Totalitaria - Progetto Fahrenheit
Transcript
Totalitaria - Progetto Fahrenheit
TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia Note sul diritto d'autore Copyright Information I diritti relativi alle tesi sono dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale. Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Si richiede, ove possibile, l'indicazione della fonte "TFO-SWIF", incluso l'URL www.swif.it/tfo. The copyright of each thesis belongs to the respective author. The copy is allowed only for personal use. The quotations are allowed for chronicle, study, criticism or review, but they must have the right bibliographic reference. If possible, there will must be the indication of the source "TFO-SWIF", inclusive of the URL www.swif.it/tfo. TFO-SWIF delega la responsabilità per il contenuto delle singole tesi ai rispettivi autori. TFO-SWIF delegates to the respective author the responsability for the content of each thesis. TFO-SWIF declina qualsiasi responsabilità (espressa, implicita o di legge, inclusa la violazione dei diritti di proprietà e danni da mancato guadagno) in riferimento al servizio offerto, alle tesi pubblicate, alle informazioni in esse contenute (incluso accuratezza e legalità) e ad ogni altro contenuto, anche di terze parti, presente sul sito TFO-SWIF. TFO-SWIF declines all explicit, implicit or juridical responsability (the violation of property rights and the damages for non-earnings included), with reference to the offered service, to the published theses and to the contained informations (precision and legality included) and to all contents (of a third party, too) in the TFO-SWIF site. TFO-SWIF non è responsabile per alcun danno causato dalla perdita, cancellazione o alterazione, momentanea o definitiva, delle tesi. TFO-SWIF is not responsibal for any damage caused from the temporary or absolute loss, cancelling or alteration of the theses. TFO-SWIF non può, in nessun caso, essere ritenuto responsabile per danni o perdite di qualsiasi natura che l'Utente assuma di aver subito per l'effetto del mancato funzionamento di qualsiasi servizio offerto e/o per la mancata ricezione di informazioni e/o per la loro inesattezza o incompletezza. TFO-SWIF can under no circumstances be thought responsible for damages or losses of any nature, that the User assumes to have suffered, for consequence of any offered service or of the unsuccessful reception, uncertainty or incompleteness of information. TFO-SWIF si riserva il diritto di cancellare ogni contenuto, che per leggi sopravvenute non rispetti più le limitazioni della giurisprudenza o le nuove condizioni del servizio stabilite. TFO-SWIF reserves the right to cancel all contents that in consequence of new laws don't respect the juridical limitations or the new conditions of service. L'autore ha autorizzato TFO-SWIF al trattamento dei suoi dati personali ai sensi e nei limiti di cui alla legge 675/96. The author allowed TFO-SWIF to the treatment of own personal data (Italian Law n. 675/96). SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI NAPOLI «FEDERICO II» FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA TESI DI LAUREA IN STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE LA CATEGORIA TOTALITARISMO NELLA PROSPETTIVA DEL PENSIERO DI HANNAH ARENDT Relatore: Ch.mo prof. GIANFRANCO BORRELLI ANNO ACCADEMICO Candidata: FILOMENA CASTALDO matr.: 04/9096 1997-98 CAPITOLO PRIMO GENEALOGIA E TOPOLOGIA DI UN CONCETTO ATTRAVERSO LE INTERPRETAZIONI STORICO-FILOSOFICHE DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50 «Possiamo prendere tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico, e aprirli; al loro interno troveremo il vuoto». (S. Weil) 3 1. Il concetto ‘totalitarismo’ A cosa rinvia la semantica totalitarismo?1 E’ una categoria politica nuova, tutta novecentesca? Va considerata per la sua validità euristica oppure no? E qual è il quid novi che la caratterizza come forma politica che si è storicamente concretizzata e che Hannah Arendt profeticamente aveva individuato nei soli regimi di Hitler in Germania e di Stalin in Russia? Un punto dobbiamo tener ben fermo: il totalitarismo non è autoritarismo.2 ______________________________ 1 In termini generali si veda: M. Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Torino, UTET, 1983; V. Dini, Totalitarismo e filosofia, un concetto tra descrizione e comprensione, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997; M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», a. XI, cit., pp. 63-79. 2 Sul piano lessicale, prima ancora che concettuale, si registra, in particolar modo nei testi di alcuni esponenti del mondo intellettuale tedesco degli anni ‘30, una certa confusione ed un uso spesso interscambiabile dei termini ‘autoritario’ e ‘totale’, pur avendo come obiettivo polemico comune la forma-Stato moderna. Così fa notare C. Galli: « Si può fin 4 In generale, si considerano autoritari tutti quei regimi non democratici, caratterizzati dall’assenza del parlamento e delle elezioni popolari, o da una loro attività apparente, nonché dall’indiscusso predominio del vertice dell’esecutivo. E’ assente la libertà dei sottosistemi, sia formale che effettiva: l’opposizione politica è soppressa o imbavagliata; il pluralismo dei partiti è ______________________________ d’ora affermare che ‘totalità’ vale sempre per ‘corpo sociale integralmente politicizzato e integralmente conflittuale’, e, in parallelo, per ‘estensione integrale della politica’; insomma, per la sua onnipervasività. E che ‘autorità’ è termine a minore capacità denotativa e di uso più generico, così da valere per ‘sovranità’, ‘potere’, ‘governo’; ma che in generale assume più spesso valenze di stabilizzazione politica. E’ così possibile rigorizzare, senza violentarne lo spirito, le diverse posizioni e sostenere che la locuzione ‘Stato totale’ pare più orientata a descrivere al di là del valore che i singoli autori ne danno -una situazione che tendenzialmente supera o sfonda, o comunque confonde portandole all’estremo, le logiche e gli assetti politico-istituzionali dello Stato moderno; mentre l’espressione ‘Stato autoritario’ - differenziato da una forma politica obsoleta come il tradizionale Obrigkeitsstaat- si può intendere una strategia di rivitalizzazione, pur nelle mutate condizioni, del comando dello Stato sulla società, in una ritrovata distinzione e gerarchizzazione dei due ambiti in una rinnovata articolazione per ‘cerchie’ del corpo sociale». C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», cit., pp. 27-61. 5 vietato o ridotto a simulacro; l’autonomia degli altri gruppi è tollerata o distrutta, secondo l’interesse del capo o dell’élite al governo. E’ chiaro che, in questo senso molto generale, il concetto di autoritarismo può ricomprendere legittimamente quello di totalitarismo, svuotandolo, però, facendo del secondo un indicatore di intensità di certi tratti del contesto autoritario, privando, cioè, il concetto di totalitarismo di una specificità che pure va riconosciuta. Il sociologo politico Juan J. Linz, nel suo Totalitarian and Authoritarian Regimes,3 definisce i regimi autoritari come sistemi politici con un pluralismo limitato e non responsabile; senza una ideologia elaborata e propulsiva (ma con delle caratteristiche mentalità); senza una mobilitazione politica intensa o vasta (eccetto che in taluni momenti del loro sviluppo); in ______________________________ 3 J. J. Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Greenstein e Polsby (a cura di), Handbook of Political Science, Addison-Wesley, Reading (Mass.), 1975. 6 cui un capo (talora un piccolo gruppo) esercita il potere entro limiti che sono formalmente mal definiti ma di fatto agevolmente prevedibili. Il totalitarismo è speculare ed opposto. Lo stesso Linz, precisando i limiti e i confini tra totalitarismo-democrazia e totalitarismo-autoritarismo, presenta una teoria secondo cui gli elementi indispensabili per definire totalitario un sistema politico sono: 1) l’ideologia, fonte di legittimazione del potere e della prassi; 2) un partito unico di massa, strumento di pressione sulla popolazione; 3) una leadership, sia individuale che di una élite di dirigenti che operano senza limiti legali definiti. Riconosce, invece, come autoritari i regimi posttotalitari, rappresentati dai sistemi comunisti dopo il processo di destalinizzazione, risultato combinato da un pluralismo limitato e in conflitto, da una parziale depoliticizzazione delle masse, da un ruolo attenuato del partito unico e della ideologia, da un’accentuata burocratizzazione; ed un totalitarismo im- 7 perfetto, che di solito è una fase transitoria di un sistema politico il cui sviluppo verso il totalitarismo viene arrestato per poi trasformarsi in qualche altro regime autoritario. Con Roman Schnur,4 possiamo aggiungere che un elemento fondamentale della distinzione tra autoritarismo e totalitarismo è che se il primo tende a proporre una visione del potere sovrano come «qualcosa di esteriore, utilizzabile cioè per ottenere un’obbedienza esteriore, senza che con ciò venga mai toccata la loro interiorità, la coscienza», il secondo mira a piegare e distruggere l’interiorità non solo perché non ci sia opposizione, quanto per creare un uomo nuovo, una realtà nuova secondo un preciso scopo ideologico, secondo la volontà di chi detiene il potere. «Il regime totalitario nella sua fase iniziale deve comportarsi come una tirannide e radere al suolo i limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia ______________________________ 4 R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Milano, Giuffrè, 1979. 8 dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per imporre la volontà tirannica o il potere dispotico di un individuo su tutti gli altri e, men che meno, l’anarchia di una guerra di tutti contro tutti. Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche. Abolire i confini delle leggi fra gli individui, come fa la tirannide, significa annullare le libertà umane, distruggere la libertà come realtà politica vivente; perché lo spazio fra gli individui, com’è circoscritto dalle leggi, è lo spazio vivo della libertà. Il terrore totale usa questo vecchio strumento della tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel deserto, senza leggi e senza barriere, dominato dalla reciproca diffidenza, che è propriamente della tirannide. Questo deserto non era, certo, uno spazio vivo di libertà, ma lasciava ancora un po’ di posto ai movi- 9 menti timorosi e alle caute azioni dei suoi abitanti».5 Se, cioè, sotto un governo autoritario e tirannico, ci sono margini perché si crei un’opposizione, perché le persone dissenzienti possano in qualche modo operare ed agire, con il totalitarismo siamo al grado zero della comunicazione e delle differenze, al conformismo come alienazione dalla politica e dal mondo, al dominio che permea le coscienze in modo totale. La Arendt utilizza l’immagine della cipolla per focalizzare il concetto di totalitarismo: al centro «quasi in uno spazio vuoto, si trova il capo. Quale che sia la funzione di questi (integrare il corpo sociale, come una gerarchia autoritaria, o opprimere i sudditi, come un tiranno), egli la compie dall’interno non dall’esterno o dall’alto. Tutte le innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni collaterali extra-partitiche, le varie associazioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del partito, le forma______________________________ 5 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace &World, Inc., III ed. New York, 1966; trad. it. Le origini del totalitarismo, a cura di A. Guadagnin, Milano, Edizioni di Comunità, 1996. 10 zioni di élite e i gruppi di polizia sono reciprocamente in una relazione tale da costituire, a seconda del punto di vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a uno strato costituiscono il normale mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano il radicalismo più estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a ciascuno strato del movimento, nonostante il regime totalitario, la finzione di una realtà normale, insieme, la convinzione di differenziarsene e di essere più radicale (...). La struttura a cipolla rende il sistema organizzativamente inattaccabile dall’urto della realtà effettiva».6 Tendenzialmente - tale è la proposta di B. R. Barber7 - nel definire il totalitarismo si fa riferimento a due approcci, l’uno essenzialista, che, «generalmente legato a spiegazioni monocausali, procede attraver______________________________ 6 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, London, Faber & Faber, 1961; trad. it. Che cos’è l’autorità? in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991. 7 B. R. Barber, Conceptual Foundations of Totalitarianism, in C. J. Friederich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism im Perspective: Three Views, New York, Praeger, 1969. 11 so ricostruzioni impressionistiche piuttosto che per riscontri empirici, e tende a sottolineare proprietà astratte e non misurabili, come gli scopi ultimi e i connotati ideologici, dei regimi che sono considerati totalitari»;8 l’altro fenomenologico, che analizza «quegli stessi regimi in una prospettiva multifattoriale empirica, cercando di isolarne gli attributi obiettivi, le caratteristiche formali e al limite misurabili, con la dichiarata intenzione di tracciare un modello di totalitarismo e gettare le basi di una teoria che possa spiegarne la genesi e gli sviluppi, stabilendo nel contempo precise frontiere del campo di applicazione della parola».9 Decisive sono le puntualizzazioni di L. Schapiro,10 che insiste sul carattere analitico-descrittivo del termine in oggetto in relazione a regimi del ______________________________ 8 M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», cit., p. 67. 9 Ibidem. 10 L. Schapiro, Totalitarianism, Pall Mall, Londra, 1972. 12 nostro tempo che sarebbero altrimenti analizzati con categorie anacronistiche e non esaustive. Già nel 1956 Carl J. Friederich e Zbigniew K. Brzezinski avevano colto la nuova portata politica del totalitarismo, fenomeno storicamente unico e sui generis, riconoscendo questi caratteri: 1) esistenza di una ideologia ufficiale, riguardante tutti gli aspetti della esistenza e dell’attività dell’uomo; 2) partito unico di massa guidato da un dittatore e strutturato gerarchicamente in modo da garantire capillarmente l’adesione all’ideologia e alla volontà del capo; 3) sistema terroristico poliziesco che controlla i nemici reali e potenziali, nonché il partito stesso; 4) monopolio tendenzialmente assoluto dei media; 5) monopolio tendenzialmente assoluto degli armamenti sulla base della tecnologia moderna; 6) direzione centralizzata dell’economia. Definendo i regimi fascisti e comunisti «fondamentalmente simili», applicando l’etichetta di dittature totalitarie anche alle democrazie popolari dell’Eu- 13 ropa orientale e alla Cina maoista, gli autori di Totalitarian Dictatorship and Autocracy 11 hanno descritto il totalitarismo come sindrome totalitaria, cioè come un insieme di caratteri interrelati che tipizza taluni sistemi politici. Di tale modello, tuttavia, sono stati sottolineati spesso i punti deboli: essenzialmente si tratta di un modello statico, di natura monolitica, che non dà grande spazio al mutamento e alla dinamica interna del sistema. Ribadendo che «un concetto analitico rimane patrimonio conoscitivo anche se la realtà da esso richiamata non è più presente»,12 Domenico Fisichella accoglie le tesi di Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo e assegna al concetto di totalitarismo, purché corroborato in chiave di «analisi delle condizio______________________________ 11 C. J. Friederich e Z. K. Brezinski, Totalitarian Dictatorschip and Autocracy, Harvard University Press, 1956. Tale testo, in merito, è considerato, parimenti a quello della Arendt, un classico di teoria politica. 12 D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma, NIS, 1987, p. 20. 14 ni», oltre che un ufficio di interpretazione storica, anche la portata di una categoria predittiva. Egli non considera il totalitarismo in modo monolitico, pur se l’ispirazione è monistica; ne riconosce la vocazione e la carica antipluralista. «Il regime totalitario, dunque, non è un sistema pluripartitico, rappresentativo-competitivo, pluralistico in senso liberale»;13 è connotato «dall’assenza di strutture e controlli parlamentari, dalla presenza di un partito unico, dal rifiuto del pluralismo a pro dell’unitarismo e dell’onnicomprensività».14 Un’attenzione particolare è assegnata all’ideologia di chi detiene il potere, al terrore come principio politico, al disordine istituzionalizzato, il quale è, per così dire, il nucleo genetico e il perno della sua dinamicità. In questa considerazione idealtipica, l’analisi fe______________________________ 13 14 Ibidem, p. 22. Ibidem, p. 15. 15 nomenologico-descrittiva si arricchisce di contenuti empirici che non sono destinati comunque a generalizzazioni ed appiattimenti. Nel lessico storiografico, invece, le cose non sono considerate in modo sufficientemente chiaro: non è infrequente che gli storici replichino contro la univocità del concetto e quel metodo di reductio ad unum tipico delle scienze politologiche. Ne Il Secolo breve, Eric J. Hobsbawn scrive con una certa imprecisione: «Fino al 1945 il termine “totalitarismo”, originariamente inventato per descrivere il fascismo italiano (e usato con questa funzione dai fascisti stessi), fu applicato soltanto ai regimi fascisti o filofascisti».15 E’ più semplice la ricezione nell’assunto politico piuttosto che la problematizzazione del concetto sotto il profilo storico. Pensiamo a quanto scrivono Franço______________________________ 15 E. J. Hobsbawn, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 19141991, 1994; trad. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995. 16 is Furet,16 Renzo De Felice,17 Emilio Gentile18 ed Enzo Collotti,19 autori che ne marcano, comunque, la marginalità. Totalitarismo, nelle migliori delle ipotesi, è considerato un concetto polisemico, che si connota secondo il contesto di applicazione, un parametro, cioè, con cui misurare la realtà storica senza peraltro estinguerla in esso. L’obiezione fondamentale degli storici è non solo l’estensione del concetto a diverse esperienze storiche dall’antichità ad oggi, ma, soprattutto, di aver accentuato le analogie piuttosto che le differenze di ideologia e di base sociale dei due eventi a cui sottendono l’esperienza nazionalsocialista e l’esperienza comunista. Differenze sostanziali ci sono, eccome!, con effetti rilevanti sulla stessa prassi totalitaria, ______________________________ 16 F. Furet, Le passé d’une illusion, Paris, Editions Robert Laffont, 1995; trad. it. Il passato di un’ illusione, Milano, Mondadori, 1995. 17 R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma - Bari, Laterza, 1991. 18 E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, NIS, 1995. 19 E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989. 17 ma si potrebbe dire che queste obiezioni non sono pertinenti a delegittimare l’uso del concetto di totalitarismo perché, pur se con contenuti diversi, si possono costruire prassi di dominio politico sostanzialmente analoghe, come è accaduto, appunto, per la Germania hitleriana e per la Russia staliniana, più precisamente dopo il 1930. E’ d’obbligo, tuttavia, che gli storici di professione comincino a misurarsi in sede critica con le esperienze storiche che sottendono alla nozione totalitarismo, al fine di evitare confusioni e pregiudizi che possano inficiare il modello interpretativo, in modo particolare oggi, in tempo di revisionismo storico, e promuovere ricerche comparate sui paesi definiti totalitari.20 ______________________________ 20 Di questo avviso ci sembrano G. Ruocco e L. Scuccimarra, Totalitarismo e ricerca storica, in «Storica», a. II, n. 6/1996; B. Bongiovanni, Revisionismo e totalitarismo, in «Teoria politica», a. XIII, n. 1/1997. Di recente si è tenuto un convegno internazionale organizzato dalla città di Siena su «L’esperienza totalitaria nel XX secolo», Certosa di Pontignano, 28 settembre - 1° ottobre 1997, i cui atti sono apparsi in forma meno elaborata in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998. 18 2. Genealogia del termine ‘totalitarismo’ 1. Area italiana Il termine totalitarismo viene per la prima volta adoperato in forma aggettivata e in un significato del tutto negativo dall’italiano Giovanni Amendola in un suo articolo del 22 maggio 1923, a proposito della manomissione generale da parte dei fascisti delle elezioni amministrative: il partito dominante aveva presentato la lista di maggioranza e di minoranza, evitando con la forza e l’insinuazione la formazione di una lista di opposizione ed ogni fisiologica dialettica politica. Amendola chiama questo modo di procedere «sistema totalitario», cioè «promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa».21 ______________________________ 21 G. Amendola, Maggioranza e minoranza, in «Il Mondo», 12 maggio 1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. 19 La parola totalitario, sottolinea il Petersen,22 è usata qui in senso quasi tecnico, indicando un nuovo sistema elettorale in sostituzione di quello maggioritario e minoritario, anche se l’opposizione aventiniana mal riusciva a definire la sostituzione del sistema parlamentare pluralistico con una dittatura unipartitica. Nell’articolo del 28 giugno 1923 Amendola applica questa sua interpretazione al dibattito sulla legge Acerbo: egli attaccava il tentativo fascista di fare di Cavour «l’ispiratore divino della riforma elettorale fascista e del sistema totalitario», si opponeva all’immagine «di un Cavour plasmatore elettorale di un gregge di ascari totalitari».23 La distruzione del sistema pluralistico e dello stato di diritto veniva sentito più profondamente in quei settori della società italiana dove andava maturando, ______________________________ 22 J. Petersen, La nascita del concetto di “Stato totalitario” in Italia, in «Annali dell’ Istituto storico italo-germanico in Trento», I, 1975, pp. 143-168. 23 G. Amendola, Cavour e Pansoja, in «Il Mondo», 28 giugno 1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit. 20 talora con enfasi apocalittiche, l’idea di essere di fronte a una trasformazione politica e istituzionale di tipo dittatoriale e totalitaria. Pensiamo all’opposizione antifascista liberale, democratica, socialista e cattolica. Pensiamo a Salvatorelli, a Ferrero, a Gobetti, a Turati, a Lelio Basso. Ad Amendola come a Sturzo, già alla fine del 1923, la caratteristica propria del moto fascista apparve «lo spirito totalitario, il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate alla confessione: “credo”. Questa singolare “guerra di religione” che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede (...) ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza la vostra e non l’altrui- e vi preclude con una plumbea ipoteca l’avvenire».24 ______________________________ 24 G. Amendola, Un anno dopo, in «Il Mondo», 22 novembre 1923; anche in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit. 21 Nel gennaio del 1924, Monti scrisse ne «La Rivoluzione Liberale» che il fascismo si accingeva a fare «dopo le elezioni totalitarie nei comuni e nelle province, l’elezione totalitaria per la Camera dei deputati». Sturzo descrisse la nuova concezione fascista di statopartito tendente alla «trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa». Occupandosi delle elezioni parlamentari nella primavera del 1924, Gobetti parlò dei «piani governativi» che puntavano sul «gioco totalitario della demagogia fascista». Egli riteneva che Mussolini non sarebbe mai potuto diventare un tiranno, i suoi restavano «sogni totalitari». Anche il Giordani, sulle pagine del «Popolo», nel maggio del 1924, scrisse della «anima totalitaria» del fascismo e dei suoi «quadri dell’occupazione totalitaria». Tra il giugno e il dicembre del 1924 sembra che il termine totalitario sparisca dal vocabolario dell’opposizione, come se la questione morale dovesse esse- 22 re combattuta non già sul piano del nascente novus ordo statale quanto su quello etico. Tenta di sostantivare l’aggettivo Lelio Basso, in un intervento pubblicato su «La Rivoluzione liberale» del 2 gennaio 1925, accusando il primo ministro di voler imporre l’egemonia di «un solo partito che si fa interprete dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto».25 Nel discorso del 15 giugno 1925, alla chiusura del primo e ultimo congresso dell’Unione Nazionale, Amendola stigmatizza il fascismo per la sua feroce intransigenza, la sua «ansiosa volontà totalitaria». E Mussolini, nel suo discorso del 22 giugno 1925, riprende la citazione letterale del discorso amendoliano parlando della «nostra feroce volontà totalitaria» e di «fascistizzare la nazione» al cento per cento. Questo è certamente un punto d’incrocio, il momento in cui il concetto totalitario come espressione ______________________________ 25 Prometeo Filodemo (L. Basso), L’antistato, in «La Rivoluzione liberale», 2 gennaio 1925, ora in Le riviste di Pietro Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961. 23 della tenace volontà di opposizione liberaldemocratica antifascista viene usurpato dal fascismo stesso per una nuova valenza affatto positiva: «Totalitario esprime (...) uno spirito fiero e la determinazione di una totale trasformazione della società, in parte attraverso una sorta di monismo religioso e in parte attraverso la sana ordalia della violenza- molto nello spirito dello squadrismo».26 Mussolini sottolinea la nuova centralità dello Stato nel contesto della vita sociale, elaborando la formula «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato».27 Dichiara Forges Davanzati in un suo discorso all’Istituto di cultura a Firenze del 28 febbraio 1926: «Se gli avversari ci dicono che siamo totalitari, che siamo domenicani, che siamo intransigenti, che siamo tirannici, non vi spaventate di questi aggettivi. ______________________________ 26 A. Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War, NewYork- Oxford, Oxford University Press, 1995. 27 B. Mussolini, Discorso del 28 ottobre 1925, in Id., Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1967, XXI, p. 425. 24 Prendeteli con onore ed orgoglio... Sì, siamo totalitari! Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera,... vogliamo essere domenicani..., vogliamo essere tirannici!».28 Nella voce «Fascismo» della Enciclopedia Italiana, attribuita a Benito Mussolini e in parte anche a Giovanni Gentile, il filosofo che ha offerto il suo magistero come sostrato ideologico di tale movimento, l’aggettivo totalitario è così formalizzato: «Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica (...). E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello ______________________________ 28 R. Forges Davanzati, Fascismo e cultura, Firenze 1926, p. 39 e ss. 25 stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo».29 E’, dunque, forte la connotazione statalista del termine totalitario nel seno del regime fascista. Già in un corso di lezioni di filosofia del diritto svolto all’Università di Pisa, Gentile aveva contrapposto alla societas inter homines una societas in interiore homine. Quando la sua dottrina dello stato sarà elevata a dottrina quasi ufficiale del regime fascista, nel primo Discorso di religione, fa la sua apparizione lo stato in interiore homine, contrapposto allo stato esterno, esteriorizzato, del liberalismo individualistico. «Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a saper bene tutti, non è inter homines, ma in interiore ______________________________ 29 Voce Fascismo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’ Enciclopedia Italiana, 1932, XIV, p. 847. 26 homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplicemente pensando, e creando col pensiero una realtà, un movimento spirituale, che prima o poi influirà sull’esterno, modificandolo».30 La stessa accezione positiva è nella rivendicazione fatta più tardi da Pio IX, in polemica concorrenza con il fascismo: «Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve essere dello Stato, ed ecco lo Stato totalitario, come lo si chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi è una falsità così evidente, che fa meraviglia che uomini, del resto seri e dotati di talento, lo dicano e lo insegnino alle folle. Infatti come lo Stato potrebbe essere veramente totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione interiore - perché si tratta di cristiani - per la santificazione e ______________________________ 30 G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957, p. 25. 27 la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggono alla possibilità dello Stato, nella vita presente e in vista della vita futura, eterna! E in questo caso ci sarebbe una grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario totalitario di fatto e di diritto - è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio, egli è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su questo punto, per chi non voglia negare tutto».31 E’ la sindrome totalitaria. ______________________________ 31 Pio XI, L’unico regime totalitario di fatto e di diritto è la Chiesa, discorso del 18 settembre 1938 riportato in E. Rossi, Il “Sillabo” e dopo, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 87-88. Anche in D. Settembrini, La Chiesa nella politica italiana (1944-1963), Roma, Rizzoli, Milano 1977, p. 112. 28 Diversamente dall’opposizione antifascista, Antonio Gramsci conduce una riflessione molto più pregnante sulla dimensione totalitaria della politica che mira ad «ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei» e «a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa “totalitaria”; e si ha una fase regressiva e reazionaria, oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura».32 Gramsci, in contrapposizione a Gentile, non ridu______________________________ 32 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975, II, Quaderno 6 (VIII), par. 136, p. 800. 29 ce lo Stato alla funzione di «dominio» e di «coercizione», a mero momento della forza, a «guardiano notturno» che impone, controlla e tutela l’ordine sociale, altrimenti «Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione».33 2. Area tedesca In Germania il sedimento concettuale di totalitarismo è nel dibattito politico sullo Stato totale, cioè sulla nuova posizione assunta dallo Stato nei rapporti sociali. E’ una direttiva alquanto diversa da quella italiana che abbiamo preso come riferimento iniziale: manca, del resto in Germania, negli anni venti, un soggetto politico forte che punti ad una profonda trasformazione sociale secondo una feroce volontà di potenza. Stato totale o Stato totalitario è sinonimo di Stato autoritario, possibile categoria con cui definire la crisi della forma-Stato e il tracollo dei soggetti politici. ______________________________ 33 Ibidem. 30 Classico è il riferimento al saggio di Ernst Jünger, del 1930, Die totale Mobilmachung,34 dove sebbene si escluda ogni stabile collegamento con i regimi dittatoriali già in fase di consolidamento, si individua la caratteristica qualificante dello Stato novecentesco: imporre ai cittadini una mobilitazione totale come se fossero minuscoli ingranaggi di un meccanismo che funziona incessantemente; i paesi diventano gigantesche «officine metallurgiche» e «ciascuna singola vita si trasforma sempre più chiaramente nella vita di un lavoratore», di un «milite del lavoro» completamente trasformato in ogni sua cellula in Stato, in servizio dello Stato. In questa metamorfosi antropologica, Jünger individua la disponibilità alla mobilitazione come caratteristica dell’uomo contemporaneo, la cui vita sin______________________________ 34 E. Jünger, Die totale Mobilmachung, in Sämtliche Werke, VII, Essays I: Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980, p. 121 e ss. Cfr. M. Ghelardi, Alcune osservazioni su Carl Schmitt ed Ernst Jünger, in Ernst Jünger, un convegno internazionale, a cura di P. Chiarini, Napoli, Shakespeare & Company, 1987. 31 gola è compromessa non già da una volontà totalitaria quanto dall’irrompere della tecnica. Essa «è realizzata molto meno di quanto essa stessa si realizzi, e in guerra e in pace è l’espressione della pretesa segreta e coattiva a cui questa vita nell’epoca delle masse e delle macchine ci assoggetta». Tali intuizioni verranno private di ogni alone metafisico da Carl Schmitt e ricomprese nell’analisi politica sulla crisi dello Stato liberale del XIX secolo. Lo Stato diviene, per Schmitt, «l’auto-organizzazione della società», di fatto non più separabile da essa. «Se la società stessa si organizza in Stato, Stato e società devono essere fondamentalmente identici, cosicché tutti i problemi sociali ed economici diventano immediatamente problemi statali e non si può più distinguere fra ambiti statali-politici e sociali-non politici. Tutte le contrapposizioni finora correnti, basate sul presupposto dello Stato neutrale, che appaiono in seguito alla distinzione di Stato e società e sono soltanto casi di applicazione e delimitazioni di questa di- 32 stinzione, vengono ora a cessare (...). La società divenuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura, dell’assistenza, della beneficenza, della previdenza; lo Stato divenuto autorganizzazione della società, quindi di fatto da essa non più separabile, abbraccia tutto il sociale, cioè tutto quanto concerne la convivenza umana. Non c’è più nessun settore rispetto al quale lo Stato possa osservare un’incondizionata neutralità nel senso del non-intervento (...). Nello Stato divenuto autorganizzazione della società non c’è più nulla che non sia almeno potenzialmente statale e politico».35 Si passa così dallo Stato neutrale del sec. XVIII ad uno Stato potenzialmente totale che «ha assunto una tale estensione da produrre non solo una crescita ______________________________ 35 C. Schmitt, Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuffré, 1981, p. 123. Anche Id., La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, RomaBari, Laterza, 1975. Sul pensiero di Schmitt, vedi N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989; C. Galli, Presentazione di C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986; G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981 33 quantitativa ma anche un cambiamento qualitativo, un “mutamento strutturale”, e da influenzare non solo gli affari propriamente finanziari ed economici, ma tutti quanti i settori della vita pubblica ».36 E’ un riferimento polemico alla Repubblica di Weimar, considerata un coacervo conflittuale di formazioni partitiche incapaci di realizzare un autentica unità politica. In un saggio del 1933, Schmitt scrive che lo Stato totale realizzato in Germania «è uno Stato che si intromette indifferentemente in tutti gli ambiti, in tutte le sfere dell’esistenza umana, che non riconosce più alcuna sfera libera dallo Stato perché in generale non può distinguere più nulla. Esso è totale in un senso puramente quantitativo, nel senso del mero volume, non dell’intensità e dell’energia politica (...). Il suo volume è cresciuto in modo mostruoso. Esso interviene in tutti i possibili affari e in tutti i campi dell’esi______________________________ 36 Ibidem, p. 125. 34 stenza umana, non solo nell’economia (...) bensì anche nelle questioni culturali e sociali, che una volta si consideravano volentieri faccende “puramente private” (...). Questa è naturalmente una totalità solo nel senso del mero volume e il contrario della potenza o della forza. L’odierno stato tedesco è totale a partire dalla debolezza e dall’incapacità di resistenza, dalla incapacità di opporsi all’assalto dei partiti e degli interessi organizzati. Esso deve dare a ognuno, accontentare ognuno, sovvenzionare ognuno ed essere nello stesso momento a favore dei più diversi interessi. Come si è detto, la sua espansione è la conseguenza non della sua forma ma della sua debolezza».37 Le riflessioni schmittiane vengono sviluppate, con Hitler al potere, da teorici di regime come Rosenberg, Goebbels, Forsthoff e, ovviamente, dallo stesso Hitler ______________________________ 37 C. Schmitt, Weiterentwicklungen des totalen Staat in Deutschland, in «Europäische Revue», IX, 1933, 2, ripubblicato in Id., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg-Wandsbek 1940. 35 nei suoi discorsi del 1933, in cui sottolinea che la terza fase della rivoluzione deve essere la creazione dello Stato nella sua totalità secondo la concezione del movimento nazionalsocialista: lo Stato come depositario dei suoi valori spirituali. In un articolo pubblicato sul numero del 1° gennaio 1934 del «Völkischer Beobachter», scrive Artur Rosenberg: «La rivoluzione del 30 gennaio 1933 non continua lo Stato assolutista sotto un nuovo nome, ma pone lo Stato in un nuovo rapporto col popolo (...) diverso da quello che era prevalso nel 1918 o nel 1871. Ciò che ha avuto luogo nel 1933 (...) non è l’instaurazione della totalità dello Stato bensì della totalità del movimento nazionalsocialista. Lo Stato non è più un’entità giustapposta al popolo e al movimento, non è più concepito come un apparato meccanico e uno strumento di dominio; lo Stato è lo strumento della concezione nazionalsocialista della vita».38 In effetti la categoria totale/totalitario viene am______________________________ 38 A. Rosemberg, Totaler Staat?, in « Vökischer Beobachter», 1° gennaio 1934. 36 pliata ai nuovi soggetti dell’ideologia nazionalsocialista, il movimento e il popolo, in una variante diversa da quella fascista, perché nella dualità liberale Statosocietà si inserisce una terzo elemento, il partito, che se permane nella concezione dello Stato a tre membra tedesco, in quello fascista tende ad essere interamente assorbito nello Stato unitario e totalitario. Sul versante anti-nazista, Marcuse è tra i primi teorici marxisti a rendersi conto che il termine totalitär rimanda ad una nuova Weltanschauung politica che «è divenuta il bacino di raccolta di tutte quelle correnti che, dalla guerra mondiale in avanti, si sono rivolte contro la concezione «liberistica» dello stato e della società»39 ed hanno accompagnato l’ascesa del nazionalsocialismo. ______________________________ 39 H. Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitaren Staatsauffassung, in «Zeitschrift für Sozialforschung», 1934, 3, poi ripubblicato in Id., Kultur und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1965; trad. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, a cura di C. Ascheri, H. Ascheri Osterlow e F. Cerutti, in H. Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino, Einaudi, 1969. 37 Lo Stato totalitario ed autoritario ha lo stesso background dello Stato liberale, anzi, ne è il suo perfezionamento, «fornisce l’organizzazione e la teoria della società che corrispondono allo Stadio monopolistico del capitalismo».40 Non a caso Marcuse parla di una forma di totalità organica intesa non come somma dei suoi componenti, ma «come unità unificatrice delle parti, in cui soltanto ogni parte si realizza e si compie». In modo inquietante egli si pone l’interrogativo se non sia stata la cultura intellettuale stessa a preparare la sua liquidazione. Totalitaria si può definire quella società industriale che opera secondo le pressioni degli oligopoli, secondo meccanismi manipolativi che comportano la monodimensionalità. «Il termine totalitario, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera me______________________________ 40 Ibidem, p. 19. 38 diante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”».41 Per Franz Neumann, che, secondo Collotti, rifiuta l’assunzione della società nello Stato ed è attento, piuttosto, alle modifiche del rapporto Stato-società, con occhio particolare alla tecnica di manipolazione delle masse, sotto l’apparenza totalitaria si celano ben quattro gruppi fondamentali, il partito, l’esercito, la burocrazia e l’industria. Nella Germania nazista, tali forme di potere, che in una normale democrazia si avvalgono di rapporti ______________________________ 41 H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1968. 39 regolati da norme vincolanti universalmente, operano ciascuna in base al Führerprinzip, cioè all’obbedienza assoluta alle decisioni del capo, secondo un potere legislativo, esecutivo e giudiziario autonomo e secondo quei compromessi raggiunti dalle quattro dirigenze, la cui unificazione non è istituzionalizzata, quindi, ma personalizzata. Non c’è Stato, né in un’accezione ristretta, né in quella dualità riconosciuta da Ernst Fraenkel,42 secondo cui esiste uno stato in cui si contrappongono lo ‘Stato normativo’ e lo ‘Stato discrezionale’ , basato quest’ultimo su prerogative individuali e irrazionali. «Direi che siamo di fronte a una forma di società in cui i gruppi dominanti controllano il resto della popolazione in modo diretto, senza la mediazione di quell’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi conosciuto come lo stato. Questa nuova forma sociale non è ancora pienamente realizzata, ma esistono ten______________________________ 42 E. Fraenkel, Il doppio Stato, Torino, Einaudi, 1983. 40 denze che definiscono l’essenza stessa del regime».43 Le classi dominanti, fortemente antagoniste, sono cementate dalle logiche del profitto, dal potere e soprattutto dalla paure delle masse. Neumann, che è prudente nell’uso del termine totalitario, attribuisce un ruolo decisivo alla propaganda e al terrore come due aspetti di un unico processo: «la trasformazione dell’uomo nella vittima passiva di una forza onnipresente che lo seduce e lo terrorizza, lo innalza e lo spedisce nei campi di concentramento».44 Ecco la metafora del Beemoth: lo stato totalitario, pur se respinto ideologicamente, è una forma di non-Stato, «un caos, una situazione di illegalità e di anarchia».45 ______________________________ 43 F. Neumann, Beemoth.The structure and Practice of National Socialism, Oxford University Press, New York Inc., 1942; trad. it. di M. Baccianini, Beemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Milano, Feltrinelli, 1977. 44 Ibidem, p. 209. 45 Ibidem, p. 21. 41 3. Area anglo-americana La traduzione inglese, nel maggio del 1926, di Italia e fascismo di Luigi Sturzo, da parte di B. B. Carter, consegnerà gli italianismi totalitario e totalitarismo al vocabolario politico dei paesi anglofoni. Con una valenza negativa, essi connoteranno un fenomeno moderno e regressivo, plebiscitario e dittatoriale, intimamente contraddittorio, nonostante che, nel 1928, la rivista americana «Foreign Affairs» traduca uno scritto di Giovanni Gentile, The Philosophical Basis of Fascism, in cui, con toni altisonanti e apologetici, viene definita totalitaria la dottrina fascista. Il «Times», nel 1929, accomuna in un fondo anonimo con il termine totalitarianism fascismo e bolscevismo, seguendo un percorso di riflessioni comparativistico, ampliando l’orizzonte di riferimento al regime monopartitico dell’Unione sovietica. Nel 1933, Victor Serge, comunista dissidente, in una lettera fatta pervenire clandestinamente in Francia all’opposizione di sinistra, prima che venisse de- 42 portato, definisce come «totalitario», «castocratico» ed «ebbro della propria potenza» il regime sovietico. Pur non conducendo analisi di tipo comparativo o socio-politologico, utilizza, tuttavia, lo stesso termine con cui si è autodefinito il fascismo italiano. Lo stesso diranno altri menscevichi russi in esilio a Parigi. Anche Trotzki, nel volume La rivoluzione tradita, del 1938, stigmatizza come totalitaria la degenerazione autoritaria in atto nell’Unione Sovietica da parte di una classe che ha espropriato ed usurpato il proletariato. Le analisi comparativistiche americane tenderanno a mettere in evidenza un comune nucleo strutturale tra i due sistemi politico-istituzionali, fascismo e comunismo, dando più attenzione alle loro affinità piuttosto che alle divergenze. In uno dei saggi raccolti in Dictatorship in the Modern World, pubblicato nel 1935 a cura di Guy Stanton Ford dell’Università del Minnesota, Max Lerner così intende il termine totalitarian : lo stato totalitario 43 è uno stato caratterizzato dalla «organizzazione dei gruppi economici che competono per la distribuzione del reddito nazionale in associazioni o “corporazioni supervisionate dallo Stato” e da un governo che tiene rigidamente in pugno l’equilibrio del potere. Uno “Stato forte” nel quale tutti i conflitti aperti in forma di sciopero e serrata sono banditi e il movimento dei lavoratori è nazionalizzato». E’ evidente la mutuazione dell’esperienza italiana. «Comunismo e Fascismo sono sostanzialmente simili perché entrambi significano l’esaltazione della forza, che non sopporta alcuna opposizione e che subordina l’individuo alle richieste dello Stato».46 Lo storico del pensiero politico George Sabine considera, invece, il concetto totalitarismo come sinonimo di unitary e, nella voce State della International ______________________________ 46 «Christian Science Monitor», estate 1939, in A. Gleason, Totalitarianism, cit. 44 Encyclopedia of the Social Sciences, lo applica a tutti i sistemi monopartitici, Urss inclusa.47 Particolare diffusione - e confusione concettuale - si ha durante le elezioni presidenziali del 1940. Sia da parte democratica che da parte repubblicana si usa il termine totalitarian in modo irresponsabile e poco scrupoloso. In un infiammato articolo sull’American Mercury, Herbert Hoover sottolinea dirette analogie economiche, politiche e psicologiche- tra lo sviluppo dei regimi totalitari europei e la situazione degli Stati Uniti sotto il New Deal. Anzi, giunge a definire Roosvelt e i suoi consiglieri come totalitarian liberals e lo stesso New Deal come un incipiente totalitarismo: sembra che lo confonda con socialistic.48 E di fatto, con la caduta dei regimi fascista e nazionalsocialista, con il deterioramento dei rapporti sovietico-americano, con la proclamazione della dottri______________________________ 47 G. H. Sabine, voce State, in Encyclopedia of the Social Sciences, New York, Macmillan, 1934, vol. XIV, p. 330. 48 A. Gleason, Totalitarianism, cit., p. 52 e ss. 45 na Truman, «il termine giocava un ruolo essenziale nel collegare l’antico alleato sovietico dell’America con la Germania Nazista. Forse l’apice di questo periodo si ebbe alla fine del 1950 quando il Mc Carran International Security Act sbarrò ai «totalitarian» - vale a dire ai comunisti - l’ingresso negli Stati Uniti. Durante questi cinque anni, l’idea che gli Stati Uniti dovessero affrontare la sfida totalitaria tornò ad esercitare una influenza indiscussa come la chiave del futuro americano ed ebbe la sua influenza più diretta sul pensiero politico e sulla politica estera americana».49 Siamo alle soglie della Guerra Fredda, quando «il nemico totalitario sembrava a prima vista , trascendere le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra, che venivano senza dubbio operate negli anni ‘30. Molti di coloro che allora lo utilizzavano lo facevano in contesti che suggerivano che al centro della discussione erano solo il nazismo o il fascismo. La sua rinascenza ______________________________ 49 Ibidem, p. 61. 46 nel 1945 servì a canalizzare il potente sentimento antitedesco nel nascente sentimento anti-comunistico e allo stesso tempo agevolò la formazione di nuove alleanze internazionali».50 ______________________________ 50 Ibidem, pp. 61-62. Segnaliamo anche gli studi, negli stessi anni, di J. L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 1967; R. C. Tucker, Towards a Comparative Politics of Movement-Regimes, in «American Political Science Rewiew», vol. LV, 1961; K. A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968. CAPITOLO SECONDO «IO PROCEDO DA FATTI E DA AVVENIMENTI» L’INDAGINE CONTESTUALE DI HANNAH ARENDT PER COMPRENDERE L’EVENTO CHE CARATTERIZZA IL XX SECOLO: IL TOTALITARISMO. Siamo contemporanei fin dove arriva la nostra comprensione. Se vogliamo andare d’accordo con il mondo, foss’ anche a costo di essere d’accordo con questo secolo, dobbiamo partecipare al dialogo incessante con la sua essenza. (H. Arendt). 48 1. Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933 1951. Hannah Arendt, ebrea tedesca emigrata negli Stati Uniti nel maggio 1941 dopo un periodo di internamento nel campo francese di Gurs, pubblica un’opera dalla grande carica emotiva, Le origini del totalitarismo, che, nonostante le critiche, è considerata subito un classico di filosofia politica. E’ curioso sapere che il titolo provvisorio dell’abbozzo, risalente alle prime settimane del 1945, era Gli elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo e razzismo; anzi, a volte, la Arendt più enfaticamente lo chiamava I tre pilastri dell’inferno, pilastri, condizioni sine quibus non, che sorreggono, ma non in senso che determinano, la struttura totalitaria. Forte, per lei, era l’accusa contro l’Europa del XIX sec., perché quel secolo borghese aveva creato gli elementi da cui si sarebbe cristallizzato il totalitarismo in Germania e in Russia; forte, per lei, era l’incredulità per quanto stava avvenendo storicamente e politica- 49 mente, non tanto per la svolta del suo paese nel 1933, quanto, soprattutto, per Auschwitz. «Da principio non ci credevamo. Anche se mio marito, e anch’io, avevamo sempre detto che da quella banda potevamo aspettarci di tutto. Ma questo non potevamo crederlo, perché era assolutamente contrario a ogni bisogno o necessità militare. Mio marito un tempo era uno storico militare, e di queste cose ne capiva abbastanza. E mi disse: “Non lasciarti mettere in testa queste storie! E’ una cosa che non possono fare.” Ma un mezzo anno più tardi, quando ci furono le prove, dovemmo crederci. E fu davvero un brutto colpo. Prima si diceva: ma sì, tutti hanno dei nemici, è una cosa del tutto naturale, perché un popolo non dovrebbe avere nemici? Ma questo era qualcosa d’altro. Era davvero come se si fosse spalancato un abisso. Perché si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto il resto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe mai dovuto accadere. E non mi importa il numero del- 50 le vittime. M’importa la produzione in massa dei cadaveri e il resto (...) e non c’è bisogno che mi dilunghi oltre. Questo non doveva succedere. E’ successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato».51 Passarono altri sei anni prima che si arrivasse al titolo definitivo, Le origini del totalitarismo, che pure sembrava ricordare uno studio di genetica, come Le origini della specie di Darwin. Si trattava di un titolo fuorviante, molto più di quello scelto dall’editore inglese, The Burden of Our Time (Il fardello del nostro tempo), perché non riusciva a tradurre lo spirito dell’autrice: occorreva ‘riflettere’ il metodo di lavoro seguito, non si cercavano origini nel senso di cause, non si cercavano giustificazioni, non si scriveva di storia. L’alternativa metodologica allo zelo dello storico ______________________________ 51 Intervista concessa nel 1964 a Gunther Gaus, Was bleibt? Es bleibt die Mutterspräche, in G. Gaus, Zur Person: Portrats in Frage und Antwort, Feder, München, 1964; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 19061975: per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 221; in H. Arendt, La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Milano, Mimesis, 1993, p. 43. 51 fu quella di «individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi politici reali alla loro base (...). Scopo del libro non è dare risposte, bensì preparare il terreno».52 Per la Arendt gli eventi eccedono sempre le loro cause, non c’è deduzione, non c’è necessità ma solo caotiche verità di fatto il cui senso aspetta di essere dischiuso come in un remake narrativo. «Gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per “origini” non si intenda “cause”. La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. Probabilmente gli elementi in se stessi non causano mai alcunché. Essi divengono l’origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo ______________________________ 52 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo, op. cit., p. 239. 52 allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia. L’evento illumina il suo passato ma non può essere dedotto da esso».53 Per la Arendt la parola origine si ricollega all’idea di quel principio casuale, contingente, che getta luce sull’evento che avviene ed esplicita la realtà su cui si fonda; a posteriori evoca quegli elementi della realtà che hanno acquisito pieno significato nella nuova esperienza, esperienza che resta possibile ed imprevista ai «problemi reali ed irrisolti» che erano dietro a quei «precedenti». «Dietro l’antisemitismo, la questione ebraica, dietro il decadimento dello stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano, dietro l’espansionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo».54 Bisogna, quindi, che si passi non già dalle origi______________________________ 53 H. Arendt, The Nature of totalitarianism, conferenza inedita (1954), Congresso; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit. 54 Lettera a Mary Underwood, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit., p. 240. 53 ni, questo oscuro materiale destinato a cristallizzarsi come un possibile esito, all’evento, bensì dall’evento verso quegli elementi del passato in cui possono balenare i tratti della cristallizzazione finale. In questo senso l’analisi più che storica diviene tipologica e sociologica. Il totalitarismo, dunque, è l’evento e la sua originalità terrificante consiste in atti che rompono con tutta la nostra tradizione, polverizzando letteralmente le nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio morale. Obsoleti sono anche gli strumenti concettuali della nostra tradizione filosofica. A Voegelin, che nella recensione a Le origini del totalitarismo la accusava di perdere i contatti con la trascendenza, con la dimensione spirituale e ideologica per cui «le origini del totalitarismo non andrebbero viste principalmente nel destino dello stato nazionale e nei seguenti cambiamenti sociali ed economici iniziati nel XVIII secolo (come fa la Arendt), ma piuttosto nell’ascesa del settarismo immanentista dell’Alto 54 Medioevo»,55 senza indugi, la Arendt replica: «Ciò che è senza precedenti nel totalitarismo non è primariamente il suo contenuto ideologico, ma l’evento stesso della dominazione totalitaria. Ciò si può chiaramente intendere se ammettiamo che le conseguenze delle sue politiche hanno fatto esplodere le categorie tradizionali del pensiero politico (il dominio totalitario è diverso da tutte le forme di tirannia e di dispotismo che conosciamo) e i criteri del giudizio morale (i crimini totalitari sono descritti in modo del tutto inadeguato come “assassinii” e i crimini totalitari possono difficilmente essere puniti come “assassinii”). Il signor Voegelin sembra pensare che il totalitarismo sia soltanto l’altra faccia del liberalismo, del positivismo e del pragmatismo. Ma si concordi o no col liberalismo (io posso dire qui con assoluta certezza di non essere né una ______________________________ 55 Pubblicata, insieme alla risposta della Arendt e ad una sua conclusione, in «The Review of Politics», XV, n. 1, 1953; trad. it. in G. F. Lami (a cura di) Eric Voegelin. Un interprete del totalitarismo, Roma, 1978. Cfr. Filosofia politica e pratica del pensiero. E. Vögelin, L. Strauss e H. Arendt, a cura di G. Duso, Milano, 1988. 55 liberale, né una positivista né una pragmatista), il punto è che i liberali non sono chiaramente dei totalitari. Spero di non insistere indebitamente su questo punto. Per me è importante perché credo che ciò che separa la mia impostazione da quella del signor Voegelin è che io procedo da fatti e avvenimenti invece che da affinità ed influenze spirituali. Ciò è forse un po’ difficile da scorgere perché io sono naturalmente molto interessata alle implicazioni e ai cambiamenti filosofici nell’ auto-interpretazione spirituale. Ma questo certo non significa che io abbia descritto “una rivelazione graduale dell’essenza del totalitarismo dalle sue forme incipienti nel XVIII secolo a quelle pienamente sviluppate”, perché questa essenza non esiste prima di essere venuta alla luce. Perciò parlo di “elementi” rintracciabili nel XVIII secolo, altri forse ancora più indietro (benché io dubiterei della teoria personale di Voegelin, secondo cui l’ascesa del settarismo immanentista del Medioevo si 56 sarebbe conclusa alla fine del totalitarismo)».56 Pensare il totalitarismo come l’altra faccia del liberalismo, del positivismo, del pragmatismo, lo priverebbe di ogni carattere di novità, di ogni significato fruttuoso per l’analisi del mondo moderno. La portata epocale del totalitarismo non è nel suo contenuto ideologico, ma nella sua eventualità, nella fattualità di un dominio realizzato con violenza e terrore attraverso la tragicità dei campi di sterminio. Questo è il fatto che interessa la Arendt. Questo procedimento ermeneutico spiega anche l’assimilazione del regime nazista con quello staliniano nella tipologia del totalitarismo, in quanto, pur se permeati da ideologie differenti, l’una basata sul dominio della razza, l’altra sul principio della lotta di classe, ambedue ricorrono al «culto della personalità», al terrore istituzionalizzato, ai campi di concentramento e all’abolizione delle libertà civili. ______________________________ 56 Ibidem. 57 E’ vero; solo marginalmente la Arendt si occupa dello stalinismo. L’opera doveva essere completata da uno studio adeguato sulle matrici totalitarie dell’ideologia marxista e le differenze tra marxismo e nazismo. Il tentativo fu intrapreso, alcuni anni più tardi, a seguito di una conferenza nel 195357 in cui si sottolineavano le trasformazioni che il marxismo aveva subito prima nell’interpretazione di Lenin poi di Stalin. Ma The marxist elements of totalitarianism non fu mai completato, rimase una disamina critica della tradizione filosofica occidentale e un confronto con Marx, il cui pensiero pure aveva avuto rilievo nella formazione della Arendt.58 ______________________________ 57 Conferenza inedita del 1953, Karl Marx and tradition of western political thought, presso la Library of Congress, Washington, Manuscripts Division, « The Papers of H. Arendt», box 64; trad.it. Karl Marx e la tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti, in «MicroMega», n.5, pp.35-108. 58 Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, Milano, FrancoAngeli, 1996. 58 Nella prefazione del giugno 1966 a Le origini del totalitarismo, la Arendt fa riferimento al discorso di Kruscev, nel 1957, dinanzi al XX Congresso del partito, atto con cui si è aperto il processo di detotalitarizzazione dell’ ex-Unione Sovietica. Secondo la Arendt, il più chiaro segno della detotalitarizzazione sovietica non è stato tanto la liquidazione di buona parte del sistema poliziesco o la chiusura della maggior parte dei campi di concentramento, oppure il fatto che non sono state più promosse spettacolari epurazioni contro i nemici del partito, ora destituiti e allontanati da Mosca, quanto la ripresa feconda delle attività culturali, arte e letteratura in particolare. «Quando Stalin morì, i cassetti degli scrittori e degli artisti erano vuoti, oggi esiste tutta una letteratura che circola in manoscritti, e ogni via della pittura moderna viene tentata negli ateliers dei pittori e le loro opere vengono conosciute anche quando non sono esposte a una mostra».59 ______________________________ 59 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XLV. 59 Da un sistema totalitario si è passati ad una dittatura a partito unico. Utilizzando il termine totalitarismo con parsimonia e prudenza, la Arendt si chiede, tuttavia, se esso sia applicabile60 anche alla Cina comunista, di cui all’epoca non si conosceva niente a causa dell’efficace isolamento dietro cui il paese si era trincerato. Rispetto all’esempio tedesco e russo le differenze sono notevoli: dopo il periodo iniziale della dittatura contrassegnato dallo spargimento di sangue e da una decimazione della popolazione, dopo la scomparsa dell’opposizione, non si è verificato l’inasprirsi del terrore e del massacro, l’irrigidimento della burocrazia al potere, il sorgere di una categoria di ‘nemici oggettivi’, ______________________________ 60 Per la Arendt il concetto «totalitarismo» non si applica neanche al fascismo italiano. Mussolini aveva creato uno stato corporativista, più che totalitario, in quanto aveva tentato di ‘statalizzare’ la società e lo stesso partito non si pose al di sopra dello stato ma si identificò con la massima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu «il vero usurpatore nel senso della dottrina politica classica», in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 360 e ss. Sul fascismo italiano vedi A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, 1965. 60 cioè il permanere di quei caratteri che per la Arendt tipizzano il totalitarismo. Indubbiamente riconosce una pretesa totalitaria nel programma ideologico del partito comunista cinese, ancor più manifeste in politica estera con l’inasprirsi dei rapporti cino-sovietici e con l’accusa alla Russia, che pure aveva sostenuto Pechino, di ‘deviazione revisionista’ dopo la morte di Stalin e l’avvio di una politica di distensione. Pur denunciando la scarsità delle fonti, assumendo una posizione piuttosto ambigua, la Arendt accenna a quella forma di terrore e di controllo sociale che era «il modellamento e rimodellamento delle menti»,61 la pervadente ‘riforma della mente umana’ che è il corrispettivo cinese della creazione dell’uomo nuovo tipico dello spirito totalitario. Un totalitarismo fondato sul consenso, direbbero oggi i critici. ______________________________ 61 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XXXI. 61 Una osservazione, comunque, va fatta a proposito de Le origini del totalitarismo: c’è uno squilibrio tra le prime due parti, più storiche, più politiche, e la terza parte che punta sull’essenza del totalitarismo, sull’individuazione della sua tipicità. Potremmo dire che dallo «stare ai fatti» si passa meglio e volentieri ad un’analisi concettuale raffinata, ad una sintesi tipologica, in particolare nel capitolo dal titolo Ideologia e terrore. La domanda che ella si pone, in effetti, e che segna la portata del totalitarismo come evento -come sia potuto succedere?- filtra la domanda sull’eclissi del politico. Andrè Enégren scrive: «In un certo senso il totalitarismo disegna in cavo tutto ciò che conferisce rilievo al politico arendtiano: alla chiusura radicale di un dominio senza incrinature, la Arendt oppone uno schema normativo senza governanti né governati al cui interno viene riconosciuto il diritto di ciascuno ad agire, giudicare e decidere in comune; al flusso totalitario che sradica e livella, lei risponde con una riflessione incentrata sulla stabilità della legge che stabili- 62 sce il potere, sull’autorità come memoria capace di fissare la politica nella permanenza di un mondo differenziato. Mentre il totalitarismo si affida a una logica inflessibile sempre pronta a riassorbire gli eventi in un ordine superiore, essa dà la fiducia al visibile, all’opinione e al giudizio che, solo, consente di tenere testa alla dissoluzione della tradizione».62 La Arendt legge il fenomeno totalitario come assoluta eccezionalità, in qualche modo reso possibile, ma non necessario, da tutti i rovesciamenti a catena, natura e società, politica e storia, che insieme oppongono e legano la modernità alla tradizione classica. Il totalitarismo nasce con la modernità, ma non come qualcosa di originariamente inscritto nel suo patrimonio genetico, come esito predeterminato; piuttosto è il prodotto di una serie di opzioni soggettive che convergono su di una contrazione ed uno schiacciamento del ‘politico’ su altre modalità del «fare»: il sistema totalitario è estraneo alla vita politica autentica. ______________________________ 62 A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, Edizioni Lavoro, 1987. 63 2. L’ antisemitismo politico e la questione ebraica. Perché iniziare un’opera politica con un’analisi sull’antisemitismo, le sue origini, le sue sfaccettature, i suoi esiti, catastrofici, per un popolo, quello ebreo, che mai si è occupato di politica e che storicamente è stato considerato ‘apolide’? La Arendt considera l’antisemitismo come l’ideologia laica del sec. XIX e l’originale prospettiva con cui tale fenomeno è analizzato le permette di mettere alla prova ciò che va via via elaborando intorno alla autonomia e al primato dell’agire politico. Il popolo ebraico, caso storico concreto, diviene simbolo dell’alienazione dell’uomo nel mondo moderno perché l’esperienza dell’esilio lo ha privato di uno spazio pubblico per l’azione. E’ popolo senza governo, senza paese, senza lingua. La condizione ebraica porta a riflettere su quell’irriducibile unicità che è inerente alla condizione della nascita, unicità intesa come tradizione culturale, ap- 64 partenenza etnica, fede religiosa, che deve poi condurre a trascendere la propria singolarità nel conseguimento di fini condivisi. E’ sottesa una ricerca filosofica che sarà presente in modo più evidente nelle opere della maturità, vale a dire l’individuazione di uno spazio politico che sia comune a tutti gli uomini, in cui le aspirazioni ebraiche all’emancipazione possano integrarsi con l’aspirazione di tutti i popoli all’autodeterminazione. Allora l’ebraismo diviene simbolo della ribellione universale nei confronti dell’oppressione. Nella biografia di Rahel Varnhagen,63 i cui primi capitoli vennero scritti nel 1933, anno di fuga della ______________________________ 63 H. Arendt, Rahel Varnhagen. The Life of a Jeweness, East and West Library (for the Leo Baeck Institut of a Jews from Germany), London 1957; trad. it., Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, a cura di L. Ritter Santini, Milano, Il Saggiatore, 1988. Il libro fu pubblicato nel 1957 in inglese su iniziativa del Leo Baeck Institut; nel 1959 uscì in edizione tedesca presso Piper. Il manoscritto, fatta eccezione per gli ultimi due capitoli, era già pronto nel 1933 quando la Arendt dovette lasciare la Germania. Nel 1938 venne completato per l’insistenza di Heinrich Blücher e Walter Benjamin. 65 Arendt dalla Germania nazista, mentre gli ultimi tre verso il 1938, quando la Arendt si era rifugiata in Francia, è presente un’acuta critica all’assimilazione per la difesa della tradizione e dell’autonomia di ciascun popolo, e non solo quello ebraico, sottolineando che in un mondo civile l’uguaglianza giuridica e politica dei gruppi non può che essere indiscutibile. La Arendt rifiuta l’assimilazione come possibilità di integrazione degli ebrei nel corpo della nazione. Essa ha indotto alla perdita della propria identità, dei valori religiosi, della tradizione. In Le origini del totalitarismo, mostra come l’antisemitismo, che non è un nazionalismo latente, perché la sua espansione coincide con la crisi dello Statonazione, sia stato il prodotto di un progetto storico e sociale determinato a cui ha contribuito il generale declino delle comunità ebraiche dell’Europa centrooccidentale ed anche quella perenne indecisione degli ebrei di essere un «elemento non nazionale in un sistema di stati nazionali», di essere un parvenu piutto- 66 sto che un libero pariah, di non trovare un equilibrio tra vita pubblica ed esperienza interiore. Già alla fine del Settecento64 si distingueva una massa di paria e piccole comunità ricche e privilegiate. Paria, secondo la Arendt, sono quell’insieme di gente che vive un’esclusione politica e sociale, senza per questo essere degradata sul piano morale come, invece, aveva sostenuto Nietzsche in Genealogia della morale, dove paria è l’individuo formato alla morale del risentimento e della ipocrisia. L’accettazione ______________________________ 64 Sulla nascita della «questione ebraica» in epoca illuministica, cfr. H. Arendt, Aufklärung und Judenfrage, trad. it. Illuminismo e questione ebraica, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437. Cfr. A. Dal Lago, Introduzione ad H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Sullo sviluppo di una filosofia ebraica «che non sarebbe stata tale perché dovuta alla creatività di pensatori ebrei, ma perchè sarebbe stata rivolta a costruire i suoi edifici concettuali sulle fondamenta della tradizione ebraica e non avrebbe nascosto la sua intenzione di servirsi dei suoi concetti per ridefinire i lineamenti dell’identità ebraica» vedi G. Lissa, Filosofia ebraica oggi, in «Rivista di storia della filosofia», n. 4, 1994. Lissa, a partire dall’analisi della situazione ebraica fatta dalla Arendt in Le origini del totalitarismo, mette in evidenza come esista un rapporto imprescindibile tra la tradizione ebraica e la sua potenza dominante, la religione, rapporto su cui si gioca il destino stesso dell’identità ebraica. 67 dell’ebreo era sul piano della ‘eccezione’, o per ricchezza o per sapere, come persona ‘particolare’, giacché come popolo sarebbe stato disprezzato. L’ebreo di corte, ad esempio, era il finanziatore della corona, deteneva privilegi un tempo prerogativa solo della nobiltà. Poteva portare armi, scegliere la residenza, viaggiare e spostarsi secondo il proprio piacere, ovunque era protetto dalle autorità locali. Poteva contrarre matrimonio con la nobiltà, sebbene le ereditiere ebree con la loro dote non facevano che rimpinguare il patrimonio dei nobili rampolli. Questo ruolo super partes, mediatore senza rappresentanza politica, cominciò a vacillare quando, dopo il 1791, si ottenne la parità giuridica. Anzi, quanto più fu riconosciuta la parità giuridica tanto più aumentò la discriminazione sociale. L’aristocrazia fu il primo gruppo sociale a diventare antisemita, considerando gli ebrei il prototipo del borghese egualitario e moderno. Ancora più radicale fu la posizione della borghesia che identificava l’ebreo 68 con il banchiere, parassita della miseria e delle sofferenze, in stretto rapporto con il potere centrale. La borghesia, inoltre, detestava la capacità degli ebrei di essere mediatori di pace e di intervenire di conseguenza nelle relazioni di politica internazionale. Il tedesco W. Rathenau, che aveva cercato di ottenere condizioni di pace, dopo la prima guerra mondiale, piuttosto favorevoli per la Germania grazie al riconoscimento internazionale delle sue capacità di statista, venne ucciso da un antisemita. Agli occhi dei borghesi antisemiti sembrava che gli ebrei governassero i troni di nascosto e che fossero i registi di una trama cospiratoria internazionale. Tale teoria che era stata espressa nel testo La congiura dei saggi di Sion, un falso a cui avevano creduto in molti e che venne usato da Hitler come ulteriore convalida delle sue tesi sulla razza. Ogni volta che un gruppo nazionale o una classe entrava in conflitto con il potere centrale dello stato, invece di attaccare direttamente questo, aggrediva gli ebrei. Sfiorando il sociologico, la Aren- 69 dt descrive l’antisemitismo del liberale austriaco Schoenerer, di Lueger, capo del partito cristiano-sociale, e del cappellano tedesco Stoecker, per indicare non solo che in Austria e in Germania si stava diffondendo l’antisemitismo più forte e virulento ma come in esso si confondesse nei conflitti di nazionalità sia da parte dei democratici che da parte dei liberali. In effetti, la spinta antisemita aveva travolto anche partiti altrove più vigilanti, fatta eccezione dei partiti operai e di sinistra, che, presi dalla lotta di classe contro la borghesia, si disinteressavano di politica estera. La Arendt sottolinea che, oltre a cause strettamente politico-economiche, sociologiche e ideologiche, all’antisemitismo contribuiva anche quella considerazione da parte degli ebrei di essere il popolo eletto, ipotesi che si fondava sull’idea che il Messia sarebbe venuto per la salvezza di tutti i popoli. Tale tesi, tuttavia, nel corso storico, aveva perso ogni carattere universalistico. 70 Con la formazione degli stati nazionali nel XVI secolo, gli ebrei si erano definiti come gruppo con un forte senso di appartenenza e del privilegio. Ed in questo è consistito l’errore politico: 1) l’essersi considerati popolo superiore, non riuscendo, tuttavia, a coesistere con la propria identità, perché al di là di uno sparuto gruppo di privilegiati il resto era una massa di paria, 2) l’ essersi disinteressati della politica, soprattutto della rivendicazione dei propri diritti, creando un potere economico sul vuoto politico. La Arendt fa suo lo schema analitico di Tocqueville, che nell’opera L’Ancien Régime et la Révolution descrive la crisi della nobiltà alla fine dell’antico regime. I nobili furono attaccati ed odiati quando persero le loro funzioni, soprattutto quelle militari, erano ricchi ma senza alcuna funzione sociale. Lo stesso era per gli ebrei: essi attiravano odio in particolare per il loro disinteresse politico. L’assenza di una rappresentanza di potere riconosciuta in seno allo stato, l’impotenza e la conseguente 71 ‘innocenza politica’ aveva impedito agli ebrei di capire come l’ostilità sociale sarebbe presto confluita in tragedia. Non aveva alcuna validità la tesi del capro espiatorio né l’antigiudaismo: il problema era essenzialmente politico. La differenza andava ‘protetta’; assumere la dolorosa identità del paria era l’unica strada per confermare la propria presenza al mondo. E il politico andava distinto dal sociale. Il sociale avanza un’ipotesi di uniformità perché spinto da pulsioni privatistiche, concepisce il diverso come il nemico. L’uguaglianza politica non è l’uguaglianza sociale, né si può dar luogo ad un suo pervertimento. «Le moderne società di massa offrono innumerevoli esempi della facilità con cui si scambia l’eguaglianza per una qualità innata di ciascun individuo, che viene definito “normale” quando è come gli altri e “anormale” quando se ne differenzia. Questo perver- 72 timento di un concetto politico è particolarmente pericoloso quando la società lascia alle differenze uno spazio relativamente esiguo, dando così luogo ad una quantità di conflitti».65 Analizzando il caso Dreyfus, ad esempio, la Arendt mette in rilievo come dal sociale si fosse presto passati alla strumentazione politica. Contro l’ebreo spione e traditore non solo si erano mobilitati i membri dell’esercito che rifiutavano un ebreo nello stato maggiore, ma anche il clero, che mal tollerava la diversa confessione tra gli ufficiali. Sul piano politico nacque il conflitto: essere antidreyfusardi significava essere antidemocratici e antirepubblicani, contrari all’uguaglianza giuridica e politica che prima la rivoluzione francese poi la Terza Repubblica avevano consacrato. Gli ebrei, che cercavano di far prevalere la tesi dell’errore giudiziario, continuavano a non capire il terreno di scontro. ______________________________ 65 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. 73 In Francia e negli altri stati europei, per lungo tempo si discusse del caso Dreyfus: da una parte erano schierate le forze progressiste, dall’altra quelle conservatrici di estrema destra, antisemite e antidemocratiche. La xenofobia, di cui pure si alimentava l’antisemitismo francese, resto qualcosa di inoffensivo. Solo Céline, che nel 1937 aveva pubblicato Bagattelles pour un massacre e nel 1938 L’école des cadavres, raggiunse la paranoia incitando al massacro degli ebrei ritenuti diabolicamente responsabili di ogni male. Comunque, la conseguenza più importante dell’affare Dreyfus fu la nascita del movimento sionista ad opera del giornalista austriaco T. Herzl, «l’unica risposta politica che gli ebrei seppero trovare al movimento antisemitico e, insieme, l’unica loro ideologia che prese sul serio quell’ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avvenimenti mondiali».66 ______________________________ 66 Ibidem, p. 168. 74 3. La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei in crisi: l’imperialismo come preludio politico ai movimenti totalitari. La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani. Le fila dell’opera sono tenute insieme da un unico tema centrale: la storia della dissoluzione dello Stato-nazione in aggregati di uomini «superflui». Antisemitismo e imperialismo, risultato di pratiche non democratiche, pur se delimitati in modo esclusivo, sono perciò intimamente connessi. Riassunto nello slogan «l’espansione per l’espansione», l’imperialismo è analizzato come una nuova forma di colonialismo, ben diverso dal precedente (1500-1700) che si limitava a trarre il massimo delle ricchezze dalle colonie. Esso fu essenzialmente una politica di potenza di matrice economica, che diede luogo ad un processo distruttivo delle società nazionali inarrestabile, preludio dei fenomeni totalitari del XX secolo. 75 La Arendt associa al fenomeno ragioni di tipo economico, sostenendo che era stata la crisi economica degli anni ‘60 e ‘70 a spingere gli uomini di affari ad occuparsi di politica internazionale. Si era verificata «una sovrapproduzione di capitale che, non potendo più trovare un investimento produttivo entro i confini nazionali, costituiva una massa di denaro “superfluo”. Per la prima volta gli strumenti del potere politico, anziché aprire la via, seguirono supinamente il denaro esportato».67 Gli uomini dell’imperialismo erano persuasi che politica ed economia non erano disgiunte, anzi avevano posto la seconda al servizio della prima. Perché ci fosse espansione economica continua occorreva il sostegno del potere politico. E la politica fu essenzialmente politica economica. E’ in questo, secondo la Arendt, che si realizza l’emancipazione politica della borghesia, nel senso che ______________________________ 67 Ibidem, p. 188. 76 se fino ad allora l’interesse prioritario era la conquista economica senza aspirare al dominio politico, adesso la borghesia tentava di usare lo stato e i suoi strumenti di violenza per l’espansione dei suoi interessi economici, indebolendo così la posizione dei finanzieri in genere, in particolare quelli ebrei. La Arendt, tuttavia, non tiene conto che già all’epoca del mercantilismo la classe borghese si era interessata della politica economica degli stati. Ciò che si ebbe nell’Ottocento, semmai, fu l’opinione che effettivamente il potere politico potesse proteggere gli interessi economici di uno stato, in modo particolare nelle colonie. La definizione che la Arendt tenta di dare dell’imperialismo si rifà alle tesi della sinistra marxista, Rosa Luxemburg in particolare, la quale, secondo la teoria del sottoconsumo, riteneva che, per essere assorbita la produzione corrente in modo integrale, poiché la classe lavoratrice non poteva avere un alto potere di acquisto per le sue miserevoli condizioni, occorreva una 77 «terza persona», un compratore esterno al sistema capitalistico. A fianco, cioè, del mondo capitalistico, era necessaria l’esistenza di un mondo non capitalistico perché il sistema del primo non si inceppasse.68 E’ la logica degli sviluppi ineguali di cui aveva parlato anche Lenin in modo più complesso e critico. Un contributo sicuramente decisivo, tuttavia, per la Arendt, sono state le analisi del liberaldemocratico Hobson e del socialdemocratico Hilferding: quest’ultimo, con il quale converge anche Kautsky, considerava il fenomeno come una politica del capitalismo. Nel segno di una apparente razionalità, l’imperialismo aveva promosso l’espansione geografica secondo una crescita economica che era l’immediato riflesso dell’accumulazione capitalista illimitata. «Annetterei i pianeti, se potessi» era solito dire Cecil Rhodes, quasi a suggello della nuova politica mondiale. ______________________________ 68 R. Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals, Berlin, Singer, 1913; trad. it. L’accumulazione del capitale, Milano, Feltrinelli, 1976. 78 Espansione acquisiva il significato di continuo ampliamento della produzione industriale e delle transazioni economiche.69 Si trattava di un concetto non politico, tanto è vero che l’obiettivo degli imperialisti era quello di ampliare la sfera di potere, potere economico in primo luogo, senza creare un corrispondente corpo politico. Era il caso, ad esempio, dei francesi che trattarono l’Algeria come una provincia del territorio metropolitano senza imporre le loro leggi alla popolazione araba, creando un ibrido per cui il territorio era nominalmente francese, giuridicamente parte integrante della Francia, uno dei suoi dipartimenti, ma gli abitanti non erano cittadini francesi, anzi, vennero considerati quella «force noire» che doveva proteggere la Francia, o, per dirla con il Poincaré, era «carne da cannone, ottenuta con metodi di produzione di massa».70 ______________________________ 69 70 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 175. Ibidem, p. 180. 79 Anche l’Inghilterra, per il fatto di essere uno stato nazionale, non creò mai un «Commonwealth of Nations» nel senso dell’assimilazione e incorporazione dei popoli sottomessi, ma «una nazione sparsa nelle varie parti del mondo».71 L’esempio irlandese decretò il fallimento della politica estera inglese perché con il riconoscimento dello status di dominion si era ravvivato lo spirito di resistenza nazionale dell’Irlanda. L’imperialismo, quindi, creò una pericolosa contraddizione tra la struttura dello stato nazionale e la politica di conquista, perché «dovunque si è presentato nella veste di conquistatore, ha infatti destato la coscienza nazionale e la volontà d’indipendenza del popolo vinto, mandando a monte il tentativo di costruzione di un impero duraturo».72 Diversamente accadde nell’antica Roma, per la quale la Arendt esprime la sua ammirazione: tipica______________________________ 71 72 Ibidem, p. 178. Ibidem, p. 177. 80 mente romana era quella capacità di esportare il diritto, collante tra popoli diversi ma egualmente riconoscentisi come cittadini romani, nonché perno della creazione di un impero stabile e duraturo. L’imposizione di una legge comune permetteva l’uguaglianza giuridica e il diritto alla cittadinanza di popoli eterogenei, favorendo l’integrazione, laddove lo stato nazionale, che si basava sul consenso attivo di una popolazione omogenea, in caso di conquista, imponeva il consenso cercando di assimilare, degenerando talora molto velocemente in tirannide. Gli imperialisti non avevano, quindi, esportato la legge, bensì il dominio. La prima conseguenza fu l’esportazione del rule by force, il governo mediante la forza, che sostituì la fondazione del corpo politico. «Violenza, la polizia e le forze armate, che nell’ambito della nazione erano soggette al controllo delle autorità civili, si arrogarono le prerogative di rappresentanti nazionali nelle colonie, dove erano state 81 dislocate come custodi del capitale investito. Qui in regioni arretrate senza industrie e organizzazione politica, dove la violenza aveva più libertà d’azione che in qualsiasi paese occidentale, si consentì alle cosiddette leggi del capitalismo di diventare realtà».73 Lontano dal potere delle leggi, lontano da quella funzione costituzionale che è loro propria, l’esercito e la polizia diventano strumenti di violenza dalla forza incontrollabile. Si era violato uno dei principi fondamentali dello stato costituzionale. Scambiando espansione per conquista, inoltre, gli imperialisti governavano, piuttosto che per leggi, per ordinanze e decreti. La confusione tra potere esecutivo e legislativo in effetti le ordinanze e i decreti erano atti del potere esecutivo- dava luogo nelle colonie all’arbitrarietà e all’arroganza dei funzionari, i quali preferivano che «l’africano restasse africano»74 per salvaguardare i ______________________________ 73 74 Ibidem, p. 190. Ibidem, p. 182. 82 propri affari laddove le leggi, invece, avrebbero garantito la legittimità del riconoscimento paritario tra coloro che erano sottomessi al medesimo governo. Pertanto le istituzioni democratiche esistenti erano pericolose perché, come si legge da un discorso di Lord Cromer in parlamento, non si poteva governare «un popolo per mezzo di un altro popolo, il popolo indiano per mezzo del popolo inglese».75 «La burocrazia era un governo di tecnici, una “minoranza esperta”, che doveva resistere alla costante pressione della “maggioranza inesperta”»,76 il popolo, a cui non era possibile affidare la cura dell’amministrazione delle colonie. I funzionari erano abilmente manipolati dagli uomini di affari, non avevano idee politiche generali né erano eccessivamente patriottici, anzi, le loro qualità erano la segretezza, l’anonimato, il potere da eminenza grigia. ______________________________ 75 76 Ibidem, p. 298. Ibidem, p. 298. 83 Gli uomini dell’imperialismo erano individui ‘declassati’, senza un’effettiva funzione sociale, alienati dal corpo sociale, parassiti senza identità che si appassionarono all’avventura imperialista pensando di poter gestire un potere assoluto o segreto. «L’alleanza plebe e capitale è all’origine di ogni coerente politica imperialista».77 La Arendt chiarisce che non bisogna confondere la plebe né con il proletariato industriale, né con il popolo nel suo insieme: essa è formata dagli scarti di tutte le classi sociali, è «una massa di persone priva di qualsiasi principio e numericamente così forte da superare la capacità dello stato di occuparsene».78 Direttamente prodotta dalla borghesia, con questa rivela una profonda affinità sul piano politico, lontana da ipocrisie e falsi valori e fortemente entuasiasta delle teorie razziali che escludevano in linea di principio l’idea di umanità e ogni possibile ______________________________ 77 78 Ibidem, p. 216. Ibidem, p. 219. 84 relazione con il diverso, il selvaggio, che non fosse di mera sudditanza. Per dare meglio un quadro degli uomini dell’imperialismo, la Arendt cita alcuni esempi, da Lawrence d’Arabia a Lord Cromer fino ai personaggi dei romanzi di Kipling e di Cuore di tenebra di Conrad. Quello che le preme sottolineare, in effetti, è che erano uomini annoiati o falliti nel loro paese di origine di cui avevano rifiutato i valori e pronti a tutto nelle colonie per conquistare un’identità e condizioni di vita soddisfacenti. I tratti distintivi dell’imperialismo, dunque, sono 1) le teorie razziste, che sostituirono la razza alla nazione come base della struttura politica, e 2) l’organizzazione burocratica, che ne fu lo strumento. Il razzismo come strumento di dominio venne usato, ancor prima che l’imperialismo lo definisse come idea politica, dai boeri nel Sudafrica, i quali, emigrati intorno al XVII secolo dall’Olanda, ripudiarono l’ethos europeo e, vivendo in un ambiente che non erano in 85 grado di trasformare, non trovarono altro valore più alto che in se stessi. Essi si considerarono individui più che umani, scelti da Dio per essere gli dei del popolo nero, inferiore non tanto per il colore della pelle quanto per ragioni economiche: a stretto contatto con la natura, gli indigeni non avevano creato né modificato il mondo e la realtà umana. Con la scoperta di giacimenti auriferi e diamantiferi, il Sudafrica fu terra di investimento per i finanzieri ebrei, i quali divennero immediatamente bersaglio di odio antisemita da parte dei boeri per il pericolo di innovazioni nella loro società razziale. Essi erano potenziali elementi destabilizzanti presso una comunità che temeva fanaticamente l’industrializzazione del paese. Il Sudafrica ebbe una particolare influenza sui popoli europei: «insegnò alla plebe quel che essa aveva vagamente presentito, che bastava la mera violenza per creare a piacimento strati inferiori o sfruttati, che a tale scopo non occorreva neppure una rivoluzione, ma si poteva contare sull’aiuto di certi gruppi delle classi 86 dominanti, e infine che i popoli stranieri o arretrati offrivano la migliore occasione per l’ascesa nella società».79 Se Hobbes poteva essere ritenuto il teorico antesignano della politica imperialista, alcuni nobili francesi del Settecento avevano creato i prodromi per le teorie razziste che vennero messe in atto nel corso del Novecento. Il conte de Boulainvilliers, ad esempio, aveva sostenuto che la nobiltà francese era di origine germanica e che aveva conquistato la terra di Francia, ora depredata da quell’alleanza della monarchia con il terzo stato. Nessuno avrebbe mai sospettato che si preparava la guerra civile, quella rivoluzione che rivendicava eguali diritti civili per i cittadini di tutta la nazione francese. L’aristocrazia, in effetti, affermava la sua superiorità per un’azione di conquista e non già per fattori biologici. ______________________________ 79 Ibidem, pp. 287-288. 87 Diversamente fu per la Germania. Il pensiero razzista tedesco nacque, secondo la Arendt, dopo la disfatta dei prussiani da parte di Napoleone. Si cercò di fare appello ad un generico sentimento di nazione per rafforzare l’unità interna di un popolo che si riconosceva dapprima nell’unità linguistica, poi nelle teorie fondate sulla razza, poiché mancava sia l’unità territoriale sia la memoria storica. Furono i razzisti tedeschi che identificarono il popolo con la razza, idealizzando sulla scia romantica il Medioevo e il Sacro Romano Impero. Accanto a queste analisi storico-comparative, di cui marcato è il tono sociologico, la Arendt menziona anche la portata delle teorie eugenetiche e del darwinismo sociale, con cui si negava l’origine unica e biblica dell’uomo. Se l’imperialismo coloniale, comunque, aveva minato la stabilità della politica estera degli Stati europei, creando una dicotomia tra governo metropolitano e colonie, è l’imperialismo continentale, soste- 88 nuto dai movimenti panslavisti e pangermanisti, che disintegrerà internamente la struttura dello Stato-nazione. L’imperialismo continentale fu proprio dell’area orientale dell’Europa, di quegli Stati che non avevano partecipato all’espansione geografica d’oltremare e che, secondo una soluzione di continuità geografica, pretendevano di creare colonie sul continente. «L’imperialismo continentale ebbe realmente inizio in patria».80 Esso esprimeva esigenze nazionali, contrapponendo all’economia «un’ “ampliata coscienza etnica” che si supponeva unisse tutte le persone della stessa origine etnica, indipendentemente dalla storia, dalla lingua e dal luogo di residenza».81 Questa sorta di nazionalismo tribale, come spregiativamente è definito dalla Arendt, aveva in comune con l’imperialismo coloniale il razzismo, inteso come ______________________________ 80 81 Ibidem, p. 312. Ibidem, p. 312. 89 rifiuto del diverso, inferiore e sottoposto, e la burocrazia, ampiamente descritta da Kafka nei suoi romanzi. Esso aveva fatto sue le teorie razziali distinguendo non più tra pelle bianca o bruna, bensì tra anima ariana e non ariana; aveva fatto della nazionalità una qualità permanente proclamando l’origine divina del proprio popolo; si era proclamato indipendente dal territorio osteggiando tutti gli organismi statali esistenti e identificando il cittadino con il membro del gruppo nazionale. Pur mancando di un preciso programma politico, centrale nella sua ideologia divenne l’antisemitismo come se fosse una visione generale del mondo, isolando così l’odio ebraico da ogni concreta esperienza politica, sociale ed economica. Il nazionalismo tribale nacque in un’atmosfera di profondo sradicamento. Panslavisti e pangermanisti si riconoscevano non già per avere una patria territorialmente e giuridicamente definita, bensì come ‘tribù’. 90 In questo senso, sottolinea la Arendt, il popolo si riconosce in quanto massa, orda in movimento, e la sua forma di rappresentanza non poteva più essere il partito ma il movimento stesso. I partiti, in effetti, mediavano nella vita politica di un paese, ma non si era dimostrati efficaci, poiché, molto più legati al potere che a ideali democratici e parlamentari, si erano macchiati di abusi e corruzione escogitando giustificazioni ideologiche che facevano coincidere interessi privati con quelli più generali dell’umanità. Il risultato fu il progressivo allontanamento dal governo delle masse, sempre più antiparlamentari e antidemocratiche, anzi, proprio per il clima di sfiducia che si era venuto a creare veniva richiesta la presenza di un dittatore come guida del paese. La Arendt affronta su un piano comparativistico la questione della disgregazione dei partiti, che è, in fondo, la disgregazione dello Stato-nazione nel senso della perdita dei valori democratici e parlamentari, nonché del diritto alla cittadinanza. 91 Lo svolgimento è stato ben diverso nei paesi dell’Europa occidentale rispetto a quella orientale. In Inghilterra, ad esempio, il sistema rappresentativo era solido grazie al bipolarismo, all’alternanza dei due partiti al potere; mentre in Germania lo Stato «svirilizzava»82 i partiti, nel senso che «il sistema tedesco faceva del parlamento un campo di battaglia di interessi e di opinioni contrastanti, la cui funzione pratica per la direzione degli affari statali era estremamente discutibile».83 L’antagonismo stato-società venne poi spazzato via dai seguenti movimenti totalitari. La crisi interna allo Stato-nazione viene acuita dalla situazione degli ‘apolidi’, gli Heimatlose, gruppi che con la guerra del 1914 erano emigrati da un paese ad un altro privati dei diritti umani garantititi dalla cittadinanza, condannati all’ apolidicità come ‘schiuma della terra’. ______________________________ 82 83 Ibidem, p. 357. Ibidem, p. 357. 92 Cechi, sloveni, ebrei, russi bianchi e altre minoranze costrette allo spostamento territoriale per la caduta dell’Impero russo, austro-ungarico e ottomano, erano unicamente tutelati per una serie di trattati internazionali, i Minority Traties, spesso rimasti pura entità astratta. In molti Stati europei, inoltre, erano state introdotte leggi che permettevano la denazionalizzazione e la denaturalizzazione; il primo provvedimento venne preso in Francia già nel 1915 in relazione ai cittadini naturalizzati provenienti da un paese nemico; poi nel 1922 il Belgio annullava la naturalizzazione delle persone che avevano commesso atti antinazionali durante la guerra; nel 1926 in Italia il regime di Mussolini emanò una legge analoga per quei cittadini che si erano mostrati «indegni della cittadinanza italiana o rappresentavano una minaccia per l’ordine pubblico»; l’Austria nel 1933 per chi avesse commesso azioni ostili nei suoi confronti e via via fino al 1935 quando con le leggi di Norimberga la Germania distinse i te- 93 deschi in cittadini a pieno titolo e cittadini senza diritti politici.84 La Arendt, considerando l’apolidicità un fenomeno di massa tutto contemporaneo, tiene a precisare la differenza tra minoranze e apolidi. «Le minoranze erano senza stato solo a metà; almeno de jure appartenevano a un organismo statale, anche se avevano bisogno di una protezione supplementare e di speciali garanzie per godere di certi diritti. (...) Le minoranze potevano essere considerate come un fenomeno eccezionale, proprio di determinati territori che deviavano dalla norma».85 E i trattati sulle minoranze dicevano quello che già era implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè che solo l’appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, per cui i ‘gruppi allogeni’ erano soggetti solo ______________________________ 84 Ibidem, nota p. 387 e ss. Cfr. anche G. Agamben, Mezzi senza fini. Note sulla politica. Torino, Bollati Boringhieri, 1996. 85 Ibidem, p. 384. 94 a leggi eccezionali fino a quando non si compiva l’assimilazione. A tutela era stata creata la Lega delle nazioni. Gli apolidi, invece, erano stati privati della cittadinanza, nel senso che «essa presupponeva una struttura statale che, se non ancora completamente totalitaria, non tollerava alcuna opposizione e preferiva perdere dei cittadini piuttosto che albergare nel suo seno dei dissenzienti».86 Quanto fosse perverso questo meccanismo e quanto sia attuale, viene sottolineato dalla Arendt investendo della sua critica anche il paese democratico per antonomasia, gli Stati Uniti, allorquando si era creata la possibilità, durante il periodo maccartista, di privare della cittadinanza gli americani comunisti. La perdita della cittadinanza è quanto di più offensivo si possa fare ad un uomo, agli uomini, perché significa la privazione di uno spazio pubblico di rico______________________________ 86 Ibidem, p. 387. 95 noscimento, di un agire politico di concerto che dia peso alle opinioni e alle azioni e che, secondo la Arendt, può realizzare quella dignità di essere-uomini. In questo senso vengono messi in questione gli stessi diritti dell’uomo ritenuti inalienabili dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, con cui, per l’appunto, si è creata la perfetta coincidenza di uomo e cittadino. L’apolide segna la crisi di questo rapporto e, di riflesso, anche la crisi dello Stato-nazione perché viene meno quella triade Stato-nazione-territorio, quindi lo stesso concetto di sovranità. Rimedi furono considerati il diritto all’asilo, il rimpatrio e la naturalizzazione, ma nessuno di questi fu storicamente e politicamente adeguato. Gli apolidi furono costretti, infatti, ad un’esistenza crepuscolare. La Arendt prende così una posizione netta e precisa anche rispetto al problema palestinese, quando, cioè, venne creato in Palestina lo Stato d’Israele. 96 Sembrava, infatti, che la questione ebraica non dovesse avere una risoluzione, eppure venne affrontata con la colonizzazione e la conquista di un territorio, producendo, non a caso, una nuova categoria di apolidi, i profughi arabi. Quella degli apolidi è una nuova categoria da cui ripensare la comunità politica e la stessa figura di popolo. E’ come una maledizione che accompagna «il sorgere di nuovi stati, fondati sulla falsariga dello stato nazionale. Questa maledizione contiene i germi di una malattia mortale per i nuovi organismi. Perché lo stato nazionale non può esistere una volta infranto il principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Senza questa uguaglianza, che in origine era destinata a sostituire i vecchi ordinamenti della società feudale, esso si dissolve in una massa anarchica di privilegiati e di diseredati. Le leggi che non sono uguali per tutti danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la stessa natura dello stato nazionale. Quando questo non è in grado di trattare gli apolidi come soggetti politici 97 e lascia ampio campo d’azione all’arbitrio delle misure poliziesche difficilmente resiste alla tentazione di privare tutti i cittadini del loro status e di governarli con una polizia onnipotente».87 Secondo tale prospettiva, potremmo dire che sia il capitolo sull’Antisemitismo che quello sull’Imperialismo altro non sono che una continua ricerca, da parte della Arendt, delle ragioni della perdita dell’identità individuale e collettiva da parte della comunità politica occidentale. L’errore è stato quello di non aver trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere nient’altro-cheuomo.88 «La nostra vita politica si fonda sul presupposto che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e soltanto con essi».89 ______________________________ 87 Ibidem, p. 402. 88 Ibidem, p. 415. 89 Ibidem, p. 417. 98 La messa la bando e la riduzione dell’uomo a mera esistenza ha strappato ogni legame del singolo con l’umanità, ha impedito il rispetto della pluralità e il riconoscimento che l’uguaglianza dei popoli è solo, e non può essere che solo giuridica, «risultato dell’organizzazione umana nella misura in cui si fa guidare dal principio di giustizia. Non si nasce uguali; si diventa uguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti».90 Ciò che è andato storto nella politica, e che ha dato corpo all’evento totalitarismo, è stato la confusione tra sfera pubblica e sfera privata, lo schiacciamento del politico sul sociale, la perdita dello spazio pubblico dell’azione. ______________________________ 90 Ibidem, p. 417 e ss. CAPITOLO TERZO LA CATEGORIA ‘TOTALITARISMO’ «Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro e mangio e bevo e dormo e vesto panni». (Levi, Il superstite, 1984) Che cosa resta? Resta la lingua materna. (H. Arendt) 100 1. Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli: la nuova società di massa Rompendo quella linea di continuità causa ed effetto, in alternativa, quindi, al metodo ‘continuista’ dello storico,91 la Arendt rintraccia nella crisi di valori e nella rottura della tradizione dell’ Europa occidentale i germi da cui prenderà corpo il totalitarismo. Antisemitismo, imperialismo, crisi dello Stato-nazione, atomizzazione della società rappresentavano il collasso della società illuministica e vengono puntualmente esaminati sul piano storico, politico, sociologico e psicologico, dalla Arendt, perché fenomeni nuovi, che mettono in discussione il ______________________________ 91 Circa il rapporto H. Arendt-metodo storico, cfr. in particolare: M. Salvati, Hannah Arendt e la storia del novecento, in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo, Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores, Milano, Bruno Mondadori, 1998; V. Marchetti, Resistenza ebraica, antisemitismo, totalitarismo, in Aa. Vv., Nazismo, op. cit.; A. Enégren, op. cit.; G. Even-Gramboulan, Hannah Arendt face à l’histoire, in Aa. Vv., Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. M. Roviello, Vrin, 1992. 101 lessico politico e filosofico e impongono nuove modalità di comprensione. Che cosa sia il totalitarismo e che cosa abbia significato per quella sua carica dirompente nella vita della comunità politica è analizzato nella terza parte de Le origini del totalitarismo in modo meno schematico, ma con altrettanta intensità, a partire dal tramonto della società classista e da quel processo di massificazione a cui hanno rivolto la loro attenzione filosofi e storici come T. W. Adorno, W. Reich, E. Canetti, E. Broch, G. Mosse.92 Maggiore influenza per la Arendt ha avuto State of the Masses di E. Lederer, in cui l’autore contrappone alla società dell’opinione pubblica la minaccia di una società senza classi. Lederer ha studiato il rappor______________________________ 92 Sull’opera di W. Reich circa la psicologia delle masse e il fascismo e sugli accenni fatto da Adorno sullo stesso argomento, cfr. S. Moscovici, L’âge des foules, Paris, Complexe, 1985; E. Canetti, Masse und macht, Hamburg, Classen, 1960, trad. it. Masse e potere, Milano, Rizzoli, 1973; H. Broch, Massenpsycologie, Zürich, Rhein, 1959; G. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1995. 102 to privilegiato della massa con il capo totalitario e ha definito lo stato dittatoriale come fondato sul terrore «distruggendo i gruppi sociali di ogni tipo, sradicando la ragione, consegnando l’uomo alle sue emozioni» e istituzionalizzando inevitabilmente le masse.93 Nella bibliografia de Le origini del totalitarismo, si fa riferimento anche al testo di Ortega y Gasset, La ribellione delle masse,94 di cui la Arendt non condivide l’ipotesi ‘deterministica’ secondo cui è meccanico ed inevitabile che la società moderna arrivi alla massificazione, giacché essa è fondata su individui isolati, privi di interessi e responsabilità. In questo senso la Arendt è molto più prossima a Tocqueville e al pessimismo di Burckhardt, che pure avevano sottolineato i rischi di un’attrazione a dir poco naturale e ______________________________ 93 E. Lederer, The State of masses. The Treat of the Classless Society, New York, W. W. Norton, 1940, trad. it. parziale, Lo Stato delle masse, in M. Salvati, Da Berlino a New York, Bologna, Cappelli, 1989. 94 J.Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Madrid, «Revista de Ocidente», 1929; trad. it. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962. 103 spontanea verso sistemi dispotici e autoritari di individui completamente deresponsabilizzati e «superflui», appartenenti peraltro a tutte le classi sociali. «Il termine “massa” si riferisce soltanto a gruppi che, per l’entità numerica o per indifferenza verso gli affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza di interessi, in un partito politico, in un’ amministrazione locale, in un’associazione professionale o in un sindacato. Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e forma la maggioranza della folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai ad un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».95 La Arendt non riconosce alcuna capacità di azione alla ‘massa’, che è soggetto passivo, facilmente manipolabile, diversamente dall’interpretazione della critica socialista e marxiana che ne dà una valenza positiva.96 ______________________________ 95 96 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 431. R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968. 104 Indubbiamente ella rimarca che le masse sono il portato della degenerazione dell’individualismo borghese e di una società atomizzata in cui la competitività e il senso di solitudine dell’individuo erano state contenute dall’appartenenza ad una classe, tant’è che la peculiarità dell’uomo di massa era l’isolamento e la mancanza di relazioni sociali, piuttosto che la brutalità e la rozzezza. Potremmo dire con il Kornhauser che «sotto il profilo oggettivo è società atomizzata, sotto il profilo soggettivo è popolazione alienata».97 «Il crollo della muraglia protettiva classiste trasformò le maggioranze addormentate, fino ad allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata ed amorfa, di individui pieni di odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che le speranze degli esponenti politici in un ritorno dei bei tempi andati fossero campate in aria e che quindi i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri ______________________________ 97 W. Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe, 1959. 105 più preparati e perspicaci fossero in verità dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».98 E’ una massa di uomini disperati e insoddisfatti, come i deracinés dei salotti borghesi del tardo Ottocento e i parassiti e gli avventurieri dell’imperialismo. Sono la «generazione del fronte», totalmente spoliticizzata, educata alla guerra e alla vita di trincea, ad un attivismo e ad una esaltazione del proprio io che si riduceva ad un «fare qualcosa, di eroico o di criminale, che fosse imprevedibile e indeterminato da altri».99 Il terrorismo di cui si vantavano esprimeva la frustrazione e l’odio di quanti consideravano la guerra, con la sua implacabile arbitrarietà, simbolo della morte e legge dell’universo nonché origine di un nuovo ordine mondiale. ______________________________ 98 99 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 436. Ibidem, p. 459. 106 Il processo di ‘massificazione’ rifletteva la dissoluzione dei legami sociali, l’appiattimento della piramide sociale, l’annullamento delle differenziazioni individuali e di quelle strutture che garantiscono il pluralismo in un istituzione democratica. Più specificamente la società di massa è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’instaurazione di un regime totalitario. La Arendt osserva che «per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Stalin dovette prima creare artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazisti era stata preparata dagli avvenimenti storici».100 Fu necessario, cioè, distruggere quegli antichi rapporti di classe, famiglia e villaggio molto radicati in Russia fin dal Medioevo; annientare le vecchie classi; cancellare le memorie del passato; operare quello sradicamento che nell’Europa occidentale si era venuto svolgendo già ______________________________ 100 Ibidem, p. 441. 107 da tempo. La destrutturazione della società era finalizzata alla edificanda società totalitaria, al «nuovo ordine» in cui, tuttavia, occorreva mantenere la mobilitazione, i fattori disgreganti e le spinte massificanti, in modo da impedire la stabilità e il dimensionamento in dittatura monopartitica. Aclassista, antipluralista, il totalitarismo, che pure si basa sulla ‘disponibilità’101 di base della società di massa, crea «il dominio permanente di ogni singolo individuo in qualsiasi aspetto della vita».102 In questo sfacelo generale di valori e di aspirazioni, sia la plebe che l’élite intellettuale erano attratte dall’impeto dei movimenti totalitari. Il culto della violenza e il gangsterismo sembravano smascherare l’ipocrisia della borghesia. La «morale a doppio uso» era bersaglio di aspri attacchi da ______________________________ 101 S. Neumann, Permanent Revolution, Harper, New York 1942; D. Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, Il Mulino, 1983. 102 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 451 108 parte degli artisti e degli intellettuali, sia dell’arte delle avanguardie che della letteratura e del teatro. Particolarmente significativa, a proposito, fu la calda accoglienza della ironica Dreigrischenoper di Brecht nella Germania prehitleriana, dramma che identificava i gangsters come rispettabili affaristi e gli affaristi come rispettabili gangsters. «La plebe applaudiva perché prendeva l’affermazione alla lettera; la borghesia, perché era stata così a lungo ingannata dalla sua stessa ipocrisia da essere stanca della tensione e da trovare una profonda saggezza nell’espressione della banalità con cui viveva; l’élite, perché lo smascheramento dell’ipocrisia era un divertimento meraviglioso. L’effetto era l’opposto di quello che si era prefissato Brecht».103 Questa distorta alleanza fra plebe ed élite era basata su un equivoco accidentale: la plebe, in quanto ______________________________ 103 Ibidem, p. 464. 109 scarto della borghesia, pensava che grazie alle masse avrebbe potuto ottenere il potere e rimpiazzare i vecchi strati della società borghese; l’élite, affascinata dal radicalismo totalitario, riusciva grazie ad un certo fanatismo rivoluzionario, a manipolare e mobilitare le masse, escludendole dai centri vitali del potere. In ogni caso era necessario imbrigliare e allineare la massa di filistei, in cui si identificava «il borghesuccio gretto che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a cuore soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare ogni cosa -fede, onore, dignità- al minimo pericolo. Nulla si rivelò più facilmente distruttibile dell’intimità e della moralità privata di gente che pensava unicamente a salvaguardare l’ininterrotta normalità della propria vita».104 ______________________________ 104 Ibidem, p.469. Ancora più incisiva è la Arendt quando individua nel buon padre di famiglia il tipo dell’uomo-massa: «Credo sia stato Péguy a chiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20° siècle”, ma è morto troppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande criminale del secolo. Eravamo talmente abituati ad ammirare o a canzonare garbatamante il padre di famiglia per le sue affettuose premure e la sua assidua 110 E saranno proprio costoro a macchiarsi dei più nefandi crimini, dopo anni di livellamento per mezzo di una propaganda menzognera e una capillare organizzazione di potere. ______________________________ dedizione al benessere della famiglia, per la sua solenne determinazione ad assicurare alla moglie e ai figli una vita agiata, che non ci siamo accorti di quanto il devoto paterfamilias, la cui preoccupazione principale era la propria sicurezza, si fosse involontariamente trasformato, sotto la spinta della caotica situazione economica del nostro tempo, in un avventuriero, al quale non bastava una grande industriosità ed accortezza per essere certo di quello che il giorno sucessivo gli avrebbe riservato. (...) Ci voleva solo il genio satanico di Himmler per scoprire che, dopo una simile degradazione, quest’uomo sarebbe stato completamente disposto a fare letteralmente di tutto quando la posta si fosse alzata e la piatta esistenza della sua famiglia fosse minacciata. (...) Così oggi può accadere che quella stessa persona, il tedesco medio, che anni di propaganda nazista non erano riusciti a convincere ad uccidere un ebreo (neppure quando divenne abbastanza chiaro che un siffatto omicidio sarebbe rimasto impunito), accetti senza opporsi di mettersi al servizio della macchina della distruzione. (...) Diversamente dalle prime unità delle SS e della Gestapo, l’organizzazione totale di Himmler non conta sui fanatici, né sugli assassini per natura, né sui sadici; essa fa interamente assegnamento sulla normalità dei lavoratori e dei padri di famiglia», in Colpa organizzata e responsabilità universale, articolo del gennaio 1945, ora in Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 1993. La Arendt rimarca questo carattere della ‘normalità’ anche quando ritrae Eichmann in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1993. 111 2. Gli strumenti del totalitarismo: propaganda, polizia segreta e burocrazia. L’ideologia come «logica di un’idea». La Arendt ritiene che la propaganda sia lo strumento di cui il movimento totalitario si serva, almeno in un momento iniziale, perché sia possibile «trasformare la natura dell’uomo». Essa è rivolta in particolare alla sfera esterna, cioè agli strati non totalitari della popolazione o ai paesi stranieri perché evitassero qualsiasi ingerenza interna. La propaganda utilizzava la menzogna e la falsificazione, che erano sì accorgimenti potestativi ma con la subdola finalità di sommergere le masse in un mondo irreale di modo che fossero incapaci di lottare per i propri interessi concreti, si sentissero profondamente sradicate dal tessuto economico-sociale e aderissero pienamente alle astrazioni dell’ideologia totalitaria. La specificità tecnica della propaganda totalitaria è quella di investire gli uomini fin nella profondità 112 psichica usando come espediente il terrore. Pertanto, oltre a forme di propaganda diretta, vi erano altrettante forme di propaganda indiretta, miranti a sostenere la mobilitazione totale, la guerra di una popolazione contro se stessa. Ma cosa veniva propagandato? «Nessuna propaganda basata sull’interesse puro e semplice può avere effetto fra masse che essendo caratterizzate principalmente dall’estraneità a qualsiasi corpo sociale e politico, presentano un vero caos di interessi individuali. Il fanatismo dei militanti dei movimenti totalitari, così diverso qualitativamente dall’attaccamento dei membri dei partiti normali, è prodotto dalla mancanza di un interesse egoistico delle masse, che sono pronte a sacrificarsi. I nazisti hanno dimostrato che si può condurre in guerra un intero popolo con lo slogan «vittoria o distruzione» (qualcosa che la propaganda bellicista del 1914 avrebbe accuratamente evitato), e ciò non in un 113 periodo di miseria, disoccupazione o ambizioni nazionali deluse».105 I movimenti totalitari, secondo la Arendt, svuotano di ogni contenuto utilitaristico i propri fondamenti dottrinari e annunciano le loro finalità politiche attraverso forme di predizione infallibile. In questo senso fanno dichiarazioni legate al futuro piuttosto che richiamandosi al glorioso passato, pensano nei termini del ‘millennio’ a venire, alimentano la fuga dalla realtà delle masse. «Prima di tirare intorno a sé una cortina di ferro per impedire che il più lieve rumore esterno turbi la spaventosa quiete di un mondo interamente immaginario, essi possiedono già, grazie alla loro propaganda, la forza di segregare le masse del mondo reale».106 La finalità della propaganda, inoltre, non è tanto la persuasione quanto l’organizzazione, «l’arte di accumulare il potere senza possedere gli strumenti di potere». ______________________________ 105 Ibidem, p.481. Cfr. G. Sartori, Cosa è “propaganda” ?, in «Rassegna italiana di sociologia», IV, 1962. 106 Ibidem, p.488. 114 Per avere un’idea di come si strutturi l’organizzazione totalitaria, la Arendt, in Che cos’è l’autorità,107 la descrive in modo molto più semplice come una cipolla: «nel centro della quale, quasi in uno spazio vuoto, si trova il capo (...). Tra le innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni collaterali extrapartitiche, le varie associazioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del partito, le formazioni di élite e i gruppi paramilitari sono reciprocamente in una relazione tale da costituire, a seconda del punto di vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a uno strato costituiscono il normale mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano il radicalismo più estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a ciascuno strato del movimento, nonostante il regime totalitario, la finzione di una realtà normale e, insieme, la convinzione di differenziarsene e di essere più radicale». ______________________________ 107 H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercices in Political Thought, London, Faber and Faber, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991 115 In questo modo, ritenendo che ci sia solo una differenza quantitativa tra ciascuno degli strati, nessuno è a conoscenza dell’ abisso che si è venuto a creare tra il mondo artificiale in cui vive e quello reale che lo circonda. Attraverso le organizzazioni frontiste e dei simpatizzanti viene creata una nebbia di normalità e rispettabilità che inganna sui veri caratteri dell’ideologia del movimento totalitario. Nell’isolamento dalle realtà, il capo totalitario prende le decisioni dall’interno della struttura stessa, né dall’esterno né dall’alto: il suo compito è «fare da magica difesa contro il mondo esterno e insieme da ponte con esso».108 La figura del capo come leader del movimento non è, comunque, la conditio sine qua non dell’instaurazione del regime totalitario, anche se il Führerprin______________________________ 108 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 516. Sulla figura del ‘capo’: L. Cavalli, Il capo carismatico, Bologna, Il Mulino, 1981; M. Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, cit. 116 zip e il culto della personalità non sono poi irrilevanti. La Arendt, infatti, chiarisce che «il principio del capo» non è di per sé totalitario ma ha colto elementi dall’autoritarismo e dalla dittatura militare. Il Führerprinzip poteva collegarsi ad una forte tradizione tedesca, ancor più sentita durante gli anni del sistema presidenziale della repubblica di Weimar, con la reggenza di Hidemburg, e presente nelle forme militarizzanti delle associazioni giovanili e d’arma, nel diffuso atteggiamento antidemocratico, nelle ideologie dominanti nella burocrazia e nell’esercito. Le crisi del 1923 e del 1930 avevano dato nuovo slancio all’appello verso l’uomo forte, un capo carismatico, attraverso cui il Führerprinzip diventava una sintesi di idee di ordine autoritario e militaresco con forme di legittimazione pseudodemocratico-plebiscitaria, manipolate attraverso la propaganda di massa. E’ la «volontà del Führer» che diventa legge suprema in uno stato totalitario e non i suoi ordini che definirebbero una struttura gerarchica. 117 «L’autorità non filtra dal vertice agli strati intermedi fino alla base del corpo politico come nel caso dei regimi autoritari. La ragione effettiva è che non c’è gerarchia senza autorità e che, malgrado i numerosi equivoci sulla cosiddetta “personalità autoritaria”, il principio di autorità è, in tutti gli aspetti importanti, diametralmente opposto a quello del dominio totalitario. A prescindere dalla sua origine nella storia romana, l’autorità in qualunque sua forma è sempre destinata a ridurre o limitare la libertà, ma mai ad abolirla. Il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla, ad eliminare la spontaneità in genere, e non si accontenta affatto di una sua riduzione, per quanto tirannica».109 Tutto deve convergere alla costruzione di un mondo fittizio: il mondo viene spogliato di quella multiformità, di quel pluralismo che è elemento di disorientamento e disintegrazione per le masse. La Arendt tende a sfatare così un luogo comune ______________________________ 109 Ibidem, p. 555. 118 dei regimi totalitari, che essi siano garanti dell’ordine e della stabilità. Hitler e Stalin si servirono delle promesse di stabilità per nascondere la loro intenzione di creare uno stato di instabilità permanente. «Per un movimento totalitario entrambi i pericoli sono mortali: l’evoluzione verso l’assolutismo metterebbe fine al suo impeto interno, e un’evoluzione verso il nazionalismo impedirebbe l’espansione esterna, senza la quale non può sopravvivere. Esso deve ricorrere a quella che, con Trotsky, si potrebbe chiamare “rivoluzione permanente”».110 La rivoluzione totalitaria, dunque, è «rivoluzione permanente» in quanto risponde necessariamente a quella logica di perpetuazione della guerra civile che l’ha originata. ______________________________ 110 Ibidem, p. 536. Il termine ‘rivoluzione permanente’ compare già in Trotsky nel 1905 a proposito del fallimento dell’esperienza dei soviet di Pietrogrado e, in seguito, in polemica contro la cristallizzazione teorica fatta da Stalin del socialismo in un solo paese. Vedi R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, a cura di P.P. Portinaro, Milano, Giuffrè, 1986; L. Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni, Milano, Sugarco,1974. Cfr. anche H. Arendt, On revolution, Viking Press, New York, 1963; trad. it. a cura di M. Magrini, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni Comunità 1996. 119 All’ instabilità permanente fa da contrappeso la completa assenza di struttura: lo stato totalitario non è monolitico, anzi, come sistema monopartitico, esso, in concreto, si caratterizza secondo il dualismo Statopartito o, per alcuni critici, secondo la divisione tra potere reale e potere apparente.111 La Arendt sostiene che «se si considera lo stato totalitario esclusivamente come uno strumento di potere lasciando da parte l’efficienza amministrativa, industriale ed economica, la sua “mancanza di struttura” appare il mezzo ideale per l’attuazione di quello che i nazisti chiamavano il principio del capo. La continua concorrenza fra gli uffici che, oltre a sconfinare ______________________________ 111 cfr. F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, Harper & Row, New York 1966. Neumann afferma che il regime nazional-socialista si caratterizzava attraverso quattro centri di potere fondamentali, ciascuno con il proprio esecutivo, legislativo e giudiziario. Fraenkel, ne Il doppio Stato, cit., teorizza, invece, la compresenza di uno Stato «normativo», non sospeso del tutto, che regola la produzione, ed uno Stato « discrezionale», in cui si esprimono gli obiettivi programmatici del nazismo, obiettivi accettati dal capitalismo tedesco purché gli sia riconosciuto il predominio nella sfera produttiva. 120 con l’esercizio delle proprie funzioni nei settori altrui sono incaricati di compiti identici, rende pressoché impossibili l’opposizione e il sabotaggio».112 Il segno più evidente della mancanza di una gerarchia è la moltiplicazione dell’apparato burocratico, tant’è che «il cittadino del Terzo Reich era costretto a vivere sotto l’autorità simultanea e spesso contrastante di poteri concorrenti, come l’amministrazione statale, il partito, la SA e le SS; e non sapeva mai, perché nessuno glielo diceva esplicitamente, quale di queste istanze possedeva un’autorità maggiore. Egli doveva sviluppare una specie di sesto senso per capire a un dato momento a chi obbedire e chi ignorare».113 Lo stesso accadde in Russia, dove «il regime era ricorso in misura ancora maggiore alla continua creazione di nuovi uffici per relegare nell’ombra i vecchi centri di potere. Solo che il gigantesco sviluppo buro______________________________ 112 113 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 554. Ibidem, p. 548. 121 cratico, inerente a questo metodo, veniva frenato dalle ripetute epurazioni».114 La differenza sostanziale, secondo la Arendt, tra i due sistemi, nazional-socialista e sovietico, era che «Stalin, ogni qual volta trasferiva il potere da un apparato all’altro, tendeva a liquidare insieme con l’apparato declassato il suo personale, mentre Hitler, malgrado lo sprezzante giudizio sulle persone “incapaci di saltare al di là della propria ombra”, era perfettamente disposto ad utilizzare tali ombre anche in seguito, magari in un’altra funzione».115 Lo Stato funge da facciata, rappresentando il paese per interessi di politica estera; in realtà il vero centro di potere è la polizia segreta, le cui agenzie sono le «cinghie di trasmissione» che danno dinamismo all’azione dello stato totalitario. La polizia segreta è completamente soggetta alla volontà di chi detiene il potere, è «interamente alla ______________________________ 114 115 Ibidem, p. 553. Ibidem, pp. 550-1. 122 mercé delle massime autorità per la conservazione del suo lavoro. Al pari dell’esercito in uno stato non totalitario, si limita ad eseguire la politica decisa da altri, avendo perso tutte le prerogative godute nelle burocrazie dispotiche».116 La sua caratteristica, dunque, è ridotta ad un piano meramente esecutivo e «una delle ragioni della moltiplicazione dei servizi segreti, i cui agenti non si conoscono, è l’esigenza di una estrema flessibilità. Per usare il nostro esempio, poteva darsi che le massime gerarchie, al momento della comunicazione del loro ordine, fossero ancora indecise fra una maggiore provvista di tubi e un’epurazione. La moltiplicazione consentiva i mutamenti all’ultimo momento: era così possibile che, mentre gli agenti di un servizio preparavano la concessione dell’ordine di Lenin al direttore della fabbrica, quelli dell’altro servizio si apprestassero ad arrestarlo. L’efficienza della polizia consisteva nel ______________________________ 116 Ibidem, p. 585. 123 fatto di poter preparare simultaneamente l’esecuzione di incarichi così contraddittori».117 La polizia segreta, che è uno strumento di repressione terroristica, «non ha il compito di scoprire gli autori di delitti, ma quello di essere pronta quando il governo decide di arrestare una certa categoria della popolazione. La sua unica distinzione è di essere la sola a godere la fiducia della massima autorità e a sapere quale linea politica sarà attuata».118 Attraverso la provocazione, i processi e le epurazioni, gli agenti segreti hanno il compito di stanare l’opposizione. Cosa significa? Ogni forma di governo ha degli oppositori; anzi, in via analitica, possiamo distinguere tra: 1) nemici reali, 2) nemici potenziali, 3) nemici oggettivi, 4) «autori» di delitti possibili, 5) innocenti, 6) amici e seguaci. Ma ciò che caratterizza il totalitarismo è il perseguitare in particolar modo persone e gruppi ricompre______________________________ 117 118 Ibidem, p.583. Ibidem, p.583. 124 si sotto il cliché di «nemico oggettivo» e definiti tali ideologicamente già prima di conquistare il potere. A sua discrezione, il gruppo di potere individua e persegue un «portatore di tendenze»119 che in futuro potrebbe risultare oggettivamente ostile, una categoria di persone la cui inimicizia può apparire plausibile ideologicamente, soprattutto all’estero. E’ il «nemico oggettivo», che differisce dal sospetto, individuato dalle polizie segrete, in quanto la sua identità è determinata dall’orientamento politico del governo, non dalla attività sovversiva di cui è autore. Per questo, riflettendo quel dinamismo intrinseco al movimento totalitario stesso, esaurita una categoria, si dichiara guerra ad un’altra, procedendo così alla tassonomia dei subumani. Ogni operazione contro il «nemico oggettivo» di turno -il che ci induce a pensare che l’unico ‘innocente’ è solo chi detiene il potereviene legittimata sul piano ideologico, secondo la ‘raz______________________________ 119 Ibidem. 125 za’ per i nazionalsocialisti, come ‘nemico della classe operaia’ per i comunisti. L’esasperazione del «nemico oggettivo» conduce alla nozione di «delitto possibile», cioè la presunzione che il crimine possa essere costruito in anticipo su basi ritenute oggettivamente attendibili, anche se in concreto assolutamente improbabili. In questo modo il governo totalitario ammanta con proprie giustificazioni le misure terroristiche adottate. La Arendt, tuttavia, è dell’avviso che con la completa realizzazione del terrore totalitario, vengono abbandonati i concetti di «nemico oggettivo» e «delitto logicamente possibile» per una coerente arbitrarietà: le vittime, innocenti, verranno scelte a caso, senza alcuna accusa, solo perché dichiarate indegne di vivere. E’ il modo più efficace di negare la libertà umana. Principio d’azione, allora, è l’ideologia, che la Arendt definisce «come logica di un’idea».120 ______________________________ 120 Nessun termine presenta una vasta gamma di significati così disparati quanto il termine ‘ideologia’. N. Bobbio distingue un significato 126 «La sua materia è la storia, a cui la “idea” è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”.(...) Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere».121 ______________________________ «debole» da uno «forte». Nel significato «debole» designa un’insieme di idee e valori che riguardano l’ordine politico e hanno la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi. Per il significato «forte» fa riferimento a Marx che considera l’ideologia una credenza falsa, la falsa coscienza dei rapporti di dominazione tra le classi. Nella scienza e nella sociologia politica contemporanea prevale il primo significato, ideologia come concetto neutro, quindi, contrapposto in modo esplicito o implicito a ciò che è «pragmatico» e arricchito di certi elementi tipici come il dottrinarismo, il dogmatismo, una forte componente passionale e via dicendo. L’ideologia è lo strumento fondamentale che le élites politiche hanno a disposizione per operare la mobilitazione politica delle masse e per portare ad un grado massimo la loro manipolazione. Cfr. M. Stoppino, Ideologia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, cit. Per il nesso ideologia-simulazione, E. Voccia, L’ideologia della provocazione, in «Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia - Simulazione», Napoli, primavera-estate 1996, pp. 6-12. 121 Ibidem, p. 642. Tre anni prima nel lavoro della Arendt, così Orwell scriveva: « Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto. E credi che anche la natura stessa della 127 Con certezza assoluta, l’ideologia pretende di spiegare, indipendentemente da ogni esperienza ed accertamento fattuale, la storia, di obiettivare l’intero corso storico, di ‘produrre’ e dimostrare come eliminabile il nemico, non in quanto oppositore ma come simbolo dell’alterità. E’ il diverso che, necessariamente, dev’essere ricompreso nella totalità dell’esistente e annientato perché non riconosciuto. L’ideologia suggella la totale non appartenenza al mondo degli uomini, la loro «superfluità», perché trasforma l’isolamento e la solitudine in estraneazione, in perdita non solo dello spazio pubblico ma, soprattutto, del proprio io. ______________________________ realtà sia evidente per se stessa. Se ti persuadi che stai pensando qualcosa, credi che tutti gli altri vedano quella stessa cosa. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questa o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera. E’ impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito», in G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1973. 128 E il totalitarismo, abolendo l’umanità che è in ogni uomo, disprezzando la realtà e la fattualità, attua quel supersenso ideologico che può essere definito come l’eccedenza di senso su cui fa perno la stessa ideologia, una logica coerente che fa apparire degno di senso ogni atto arbitrario, ribaltando la situazione-limite in quotidianità, l’illegale nel legale, l’insensato nel sensato. «La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contamino la popolazione; se hanno un’ “anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi 129 il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza».122 Il supersenso ideologico ritiene di aver scoperto la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell’universo, senza tener conto della fattualità, anzi, disprezzandola, e, attraverso una logica deduttiva e coercitiva, edificando il suo artificioso sistema. L’antiutilità, l’antieconomicità e l’insensatezza123 sono caratteri dominanti per la preservazione del potere totalitario. «Totalitaria non è la pretesa della Russia rivolu______________________________ 122 Ibidem, p. 626. Sul carattere irrazionale del totalitarismo, inteso nell’assoluta incongruenza tra fini da perseguire e mezzi impiegati per perseguirli, cfr. Barrington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Torino, Einaudi, 1971; R. Conquest, Il grande terrore, Milano, Mondadori, 1970; M. Curtis, Retrat from Totalitarianism, in C. J. Friedrich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Praeger, New York 1969; A. B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Firenze, Vallecchi, 1967. Contestano questa interpretazione, a favore di una razionalità intrinseca al totalitarismo, R. A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Milano, Comunità 1957; J. G. Gliksman, Social Prophilaxis as a From of Soviet Terror, in C. J. Friedrich, Totalitarianism, cit. 123 130 zionaria che nelle condizione esistenti la dittatura del proletariato sia la miglior forma di governo, bensì la catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totalitario, in base alla quale risulta logicamente che senza tale sistema non si può costruire una metropolitana, che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima deduzione e che, quindi, se fosse possibile, bisognerebbe distruggere questa metropolitana, che invero non sarebbe mai dovuta esistere».124 ______________________________ 124 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 627. 131 3. Terrore e campo di concentramento. La società dei morenti e il male radicale. La Arendt sottolinea marcatamente che il terrore è l’essenza del potere totalitario e il campo di concentramento è la sua istituzione centrale. Possono considerarsi questi tratti distintivi del regime totalitario? 1. Il terrore totalitario Il terrore è, secondo una definizione da dizionario, lo strumento di emergenza cui un governo ricorre per mantenersi al potere: l’esempio più noto è quello del periodo della dittatura del Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre e da SaintJust durante la Rivoluzione francese (1793-1794). Potremmo riecheggiare Machiavelli, che già tre secoli prima ricordava che per «ripigliare lo stato», per conservare il potere, era necessario periodicamente spargere terrore e paura; anche Montesquieu ed 132 Hobbes,125 che riconoscono il terrore l’uno come elemento qualificante di comparazione fra gli Stati, l’altro come concausa del sorgere del Leviatano sovrano. Il terrore totalitario è ben di più: è qualcosa di pervasivo che si insinua generando un clima di repressione e colpa; è una violenza imprevedibile intesa come minaccia generica fissa contro l’individuo; è un timore paralizzante, che si instilla anche in quelli che potrebbero opporsi attivamente all’oppressione. Attraverso la lettura psicoanalitica di Franz Neumann, potremmo dire che ogni sistema politico si fonda su una angoscia nevrotica, che, pur avendo una base reale, allontanare la minaccia di un pericolo, è prodotta interiormente attraverso l’Io.126 Per il grado di alienazione dell’uomo moderno, ______________________________ 125 Cfr. Ch. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, Torino, UTET, 1952; N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli,1995; Th. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 1974. 126 F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, Il Mulino, 1973. 133 soprattutto per l’alienazione politica che permette una totale obliterazione dell’Io, cioè l’identificazione delle masse con un leader abile nel manipolare le coscienze attraverso teorie cospiratorie, viene a crearsi un contesto fittizio in cui si verificano le seguenti condizioni: «che le masse si trovino in una situazione di pericolo oggettivo, che siano incapaci di capire il processo storico e che l’angoscia attivata dal pericolo venga trasformata, attraverso la manipolazione operata da altri, in angoscia nevrotica persecutoria (aggressiva)».127 Se l’angoscia reale sembra propria nei regimi di tipo liberale, l’angoscia nevrotica è istituzionalizzata in un sistema totalmente repressivo. Il terrore, per Neumann, allora, è l’incalcolabilità delle sanzioni: l’assenza di una certezza giuridica genera quell’angoscia nevrotica persecutoria di cui si avvantaggia il leader o l’élite per il mantenimento del potere. ______________________________ 127 Ibidem. 134 Così la Arendt, in Le origini del totalitarismo, scrive: «Il terrore estremamente sanguinoso dello stato iniziale del regime totalitario serve invero soltanto a sbaragliare gli avversari e a rendere impossibile ogni ulteriore opposizione; ma il terrore totale si scatena solo quando, superato questo stadio, il regime non ha più nulla da temere dagli oppositori. In proposito si è spesso osservato che in tal caso il mezzo è diventato il fine, ma ciò dopotutto equivale semplicemente ad ammettere, in maniera paradossale, che la categoria mezzo-fine non è più valida, che il terrore non è più lo strumento per incutere paura alla gente».128 2. Il campo di concentramento Il terrore totalitario, che si nutre del «nemico oggettivo», si attua, sostiene la Arendt, nella creazione ______________________________ 128 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. Cfr. R. Conquest, Il grande terrore, cit. ; A. Devoto, La tirrannia psicologica, Firenze, Sansoni, 1960. 135 di un universo concentrazionario.129 I lager sono l’istituzione centrale del potere totalitario. Perché? «I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo.(...) Il dominio totale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinità, pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta ad un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la cui unica “libertà” consisterebbe di “preservare la specie”. Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideologico delle formazioni di élite sia col terrore assoluto dei Lager.(...) I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di ______________________________ 129 D. Rousset, L’universo concentrazionario, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. 136 eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono. (..) In circostanze normali ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può mai essere interamente soffocata, connessa com’è non solo alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice rimaner vivo».130 Il campo di concentramento è il paradigma nascosto dello spazio politico della modernità; la sua essenza consiste nella materializzazione dello stato di eccezione e nella creazione di uno spazio in cui diritto e fatto, norma e applicazione diventano indiscernibili. Solo in questo senso possiamo comprendere perché esso è lo spazio del «tutto è possibile», quel principio nichilista in cui si cristallizzano la vita e i metodi del campo tanto da apparire come un contenitore ermeticamente chiuso agli occhi del mondo dei vivi. ______________________________ 130 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. 137 Per il senso comune, infatti, tutto è avvolto in una nube fumogena di insensatezza e le condizioni di inintellegibilità paradossalmente superano ogni cortina di credibilità. Anzi, dice la Arendt, «chi parla o scrive sui campi di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se avesse scambiato un incubo per realtà».131 Solo l’ «indugio sugli orrori» potrebbe aiutare a comprendere quanto è avvenuto, anche se le memorie quanto le testimonianze oculari restano prive di comunicativa.132 ______________________________ 131 Ibidem, p. 601. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1958. Sull’inenarrabilità di quanto è accaduto e la testimonianza da affidare alla memoria vedi: P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1963 e I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986; H. Langbein, Menschen in Auschwitz, Europa Verlag, Wien 1972, trad. it. Uomini ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1984; B. Bettelheim, Surviving and Other Essay, Knopf, New York, 1979, trad. it. Sopravvivere, Milano, Feltrinelli 1991; J. Améry, Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, F. Klett, Stuttgart, 1977, trad. it. Un intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987; R. Antelme, L’Espèce humaine, Paris, 1947, trad. it. La specie umana, Torino, Einaudi, 1976. Per una riflessione cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 132 138 E’ vero che né i campi di concentramento né i campi di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria. Le fonti133 sono alquanto scarse; si ritiene che i primi sono stati costruiti dagli spagnoli a Cuba nel 1896 per internare ben 400.000 persone tra vecchi, donne e bambini, senza per questo conoscere il numero totale delle vittime della repressione del generale spagnolo Valeriano Weiler y Nicolau, inventore dei campi di concentramento. Furono organizzati dagli americani nelle Filippine nel 1898 per lo scoppio di un’insurrezione e nel 1900 dai britannici in Sudafrica contro la guerriglia dei boeri, in particolare quelli del libero Stato di Oranje. Si ebbero accese manifestazioni di protesta ______________________________ 133 Gli studi sui campi di concentramento e sulla loro organizzazione non sono numerosi. Segnaliamo A. J. Kaminski, Konzentrationslager 1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, Münich, Piper, 1982; trad. it. I campi di concentramento dal 1986 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997. K. Hueser, Wewelsburg 1933 bis 1945. Kultund Terrorstatte der SS, Paderborn, Verlag BonifatiusDruckerei Paderborn, 1982; M. Broszat, «Nationalsozialistiche Konzentrationslager 1933-1945», in Anatomie des SS-Staates (Band 2), Munich, Deutsche Taschenbuch Verlag, 1967. 139 da parte dell’opinione pubblica, grazie alla filantropa Emily Hobhouse che denunciò la disumanità e l’infanticidio del sistema dei campi, colpe infamanti che macchiavano la classe politica inglese. E un ritorno positivo non si fece attendere: i campi vennero chiusi. Non esistono, invece, testimonianze sui campi di concentramento eretti dal regime clerico-fascista austriaco prima del 1938. Poco dettagliate sono anche le informazioni relative alle condizioni vigenti in Russia prima del 1917: all’epoca zarista furono circa trentaduemila i condannati alla katorga, originariamente la galera, poi pesante pena detentiva comportante i lavori forzati. Si è cercato di schiacciare i campi nazionalsocialisti su quelli inglesi ed ispano-coloniali, supposti modelli, ma è questa una falsa opinione perché i secondi vennero utilizzati nel contesto di guerre coloniali, furono ‘campi per ostaggi’, mentre i primi furono creati in tempi di pace e all’interno del territorio nazionale allo scopo di segregarvi gli avversari ideologici, con un eccessivo zelo per di- 140 stogliere l’attenzione da quanto stava accadendo. Per l’esperienza sovietica, si è utilizzato l’acronimo gulag (Glavnoye upravleniye lagerej) che sta per «Amministrazione generale dei campi di lavoro», meglio noti come «campi di concentramento», generando qualche confusione concettuale. «Specialmente nel regime staliniano, i cui campi di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava di questo; il lavoro coatto era la condizione normale di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitrariamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo».134 L’inserimento dei campi di concentramento nella società sovietica veniva “giustificato” negli anni venti come conseguenza della pianificazione generale dell’economia. ______________________________ 134 Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1986 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997. 141 Il dubbio sull’opportunità di parlare di “campi di concentramento” o meno nell’ Unione Sovietica nasce dal fatto che la maggioranza dei detenuti veniva deportata - ricordiamo che i campi sovietici sono stati aboliti da M. S. Gorbacev- per un periodo stabilito in base ad una sorta di sentenza che richiamava talune leggi penali, e, quindi, da una prospettiva giuridicoformale i gulag dovrebbero essere equiparati non già ai campi di concentramento, bensì ai “campi di punizione” nazionalsocialisti. Un aspetto significativo dei campi di concentramento sovietico consisterebbe nella legalizzazione dell’arbitrario. Gunther Specovius sostiene che «a differenza dello Stato nazionalsocialista, l’Unione sovietica conosce “soltanto” campi di punizione o le odierne colonie di lavoro correzionale, per i quali è prevista una condanna a tempo determinato, mentre la condanna a campi di concentramento, come quelli istituiti dai nazisti, prevedeva la detenzione a tempo indeterminato. 142 Le condanne a vita erano e sono estranee al diritto penale sovietico».135 Si sa, tuttavia, che soprattutto durante il periodo delle purghe staliniane, i processi e le pene detentive sono state delle farse e che i campi sono stati strumenti arbitrari della polizia finalizzati alla conservazione di un potere politico totalitario. In particolare, nella realizzazione unitaria di una società senza divisioni interne, compatta, interamente votata ad uno scopo comune attraverso le varie attività, attenta, quindi, ad eliminare i parassiti, gli elementi nocivi ed i rifiuti, si poteva essere condannati in base all’ art. 58 del Codice penale, consistente, nel capitolo dei «delitti contro lo Stato», di 14 punti in cui si viene dichiarati «nemico del popolo». Si trattava di un autentico minestrone perché era molto semplice affossare un uomo, soprattutto per due punti, talmente vaghi da poter essere applicati a chiunque, il punto 10: propaganda antirivo______________________________ 135 Ibidem. 143 luzionaria, ribattezzata antisovietica; e il punto 12: mancata delazione. La delazione è uno degli strumenti in uso del totalitarismo, necessaria per creare quella fitta trama di sospetto che rende il popolo nemico di se stesso, così come la tortura e la presenza e l’attività della polizia segreta, interamente alla mercé di chi detiene il potere. Si tratta, tuttavia, di caratteri comuni anche a forme di governo autoritari, non rappresentano caratteri distintivi del totalitarismo quanto il terrore e l’istituzione dei campi di concentramento. La domanda inquietante è: in questo spazio, che non è esterno, eppure è posto fuori dell’ordinamento giuridico riconosciuto -il campo di concentramento è escluso ed incluso nello stesso tempo nel territorio nazionale-, quale diritto, quale norma è riconosciuta? Dovremmo identificare il campo come quello stato di eccezione di cui parla Schmitt, in cui la norma è sospesa e la decisione, in virtù dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar, è solo del capo dello Stato. 144 Dovremmo, anzi, sostenere che lo stato di eccezione è ‘voluto’, cioè per esso «il sovrano non si limita più a decidere sull’eccezione, com’era nello spirito della costituzione di Weimar, sulla base del riconoscimento di una data situazione fattizia (il pericolo della sicurezza pubblica): esibendo a nudo l’intima struttura di bando che caratterizza il suo potere, egli produce ora la situazione di fatto come conseguenza della decisione sull’eccezione».136 E dovremmo aggiungere che nella parvenza di un diritto totalitario viene mascherato il disordine, il caos, la violenza, anche la mancanza di un conflitto in quanto si nega la diversità, l’esistenza dell’altro. Colui che viene messo al bando non solo è messo al di fuori della legge ed è indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, è esposto ad una soglia dove vita e diritto, esterno ed interno si confondono. «Il sistema dei campi era un mondo in cui non ______________________________ 136 G. Agamben, Homo Sacer, Torino, Einaudi, 1995. 145 valevano le regole e i costumi morali che reggevano la “normale” società tedesca. In quel nuovo mondo il tedesco o la tedesca nazisti potevano trattare i tedeschi così come pareva loro giusto, in base alla concezione ideologica che avevano delle vittime, e ai più bassi e profondi impulsi personali. Il nazismo, nel mondo dei campi, lasciava loro mano libera».137 Del resto se partiamo dal presupposto che l’internato vive «una vita indegna di essere vissuta», è chiaro che ciò che il totalitarismo tende a creare è una società di morti viventi, interamente piegati, liquidati di ______________________________ 137 D. J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. Lo storico ebreo, contrariamente alla maggior parte delle ricerche sull’Olocausto, sostiene l’idea della responsabilità individuale dei tedeschi: «è l’opposto della colpevolezza collettiva». In questo modo, passando da un’imputazione collettiva e morale ad una personale, si eviterebbe la difficoltà implicita nel processare e nel condannare i criminali nazisti, la trasferibilità sul piano giudiziario. La Arendt non sarebbe d’accordo perché verrebbe meno un carattere del totalitarismo, la negazione di ogni filtro tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva. In un sistema totalitario, «colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso» cosicchè «ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare», in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628. 146 ogni carattere umano, incapaci soprattutto di opporsi. La Arendt li eguaglia al cane di Pavlov che è «l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di reazioni che si comportano in modo identico, è il cittadino modello di uno stato totalitario, un cittadino che può essere prodotto solo imperfettamente fuori dei campi».138 E’ solo in questo senso che può realizzarsi quell’ideale -che ogni buon senso ritiene un’utopia irrealizzabiledi società totalitaria, in cui è possibile impadronirsi interamente dell’uomo per trasformarlo in cittadino modello. La «fabbricazione massiva e demenziale di cadaveri» non è che l’ultimo episodio di una pièce in tre atti di cui il titolo potrebbe essere: «la preparazione storicamente e politicamente intelligibile dei cadaveri viventi».139 ______________________________ 138 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624. 139 Ibidem, p. 612. E’ la «fabbricazione in massa» dei cadaveri, riflesso di un meccanismo di produzione, la peculiarità del genocidio dei regimi totalitari: la morte viene privata di ogni sacertà e l’individuo è interamente assoggettato al potere perché cadavere-vivente. Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1997; M. Foucault, Il faut défendre la société, Gallimard-Seuil, Paris, 1997. 147 Il primo passo avviene uccidendo il soggetto di diritto che è nell’uomo, attraverso la snazionalizzazione e ponendo il Lager al di fuori del sistema penale ordinario; poi si procede attraverso l’uccisione della personalità giuridica; infine, con la soppressione della personalità morale, trionfo dell’ideologia totalitaria, per cui la coscienza non è più sufficiente e decidere cosa sia bene e cosa sia male è come valutare assassinio e assassinio. «Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale dei suoi tre figli doveva essere ucciso?».140 Al fine di trasformare gli uomini in morti viventi, l’atto conclusivo era l’annientamento della loro peculiare identità, la soppressione di quella spontanea unicità «la quale è foggiata in parti uguali dalla natura, dalla volontà e dal destino, ed è diventata una premessa così evidente che persino gemelli identici ispirano un certo disa______________________________ 140 Ibidem, p. 619. 148 gio, suscita un orrore che mette in ombra lo sdegno della persona giuridico-politica e la disperazione della persona morale. E’ questo orrore che dà luogo alle generalizzazioni nichilistiche, le quali sostengono, abbastanza plausibilmente, che in fondo tutti gli uomini indistintamente sono bestie. In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la natura è umana soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la possibilità di diventare qualcosa di estremamente innaturale, cioè un uomo».141 Se nel campo criminali e politici potevano ancora rivendicare un brandello di capacità di riconoscimento di se stessi e dei propri simili, «un ultimo autentico residuo della loro personalita giuridica»142 in quanto appartenevano ad una precisa categoria, avevano fatto qualcosa, coloro che venivano del tutto annientati erano gli ‘innocenti’, vittime confuse di arresti arbitrari. ______________________________ 141 142 Ibidem, pp. 623-624. Ibidem, p. 616. 149 La Arendt ha osservato che l’arresto arbitrario come pratica terroristica e strumento ideologico «distrugge la validità del libero consenso come la tortura distrugge la possibilità dell’opposizione».143 L’arbitrarietà nella selezione del «nemico oggettivo» è la linfa del sistema concentrazionario. Poiché il fine era di avere una popolazione dei campi composta da innocenti, esso veniva a negare la libertà umana più efficacemente che qualsiasi tirannide. In una tirannide, infatti, bisognava essere un avversario per essere punito, essere all’opposizione e osare la libertà di opinione. Teoricamente, anche in un regime totalitario si poteva scegliere di stare all’opposizione, ma siffatta libertà cessava nel momento in cui si profilava la possibilità di appartenere a quella moltitudine scelta arbitrariamente perché ideologicamente indesiderabile per il regime. «La libertà in questo sistema non solo è ridotta alla sua ultima garanzia, palesemente indistruttibile, la possi______________________________ 143 Ibidem, p. 617. 150 bilità del suicidio, ma ha anche perso il suo carattere distintivo, perché le conseguenze del suo esercizio sono condivise con persone completamente innocenti».144 La spoliazione dell’individualità, inoltre, privava l’uomo della sua stessa morte: niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno, come se non fosse mai esistito. «Nei paesi totalitari le prigioni e i lager sono organizzati come veri e propri antri dell’oblio in cui chiunque può andare a finire senza lasciare neppure le usuali tracce dell’esistenza di una persona, un cadavere e una tomba. In confronto di questa modernissima invenzione per eliminare la gente il vecchio metodo dell’assassinio, politico o comune, appare davvero inefficiente e primitivo. L’assassino lascia dietro di sé un cadavere e, benché si sforzi di fare sparire le tracce della propria identità, non ha alcun potere di cancellare l’identità della vittima dalla memoria dei viventi. ______________________________ 144 Ibidem, p. 592. 151 L’azione della polizia segreta, al contrario, riesce miracolosamente a far sì che la vittima non sia mai esistita».145 E’ l’irruzione del male radicale, quel male che la teologia cristiana e la tradizione filosofica, in particolare Kant, non ha mai potuto definire se non in negativo, come deficienza dell’essere. «Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi motivi dell’interesse egoistico dell’avidità dell’invidia, del risentimento, della smania del potere, della vigliaccheria; e quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire».146 ______________________________ 145 Ibidem. Ibidem, p. 628. Sul male radicale cfr. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit. Per un commento critico: Il male, in R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino,1993; P. Amodio, Il problema del male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto dagli «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989. In particolare R. Esposito, associando il male con la libertà e la legge, scrive: «Il male in politica è l’autosoppressione della libertà nella forma dell’eliminazione violenta del suo stesso presupposto. E’ per questo che è portato al livello di massima radicalità nell’esperienza totalitaria. E tuttavia ciò non significa che coinci146 152 Il male di cui parla la Arendt e che rende l’esperienza di Auschwitz, inteso come la metafora del campo totalitario, del tutto singolare, è lo strappo della nostra realtà, la lacerazione della nostra esperienza, il trauma del nostro pensare. Esso è il trionfo di un «sistema in cui tutti gli uomini sono divenuti egualmente superflui», è l’acme di quel nonpensiero proprio dell’uomo-massa che ha eliminato ogni possibilità di senso comune e spazio politico.147 ______________________________ da con essa. Diciamo che il totalitarismo è il suo esito estremo, il suo compimento assoluto. Ma non la sua origine. Altrimenti verrebbe meno la contraddittoria compresenza di male e libertà. Perchè essa sia tenuta ferma è necessario ipotizzare che quello stesso male che ha raggiunto il proprio culmine nel campo totalitario nasca all’infuori -e prima- di esso. Che anzi il suo seme spunti all’origine della nostra concezione della politica e sia latente addirittura in quell’evento che al totalitarismo paradigmaticamente si oppone come la genesi medesima della libertà. 147 Il problema del male rinvia a quello della responsabilità. Era possibile non appoggiare i crimini politici legalizzati dal sistema? Sarebbe stato possibile evitare la responsabilità giuridica e morale? L’accettazione di un male minore, come taluno ha sostenuto, è discusso insieme alla tematica della responsabilità dalla Arendt nel saggio pubblicato su «MicroMega», 4, 1991, pp. 185-206 dal titolo Responsabilità, ora anche in Aa. Vv., Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Milano, Bruno Mondadori, 1996. CAPITOLO QUARTO IL TOTALITARISMO A CONFRONTO CON LA MODERNITÀ POLITICA L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. Initio ut esset creatus est homo (affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo), dice Agostino. Quest’inizio è garantito da ogni nuova nascita, è in verità ogni uomo. (H. Arendt) 154 1. Definizione del regime totalitario Il totalitarismo è l’evento con cui necessariamente e costantemente dobbiamo confrontarci per comprendere il nostro presente. Non possiamo spiegare quanto è accaduto dopo Auschwitz o Kolyma se non teniamo conto della frattura che il totalitarismo, nella sua dimensione empirica, ha imposto al pensiero e all’esperienza democratica occidentale. «Comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente al suo peso. Comprendere significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente, la realtà, qualunque essa 155 sia».148 E’ la riflessione, poi, che, in sede teorica, ci consegna quell’idealtipo con cui operare la verifica, chiudendo così il cerchio: noi partiamo dalla singolarità dell’evento per analizzarlo con strumenti concettuali nuovi e andarlo a verificare concretamente, tenendo conto delle analogie e differenze, variabili che obbligatoriamente devono rientrare nell’analisi, una volta che il modello euristico ha individuato le grandi direttrici. La Arendt non sarebbe d’accordo ad una estensione del totalitarismo ad altre forme che non siano i regimi di Hitler e di Stalin. In questo è stata molto chiara. Il totalitarismo nasce per la crisi della società borghese, anche laddove, in Russia ad esempio, ne arriva solo l’esperienza. Nasce per la crisi dei grandi valori democratici; antisemitismo, imperialismo e per______________________________ 148 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. XXXIV. Vedi anche Understanding and Politics, in «Partisan Rewiew», XX, IV, !953; trad. it. Comprensione e politica. in La disobbedienza civile, Milano, Giuffrè, 1985. 156 dita dei diritti umani ne sono gli elementi denotativi. Nasce per la crisi dello Stato-nazione e la perdita dello spazio e del pluralismo politico. Totalitario, dunque, è quel regime che presenta i seguenti caratteri: · atomizzazione della società ed estraneazione degli individui; · movimento rivoluzionario recante una ideologica visione del mondo; · assenza di struttura per l’intrinseca capacità di mobilitazione; · istituzionalizzazione del caos; · terrore organizzato al fine di privare gli uomini di ogni spontaneità; · sistema dei lager e dei campi di concentramento. E’ in questo senso che per la Arendt noi non possiamo confondere il totalitarismo né con le dittature a partito unico né coi regimi autoritari. Che il totalitarismo possa nuovamente accadere, non è possibile prevederlo aprioristicamente. 157 Gli storici sono alquanto scettici, poiché concretamente di esso non se ne è mai data una realizzazione completa, né secondo un modello di società né tramite la creazione di ‘uomo nuovo’. Il totalitarismo, in effetti, porta con sé i germi della propria autodistruzione. E anche in questo senso la Arendt è stata profetica. Scrive, infatti, nelle pagine conclusive de Le origini del totalitarismo: «Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale od economica in maniera degna dell’uomo».149 Ma che senso ha parlare di tentazioni totalitarie?150 ______________________________ 149 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 429. Secondo Habermas, la Arendt ha messo correttamente in evidenza l’importanza del potere comunicativo nelle strutture della sfera pubblica, la cui mancanza o soppressione dà luogo ai movimenti di massa che sottendono al regime totalitario. Parlare oggi di «tentazioni totalitarie», in un epoca post-totalitaria, dovrebbe farci pensare alla nuova forma di massificazione imposta dai media, per i quali gli spettatori «elettronicamente irretiti» solo apparentemente «prendono posizione», nel senso che 150 158 Forse che esso può essere una deviazione della democrazia occidentale, qualora si diano particolari contingenze storiche? Cos’è che viene meno? Se il totalitarismo rappresenta l’eclissi del politico nel XX sec., allora è proprio il politico che va ripensato attraverso un nuovo criterio: la libertà. Non è un caso che la Arendt sostenga che «ciò che è andato storto è la politica».151 Se per la modernità la politica -o il politico- si è identificata con lo Stato, se è vero che la crisi dello Stato-nazione ha contribuito all’accadere del totalitarismo, se è anche vero che con esso si è dato scacco al pensiero occidentale, di cui già era stata preconizzato ______________________________ «permangono strutture che bloccano lo scambio orizzontale di spontanee prese di posizione (ossia l’uso delle libertà comunicative), e che inducono gli isolati e privatizzati spettatori a collettivizzare in maniera scoraggiante le loro idee». J. Habermas, Colloquio su alcuni problemi di teoria politica. Un’intervista di M. Carleheden e R. Gabriels, in «Informazione filosofica», n. 28, maggio 1995, pp.21-22. 151 H. Arendt, Was ist Politik?, R. Piper GmbH & Co KG, München, 1993; trad. it. a cura di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni Comunità, 1995. 159 il tramonto, allora occorre operare dei distinguo nell’ordine del lessico politico, creare nuovi paradigmi con cui decifrare la complessità dell’esistente: tornare, quindi, alle origini dell’esperienza umana, al di fuori di ogni incrostazione metafisica, al di là di ogni confusione concettuale. 160 2. Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato totalitario. Confronto legittimo? In Le origini del totalitarismo, la polemica della Arendt è non solo diretta alla grande scuola del diritto degli anni ‘30, di cui Schmitt ne era il portavoce più influente, ma anche ai teorici del pensiero borghese, Hobbes e Rousseau, teorici della sovranità ovvero di quella capacità dello Stato di essere un unico centro di potere e il soggetto esclusivo della politica. Il monismo statuale, inteso come reductio ad unum della pluralità dell’azione umana, è uno dei caratteri della modernità che ha contribuito alla formazione della mentalità totalitaria. Con ciò, tuttavia, la Arendt non vuol sostenere che Hobbes o Rousseau siano i padri del totalitarismo. Scrive la Arendt che Hobbes è l’unico grande filosofo della borghesia perché la sua concezione dell’individuo è «un ritratto quasi completo, non dell’Uomo in quanto tale, ma dell’uomo borghese, un analisi 161 che in trecento anni non ha perso d’attualità né è stata superata».152 L’uomo borghese è una funzione della società e la volontà di potenza è la sua passione fondamentale. La relazione tra gli uomini che dovrebbe fondare il corpo politico è, secondo la visione che la Arendt ha della teoria politica hobbesiana, connessa esclusivamente all’interesse privato, senza, quindi, vincoli permanenti, né responsabilità e solidarietà. In Hobbes l’uomo è sempre solo, le sue azioni hanno carattere privato e lo stesso Commonwealth, basato sulla delegazione dei poteri, in realtà, qualora venissero meno i presupposti del patto, manifesta la sua fragilità perché, non essendovi una comunità genuina, ognuno proteggerebbe se stesso. «Il “Commonwealth” di Hobbes è una struttura vacillante che deve procurarsi sempre nuovi puntelli dall’esterno; ______________________________ 152 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 196. Th. Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1989. Per una lettura del pensiero hobbesiano: G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993. 162 altrimenti precipiterebbe di colpo nell’insensato assurdo caos degli interessi privati da cui è scaturito».153 Il privato, il sociale, si è confuso con la sfera pubblica; il potere e la necessità hanno avuto il monopolio sui diritti e la libertà. Lo Stato-Leviatano di Hobbes precorre sul piano ideale lo stato totalitario? Sarebbe impossibile non pensarlo se tenessimo solo conto dell’incisione a mo’ di frontespizio dell’opera hobbesiana: questo ‘sovrano’ mostruosamente grande che sovrasta il mondo reggendo la spada e il pastorale, simboli del potere temporale e religioso, il cui corpo è formato da tanti minuscoli sudditi, i ‘molti’, da cui esso prende vita e potere. La Arendt mette in evidenza come la concezione unitaria dello Stato in Hobbes ha sacrificato la pluralità e ha distrutto lo spazio politico: l’unità si è realizzata nel ‘dominio’. E il dominio distrugge lo spazio politico. ______________________________ 153 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 198. 163 La ragion d’essere dello Stato hobbesiano è nel bisogno di sicurezza dell’individuo che si sente minacciato dai suoi simili e l’uguaglianza tra i sudditi non è l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge perché hanno uguali diritti e uguale dignità, bensì è un’uguaglianza che poggia le sue fragili basi sulla concezione della forza nella lotta per il potere. L’interesse privato, dunque, è il bene comune, il potere è la forza e ad una accumulazione illimitata di beni corrisponde un’accumulazione illimitata di potere: da qui l’intrinseca instabilità del Commonwealth, basato, appunto, su una delegazione di potere piuttosto che di diritti. La versione verticale del potere che si trova in Hobbes, in virtù del patto di soggezione, comporta che ciascun individuo dia il suo consenso «ad essere sottoposto ad un governo, il cui potere consiste nella somma totale delle forze che tutti i singoli individui hanno incanalato in esso, e che vengono monopolizzate dal governo per il preteso beneficio di tutti i 164 sudditi».154 L’azione dei pattuenti, cioè, è vincolata alla rinuncia di uno spazio politico, quindi all’azione interrelata, e ciò che ne deriva è l’isolamento, l’atomizzazione degli individui. «L’azione -dice la Arendt- non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire».155 Più che come autore di una possibile Weltaschauung totalitaria, tuttavia, per la Arendt, Hobbes contribuisce a quella ideologia ‘progressista’ del tardo XIX sec. che preannuncia l’ascesa dell’imperialismo. Lo stessa critica, potremmo dire, traspare nella valutazione della volontà generale in Rousseau, che pure è considerato padre dei giacobini e teorico della democrazia diretta. La Arendt mette in evidenza che anch’egli opera quella reductio ad unum dello Stato che azzera il pluralismo come singolare capacità ______________________________ 154 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. L’opera, pubblicata dalla Arendt nel 1963, è stata riedita nel 1965 con alcune «piccole ma importanti modifiche». 155 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1959; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 137. 165 d’azione degli individui e fa coincidere la volontà generale con la sovranità unica e indivisibile. Secondo la Arendt la sovranità non può essere confusa con l’autorità. Tale identificazione darebbe luogo a deviazioni dittatoriali perché da una stessa matrice, sovranità=autorità, deriverebbero il potere e l’autorità, la legalità e la legittimità, istanze che, invece, dovrebbero restare separate per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. Ciò che ha a cuore la Arendt, in effetti, è capire come sia possibile che le democrazie possano deviare in dittature e totalitarismo, se sono già in esse i germi di questa devianza e quale è la condizione ottimale, se esiste, perché questa deviazione verso il terrore o verso il dominio totalitario di una maggioranza non accada. Il suo approccio ermeneutico consiste nello studiare l’origine delle democrazie moderne, la fondazione di queste come fondazione del nuovo, la creazione, nel senso romano del termine, di una tradizione 166 e di una autorità. Ella si pone, cioè, questo interrogativo: è stata possibile la fondazione di un nuovo corpo politico in cui ogni singolo ha potuto partecipare alla vita politica? E come? Cosa ha significato fondare un corpo politico sulla libertà? Che cosa è storicamente avvenuto? 167 3. L’inedito nella storia: le rivoluzioni. ‘Liberazione da’ o ‘libertà di’: qual è il fondamento del nuovo corpo politico? La politica come natalità. La Arendt individua nella rivoluzione il momento in cui è possibile l’affermazione, nell’età moderna, di una politica autentica, intendendo per ‘età moderna’ quel periodo di tempo in cui sembra che l’azione politica progressivamente vada scomparendo fino ad estinguersi del tutto con il totalitarismo. La rivoluzione, anzi la storia delle rivoluzioni, quella americana del 1776, quella francese del 1789, infine quella ungherese del 1956, diventano, quindi, la chiave interpretativa dei fenomeni storici moderni.156 ______________________________ 156 Alcune critiche sono state mosse a riguardo: 1) Habermas sostiene che la Arendt abbia distinto e contrapposto una ‘buona’ ed una ‘cattiva’ rivoluzione, l’una politica, la rivoluzione americana, l’altra sociale, quella francese. Si potrebbe obiettare che la Arendt comunque sottolinea che la rivoluzione americana fallisce nei suoi effetti perché i cittadini poi intendono la libertà come libertà della sfera privata contro il mondo politico. 2) Lo storico Hobsbawm ritiene che la Arendt avrebbe dovuto te- 168 Che cosa s’intende per rivoluzione?157 La Arendt cerca di recuperare il significato autentico della nozione in relazione con i concetti di libertà e potere, anch’essi sclerotizzati da schemi e teo______________________________ nere in debito conto anche la prima rivoluzione inglese. Questo non è possibile perché la Arendt è stata molto più attenta a quelle rivoluzioni che sul piano delle istituzioni hanno dato luogo a delle reali modifiche: la rivoluzione dei livellatori è stata una rivoluzione mancata, sebbene abbia aperto la strada alla monarchia costituzionale. 3) Per Nisbet la Arendt ha minimizzato la questione sociale presente in America. Questa obiezione non tiene conto, tuttavia, che non c’era la stessa pressione sul governo americano come dei sanculotti sui giacobini, né le stesse vertenze economiche. 157 «La rivoluzione è il tentativo accompagnato dall’uso della violenza di rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle al fine di effettuare profondi mutamenti nei rapporti politici, nell’ordinamento giuridico-costituzionale e nella sfera socio-economica. (...) La necessità dell’impiego della violenza come elemento costitutivo di una rivoluzione può essere teorizzato in astratto, ma senza fondamenta storiche, rilevando come le classi dirigenti non cedano il loro potere spontaneamente e senza opporre resistenza e come quindi i rivoluzionari siano costretti a strapparlo loro con la forza, e sottolineando inoltre che i mutamenti introdotti dalla rivoluzione non possono essere accettati pacificamente, poiché significano perdita di potere, status e ricchezza per tutte le classi colpite. (...) ...in taluni casi le rivoluzioni sono forzature della storia, forse inevitabili ma pur sempre forzature». G. Pasquino, Rivoluzione, in N. Bobbio, N. Metteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, op. cit. 169 rie reciprocamente escludentisi. Ella sostiene che non esiste il mito della violenza rivoluzionaria creatrice, né che la rivoluzione vada interpretata come una ‘figura’ del progressivo avanzare dello spirito assoluto oppure come lo sbocco necessitato delle contraddizioni economico-sociali. Lontano dalla prospettiva hegeliana e marxista, la Arendt opera un distinguo tra libertà e liberazione: «la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; (...) il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà».158 La libertà non può essere ‘liberazione da’ così come l’evento rivoluzionario non può essere necessitato o determinato da forze storiche. Esso, anzi, si sostanzia della libertà che è ciò che appare nella relazione plurale tra gli ______________________________ 158 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. 170 uomini che partecipano alla vita pubblica, è capacità corale di dare vita e partecipare al nuovo assetto politico. Libertà non è necessità né atto di volontà. La rivoluzione, dice la Arendt, «si decide da sola», sulla base di fatti ed avvenimenti per i quali gli uomini sono attori-spettatori e non autori. Vicina alla teoria di Rosa Luxemburg, ella ritiene che «una buona organizzazione dell’azione rivoluzionaria può e deve essere appresa nel corso stesso della rivoluzione, allo stesso modo in cui si impara a nuotare soltanto nell’acqua. (...) Le rivoluzioni non sono “fatte” da nessuno, ma erompono spontaneamente».159 Le rivoluzioni sono gli eventi che irrompono nella routine della storia e ne cambiano il volto; sono atti inaugurali di un nuovo inizio, la cui conoscenza, da parte dei protagonisti, emerge solo «dopo che essi erano giunti, in gran parte contro la loro volontà, ad un punto da cui non si poteva tornare più indietro».160 ______________________________ 159 160 Ibidem. Ibidem. 171 Il termine rivoluzione venne mutuato dall’astronomia e solo nel 1660 venne utilizzato per designare un cambiamento politico, la restaurazione della monarchia in Inghilterra. La rivoluzione era essenzialmente ‘rivoluzione conservatrice’. Chi era entrato nel gioco rivoluzionario credeva di poter restaurare un antico ordine di cose, cose appartenenti al passato, e, solo nel corso stesso della rivoluzione, si rese conto che ciò era impossibile. Si trattava di una impresa totalmente nuova, una novità assoluta. «Ciò che essi avevano concepito come una restaurazione, un recupero delle loro antiche libertà, divenne invece una rivoluzione». Gli uomini della rivoluzione si resero conto solo dopo che avevano la possibilità non già di ripristinare una tradizione consumata bensì creare un nuovo ordine politico, la repubblica, un novus ordo saeclorum. E’ questo il significato autentico di rivoluzione, la cui idea centrale «è l’instaurazione della libertà, os- 172 sia la fondazione di uno stato che garantisca lo spazio in cui la libertà può manifestarsi».161 L’analisi comparativistica delle due importanti rivoluzioni dell’età moderna, quella americana e quella francese, pur presentando delle limitazioni, tenta un discorso che non si riduca all’astrattezza, che resti, cioè, puramente teorico, anche se per gli specialisti questo è un aspetto spesso insoddisfacente. Il disegno della Arendt è seguire la tradizione democratica per raccontarne la fondazione e capire come mai la tradizione filosofica, sia da Hobbes a Schmitt che da Rousseau agli eredi dei giacobini, non è riuscita ad impedire il totalitarismo. «In termini generali possiamo dire che nessuna rivoluzione è addirittura possibile là dove l’autorità dello Stato è veramente intatta (...). Le rivoluzioni sembrano sempre riuscire con straordinaria facilità nella loro fase iniziale e la ragione è che i loro arte______________________________ 161 Ibidem. 173 fici all’inizio non fanno che strappare il potere ad un regime in piena disgregazione. Sono insomma la conseguenza non la causa del crollo dell’autorità politica».162 Dovremmo pensare che l’avvento del nazionalsocialismo è stato conseguenza della crisi della Repubblica di Weimar: la vulnerabilità delle istituzioni e il malcontento sociale hanno favorito il partito nazionalsocialista e la violenza adottata per giustificare la trasformazione radicale del ‘vecchio ordine’. La presa di potere di Hitler in Germania era salutata dai nazionalsocialisti come «rivoluzione nazionale»163 : in realtà, sebbene «nei primi anni del loro ______________________________ 162 Ibidem. Cfr. Bracher, che sostiene «Propagandisti, politici e giuristi nazionalsocialisti fin da principio si preoccuparono particolarmente di sottolineare che il governo hitleriano avrebbe significato l’inizio di una rivoluzione, di un profondo mutamento di tutte le cose, ma che si trattava di un processo legale, svolgentesi nell’ambito del diritto e della costituzione. Mediante il concetto paradossale di rivoluzione legale vennero uniti artificiosamente due assiomi della azione politica che si contraddicevano reciprocamente». K. D. Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazional163 174 regime i nazisti riversarono sul paese una valanga di leggi e decreti»,164 non venne mai abrogata la carta costituzionale di Weimar, tant’è che essa era formalmente in vigore ancora al momento della dissoluzione della Germania e della morte del Führer. La rivoluzione in quanto tale non può non condurre, secondo l’accezione arendtiana, ad una nuova costituzione, segno tangibile della fondazione del nuovo corpo politico.165 Nonostante la dichiarazione di voler attuare una ______________________________ socialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. Anche Nolte scrive che in Germania «si compì una rivoluzione senza alcuna violazione rivoluzionaria della legalità vigente (e insieme senz’ombra di rispetto per essa) ». E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971. 164 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. , p. 541. 165 La costituzione è la struttura stessa di una comunità politica organizzata. L’esigenza di una costituzione scritta fu per la prima volta avvertita in Inghilterra durante il periodo delle guerre civili, sebbene questa restasse poi fedele alla costituzione consuetudinaria. La prima costituzione scritta fu quella della Virginia nel 1776, a cui seguirono altri stati americani, fino a che, nel 1788, venne portato a termine il processo costituente con la ratifica, da parte della maggioranza degli stati, della costituzione degli Stati Uniti d’America, stesa alla Convenzione di Filadelfia, costituzione da allora ancora vigente. 175 «rivoluzione permanente»,166 con il nazionalsocialismo, invece, non si è avuto alcun ammodernamento delle istituzioni. In America, invece, con la rivoluzione del 1776, era accaduto proprio il contrario. La rivoluzione americana aveva avuto il pregio di mettere in evidenza la possibilità dell’agire politico autentico: nel nuovo mondo, il patto sottoscritto l’11 novembre del 1620 sul Mayflower dai Padri Fondatori aveva coniugato potere politico e libertà, felicità e vita pubblica grazie ad una nuova concezione del politico come «pratica di libertà». «Ciò che in realtà fece la rivoluzione americana fu di portare alla ribalta la nuova esperienza ed il nuovo concetto di potere americano. Come la prosperità e l’uguaglianza di condizioni questo nuovo potere era più antico della rivolu______________________________ 166 La nozione di ‘rivoluzione permanente’ rinvia al carattere di movimento incessante, di mobilitazione che doveva impedire la stabilità del governo. Per questo l’hitlerismo mette in atto una selezione razziale incessante affinché si prevenga l’anchilosi del Volk, mentre lo stalinismo attua una lunga serie di epurazioni e trasferimenti della popolazione. 176 zione, ma non sarebbe sopravvissuto senza la fondazione di un organismo politico, destinato esplicitamente a difenderlo e a conservarlo; senza rivoluzione, in altre parole, quel nuovo principio di potere sarebbe rimasto nascosto».167 Diversamente era stato per la rivoluzione francese, il cui esito fu fallimentare, da una parte perché si rivelò più astratta, progettata da intellettuali interessati ad elaborare idee e teorie piuttosto che pratica politica, dall’altra per l’emergenza della questione sociale, per cui la libertà veniva ad identificarsi con la liberazione dal bisogno. Non la libertà pubblica era lo scopo dei rivoluzionari, bensì il benessere del popolo. In concreto, «quando si scatenò questa forza, quando ognuno fu convinto che solo l’interesse nudo e il ______________________________ 167 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. Peraltro, il patto dei Padri Pellegrini, che erano giunti sulle desolate spiagge di Cape Cod, servì a fondare la comunità politica di Plymouth: fu il punto di avvio di altrettanti covenants ed agreements da cui, nel New England, nacquero numerose comunità. 177 bisogno erano senza ipocrisia, i malheureux si cambiarono in enragés, perché la rabbia è in realtà l’unica forma in cui la miseria può diventare attiva».168 Per la Arendt viene a confondersi ciò che è necessariamente legato alla natura dell’uomo e ciò che gli conferisce identità e dignità, poiché con la rivoluzione francese la politica viene subordinata alla questione sociale, ergo all’economico. Tale confusione è particolarmente evidente nella nozione di popolo. «La definizione stessa del termine era nata dalla compassione e la parola divenne sinonimo di sfortuna e infelicità -le peuple, les malheurex m’applaudissent, soleva dire Robespierre; le peuple toujours malheurex, come si esprimeva perfino Sieyès, una delle figure meno sentimentali e più lucide della Rivoluzione».169 Il termine popolo rinvia tanto al soggetto politico costitutivo quanto alla classe che di fatto é esclusa dalla ______________________________ 168 169 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. Ibidem. 178 politica. Sia nell’italiano popolo che nel francese peuple o lo spagnolo pueblo, con i connessi aggettivi, è presente questa ambiguità semantica; lo stesso per l’inglese people, che conserva, anzi, un ordinary people in opposizione alla nobiltà.170 Popolo e popolo, quindi, una frattura che ha deviato l’azione politica in Europa fin dalla Rivoluzione francese. In Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva rimarcato che nel momento in cui il popolo tedesco si era riconosciuto nella razza ariana era Volks per il diritto, corpo politico integrale, e sanciva così l’esclu______________________________ 170 «Nella costituzione americana si legge, senza distinzioni di sorta, “We, the people of the United States...”; ma quando Lincoln, nel discorso di Gettisburgh, invoca un “Governement of the people by the people for the people”, la ripetizione contrappone implicitamente al primo popolo un altro», da G. Agamben, Mezzi senza fini, op. cit., p.30. L’abate Sieyès, autore del famoso Qu’est-ce que le Tiers Etat? (1789) aveva parlato della ‘nazione’ come se intendesse l’intero popolo francese. In realtà il riferimento era per la borghesia: la ‘nazione’ borghese era un’unità compatta esprimente non l’empirica volontà generale, bensì l’assoluta volontà generale per cui si condannavano i partiti e le fazioni. Anche in questo caso il termine popolo risulta equivoco. 179 sione dai diritti il cittadinanza degli ebrei e di quanti identificava con la categoria di «nemico oggettivo».171 Una legge di natura, dunque, aveva finito per permeare il diritto rendendo ancor più catastrofica la frattura Popolo e popolo. L’equivoco, dunque, che compromise il buon esito della rivoluzione francese fu il voler «emancipare la natura», voler porre una soluzione ai bisogni naturali: «La necessità invase così il campo del politico, l’unico in cui gli uomini possono essere liberi».172 In America esistevano delle precondizioni, la relativa eguaglianza e la mancanza di una radicale questione sociale, le quali permisero che il sociale, il privato, non inficiasse la politica. La felicità era ‘felicità pubblica’, il consenso era ‘scambio di opinioni tra eguali’, la sovranità del popolo non era concezione assoluta. ______________________________ 171 Con la ‘soluzione finale’, i nazisti tentarono di eliminare dalla scena politica gli ‘indesiderabili’, compito che essi ostinatamente andavano ad assolvere anche per gli altri popoli europei. 172 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. 180 La pratica politica del Mayflower Compact, mai interrotta dalla posterità dei Padri Fondatori, aveva portato in risalto che la capacità umana di costituire il mondo avrebbe di per sé garantito e tutelato gli uomini dalle pulsioni naturali. Nessun ricorso, quindi, a finzioni circa la natura dell’uomo, come volevano le classiche teorie contrattualistiche, né alcun ricorso all’Assoluto - Robespierre aveva reclamato l’ «Essere Supremo» come garanzia della stabilità della repubblica laddove nel contesto religioso, tipicamente europeo, si faceva ancora appello al «Dio Onnipotente» che aveva dotato gli uomini di «diritti inalienabili». La rivoluzione francese non aveva fatto altro che sostituire la volontà del popolo, che si rivela come dispotismo della maggioranza, sul dominio dell’uomo sull’uomo e riconoscere la sottomissione dell’uomo alla legge divina o morale, mantenendo ben ferma la confusione tra potere e dominio. E per la Arendt il dominio è una interpretazione 181 falsificata e falsificante del potere.173 Non solo. Il buon esito della rivoluzione francese sarebbe stato deviato dal terrore. La considerazione che il terrore sia lo strumento che permetta la conservazione del potere e che la violenza sia necessaria per la creazione di un corpo politico viene confutata dalla Arendt facendo riferimento al racconto di Melville, Billy Budd, e all’episodio del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ella si serve di queste due opere letterarie per mostrare come, nella storia, chiunque, sia esso popolo, classe o individuo, si ponga come depositario del bene assoluto risponda poi con la violenza all’ingiustizia. Non esiste nessuna violenza necessaria, anzi essa testimonia di un vuoto del diritto e, quindi, di un vuo______________________________ 173 Illuminante è il saggio di P. Ricoeur «Pouvoir et violence», in Politique et pensée. Colloque Hannah Arendt, Éditions Payot & Rivages, Paris, 1996. Questa raccolta di saggi è apparsa per la prima volta con il titolo Ontologie et politique. Hannah Arendt, presso le edizioni Tierce, 1989. 182 to della giustizia. Lo stesso deve dirsi per il terrore totalitario. Durante la rivoluzione, in Francia, la compassione dei miserabili si era impadronita degli animi più elevati e li aveva spinti ad azioni non pertinenti alla politica. Il loro obiettivo divenne lo smascheramento dell’ipocrisia, dell’inganno sociale, in un tempo, quello della monarchia assoluta, in cui facilmente si violavano i giuramenti e si passava all’intrigo. Già per Rousseau il male principale della società era l’ipocrisia, cioè la mancanza di promesse, non mantenute dal potere centrale, verso il popolo. Se per Socrate l’ipocrita era il falso testimone di se stesso, il peggiore degli uomini quindi, per Machiavelli, con cui la Arendt è d’accordo, l’ipocrita è colui che appare quale vuole essere stimato.174 ______________________________ 174 Simulazione e dissimulazione sono termini chiave per il discorso sul politico. Simulazione è mostrare di essere ciò che non si è ed ha uno spettro di comportamenti ben più ampio, in campo politico, della dissimulazione, che, in quanto è nascondere ciò che si è realmente, si limita alla sola sfera dell’inganno più o meno cosciente. cfr. N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli, 1995. 183 Nel campo delle relazioni umane, infatti, là dove c’è apparenza di virtù, ci sono anche gli effetti della virtù e poco importa se qualcosa di imperscrutabile vi si nasconda. La deviazione verso il terrore per la rivoluzione francese deriva dal fatto che elementi moralistici erano, come la compassione e lo smascheramento dell’ipocrisia erano entrati nella pratica politica, scatenando furori e annullando il regno del diritto che garantisce e tutela tutti. Lo stesso Robespierre, che pretendeva di essere il depositario della virtù, era diventato l’uomo del terrore. Nel clima di sospetto che circondava i rivoluzionari, chiunque poteva essere sospettato di ipocrisia e di essere nemico del popolo. La Arendt, per questo motivo, sostiene la teoria di Montesquieu,175 che, peraltro, contrappone a Rous______________________________ 175 Montesquieu, fedele all’antica iurisdictio, teneva soprattutto all’indipendenza della funzione giudiziaria dal politico e al governo misto, visto in funzione dei checs and balances, dei pesi e dei contrappesi per realizzare un equilibrio costituzionale. Era, dunque, necessaria la separazione di «questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o giudicare le controversie dei privati». 184 seau. Secondo l’autore dell’ Esprit des lois la virtù non è un assoluto, deve essere moderata e non deve entrare nella politica. Il teorico del costituzionalismo riteneva che la garanzia della pluralità risiedeva nella ripartizione del potere, in modo tale da mediare le tensioni e i rapporti di forza. Riproporre Montesquieu e il contrattualismo anglosassone come riflessione sul patto e sulle istituzioni realmente esistenti, conduce la Arendt a riflettere anche sulle modalità della rappresentanza. La pluralità non può essere rappresentata, innanzitutto perché è l’unicità degli esseri che la esclude, poi perché il concetto di rappresentanza implica l’assenza dei rappresentati, quindi la spoliticizzazione della politica. La rappresentanza si definisce, dunque, come rapporto di dominio di alcuni uomini su altri, come organizzazione della forza dei governanti, come disciplinamento centralizzato della decisione. Non c’è alcunché in comune se non uno spazio. Alla constitutio libertatis, dunque, cosa occorre? 185 Storicamente in tutte le rivoluzioni si è attuata l’organizzazione spontanea dei consigli: in quella americana di Jefferson, nella Comune di Parigi, nei Soviet, persino nella rivoluzione ungherese del 1956. Essi sono la manifestazione della vera democrazia perché si dà a tutto il popolo la possibilità di agire e di essere responsabili delle proprie azioni e dell’andamento egli eventi. E’ garantita l’imprevedibilità, la pluralità, la partecipazione diretta. Nella tradizione occidentale questi sono caratteri a cui si è pensato sempre di porre rimedio, ad esempio con la formazione dei partiti. Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva già espresso un giudizio secco e negativo sull’attività dei partiti. Questi funzionavano come cinghia di trasmissione dell’interesse individuale nell’interesse collettivo, come gruppo di interesse senza riuscire a garantire la singolarità che si manifesta nella relazione plurale. Sono esposti alla corruzione e all’inefficienza; sono antidemocratici per il fatto che indicano i candidati che il cittadino-elettore andrà a votare. 186 Nei consigli, invece, il popolo poteva gestire gli affari politici direttamente; ogni consiglio avrebbe eletto i rappresentanti da inviare ai consigli superiori, secondo una piramide che avrebbe formato una élite affettivamente democratica. Pur proponendo l’abolizione del suffragio universale, la Arendt ritiene che il metodo dell’alternanza di due soli partiti possa preservare il sistema da eventuali blocchi e pericoli: l’opposizione di un periodo sarà al potere in un altro momento, senza per questo perdere la responsabilità dell’azione politica. Una responsabilità che manca nel caso di più partiti al potere e del tutto assente sia nella società di massa, in cui i singoli sono deresponsabilizzati alla politica, sia nel totalitarismo, ove tutto è nelle mani del capo. E’ chiaro che istituzioni e leggi sono il perno fondamentale per il corretto funzionamento della democrazia, quanto il consenso. Quanto, però, i consigli, contrari all’isolamento del singolo e luogo privilegiato della pluralità irrapresen- 187 tabile e dell’azione intesa come nuovo inizio, sono praticabili? L’orientamento della Arendt resta un’alternativa utopica o, quantomeno, non realistica? CONCLUSIONI 189 In Le origini del totalitarismo la Arendt sottolinea spesso come il totalitarismo distrugge il presupposto di ogni libertà, annulla la capacità di agire di concerto, azzera quello spazio che esiste tra ciascun uomo libero estraniandolo. Abbiamo visto come i prodromi dell’ideologia totalitaria siano nella crisi dello Stato-nazione e nel contesto socio-culturale-politico in cui si attua l’antisemitismo e l’imperialismo. Abbiamo visto come ai margini della tradizione egemone siano esistite potenzialità politiche che si sono sottratte alla categoria del dominio: l’esperienza della rivoluzione americana e dei sistemi consiliari. Se è necessario ripensare la politica, cosa la Arendt intende per politica? Un punto è da tener ben presente: la deviazione della politica è stata evidente quando la sfera del privato si è confusa, anzi, si è identificata con la sfera pubblica; in altre parole, quando lo Stato si è aperto alla società o, se vogliamo, la società è permeata nello Stato. Sono venute 190 meno le categorie tradizionali del pensiero politico: Stato, sovranità, autorità, potere ed altre. La Arendt non ha mai identificato il politico con lo Stato, semmai ne ha rivendicato l’autonomia sottraendolo al dominio, lo strumento di coercizione con cui da Platone in poi si è pensato il potere politico. Anzi, nella tradizione del pensiero occidentale, il potere è stato sempre connesso alla violenza come qualcosa di inscindibile; invece, essi si escludono a vicenda. I Padri Fondatori americani erano riusciti a istituire uno spazio politico senza fare ricorso alla violenza, servendosi solo di una costituzione, anche non erano riusciti a comunicare nel tempo a venire lo spirito della loro innovativa esperienza. E’ possibile una fondazione senza violenza; è possibile esercitare il potere senza violenza. Nella tradizione occidentale, la Arendt rileva che molti attori rivoluzionari confondono l’atto plurale e politico della fondazione, da cui deriva l’autorità del nuovo corpo politico, con la violenza. Ricordando Machiavelli e Robespierre, dice che «il loro problema 191 era, alla lettera, quello di come fare un’Italia unita o una repubblica francese, e la loro giustificazione della violenza nasceva e riceveva la sua intrinseca plausibilità dall’argomentazione sottesa: come non si può fare un tavolo senza abbattere degli alberi, o una frittata senza rompere le uova, neppure si può fare una Repubblica senza uccidere qualcuno».176 Così dovremmo giustificare anche il terrore totalitario? E’ indicibile il passaggio dal «tutto è permesso» al «tutto è possibile» dei campi di concentramento e della violenza psicologica che riduce gli uomini ad «un unico fascio di reazioni».177 «Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere».178 ______________________________ 176 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, cit.; trad. it. Che cos’è l’autorità? , in Id., Tra passato e futuro, cit. 177 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. 178 H. Arendt, On Violence, Harcourt, Brace & World, 1970, poi in The Crisis of the Republic, San Diego- New York- London, Harcourt Brace Jovanovich, 1972; trad. it. Sulla violenza, in Politica e menzogna, Milano, SugarCo,1985, p. 201. 192 E ancora: «La violenza può sempre distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla canna di un fucile è il potere».179 Il potere è tale per l’essere-insieme degli uomini, non è rappresentabile né alienabile, né coincide sull’unanimità. La Arendt pensa il consenso nei termini di un ‘dissidio’ su cui si acconsente e si può continuare a dissentire. E’ rispetto delle differenze, riconoscimento della pluralità. Lo spazio in comune, che non è unicamente spazio fisico, territoriale, bensì è la possibilità dello stare-insieme avendo qualcosa in comune, è il mondo. Il ‘mondo’ è la ‘casa’ che ‘abitano’ gli uomini. E’ lo spazio dell’apparenza, è il pubblico. «Il termine “pubblico” equivale al mondo stesso, ______________________________ 179 Ibidem, p. 202. 193 in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo tuttavia non si identifica con la terra e con la natura, come spazio limitato che fa da sfondo al movimento degli uomini e alle condizioni generali della vita organica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con le relazioni che intercorrono tra coloro che insieme abitano il mondo fatto dall’uomo».180 La Arendt è preoccupata -e Le origini del totalitarismo lo confermano- per la riduzione degli uomini in esemplari seriali nella ‘società di massa’, e, soprattutto, se si tratta di una società totalitaria. E’ come se la vita stessa, nella sua nudità, fosse entrata per necessità nel dominio pubblico creando uniformità e spersonalizzazione. «Il carattere monolitico di ogni tipo di società, il suo conformismo che concede un interesse solo e una ______________________________ 180 H. Arendt, The Human Condition, op. cit. 194 sola opinione, è in ultima analisi radicato nell’ essereuno del genere umano».181 La società è così omogenea perché tutti gli individui hanno i medesimi bisogni materiali, la stessa urgenza di provvedere alle necessità della vita. E se un tempo la distinzione era il contrassegno dell’azione politica, ora è la moda, l’atteggiamento stravagante, l’effimero. Pertanto è la burocrazia che politicamente la riflette. «Ciò che noi tradizionalmente chiamiamo Stato e governo lascia qui il posto alla pura amministrazione: a quello stato di affari che Marx giustamente prediceva come “l’estinzione dello Stato”, benché sbagliasse nel credere che solo una rivoluzione potesse causarla».182 Si concretizza «the rule of nobody». «Il governo di nessuno non è necessariamente un non-governo; esso può, anzi, in certe circostanze, pro______________________________ 181 182 Ibidem, p. 34. Ibidem, p. 33. 195 dursi in manifestazioni ancora più crudeli e tiranniche di quelle consuete».183 Il totalitarismo ne è il mostruoso esempio. Ich selber wirchen? nein, ich will verstehen. Und wenn andere menschen verstehen-im sselben Sinne, wie ich verstanden habe dann gibt mir das eine Befriedigung wie ein Heimatgefühl.184 ______________________________ 183 Ibidem, p. 30. «Io esercitare un influsso? No, io voglio capire. E se altri poi capiscono -alla stessa maniera in cui ho capito io- mi dà un senso di soddisfazione come una patria comune». 184 BIBLIOGRAFIA 197 SCRITTI DI HANNAN ARENDT 1929 Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation, J. Springer, Berlin 1929; trad. it. Il concetto d’amore in Agostino, a cura di L. Boella, Milano, SE, 1992. 1930 Augustin und Protestantismus, in «Frankfurter Zeitung», n. 902, 12 aprile 1930. Philosophie und Soziologie. Anlässlich Karl Manheim «Ideologie und Utopie», in «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und politik», VII, 1930, pp. 163-176. Rilkes Duineser Elegien, (in collaborazione con G. Stern), in «Neue Schweizer Rundschau», XXIII, 1930, pp. 855-871; ristampato in U. Füllerborn, M. Engel, (hrsg.), Rilkes «Duineser Elegien». Zweiter Band, Forschungsgeschichte, Frankfurt a. M., Surkamp, 1982, pp. 45-65; trad. it. Le «Elegie Duinesi» di Rilke, in «aut aut», 1990, nn. 239-240, pp. 127-144. 1931 (Recensione di:) H. Weil, Die Entstehung des deutschen Bildungsprinzips, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LXVI, 1931, pp. 200-205. 1932 Sören Kierkegaard, in «Frankfurter Zeitung», n. 75-76, 29 gennaio 1932. Friederich von Gentz. Zu seinem 100. Todestag am 9 Juni, in «Kölnische Zeitung», n. 308, 8 giugno 1932. 198 Adam Müller - Renaissance?, in «Kölnische Zeitung», n. 501, 13 settembre 1932 e n. 510, 17 settembre 1932. Aufklärung und Judenfrage, in «Zeitschrift für die Geschichte der Juden in Deutschland, IV, 1932, nn. 2-3; ristampato in H. Arendt, Die verbogene Tradition. Acht Essays, Frankfurt a. M. Suhrkamp, 1976, pp. 108-126; trad. it. Illuminismo e questione ebraica, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437. Berliner salon e Brief Rahels an Pauline Wiesel, in «Deutscher Almanach für das Jahr 1932», 1932, pp. 175-184 e 185-190. 1933 Rahel Varnhagen. Zum 100. Todestag, in «Kölnische Zeitung», n. 131, 7 marzo 1933; ristampato in «Judische Rundschau», nn. 28-29, 7 aprile 1933. (Recensione di:) A. Rühle-Gerstel, Das Frauenproblem der Gegenwart. Eine psychologische Bilanz, Leipzig, Hirzel, 1932; in «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und Politik», X, 1933, pp. 177-179. 1942 A beliver in European Unity, in «The rewiew of politics», IV, 1942, n. 2, pp. 245-247; recensione di P. R. Sweet, Friedrich von Gentz. Defender of the Old Order, Madison, The University of Wisconsin Press, 1941. From the Dreyus Affair to France Today, in «Jewish Social Studies», 1942, n. 3, pp. 195-240; ristampato in Essays on Anti-semitism, Conference on Jewish Relations, 1946; ripubblicato parzialmente con il titolo Herzl and Lazare, in H. Arendt, The Jew as Pariah, New York, Grove Press, 1978, pp. 125-130; trad. parziale, Herzl e Lazare, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, Milano, Unicopli, 1986, pp. 27-33. 199 1943 We Refugees, in «Menorah Journal», XXXI, January 1943, pp. 69-77; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 55-66; trad. it. Noi profughi, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 35-49. Why the Crémieux Decree Wa Abrogated, in «Contemporary Jewisch Record», VI, 1943, n. 2, pp. 115-123. Portrait of a Period, in «Menorah Journal», XXXI, October 1943, pp. 307-314; recensione di S. Zweig, The World of Yesterday: An Autobiography, New York, The Viking Press, 1943; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 112-121; trad. it. Ritratto di un periodo, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 51-62. 1944 Race-Thinking Before Racism, in «The Rewiw of Politics», VI, 1944, n. 1, pp. 36-73. The Jew as Pariah: A Hidden Tradition, in «Jewish Social Studies», VI, 1944, n. 2, pp. 99-122; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 67-90; versione tedesca ampliata: Die verbogene Tradition, in H. Arendt, Sechs Essays, hrsg. von D. Sternberger, Heidelberg, L. Schneider, 1948; ristampata in H. Arendt, Die verbogene tradition. Acht Essays, cit., pp. 46-73; trad. it. parziale della versione tedesca, in frammenti con i segueni titoli: parte I, Heinrich Heine: Schlemihl e principe del mondo di sogno; parte III, Charlie Chaplin: il sospettato; parte IV, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in H. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 63-71; 271-274; 73-84. Concerning Minorities, in «Contemporary Jewish Record», VII, 1944, n. 4, pp. 353-368. Our Foreign Language Groups, in «Chicago Jewish Forum», III, 1944, n. 1, pp. 23-34. Franz Kafka: a Revaluation. On the Occasion of the Twentieth Anniver- 200 sary of his Death, in «Partisan Rewiw», XI, 1944, n. 4, pp. 412422; versione tedesca ampliata: Franz Kafka, in H. Arendt, Sechs Essays, cit.; ristampata in H. Arendt, Die verbogene Tradition. Acht Essays, cit., pp. 88-107; trad. it. della versione tedesca: Franz Kafka: il costruttore di modelli, in H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit., pp. 85-103. Das zeitweilige Büdnis Zwischen Mob una Élite, in «Hochland. Monatszeitschrift für alle Gebiete des Wissens», 1944, pp. 51-52, 511524. 1945 Organized Guilt and Universal Responsability, in «Jewish Frontier», XIII, 1945, n. 1, pp. 19-23; ristampato in R. Smith, (a cura di), Guilt: Man and Society, New York, Doubleday Anchor, 1971; ripubblicato in The Jew as Pariah, cit., pp. 222-236; trad. it. Colpa organizzata e responsabilità universale, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 63-76. Approaches to the German Problem, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n. 1, pp. 93-106. The Stateless People, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945, n. 2, pp. 137-153. The Assets of Personality, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945, n. 2, pp. 214-216, recensione di M. W. Weisgal, (a cura di), Chaim Wiesmann. Nightmare and Flight, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n.2, pp. 159260, recensione di D. de Rougemont, The Devil’s Share. Dilthey as a Philosopher and Historian, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n. 3, pp. 404-6; recensione di H. A. Hodges, Wilhelm Dilthey: An Introduction. Christanity and Revolution, in «The Nation», 22 settembre 1945, pp. 288-89. 201 The Seeds of a Fascist International, in «Jewish Frontier», giugno 1945, pp.12-16. Zionism Reconsidered, in «Menorah Journal», XXXIII, agosto 1945, pp. 162-196; ristampato in M. Selzer, (a cura di), Zionism reconsidered, New York, Macmillan; ripubblicato in The Jew as Pariah, cit., pp. 131-163; versione tedesca Der Zionismus aus heutiger Sicht , in H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1976, pp. 127-168; trad. it. Ripensare il sionismo, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 77-116. Imperialism, Nazionalism, Chauvinism, in «The Rewiew of Politics», VII, 1945, n. 4, pp. 441-463. Parties, Movements and Classes, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n. 4, pp. 504-512. Power, Politics, Triumphs, in «Commentary», I, 1945, n. 1, pp. 92-92, recensione di F. Gross, Crssroads of Two Continents. 1946 Über den Imperialismus, in «Die Wandlung», I, 1946, pp. 650-666; ristapato in H. Arendt, Sechs Essays, 1948; H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1976. Privileged Jews, in «Jewish Social Studies», VIII, 1946, n. 1, pp. 3- 30; ristampato in A: G. Duker e M. Ben-Horin, Emancipation and Counteremancipation, New York, KtavPublishing House, 1947; pubblicato in modo parzoale con il titolo The Moral of History, in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 96-105, trad. it. parziale La morale nella storia, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 117-122. The Nation, in «The Rewiew of Politics», VIII, 1946, n. 1, pp. 138-141; recensione di J. T. Delos, La Nation, Editions de l’Arbre, Mpntreal. Proof Positive, in «The Nation», 5 gennaio 1946, p. 22; recensione di V. Lange, Modern German Literature. 202 The too Ambitious Reporter, in «Commentary», II, 1946, n.2, pp. 94-95; recensione di A. Koestler, Twilight Bar e The Yogi and Commisar. What is Existenz Philosophy?, in «Partisan Rewiew», XIII, 1946, n.1, pp.3456; trad. ted. in Sechs Essays, 1948; trad. it. Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, a cura di S. Maletta, Milano, Jaca Book, 1998. Imperialism: Road to Suicide, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 27-35. French Existenzialism, in «The Nation», 23 febbraio 1946, pp. 226-228. Tentative List of Jewish Cultural Treasure in Axis-Occupied Countries, in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n.1; curato dal gruppo di ricerca «Commission on European Jewish Cultural Reconstruction» sotto la direzione di H. Arendt. Tentative List of Jewish Educational Istitutions in Axis-Occupied Countries, in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n. 3; curato dal gruppo di ricerca «Commission on European Jewish Cultural Reconstruction» sotto la direzione di H. Arendt. The Street of Berlin, in «The Nation», 23 marzo 1946, pp.350-351; recensione di R. Gilbert, Meine Reime Deine Reime. The Jewish State: 50 Years After, Where Have Herzl’Politics Led?, in «Commentary», II 1946, n. 1, pp. 1-8; ristampato in Jew as Pariah, cit., pp. 164-177; trad. it. Lo stato ebraico: cinquant’anni dopo. Dove ha portato la politica di di Herzl?, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 123-137. The Image of Hell, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 291-95; recensione di The Black Book: The Nazi Crime Against the Jewish People, curato da World Jewish Congress, e a M. Weinreich, Hitler’s Professor. No Longer and not Yet, in «The Nation», 14 settembre 1946, pp. 300302; recensione di H. Broch, The Death of Virgil. The Ivory Tower of Common Sense, in «The Nation», 19 ottobre 1946, pp. 447-49; recensione di J, Dewey, Problem of Men. Expansion and the Philosophy of Power, in «Sewanee Rewiew», LIV, 1946, pp. 601-16. 203 1947 Creating a Cultural Atmosphere, in «Commentary», IV novembre 1947, pp. 424-426, ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 91-95; trad. it. Creare un’atmosfera culturale, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 139-144. The Hole of Oblivion, in «Jewish Frontier», luglio 1947, pp. 23-26; recensione di Anonimo, The Dark Side of the Moon. 1948 Sechs Essays, Heidelberg, L. Schneider, ristampati in H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1972. Jewish History Revised, in «Jewish Frontier», marzo 1948, pp. 34-38; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.96-105; trad. it. Una rilettura della storia ebraica, in H. Arendt, Ebaraismo e modernità, cit., pp. 145-156; recensione di G. Scholem, Major Trends in Jewish History, New York, 1946. Beyond Personal Frustation: The Poetry of Bertold Brecht, in «The Kenyon Rewiew, X, 1948, n.2, pp.304-312, recensione di B. Brecht, Selected Poems. To Save the Jewish Homeland: There is Still Time, in «Commentary», V, maggio 1948, pp.398-406; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.178-192; trad. it. Salvare la patria ebraica: c’è ancora tempo, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 157-173. The Concentration Camps, in «Partisan Rewiew», XV, 1948, n.7, pp.743763; versione tedesca in «Die Wandlung», III, 1948, pp.309-330. The Mission of Bernadotte, in «The New Leader», XXXI, 23 ottobre 1948, pp. 808-819. About Collaboration, in «Jewish Frontier», XV, Ottobre 1948, pp. 5556; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 175-178. cura del volume di B. Lazare, Job’s Dunheap, New York, Schocken Books, 1948. 204 1949 Hermann Broch und der moderne Roman, in «Der Monat», I, 1949, nn. 8-9, pp. 147-151. Totalitarian terror, in «The Rewiew of Politics», XI, n.1, pp. 112-115; recensione di D. J. Dallin e B. I. Nicolaevsky, Forced labor in Soviet Russia. Single Track to Zion, in «Saturday Rewiew of Literature», XXXII, 1949, n. 5, pp. 22-23; recensione di C. Waizmann, Trial and Terror: The Autobiography of Chaim Waizmann. Parteien und Bewegung, in «Die Wandlung», IV, 1949, pp. 451-473. The rights of Man: What Are They?, in «Modern Rewiew», III, 1949, n. 1, pp. 24-37. The Achievement of Hermann Broch, in «The Kenyon Rewiew», XI, 1949, n. 3,pp. 476-483. 1950 Social Science Techniques and the Study of Concentration Camps, in «Jewish Social Studies», XII, 1950, n. 1, pp.49-64. Peace or Armistice in the Near East?, in «The Rewiew of Politics», XII, 1950, n. 1, pp.56-82; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 193-222; trad. it. Pace o armistizio nel Vicino Oriente?, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp179-213. Religion and the Intellectuals. A Symposium, in «Partisan Rewiew», XVII. 1950, n. 1, pp. 113-116. Der Dichter Bertold Brecht, in «Die Neue Rundschau», LXI, 1950, pp.5367; trad. it. Il poeta Bertold Brecht, in V. Santoli, (a cura di), Da Lessing a Brecht. I grandi scrittori nella grande crisi tedesca, Milano, Bompiani, 1968, pp. 573-589, poi in «aut aut», 1990, nn. 239-240, pp.145-160. The Imperialist Character, in «The Rewiew of Politics», XIII, 1950, n. 3, pp.303-320; versione tedesca Der imperialistische Charakter. 205 Eine psychologisch-soziologische Studie, in «Der Monat», II, 1950, n. 4, pp. 509-522. The Aftermath of Nazi Rule. A Report from Germany, in «Commentary», Iv, 1950, n. 10, pp.342-353. Mob and Elite, in «Partisan Rewiew», XVIII, 1950, n. 8, pp. 808-819. 1951 The Origins Of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace and Co, 1951; seconda edizione ampliata: New York, The Word Publishing Company, Meridian Books, 1958; terza edizione con nuove prefazioni: New York, Harcourt Brace and World, 1966; la versione inglese della prima edizione è apparsa con il titolo The Burden of Our Time, London, Secker and Warburg, 1951; la versione inglese della seconda edizione reca il titolo The Origins of Totalitarianism, London, Allen and Unwin, 1958; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967; trad. ted. Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, Frankfurt, Europäische Verlangsanstalt, 1955. The Road to Dreyfus Affair, in «Commentary», XI, febbraio 1951, pp. 201203; recensione di R. F. Byrnes, Antisemitism in Modern France. Totalitäre Propaganda. Ein Kapitel aus «Ursprünge des Totalitarismus», in «Der Monat», III, 1951, n. 33, pp. 241-248. Totalitarian Movement, in «Twentieth Century», 1951, n.149, pp. 368-389. Bei Hitler zu Tisch, in «Der Monat», IV, 1951, n. 37, pp. 85-90. Die Geheimpolizei, in «Der Monat», IV, 1951, n. 38, pp. 370-388. 1952 The History of the Great Crime, in «Commentary», XIII, marzo 1952, pp. 300-304; recensione di Poliakov, Bréviare de la haine: le IIIème Reich et les Juifs. Magnes. The Coscience of the Jewish Peeople, in «Jewish Newsletter», VIII, 1952, n. 25, p. 2. 206 1953 Ideology amd Terror: a Novel Form of Government, in «The Review of politics», XV, 1953, n. 3, pp. 303-327; ristampato in H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition, cit., 1958, pp. 460-479; pubblicato in versione tedesca in Offener Horizont. Festschrift für Karl Jaspers, München, Piper, 1953, pp. 229-254. Rejoinder to Eric Voegelin’s Review of «The Origins of Totalitarianism», in «The Review of politics», XV, 1953, n. 1, pp. 76-85; trad. it. in Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Roma, Astra, 1978, pp. 73-87. The Ex-Communists, in «Commonweal», LVII, 1953, n. 24, pp. 595-599. Understanding and Politics, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 4, pp. 377392; trad. it. Comprensione e Politica, in H. Arendt, La disobbedienza civile ed altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 89-111. Religion and Politics, in «Confluence», II, 1953, n. 3, pp. 105-126; trad. it. Religione e politica, in G. A. Brioschi, L. Valiani, (a cura di), Totalitarismo e cultura, Milano, Edizioni di Comunità, 1957, pp. 285-304. Understanding Communism, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 5, pp. 580-583; recensione di W. Gurian, Bolshevism. 1954 Tradition and the Modern Age, in «Partisan Review», XXII, 1954, n. 1, pp. 53-75; ristampato in H. Arendt, Between past and future. Six Exercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1961, pp. 17-40; trad. it. La tradizione e l’età moderna, in H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, pp. 41-69. Europe and America: Dream and Nightmare, in «Commonweal», LX, 1954, n. 23, pp. 551-554. Europe and the Atom Bomb , in «Commonweal», LX, 1954, n. 24, pp. 578-580. Europe and America: the Threat of Conformism, in «Commonweal», LX, 1954, n. 25, pp. 607-610. 207 1955 Dichten und Erkennen, Introduzione a H. Broch, Gesammelte Werke, a cura di H. Arendt, Zürich, Rheir, 1955; trad. it. Hermann Broch: poeta-scrittore contro la sua volontà, in H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit., pp. 171-216. The personality of Waldemar Gurian, in «The Review of politics», XVII, 1955, n. 1, pp. 33-42; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1968, pp. 251-262. 1956 Was ist Autorität, in «Der Monat», VIII, 1956, n. 89, pp. 29-44; ristampato in H. Arendt, Fragwürdige Traditionsbestände im politischen Denken der Gegenwart. Vier Essays, Frankfurt a. M. , Europäische Verlagsanstalt, 1957. Authority in Twentieth Century, in «The Review of politics», XVIII, 1956, n. 4, pp. 403-417. 1957 Misstrauen gegen Kultur, in «Die Kultur», VI, 1957, n. 12, p. 10. Natur un Geschichte. Die Anfänge der griechischen Geschichtsschreibung, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, n. 8, pp. 6-9, n. 9, pp. 9-14. Geschichte kann nicht gemacht werden. Die Entstehung des historischenBewusstseins, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, 1957, n. 20, pp. 7-11; n. 21, pp. 10-14. History and Immortality, in «Partisan Review», XXIV, 1957, n. 1, pp. 11-53. Fragwürdige Traditionbestände im politischen Denken der Gegenwart, Vier Essays, Frankfurt a. M., Europäische Verlagsanstalt, 1957. Karl Jaspers as Citizen of the World, in P. A. Schlipp, (ed.), The Philosophy of Karl Jaspers, La Salle, Open Court, Pub. Co., 1957, pp. 539- 550; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 81-94. 208 1958 The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, 1988; edizione tedesca rielaborata dall’autrice, Vita Activa oder von tätigen Leben, Stuttgart, Kohlhammer, 1960, München, Piper, 1967. Rahel Varnhagen: the Life of a Jewess, London, East and West Library, 1958; ed. tedesca, Rahel Varnhagen, Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, München, Piper, 1959; ed. americana Rahel Varnhagen: the Life of a Jewish Woman, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1974. Totalitarian Imperialism: Reflections on the Hungarian Revolution, in «The Journal of Politics», 1958, n. 1, pp. 5-43; ristampato in H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition, cit., pp. 480-510; ed. ted. Die Ungarische Revolution und der Totalitäre Imperialismus, München, Piper,1958. Karl Jaspers. Reden zur Verleihung des Friedenspreises des deutschen Buchhandels, München, Piper,1958; trad. ingl. Karl Jaspers: A Laudatio, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 71-80. Kultur und Politik, in «Merkur», XII, 1958, n. 12, pp. 1122-1145; ristampato in Untergang oder Übergang. Erster Kulturkritikerkongress in München, München, Piper, 1959, pp. 35-66. The Modern Concept of History, «The Review of politics», XX; 1958, n. 4, pp. 570-590. Totalitarianism, in «The Meridian», II, 1958, n. 2, p.1. The Crises in Education, in «Partisan Review», XXV, 1958, n. 4, pp. 493-513; ristampato in H. Arendt Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, cit., pp. 173-196; trad. it. La crisi dell’ istruzione, in H. Arendt, Tra Passato e futuro, cit., pp. 228255; versione tedesca Die Krise in der Erziehung, in «Der Monat», XI, 1958-59, pp. 48-61. 209 1959 What Was Authority?, in C. Friederich, (ed.), Authority, Cambridge, Harward U. P., 1959. Reflections on Little Rock, in «Dissent», V, 1959, n. 1, pp. 45-56. 1960 Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten: Gedanken zu Lessing, München, Piper,1960; trad. ingl. On Humanity in Dark Times: Thoughts about Lessing, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 3-31. Freedom and Politics: A Lecture, in «Chicago Review», XIV, 1960, n. 1, pp. 28-46. Society and Culture, in «Daedalus», LXXXII, 1960, n. 2, pp. 276-287. Der Mensch, ein gesellschaftliches oder ein politisches Lebewesen, in «Die deutsche Universitätszeitung», XV, ottobre 1960, pp. 38-47. Revolution and Pubblic Happiness, in «Commentary», XXX, novembre 1960, pp. 413-422. 1961 Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, New York, The Viking Press, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970; Milano, Garzanti, 1991. Freedom and Revolution, New London, Connecticut College, 1961; ristampato in Zwei Welten: S. Moses zum 75. Geburstag, Tel Aviv, Bitaon, 1962. 1962 Action and «The Pursuit of Happiness», in A. Dempf, H. Arendt, F. Engel-Janosi, (hrsg.), Politische Ordnung und Menschliche Existenz. Festgabe für Eric Voegelin, München, Beck, 1962, pp. 116; trad. it. in «Trimestre», XVIII, 1985, nn. 1-2, pp. 127-147. The Cold War and the West, in «Partisan Review», XXIX, 1962, n. 1, pp. 10-20. Cura del volume di Karl Jaspers, The Great Philosophers, New York, Harcourt, Brace and Co., vol 1, 1962. 210 1963 A Reporter at Large: Eichmann in Jerusalem, in «The New Yorker», 16 febbraio, pp. 40-113; 23 febbraio, pp. 40-113; 2 marzo, pp. 49-91; 9 marzo, pp. 48-131; 16 marzo, pp. 58-134. Eichmann in Jerusalem: A report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963; seconda edizione ampliata, 1965; trad. it. La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964; versione tedesca: Eichmann in Jerusalem: ein Bericht von der Banalität des Bösen, München, Piper,1964. Reply to Judge Musmanno, in «The New York Times Book Review», VIII, n. 4, 23 giugno 1963; ristampata in M. Fredman, P. B. Davis, (eds.), Contemporary Controversy, New York, MacMillan, 1966, pp. 312-317. Man’s Conquest of Space, in «American Scholar», XXXII, autunno 1963, pp. 524-540; ristampato con il titolo The Conquest of Space and the Stature of Man, in H. Arendt, Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1968, pp. 265-280. Kennedy and After, in «The New York Review of Books», I, 1963, n. 9, p. 10. On Revolution, New York, Viking Press, 1963; seconda edizione rivista, 1965; trad. it. Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1983; versione tedesca Über die Revolution, München, Piper, 1963. 1964 «Eichmann in Jerusalem». An Exchange of Letters between Geschom Scholem and Hannah Arendt, in «Encounter», XXII, 1964, n. 1, pp. 51-56: ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 240-251; trad. it. «Eichmann a Gerusalemme». Uno scambio di lettere tra Gerschom Scholem e Hannah Arendt, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 215-228. 211 «The Deputy»: Guilt by Silence, in «New York Herald Tribune Magazine», 23 febbraio 1964, pp. 6-9; ristampato in J. W. Bernauer S. J., (ed.), Amor Mundi. Explorations in the Faith and Thought of Hannah Arendt, Dordrecht, Martinus Nijhoff Pubblishers, 1987, pp. 51-58. Nathalie Serraute, in «The New York Review of Books», II, 1964, n. 2, pp. 5-6; versione tedesca Nathalie Serraute, in «Merkur», XVIII, 1964, n. 8, pp. 785-792. Personal Responsability under Dictatorship, in «The Listener», 6 agosto 1964, pp. 185-187 e p. 205. 1965 The Christian Pope, in «The New York Review of Books», IV, 1965, n. 10, pp. 5-7; ristampato con il titolo Angelo Giuseppe Roncalli: A Christian on St. Peter’s Chair from 1958 to 1963, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 57-69; versione tedesca, Der Christliche Papst, in «Merkur», XX, 1966, n. 4, pp. 362-372. Krieg und Revolution, in «Merkur», XIX, 1965, n. 202, pp. 1-19. Politik und Verbrechen. Ein Briefwechsel, Hannah Arendt - Hans Magnus Enzensberger, in «Merkur», XIX, 1965, n. 205, pp. 380-385; trad. it. Politica e crimine. Hannah Arendt e Hans Magnus Enzensberger, in «Linea d’ombra», 1989, n. 35, pp. 37-46. 1966 The Formidable Dr. Robinson: A Reply to the Jewish Establishment, in «The New York Review of Books», V, 1966, n. 12, pp. 26-30; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 260-276. On the Human Condition, in M. A. Hinton, (ed.), The Envolving Society, New York, Institute of Cybernetical Research, 1966, pp. 213-219. Remarks on «The Crisis Character of Modern Society», in «Christianity and Crisis», XXVII, 1966, n. 9, pp. 112-114. 212 The Negative of Positive Thinking: A Measured Look at the Personality, Politics and Influence of Konrad Adenauer, in «Book Week, Washington Post», 5 giugno 1966, pp. 1-2; recensione di Konrad Adenauer, Memoirs. 1945-1953. A Heroine of the Revolution, in «The New York Review of Books», VII, 1966, n. 5, pp. 21-27; ristampato con il titolo Rosa Luxemburg: 1871-1919, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 33-56; trad. it. Elogio di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria senza partito, in «Micromega», 1989, n. 3, trad. it. Elogio di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria senza partito, in «Micromega», 1989, n. 3, pp. 4360; versione tedesca Rosa Luxemburg, in «Der Monat», XX, 1966, n. 243, pp. 28-40. What is Permitted to Jove, «The New Yorker», 5 novembre 1966, pp. 68-122; ristampato con il titolo Bertold Brecht. 1898-1956, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 207-249; versione tedesca Quod Licet Jovi… Reflections über den Dichter Bertold Brecht und sein Verhältniss zur Politik, in «Merkur», XXIII, 1969, n. 6, pp. 527-542 e n. 7, pp 625-642; versione ristampata in H. Arendt, Walter Benjamin, Bertold Brecht. Zwei Essays. München, Piper, 1971, pp. 63-107; trad. it. della versione tedesca Bertold Brecht: il poeta ed il politico, in H. Arendt, Il futuro alle spalle. Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 217-269. Introduction, a B. Naumann, Auschwitz; A Report on the Proceedings against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, New York, Frederick A. Praeger, 1966; ristampato in Falk, Kolto, Lifton, (eds.), Crimes of War, New York, Random House, 1971. 1967 Truth and Politics, in «The New Yorker», 25 febbraio 1967, pp.49-88; ristampato in H.Arendt, Between Past and Future. Eight Exerci- 213 ses in Political Thought, cit., pp. 227-264; ed. ted. Wahrheit und Politik, in H. Arendt, Wahreheit und Luge in der Politik, München, Piper, 1972, pp. 44-92. Randall Jarrell: 1914-1965, in Randall Jarrell: 1914-1965, New York, Farrar, Strauss and Giroux, 1967; ristampato con lo stesso titolo in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 263-267. Preface a K. Jaspers, The Future of Germany, Chicago, University of Chicago Press, 1967. Introduction a J. Glenn Gray, The Warriors, New York, Harper and Row, 1967. 1968 Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1968. Walter Benjamin, in «Merkur», XXII, 1968, pp. 50-65, 209-223, 305315; ristampato in Walter Benjamin, Bertold Brecht. Zwei Essays, cit., pp. 2-62; trad. ingl. Walter Benjamin: 1892-1840, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp.153-206; trad. it. Walter Beniamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle, in H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit., pp. 105-170. Men in Dark Times, New York, Harcourt, Brace and World, 1968; ed. ingl., London, Cape, 1970; versione tedesca Menschen in finsteren Zeiten, München, Piper, 1989. Is America by Nature a Violent Society? Lawlessness is Inherent in the Uprooted, in «The New York Times Magazine», 28 aprile, 1968, p. 24. He’s All Dwight: Dwight MacDonald’s «Politics», in «The New York Review if Books», XI, 1968, n. 2, pp. 31-36. Comment on «The Uses of Revolution» by Adam Ulam, in R. Pipes (ed.), Revolutionary Russia, Cambrige, Mass., Harvard University Press, 1968. «Walter Benjamin», in «The New Yorker», 19 ottobre 1968, pp. 65-156; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 153-206. 214 Isak Dinesen: 1855-1962, in «The New Yorker», 9 novembre 1968, pp. 223236; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 95-109. Walter Benjamin und das Institut fur Sozialforschung, in «Merkur», XXII, 1968, n. 246, p. 968. 1969 Reflection on Violence, in «Journal of International Affairs», pp. 1-35; ristampato in «The New York Review of Books», XII, 1969, n. 4, pp. 19-31. The Archimedian Point, in «Ingenor», College of Engineering, University of Michigan, 1969, pp. 4-9, 24-26. Martin Heidegger zum 80. Geburtstag, in «Merkur», XXIII, 1969, n. 10, pp. 893-902; trad. ingl. Martin Heidegger at Eighty, in «The New York Review of Books», n. 21, 1971, pp. 50-54; ristampato in M. Murray (ed), Heidegger and Modern Philosophy, New Haven, Yale University Press,1978. 1970 On Violence, New York, Harcourt, Brace and World, 1970; ristampato in H. Arendt, Crises of the Republic, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1972; trad. it. H. Arendt, Sulla violenza, Milano, SugarCo, 1985, pp. 85-122; ed. ted. Macht und Gewalt, München, Piper, 1970. Replica ad una recensione di J. M. Cameron, in «The New York Review of Books», XIII, 1 gennaio 1970, p. 36. Civil Disobedience, in «The New York», 12 settembre 1970, pp. 70-105; ristampato in H. Arendt, Crises of the Republic, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1972, pp. 49-109, e in E. V. Rostow (ed), Is Law Dead ?, New York, Simon and Schuster, 1971; trad. it. La disobbedienza civile, in H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 29-88 e in Id., Politica e menzogna, cit., pp. 123-166. 215 1971 Walter Benjamin-Bertold Brecht. Zwei Essay, München, Piper, 1971. Thinking and Moral Consideration. A Lecture, in «Social Research», XXXVIII, 1971, n. 3, pp. 417-46; trad. it. Pensieri e riflessioni morali, in H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 113-152. Lying and Politics. Reflections on the Pentagon Papers, in «The New York Review of Books», XVII, 1971, n. 8, pp. 30-39; ristampato in H. Arendt, Crises of the Republic, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1972, pp. 1-47; trad. it. La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, in H. Arendt, Politica e menzogna, cit., pp. 85-122; trad. ted. Luge in der Politik, in «Neue Rundschau», 1972, n. 2. 1972 Crises of the Republic, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1972; trad. it. Politica e menzogna, a cura di P. Flores d’Arcais, Milano, SugarCo, 1985. Wahreit und Luge in der Politik. Zwei Essays, München, Piper, 1972. Washington’s «Problem-Solvers»-Where they Went Wrong, in «The New York Times», 5 aprile 1972. Postfazione a R. Gilbert, Mich hat kein Esel im Galopp verloren, München, Piper, 1972. 1974 Karl Jaspers zum funfundachtzigsten Geburtstag, in H. Sanser (hrsg.), Erinnerungen an Karl Jaspers, München, Piper, 1974, pp. 311-315. 1975 Remembering Wystan H. Auden, in «The New Yorker», 20 gennaio 1975, pp. 39-40; ristampato in «The Harvard Advocate» , CVIII, 1975, 216 n. 2, pp. 42-45 e in W. H. Auden, A Tribute, London, Weidenfeld and Nicholson, 1974-75, pp. 181-187. Home to Roost, in «The New York Review of Books», 26 giugno 1975, pp. 3-6; ristampato in S. B. Warner (ed), The American Experiment, Boston, Houghton Mifflin, 1976, pp. 61-77. 1976 Gespräche mit Hannah Arendt, a cura di A. Reif, München, Piper, 1976; comprende la conversazione con Gunther Gaus, Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, trad. it. Che cosa resta? Resta la lingua materna, in «aut aut», nn. 239-240, 1990, pp. 11-30. Die Verborgene Tradition. Acht Essays, Frankfurt, Suhrkamp, 1976. 1977 Dem Andenken Martin Heideggers: zum 26 Mai 1976, Frankfurt a. M., Klostermann, 1977. Public Rights and Private Interests, in Money e Stuber (eds.), Small Comforts for Hard Times: Humanists on Public Policy, New York, Columbia University Press, 1977. Thinking, in «The New Yorker», 21 novembre 1977, pp. 65-140; 28 novembre 1977, pp. 135-216; 5 dicembre 1977, pp. 135-216. 1978 The Life of the Mind, a cura di M. McCarthy, New York, Harcourt, Brace, Jovanovich, 1978, 2 voll.; trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1986; trad. ted. Vom Leben des Geistes, München, Piper, 1979. From an Interview, a cura di R. Errera, in «The New York Review of Books», XXV, 1978, n. 16, p. 18. The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, a cura di R. H. Feldman, New York, Gove Press Inc., 1978; trad. it. Ebraismo e modernità, Milano, Unicopli, 1986. 217 1979 On Hannah Arendt, in M. A. Hill (ed.), The Recovery of the Public World, New York, St. Martin Press, 1979. 1982 Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago, The University of Chicago Press, 1982; trad. it. Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova, il melangolo, 1990; trad. ted. Das Urteilen, München, Piper, 1985. Le grand Jeu du monde, in «Esprit», VI, 1982, nn. 7-8, pp. 21-29. 1985 Karl Jaspers - Hannah Arendt. Briefwechsel 1926-1969, a cura di L. Köhler e H. Saner, München, Piper, 1985; trad. it. parziale, Hannah Arendt - Karl Jaspers. Carteggio, a cura di A. Dal Lago, Milano, Feltrinelli, 1989. Travail, Oeuvre, Action, in «Études Phénoménologiques», 1985, n. 2, pp. 3-25. 1986 Labor, Work, Action, in J. W. Bernauer (ed.), Amor Mundi. Explorations in The Faith and Thought of Hannah Arendt, Boston, Dordrecht, Lancaster, Martinus Nijhoff, 1986, pp. 29-42, trad. it. Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, a cura di G. D. Neri, Verona, Ombre Corte. Collective Responsability, in J. W. Bernauer (ed), Amor Mundi, cit., pp. 43-50. Philosophie et politique. Le problème de l’action et de la pensée après la Révolution francaise, in «Les cahiers du Grif », 1986, n. 33, pp. 85-96, ed. orig. Philosophy and Politics: The Problem of Action and Thought after the French Revolution (scritto nel 1954), in «Social Research», LVII, 1990, n.1, pp.73-103. 218 Le problème de la femme dans le monde contemporain, in «Les cahiers du Grif », 1986, n. 33, pp. 69-72. Lettres a W. Auden, in «Les cahiers du Grif », 1986, n. 33, pp. 81-83. Zur Zeit. Politische Essays, a cura di M. L. Knott, Berlin, Rotbuch Verlag, 1986. 1989 Nach Auschwitz. Essays & Kommentare 1, a cura di E. Geisel e K. Bittermann, Berlin, Tiamat, 1989. Die Krise des Zionismus. Essays & Kommentare 2, a cura di E. Geisel e K. Bittermann, Berlin, Tiamat, 1989. 1990 L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, in « aut - aut «, 1990, nn. 239-240, pp. 31-46; ed. originale Concern with Politics in Recent European Philosophical Thought, (scrittonel 1954), in Arendt, Essays in Understanding 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, a cura di J. Kohn, Harcourt Brace, New York. Philosophy and Politics: The Problem of Action and Thought after the French Revolution, in «Social Research», LVII, 1990, n. 1, pp. 73-103. La Nature du totalitarisme, Paris, Payot, ed. originale On the Nature of Totalitarianism: An Essays in Understanding, (scritto nel 1953), in Arendt, Essays in Understanding 1930-1954, op. cit., pp. 328360. 1991 Israel, Palastina und der Antisemitismus, a cura di E. Geisel e K. Bittermann, Berlin, Tiamat, 1991. 219 1993 Was ist Politik ? Aus dem Nachlass, a cura di U. Ludz, München, Piper, 1993. trad. it. Cos’è la politica, a cura di U. Ludz, Milano, ed. Comunità 1997 La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, a cura di A. Dal Lago, Mimesis, Milano. Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Milano, A. Mondadori, ed. parziale del saggio su Benjamin comparso nella traduzione italiana Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit., pp.105-170. 1994 Essays in Understanding 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, a cura di J. Kohn, Harcourt Brace, New York. L’opera contiene anche: 1) Rand School Lecture, scritto nel 1948 o nel 1949; 2) The Eggs Speak Up, scritto nel 1950; 3) Heidegger the Fox, scritto nel 1953. 1995 Die Korrespondenz Hannah Arendt-Kurt Blumenfeld, a cura di I. Nordmann, Hamburg, Rotbuch Verlag. Between Friends. The Correspondence of Hannah Arendt and Mary McCarty, a cura di C. Brightman, New York, Harcourt Brace. Some Questions of Moral Philosophy, (scritto nel 1965), in «Social Research» LXI, 1994, n.4, pp. 739-764; tr. it. parziale, Comandamenti contro l’orrore, in «Liberal», pp. 72-78. Karl Marx e la tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti, in «MicroMega», n.5, pp.35-108. Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Torino, Bollati Boringhieri. 1996 Hannah Arendt-Heinrich Blücher, Briefe 1936-1968, Piper, München. 220 BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI HANNAH ARENDT TRADOTTI IN ITALIANO Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation, J. Springer, Berlin 1929; trad. it. Il concetto d’amore in Agostino, a cura di L. Boella, Milano, SE, 1992. Rilkes Duineser Elegien, (in collaborazione con G. Stern), in «Neue Schweizer Rundschau», XXIII, 1930, pp. 855-871; trad. it. Le «Elegie Duinesi» di Rilke, in «aut aut», 1990, nn. 239-240, pp. 127-144. Aufklarung und Judenfrage, « Zeitschrift für die Geschichte der Juden in Deutschland», IV, 2-3, 1932, ristampa in Die verbogene Tradition, cit., trad. it. a cura di A. Dal Lago, Illuminismo e questione ebraica, «Il Mulino», 3, 1986, pp. 421-437. What Is Existenz Philosophy?, in «Partisan Rewiew», XIII, 1946, n.1, pp. 34-56; trad. ted. in Sechs Essays, 1948; trad. it. Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, a cura di S. Maletta, Milano, Jaca Book, 1998. The Aftermath of Nazi-Rule. Report from Germany, saggio apparso nel 1950 sulla rivista americana «Commentary»; trad. it. Ritorno in Germania, a cura di A. Bolaffi, Roma, Donzelli, 1996. Der Dichter Bertold Brecht, «Die Neue Rundschau», LXI, 1950, pp. 5367; trad. it. Il poeta Bertold Brecht, in V. Santoli, (a cura di), Da Lessing a Brecht. I grandi scrittori nella grande critica tedesca, Milano, Bompiani, 1968; poi in «aut aut», 1990, nn. 239-240, pp.145-160. The Origins of Totalitarism, New York, Harcourt Brace and Co., 1951; trad. it. condotta sulla ed. americana del 1966 di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1967; Milano, Ristampa Bompiani, 1968; ristampa Milano, Comunità, 1996. 221 Religion and Politics, «Partisan Rewiew», II, 3, 1953; Religione e politica, in Totalitarismo e cultura, a cura di G. A. Brioschi e L. Valiani, Milano, Comunità, 1957. Rejoinder to Eric Voegelin’s Review of Origins of Totalitarism, «Review of politics», 15, 1953, pp. 76-85; trad. it. a cura G. Sorba, Una replica, in Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Roma, Astra, 1978. Totalitarian Imperialism: Reflexions on the Hungarian Revolution, «The Journal of Politics», XX, 1958, n.1, pp. 5-43; trad. it. Riflessioni sulla rivoluzione ungherese, «MicroMega», 3, 1987, pp. 89-120. The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, 1988. Rahel Varnhagen, Lebengeschichte einer deutschen Judin aus der Romantik, München, Piper, 1959; trad. it. e introduzione di L. Ritter Santini, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Milano, Il Saggiatore, 1988. Between Past and Future: Six Exercices in Political Thought, New York, The Viking Press, 1961; trad. it. di M. Bianchi di Lavagna Malagodi e T. Gargiulo, Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970; Garzanti 1991. Action and the «Pursuit of Happiness», in Politische Ordnung und menschliche Existenz. Festgabe fur Eric Voegelin zum 60. Geburtstag, a cura di H. Arendt, A. Dempf, F. Engel-Janosi, Beck, München, 1962, pp. 1-16; trad. it. di G. Rametta, L’azione e la “ricerca della felicità”, in G. Duso, a cura di, Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 333-348. Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963; trad. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964. On Revolution, New York, The Viking Press, 1965; trad. it. di M. Magrini, Sulla rivoluzione, con un saggio introduttivo di R. Zorzi, Milano, Comunità, 1983, 1996. 222 Politik und Verbrechen. Ein Briefwechsel, Hannah Arendt - Hans Magnus Enzensberger, in «Merkur», XIX, 1965, n. 205, pp. 380-385; trad. it. Politica e crimine. Hannah Arendt e Hans Magnus Enzensberger, in «Linea d’ombra», 1989, n. 35, pp. 37-46. A Heroine of the Revolution, in «The New York Review of Books», VII, 1966, n. 5, pp. 21-27; trad. it. Elogio di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria senza partito, in «Micromega», 1989, n. 3, pp. 43-60. Truth and Politics e The Conquest of Space and the Stature of Man, in Between past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York, The Viking Press, 1968; trad. it. Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Torino, Bollati Boringhieri 1995. Martin Heidegger ist 80 Jahre alt, «Merkur», XXIII, 1969, n. 10, pp. 893-902; trad. it. di A. Dal Lago, Martin Heidegger a ottant’anni, in «MicroMega», 2, 1988, pp. 165-180. On Violence, New York, Harcourt Brace and World, 1970; trad. it. di A. Chiaruttini, Sulla violenza, Milano, Mondadori, 1971. Heirich Heine: Schlemihl und Traumweltherrscher (1948), Franz Kafka: Der mensch mit dem guten Willen (1944), Franz Kafka(1948), Charlie Chaplin: der Suspekte (1948), tutti in Die verbogene Tradition. Acht Essays, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1976; Walter Benjamin (1968), Bertold Brecht (1966), in Walter Benjamin- Bertold Brecht. Zwei Essays, München, Piper, 1971; Hermann Broch. Dichten und Erkennen, cit.; trad. it. di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Il futuro alle spalle, Bologna, Il Mulino, a cura e con introduzione di L. Ritter Santini. Civil Disobedience (1970), Understanding and politics (1953), Thinking and Moral Considerations: A Lecture (1971), in Crises of the Republic, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972; trad. it. di S. D’Amico, Politica e menzogna, SugarCo., Milano 1985, con un saggio introduttivo di P. Flores d’Arcais; La disobbedienza civile e altri saggi, tr. di T. Serra, Milano, Giuffré , 1985. 223 Was Bleibt? Es bleibt die Mutter spräche, in Gespräche mit Hannah Arendt, München, Piper, 1976; trad. it. La lingua materna, a cura di A. Dal Lago, Milano, Mimesis, 1993. The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, a cura di R. Feldman, New York, Grove Press, 1978; trad. it. e introduzione di G. Bettini, Ebraismo e modernità, Milano, Edizioni Unicopli, 1986; Milano, Feltrinelli, 1993. The Life of the Mind, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978, a cura di M. McCarty, 2 voll.; trad. it. di G. Zanetti, bibliografia di S. Forti, a cura di A. Dal Lago, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura di R. Beiner, Chicago, 1982; trad. it. La teoria del giudizio politico, Genova, Il melangolo, 1990. H. Arendt- K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, a cura di L. Kohler e H. Saner, München, Piper, 1985; ediz. italiana ridotta, trad. di Q. Principe e cura di A. Dal Lago, Carteggio (1926-1969), Milano, Feltrinelli. L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, in «aut - aut», 1990, nn. 239-240, pp. 31-46. Was ist Politik?, a cura di U. Ludz, München, R. Piper GmbH & Co KG, 1993; trad. it. Cos’è la politica, a cura di U. Ludz, Milano, ed. Comunità 1997. Einleitung, in H. Broch, Dichten und erkennen. Essays, 2 voll., in Gesammelte Werke, Zurich, Rhein-Verlag, 1995; trad. it. di S. Vertone, Prefazione a H. Broch, Poesia e conoscenza, Milano, Lerici, 1966. Lettere tra Hannah Arendt e Karl Jaspers, in appendice a R. Esposito, a cura di, La pluralità irrapresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Urbino, QuattroVenti- Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1987, pp. 214-222. 224 Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Milano, A. Mondadori, 1993, ed. parziale del saggio su Benjamin comparso nella traduzione italiana Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit., pp.105-170. Some Questions of Moral Philosophy, (scritto nel 1965), in «Social Research» LXI, 1994, n. 4, pp. 739-764; tr. it. parziale, Comandamenti contro l’orrore, in «Liberal», 1995, pp. 72-78. Karl Marx e la tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti, in «MicroMega», n.5, 1995, pp.35-108. 225 BIBLIOGRAFIA DEI SAGGI CRITICI SU HANNAH ARENDT Aa. Vv, Diotima. Mettere al mondo il mondo, Milano, La Tartaruga, 1990. Aa. Vv, La politica tra natalità e mortalità. Hannah Arendt, a cura di E. Parise, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993. Aa. Vv, Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. Roviello, Paris, Vrin, 1992. Aa. Vv, Politique et pensée. Colloque Hannah Arendt, Paris, Pétite Bibliotéque Payot,1996. La prima edizione di questo testo è comparsa presso Tierce nel 1989 con il titolo Ontologie et politique. Hannah Arendt. Aa. Vv, Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Milano, Bruno Mondadori, 1996. Aa. Vv., Hannah Arendt, introduzione e cura di S. Forti, Milano, Bruno Mondadori, 1999. Agamben, Giorgio 1. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. 2. Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. 3. Quel che resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Amiel, Anne Hannah Arendt. Politique et événement, Paris, PUF, 1996. Amodio, Paolo Il problema del male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto dagli «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989. Bazzicalupo, Laura Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. 226 Boella, Laura Hannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente, Milano, Feltrinelli, 1995. Cangiotti, Marco L’ethos della politica. Studio su Hannah Arendt, Biblioteca di Hermeneutica, Urbino, QuattroVenti, 1990. Canovan, Margaret Hannah Arendt: a reinterpretation of her political thought, Cambridge University Press, 1992. Cavarero, Adriana 1. Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1990. 2. Politica ed esistenza in Hannah Arendt, Home Page di «Critica marxista», Edicola della Città Invisibile. Cedronio, Marina La democrazia in pericolo, Bologna, Il Mulino, 1994. Enégren, André La pensée politique de Hannah Arendt, Puf, Paris 1984; trad. it. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, Edizioni Lavoro, 1987. Esposito, Roberto 1. (a cura di), La pluralità irrapresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Urbino, QuattroVenti-Istituto italiano per gli studi filosofici, 1987. 2. Categorie dell’ impolitico, Bologna, Il Mulino, 1988. 3. L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Roma, Donzelli, 1996. 4. Nove pensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino, 1993. Ettinger, Elzbieta Hannah Arendt e Martin Heidegger: una storia d’amore, Milano, Garzanti, 1996. 227 Fistetti, Francesco Hannah Arendt e Martin Heidegger. Alle origini della filosofia occidentale, Roma, Editori Riuniti,1998. Flores d’Arcais, Paolo Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli, 1995. Focher, Ferruccio La consapevolezza dei principi. Hannah Arendt ed altri studi, Franco Angeli, 1995. Forti, Simona Vita della mente e tempo della polis, Milano, Franco Angeli, 1994. Galli, Carlo Modernità: categorie e profili critici, Bologna, Il Mulino, 1988. Hansen, Phillip Hannah Arendt: politics, history and citizenship, Cambridge Polity Press, 1993. Illuminati, Augusto Esercizi politici, quattro sguardi su Hannah Arendt, Roma, manifestolibri, 1994. Lissa, Giuseppe Filosofia ebraica oggi, in «Rivista di storia della filosofia», n. 4, 1994. A cura del Prof. Lissa e del Dott. Amodio sono in corso di pubblicazione, presso la casa editrice Vivarium, gli atti del convegno sulla Shoah, tenutosi a Napoli nel maggio del 1997. Young-Bruehl, Elisabeth Hannah Arendt. For love of the World, Yale University Press, New Haven and London 1982; trad. it. di D. Mezzacapa, Hannah Arendt, 1906-1975. Per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. 228 FASCICOLI DEDICATI AD HANNAH ARENDT «Les Cahiers du Grif», n.33, Paris, Tierce, primavera 1986: 1. Introduction, Actualité de Hannah Arendt 2. M. McCarty, Pour dire au revoir à Hannah 3. H. Arendt, Nathalie Serraute «Le Fruits d’Or» 4. J. Taminiaux, La vie de quelqu’un 5. E. Young-Breuehl, Les histoires de Hannah Arendt 6. E. Young-Breuehl, Sur la biographie 7. F. Collin: Du privé et du public 8. H. Arendt, Le probleme de la femme dans le monde contemporain 9. Th. Mann, Lettre à Hannah Arendt 10. U. Johnson, Il me faut remarcier 11. H. Arendt, Lettre à Wystan Auden 12. H. Arendt, Philosophie et politique 13. R. Varnhagen, Lettres et penseés 14. H. Plard, Illusions et pièges de l’assimilation 15. K. Jaspers-H- Arendt: Correspondance à propos de Rahel Varnhagen 16. B. Pelzer, Le vent du nord est mon plus grand ennemi «Études Phénomenologiques», n. 2, Bruxelles, Éditions OUSIA, 1985: 1. H. Arendt, Travail, œuvre, action 2. R. Legros, Hannah Arendt: une comprénsion phénoménologiques des droits de l’homme 3. D. Lories, Sentir en commun et juger par soi-même 4. B. Stevens, Action et narrativité chez Paul Ricœur et Hannah Arendt 5. J. Taminiaux, Arendt, disciple de Heidegger? 229 «Aut aut», n. 239-240, 1990. 1. A. Dal Lago, Il pensiero plurale di Hannah Arendt 2. H. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dall’opera filosofica di Hannah Arendt 3. J. Taminiaux, Arendt, discepola di Heidegger? 4. L. Boella, Hannah Arendt «fenomenologa». Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia 5. E. Greblo, Il poeta cieco. Hannah Arendt e il giudizio 6. E. Heller, Hannah Arendt critico letterario 7. S. Maletta, La salvezza come lode. Nota al saggio arendtiano del 1930 sulle «Elegie duinesi» di Rilke «Comunità», XXXV, n. 183, novembre 1981, ha pubblicato i seguenti articoli: 1. J. Habermas: La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt 230 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE SUL «TOTALITARISMO» Aa. Vv, Germania: un passato che non passa, a cura di G.E.Rusconi, Torino, Einaudi, 1987. Aa. Vv, Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto. Milano, Mondadori, 1998. Amendola, Giovanni La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, MilanoNapoli, Ricciardi, 1960. Améry, Jean Un intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. Antelme, Robert La specie umana, Torino, Einaudi, 1976. Aquarone, Alberto L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, 1965. Aron, Raimond Teoria dei regimi politici, Milano, Comunità, 1973. Barber, B. R. Conceptual Foundations of Totalitarianism, in C. J. Friederich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism im Perspective: Three Views, New York, Praeger, 1969. Barrington Moore jr. Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Torino, Einaudi, 1971. Bauman, Zygmunt Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992. Bettelheim, Bruno Sopravvivere, Milano, Feltrinelli 1991. Bobbio, Norberto Dal fascismo alla democrazia, Milano, Baldini&Castoldi, 1997. 231 Bongiovanni, Bruno Revisionismo e totalitarismo, in «Teoria politica», a. XIII, n.1/ 1997. Borrelli, Gianfranco Ragion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993. Bracher, Karl D. La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. Camus, Albert L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1958. Canetti, Elias Masse e potere, Milano, Rizzoli, 1973. Cavalli, Luciano Il capo carismatico, Bologna, Il Mulino, 1981. Collotti, Enzo Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989. Conquest, Robert Il grande terrore, Milano, Mondadori, 1970. De Felice, Renzo Le interpretazioni del fascismo, Roma - Bari, Laterza, 1991. Devoto, Andrea La tirrannia psicologica, Firenze, Sansoni, 1960. Dini, Vittorio Totalitarismo e filosofia. Un concetto fra descrizione e comprensione, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997. Duverger, Maurice Giano, le due facce dell’Occidente, Milano, Comunità, 1973. Firpo, Luigi I totalitarismi, in Storia delle idee politiche, Torino, UTET, 1972, vol.VI, pp. 249-325. 232 Fisichella, Domenico 1. Analisi del totalitarismo, Roma, la Nuova Italia Scientifica, 1994. 2. Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, Il Mulino, 1983. Forges Davanzati, R. Fascismo e cultura, Firenze 1926. Fraenkel, Ernst Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, a cura di P.P. Portinaro, Torino, Einaudi, 1987. Friederich, C. J. e Brezinski, Z. K. Totalitarian Dictatorschip and Autocracy, Harvard University Press, 1956. Furet, François Il passato di un’ illusione, Milano, Mondadori, 1995. F. Lami (a cura di) Eric Voegelin. un interprete del totalitarismo, Roma, 1978. Galli, Carlo 1. Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996 2. Strategie della totalità, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997. Gentile, Emilio La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, NIS, 1995. Gentile, Giovanni Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957. Gleason, Abbott Totalitarianism, The Inner History of the Cold War, Oxford University Press, 1995. Goldhagen, Daniel J. I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. 233 Gramsci, Antonio Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975. Grawitz, M.- Leca, J. (sous la dir. de) Traité de science politiques, vol.2, Les regimes politiques contemporaines, Paris, PUF, 1985, pp.115-267. Hermet, G. (sous la dir. de), Totalitarismes, Paris, Economica, 1984. Jankélévitch, Vladimir Perdonare?, tr. it. di D. Vogelmann, Firenze, Giuntina, 1987. Jünger, Ernst Die totale Mobilmachung, in Samtliche Werke, VII, Essays I: Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980. Kaminski, Andrzej J. I campi di concentramento dal 1896 ad oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. Kershaw, Ian 1. Che cos’è il nazismo, tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, Torino, Bollati- Boringhieri, 1996. 2. L’introuvable totalitarisme, in «Magazine littèraire», n.337, nov. 1995, p. 63 e ss. Lacoue-Labarthe, Philippe La finzione del politico, Genova, il melangolo, 1991. Lacoue-Labarthe P./ Nancy J. L. Il mito nazi, Genova, il melangolo,1992. Langbein, H. Uomini ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1984. Levi, Primo 1. I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986. 2. Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1963. 234 Linz, Juan Totalitarian and Authoritarian Regimes, Greenstein e Polsby (a cura di), Handbook of Political Science, Addison-Wesley, Reading (Mass.), 1975. Losurdo, Domenico 1. Il peccato originale del Novecento, Bari, Laterza, 1998. 2. Il revisionismo storico. Problemi e miti, Bari, Laterza, 1996. Luxemburg, Rosa L’accumulazione del capitale, Milano, Feltrinelli, 1976. Salvati, Mariuccia Da Berlino a New York, Bologna, Cappelli, 1989. Marcuse, Herbart 1. Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino, Einaudi, 1969. 2. L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1968. Matteucci, Nicola Lo stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1997. Mosse, George L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1995. Mussolini, Benito Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1967. Neumann, Franz 1. Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Feltrinelli, 1977. 2. Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, Il Mulino, 1973. Nisbet, Robert A. La comunità e lo stato, Milano, Comunità, 1957. Nolte, Ernst 1. Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 19171945, Firenze, Sansoni, 1988, ristampa in Milano, Bur Supersaggi, 1996. 2. I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971. 235 Ortega y Gasset, J. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962. Orwell, George 1984, Milano, Mondadori, 1973. Pellicani, Luciano 1. Dinamica delle rivoluzioni, Milano, Sugarco, 1974. 2. I soggetti del totalitarismo, in La società contemporanea, a cura di V. Castronovo e L. Gallino, Torino, Utet, 1987. Petersen, Jens La nascita del concetto di «Stato totalitario» in Italia, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», I, 1975, pp. 146149, 157 e 161. Poliakov, L. Storia dell’antisemitismo, Firenze, La Nuova Italia, 1974-6. Popper, Karl La società aperta e i suoi nemici, Roma, Armando, 1973. Prometeo Filodemo (L. Basso), L’antistato, in «La Rivoluzione liberale», 2 gennaio 1925, ora in Le riviste di Pietro Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961. Williams, Raymond Cultura e rivoluzione industriale, Torino, 1968. Rosemberg, Artur Totaler Staat?, in « Volkischer Beobachter», 1° gennaio 1934. Rousset, David L’universo concentrazionario, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. Ruocco G. e Scuccimarra L. Il concetto di totalitarismo e la ricerca storica, in «Storica», a. II, n. 6, 1996, pp. 119-159. 236 Schapiro, L. 1. Totalitarianism, Pall Mall, Londra, 1972. 2. Il concetto di totalitarismo, in Il totalitarismo nelle società moderne, a cura di D. Staffa, Milano, Ceses, 1975, pp. 35-71. Schmitt, Carl 1. Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuffrè editore, 1981. 2. Positionen und Begriffe im Kampf mit-Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg-Wandsbek 1940. 3. Stato, movimento, popolo. Le tre membra dell’unità politica, in Id., Principii politici del nazionalsocialismo, Firenze, Sansoni, 1935. Schnur, Roman 1. Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè editore, 1986. 2. Individualismo e assolutismo, Milano, Giuffrè editore, 1979. Solzenitsyn, Aleksandr I. Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori, 1995. Stoppino, Mario Totalitarismo, in Dizionario politico, a cura di N. Bobbio, UTET. Talmon, J. L. Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 1967. Tarchi, Marco Il totalitarismo nel dibattito politologico, «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997. Todorov, Tzvetan 1. L’uomo spaesato, Roma, Donzelli, 1996. 2. Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti, 1992. Tucker, R. C. Towards a Comparative Politics of Movement-Regimes, in «American Political Science Rewiew», vol. LV, 1961. 237 Vander, Fabio Metafisica della guerra. Confronto tra la filosofia italiana e la filosofia tedesca del Novecento, Guerini Scientifica, 1995. Weil, Simone Sulla Germania totalitaria, Milano, Adelphi, 1990. Wittfogel, Karl A. Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968. INDICE 239 CAPITOLO PRIMO GENEALOGIA E TOPOLOGIA DI UN CONCETTO A PARTIRE DALLE INTERPRETAZIONI STORICO-FILOSOFICHE DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50 1.1 - Il concetto ‘totalitarismo’ ............................................................. 3 1.2 - Genealogia del termine ‘totalitarismo’ ....................................... 18 CAPITOLO SECONDO «IO PROCEDO DA FATTI E DA AVVENIMENTI.» L’INDAGINE CONTESTUALE DI HANNAH ARENDT PER COMPRENDERE L’EVENTO CHE CARATTERIZZA IL XX SECOLO: IL TOTALITARISMO 2.1 - Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933 ....................................... 48 2.2 - L’antisemitismo politico e la questione ebraica .......................... 63 2.3 - La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei in crisi: l’imperialismo come preludio politico ai movimenti totalitari. La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani ................ 74 CAPITOLO TERZO LA CATEGORIA «TOTALITARISMO» 3.1 - Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli: la nuova società di massa ............................................................ 100 3.2 - Gli strumenti del totalitarismo: propaganda, polizia segreta e burocrazia. L’ideologia come «logica di un’idea» ................... 111 3.3 - Terrore e campo di concentramento. La società dei morenti e il male radicale ................................... 131 240 CAPITOLO QUARTO IL TOTALITARISMO A CONFRONTO CON LA MODERNITÀ POLITICA 4.1 - Definizione del regime totalitario ............................................... 154 4.2 - Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato totalitario. Confronto legittimo? .................................................................... 160 4.3 - L’inedito nella storia: le rivoluzioni. ‘Liberazione da’ o ‘liberazione di’: qual è il fondamento del nuovo corpo politico? La politica come natalità .................................... 167 CONCLUSIONI .................................................................................. 189 BIBLIOGRAFIA Scritti di Hannah Arendt ...................................................................... 197 Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt ......................................... 220 Bibliografia dei saggi critici su Hannah Arendt ................................. 225 Fascicoli dedicati ad Hannah Arendt ................................................... 228 Bibliografia essenziale sul «totalitarismo» ........................................... 230 INDICE ................................................................................................ 239