «The Kenyon Rewiew», XI,
1949, n. 3,pp. 476-483.
1950
Social Science Techniques and the Study of Concentration Camps, in
«Jewish Social Studies», XII, 1950, n. 1, pp.49-64.
Peace or Armistice in the Near East?, in «The Rewiew of Politics», XII,
1950, n. 1, pp.56-82; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah,
cit., pp. 193-222; trad. it. Pace o armistizio nel Vicino Oriente?, in
H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp179-213.
Religion and the Intellectuals. A Symposium, in «Partisan Rewiew», XVII.
1950, n. 1, pp. 113-116.
Der Dichter Bertold Brecht, in «Die Neue Rundschau», LXI, 1950, pp.5367; trad. it. Il poeta Bertold Brecht, in V. Santoli, (a cura di), Da
Lessing a Brecht. I grandi scrittori nella grande crisi tedesca,
Milano, Bompiani, 1968, pp. 573-589, poi in «aut aut», 1990, nn.
239-240, pp.145-160.
The Imperialist Character, in «The Rewiew of Politics», XIII, 1950, n.
3, pp.303-320; versione tedesca Der imperialistische Charakter.
205
Eine psychologisch-soziologische Studie, in «Der Monat», II, 1950,
n. 4, pp. 509-522.
The Aftermath of Nazi Rule. A Report from Germany, in «Commentary»,
Iv, 1950, n. 10, pp.342-353.
Mob and Elite, in «Partisan Rewiew», XVIII, 1950, n. 8, pp. 808-819.
1951
The Origins Of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace and Co, 1951;
seconda edizione ampliata: New York, The Word Publishing Company, Meridian Books, 1958; terza edizione con nuove prefazioni:
New York, Harcourt Brace and World, 1966; la versione inglese della
prima edizione è apparsa con il titolo The Burden of Our Time, London, Secker and Warburg, 1951; la versione inglese della seconda
edizione reca il titolo The Origins of Totalitarianism, London, Allen
and Unwin, 1958; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967; trad. ted. Elemente und Ursprünge totaler
Herrschaft, Frankfurt, Europäische Verlangsanstalt, 1955.
The Road to Dreyfus Affair, in «Commentary», XI, febbraio 1951, pp. 201203; recensione di R. F. Byrnes, Antisemitism in Modern France.
Totalitäre Propaganda. Ein Kapitel aus «Ursprünge des Totalitarismus», in «Der Monat», III, 1951, n. 33, pp. 241-248.
Totalitarian Movement, in «Twentieth Century», 1951, n.149, pp. 368-389.
Bei Hitler zu Tisch, in «Der Monat», IV, 1951, n. 37, pp. 85-90.
Die Geheimpolizei, in «Der Monat», IV, 1951, n. 38, pp. 370-388.
1952
The History of the Great Crime, in «Commentary», XIII, marzo 1952,
pp. 300-304; recensione di Poliakov, Bréviare de la haine: le IIIème Reich et les Juifs.
Magnes. The Coscience of the Jewish Peeople, in «Jewish Newsletter»,
VIII, 1952, n. 25, p. 2.
206
1953
Ideology amd Terror: a Novel Form of Government, in «The Review of
politics», XV, 1953, n. 3, pp. 303-327; ristampato in H. Arendt,
The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition, cit., 1958,
pp. 460-479; pubblicato in versione tedesca in Offener Horizont.
Festschrift für Karl Jaspers, München, Piper, 1953, pp. 229-254.
Rejoinder to Eric Voegelin’s Review of «The Origins of Totalitarianism», in «The
Review of politics», XV, 1953, n. 1, pp. 76-85; trad. it. in Eric Voegelin:
un interprete del totalitarismo, Roma, Astra, 1978, pp. 73-87.
The Ex-Communists, in «Commonweal», LVII, 1953, n. 24, pp. 595-599.
Understanding and Politics, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 4, pp. 377392; trad. it. Comprensione e Politica, in H. Arendt, La disobbedienza civile ed altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 89-111.
Religion and Politics, in «Confluence», II, 1953, n. 3, pp. 105-126; trad. it.
Religione e politica, in G. A. Brioschi, L. Valiani, (a cura di), Totalitarismo e cultura, Milano, Edizioni di Comunità, 1957, pp. 285-304.
Understanding Communism, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 5, pp.
580-583; recensione di W. Gurian, Bolshevism.
1954
Tradition and the Modern Age, in «Partisan Review», XXII, 1954, n. 1,
pp. 53-75; ristampato in H. Arendt, Between past and future. Six
Exercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1961, pp.
17-40; trad. it. La tradizione e l’età moderna, in H. Arendt, Tra
passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, pp. 41-69.
Europe and America: Dream and Nightmare, in «Commonweal», LX,
1954, n. 23, pp. 551-554.
Europe and the Atom Bomb , in «Commonweal», LX, 1954, n. 24, pp.
578-580.
Europe and America: the Threat of Conformism, in «Commonweal»,
LX, 1954, n. 25, pp. 607-610.
207
1955
Dichten und Erkennen, Introduzione a H. Broch, Gesammelte Werke, a
cura di H. Arendt, Zürich, Rheir, 1955; trad. it. Hermann Broch:
poeta-scrittore contro la sua volontà, in H. Arendt, Il futuro alle
spalle, cit., pp. 171-216.
The personality of Waldemar Gurian, in «The Review of politics», XVII,
1955, n. 1, pp. 33-42; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times,
New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1968, pp. 251-262.
1956
Was ist Autorität, in «Der Monat», VIII, 1956, n. 89, pp. 29-44; ristampato in H. Arendt, Fragwürdige Traditionsbestände im politischen
Denken der Gegenwart. Vier Essays, Frankfurt a. M. , Europäische Verlagsanstalt, 1957.
Authority in Twentieth Century, in «The Review of politics», XVIII, 1956,
n. 4, pp. 403-417.
1957
Misstrauen gegen Kultur, in «Die Kultur», VI, 1957, n. 12, p. 10.
Natur un Geschichte. Die Anfänge der griechischen Geschichtsschreibung, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, n. 8, pp. 6-9, n. 9,
pp. 9-14.
Geschichte kann nicht gemacht werden. Die Entstehung des historischenBewusstseins, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, 1957, n. 20,
pp. 7-11; n. 21, pp. 10-14.
History and Immortality, in «Partisan Review», XXIV, 1957, n. 1, pp. 11-53.
Fragwürdige Traditionbestände im politischen Denken der Gegenwart,
Vier Essays, Frankfurt a. M., Europäische Verlagsanstalt, 1957.
Karl Jaspers as Citizen of the World, in P. A. Schlipp, (ed.), The Philosophy
of Karl Jaspers, La Salle, Open Court, Pub. Co., 1957, pp. 539- 550;
ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 81-94.
208
1958
The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; trad.
it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, 1988; edizione tedesca
rielaborata dall’autrice, Vita Activa oder von tätigen Leben, Stuttgart, Kohlhammer, 1960, München, Piper, 1967.
Rahel Varnhagen: the Life of a Jewess, London, East and West Library,
1958; ed. tedesca, Rahel Varnhagen, Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, München, Piper, 1959; ed. americana Rahel Varnhagen: the Life of a Jewish Woman, New York,
Harcourt Brace Jovanovich, 1974.
Totalitarian Imperialism: Reflections on the Hungarian Revolution, in
«The Journal of Politics», 1958, n. 1, pp. 5-43; ristampato in H.
Arendt, The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition,
cit., pp. 480-510; ed. ted. Die Ungarische Revolution und der Totalitäre Imperialismus, München, Piper,1958.
Karl Jaspers. Reden zur Verleihung des Friedenspreises des deutschen Buchhandels, München, Piper,1958; trad. ingl. Karl Jaspers: A Laudatio, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp.
71-80.
Kultur und Politik, in «Merkur», XII, 1958, n. 12, pp. 1122-1145; ristampato in Untergang oder Übergang. Erster Kulturkritikerkongress in München, München, Piper, 1959, pp. 35-66.
The Modern Concept of History, «The Review of politics», XX; 1958, n.
4, pp. 570-590.
Totalitarianism, in «The Meridian», II, 1958, n. 2, p.1.
The Crises in Education, in «Partisan Review», XXV, 1958, n. 4, pp.
493-513; ristampato in H. Arendt Between Past and Future. Six
Exercises in Political Thought, cit., pp. 173-196; trad. it. La crisi
dell’ istruzione, in H. Arendt, Tra Passato e futuro, cit., pp. 228255; versione tedesca Die Krise in der Erziehung, in «Der Monat», XI, 1958-59, pp. 48-61.
209
1959
What Was Authority?, in C. Friederich, (ed.), Authority, Cambridge,
Harward U. P., 1959.
Reflections on Little Rock, in «Dissent», V, 1959, n. 1, pp. 45-56.
1960
Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten: Gedanken zu Lessing, München, Piper,1960; trad. ingl. On Humanity in Dark Times: Thoughts
about Lessing, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 3-31.
Freedom and Politics: A Lecture, in «Chicago Review», XIV, 1960, n. 1, pp. 28-46.
Society and Culture, in «Daedalus», LXXXII, 1960, n. 2, pp. 276-287.
Der Mensch, ein gesellschaftliches oder ein politisches Lebewesen, in
«Die deutsche Universitätszeitung», XV, ottobre 1960, pp. 38-47.
Revolution and Pubblic Happiness, in «Commentary», XXX, novembre
1960, pp. 413-422.
1961
Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, New York,
The Viking Press, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Firenze,
Vallecchi, 1970; Milano, Garzanti, 1991.
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A cura del Prof. Lissa e del Dott. Amodio sono in corso di pubblicazione, presso la casa editrice Vivarium, gli atti del convegno sulla
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2. M. McCarty, Pour dire au revoir à Hannah
3. H. Arendt, Nathalie Serraute «Le Fruits d’Or»
4. J. Taminiaux, La vie de quelqu’un
5. E. Young-Breuehl, Les histoires de Hannah Arendt
6. E. Young-Breuehl, Sur la biographie
7. F. Collin: Du privé et du public
8. H. Arendt, Le probleme de la femme dans le monde contemporain
9. Th. Mann, Lettre à Hannah Arendt
10. U. Johnson, Il me faut remarcier
11. H. Arendt, Lettre à Wystan Auden
12. H. Arendt, Philosophie et politique
13. R. Varnhagen, Lettres et penseés
14. H. Plard, Illusions et pièges de l’assimilation
15. K. Jaspers-H- Arendt: Correspondance à propos de Rahel
Varnhagen
16. B. Pelzer, Le vent du nord est mon plus grand ennemi
«Études Phénomenologiques», n. 2, Bruxelles, Éditions OUSIA, 1985:
1. H. Arendt, Travail, œuvre, action
2. R. Legros, Hannah Arendt: une comprénsion phénoménologiques des droits de l’homme
3. D. Lories, Sentir en commun et juger par soi-même
4. B. Stevens, Action et narrativité chez Paul Ricœur et Hannah
Arendt
5. J. Taminiaux, Arendt, disciple de Heidegger?
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«Aut aut», n. 239-240, 1990.
1. A. Dal Lago, Il pensiero plurale di Hannah Arendt
2. H. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dall’opera filosofica di Hannah Arendt
3. J. Taminiaux, Arendt, discepola di Heidegger?
4. L. Boella, Hannah Arendt «fenomenologa». Smantellamento
della metafisica e critica dell’ontologia
5. E. Greblo, Il poeta cieco. Hannah Arendt e il giudizio
6. E. Heller, Hannah Arendt critico letterario
7. S. Maletta, La salvezza come lode. Nota al saggio arendtiano
del 1930 sulle «Elegie duinesi» di Rilke
«Comunità», XXXV, n. 183, novembre 1981, ha pubblicato i seguenti
articoli:
1. J. Habermas: La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt
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INDICE
239
CAPITOLO PRIMO
GENEALOGIA E TOPOLOGIA DI UN CONCETTO
A PARTIRE DALLE INTERPRETAZIONI
STORICO-FILOSOFICHE DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50
1.1 - Il concetto ‘totalitarismo’ ............................................................. 3
1.2 - Genealogia del termine ‘totalitarismo’ ....................................... 18
CAPITOLO SECONDO
«IO PROCEDO DA FATTI E DA AVVENIMENTI.»
L’INDAGINE CONTESTUALE DI HANNAH ARENDT
PER COMPRENDERE L’EVENTO CHE CARATTERIZZA
IL XX SECOLO: IL TOTALITARISMO
2.1 - Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933 ....................................... 48
2.2 - L’antisemitismo politico e la questione ebraica .......................... 63
2.3 - La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei in crisi:
l’imperialismo come preludio politico ai movimenti totalitari.
La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani ................ 74
CAPITOLO TERZO
LA CATEGORIA «TOTALITARISMO»
3.1 - Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:
la nuova società di massa ............................................................ 100
3.2 - Gli strumenti del totalitarismo: propaganda, polizia segreta
e burocrazia. L’ideologia come «logica di un’idea» ................... 111
3.3 - Terrore e campo di concentramento.
La società dei morenti e il male radicale ................................... 131
240
CAPITOLO QUARTO
IL TOTALITARISMO A CONFRONTO
CON LA MODERNITÀ POLITICA
4.1 - Definizione del regime totalitario ............................................... 154
4.2 - Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato totalitario.
Confronto legittimo? .................................................................... 160
4.3 - L’inedito nella storia: le rivoluzioni. ‘Liberazione da’
o ‘liberazione di’: qual è il fondamento del nuovo
corpo politico? La politica come natalità .................................... 167
CONCLUSIONI .................................................................................. 189
BIBLIOGRAFIA
Scritti di Hannah Arendt ...................................................................... 197
Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt ......................................... 220
Bibliografia dei saggi critici su Hannah Arendt ................................. 225
Fascicoli dedicati ad Hannah Arendt ................................................... 228
Bibliografia essenziale sul «totalitarismo» ........................................... 230
INDICE ................................................................................................ 239