Eccoipulpiti delCavaliere Comespendere senza
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Eccoipulpiti delCavaliere Comespendere senza
Anno IV - Numero 21 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 18 Marzo 2011 nuovo L’analisi Ecco i pulpiti del Cavaliere Moda Come spendere senza farsi spogliare Rifugiati I minori afghani dell’Ostiense Bufale Dietro le catene di Sant’Antonio CELLULARI-MANIA TRA SUPERSPOT E GURU UN TELEFONINO E MEZZO PER OGNI ITALIANO. VODAFONE BATTE TUTTI (GRAZIE A TOTTI) Primo Piano Con Barroso l’inaugurazione dell’anno accademico 2011. Il rettore Egidi: centrati i target Tutte le frecce dell’arco Luiss Multiculturalità, ricerca e formazione, questi i punti di forza dell’ateneo Stefano Silvestre Internazionalizzazione attraverso i dottorati di ricerca, forte mobilità degli studenti e una presenza di allievi stranieri in grande crescita, che raggiunge in alcuni master anche l’80-90%. Secondo il rettore della Luiss Massimo Egidi, sono queste le più acuminate frecce dell’arco dell’ateneo romano. Il rettore ha aperto l’inaugurazione del trentaquattresimo anno accademico dell’ateneo romano alla presenza del presidente della Luiss e di Confindustria Emma Marcegaglia e del numero uno della Commissione Europea Josè Manuel Barroso. Nell’occasione, in cui Barroso è stato insignito di una laurea honoris causa in giurisprudenza, il rettore ha analizzato le sfide che le università italiane ed europee devono affrontare all’alba del secondo decennio del 2000. La grande ascesa degli atenei asiatici, Cina e India in testa, la continua supremazia degli Stati Uniti in ricerca e innovazione. Queste le sfide maggiori alle quali sono chiamate le università europee, che hanno gradualmente perso posizioni nel ranking mondiale – come ha notato Egidi D’ONORE Il rettore Massimo Egidi consegna la laurea a Barroso. Al centro, Emma Marcegaglia – fino a poter vantare nella top 20 solo le due maggiori università britanniche e una svizzera. Per vincere la sfida, secondo il rettore, servono decentramento, maggiore competizione, investimenti in qualità e ripresa del ruolo trainante delle università. Ma soprattutto ricerca di soluzioni più attrattive, da raggiungere anche attraverso la creazione di centri di studio e la collaborazione di docenti stranieri per i quali al momento l’Italia è “fuori mercato” se, come sottolineato dal rettore, “servono 300 mila dollari per ogni docente straniero”. Poi è stata la volta del presidente Barroso, che ha preso la parola dopo la cerimonia in cui è stato insignito della prima laurea honoris causa in giurisprudenza nella storia della Luiss. Un titolo conferito “per la capacità di unire lo studio diretto ad un’attenta sensibilità economica, con il costante obiettivo di favorire lo sviluppo e il consolidamento dei valori culturali”. Un ospite d’eccezione, Barroso, che nella sua lectio magistralis – con esordio in un ottimo italiano - ha messo in risalto l’importanza di ricostruire la fiducia di investitori e consumatori, ancora provati dalla crisi finanziaria del 2008. Josè Barroso ha poi auspicato un maggiore impegno in questo senso da parte dell’Europa dei Ventisette, affermando che “l’Europa non è un circolo chiuso, ma un esercizio di solidarietà” in cui “la dignità umana è valore base”, in riferimento ai recenti avvenimenti in Africa settentrionale. Il presidente della Commissione Europea è poi passato all’attacco e ha affermato che in un periodo di crisi per gli investitori, anche nel campo dell’innovazione, “non è intelligente tagliare i fondi per la cultura”. A chiudere l’inaugurazione, il discorso di Emma Marcegaglia. Il presidente di Confindustria ha messo l’accento sulla necessità di una maggiore apertura del mercato europeo, che sarebbe “un booster” per la crescita, con le riforme a costo zero al centro dell’attenzione”. Marcegaglia ha poi parlato di governance europea: “E’ vero che la Germania ha una leadership chiara, noi imprenditori la consideriamo il nostro benchmark – ha concluso il leader di Confindustria – ma una germanizzazione della Ue e un direttorio franco-tedesco non sono una buona scelta”. L’analisi di un osservatore competente e non schierato sulla situazione economica e le tendenze “Serve più equilibrio tra stato e mercato” Paolo Riva «Qualsiasi exit strategy si pensi per la crisi, non potrà sicuramente essere a livello locale perchè gli squilibri che l’hanno causata sono globali. Nel mondo ci sono nazioni che vivono al di sopra delle loro possibilità e altre che vivono clamorosamente al di sotto; c’è uno squilibrio tra domanda e offerta globali per la crisi della classe media e c’è una governance finanziaria carente». Parte da lontano, dalle cause della crisi Nino Andreotti. Per lui l’economia è una passione costante. Più accesa durante le esperienze giovanili alla Commissione Europea e alla facoltà di Scienze Politiche come assistente, un po’ sopita durante la sua carriera nell’ambito delle comunicazioni internazionali in giro per il 2 18 Marzo 2011 mondo, infine, risbocciata nei suoi “secondi 50 anni”. Osservatore competente e non schierato, dotato del buon senso del cittadino e dell’esperienza diretta di chi certi cambiamenti globali li ha vissuti direttamente nella sua vita professionale, è la persona giusta cui chiedere, in pillole, sulla situazione economica odierna. Nel 2007 ha pubblicato il saggio “Globalizzazione. Una voce dal sottoscala” e oggi è tornato con un altro scritto, “Rischi fatali”, per spiegare la cause della crisi. Il punto, conclude, “è proprio come se ne uscirà e chi pagherà i danni”. Che idee, a livello globale e locale, ha in merito? «L’unica risposta possibile a questa crisi è una concertazione non solo tra le potenze economiche del mondo occidentale, ma anche tra le economie cresciute negli ultimi anni. I cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), i paesi emergenti che ora sono emer- mediato? Condivide le proposte avanzate dal governo a febbraio? «Se Tremonti ha un merito indiscutibile è quello di aver tenuto i conti in ordine. Bisogna dargliene atto, ma, detto questo, manca tutta la parte per stimolare la crescita. E quel che ha proposto il governo in materia non è credibile. Al paese servirebbe, innanzitutto, una serie politica di recupero dell’evasione che ha raggiunto livelli “sudamericani”. Bisognerebbe poi puntare sulla crescita del valore aggiunto della nostra produzione e molte delle nostre medie imprese già lo stanno facendo. Infine, A colloquio con Antonino Andreotti: “Per tornare a crescere bisogna abbinare concorrenza e regole” si, che ormai sono diventati protagonisti dell’economia mondiale. Di fronte a questo scenario, anche l’Europa deve reagire e fare un ulteriore passo avanti nella sua integrazione. Gli stati dell’Unione devono coordinarsi». Ma, a livello nazionale, che cosa si può fare nell’im- servirebbero delle politiche per tornare a spingere la domanda aggregata perchè i consumi languono. Insomma, non servono rivoluzioni nel nostro paese, ma un serio avvicinamento agli standard europei». Che soluzioni globali vede all’orizzonte dopo decenni di deregulation? «La tendenza si sta già invertendo e dopo anni e anni di liberismo sfrenato sarà necessario un riequilibrio dei ruoli tra mercato e stato. I privati è logico facciano il loro interesse, è lo stato che deve essere regolatore in nome del bene pubblico, controllore e garante. Crescita e sviluppo si ottengono solo se si abbinano concorrenza e organizzazione, se la prima è senza regole è come dare una Ferrari in mano a un neopatentato». I NUMERI Una strada verso il lavoro ■ +40% L’incremento in percentuale del numero delle domande per partecipare alle prove di ammissione negli ultimi cinque anni accademici. ■ +33% nel 2010 La crescita delle richieste di partecipazione alle prove di ammissione alle lauree magistrali da parte di studenti che hanno conseguito la laurea triennale in altre università. ■ 68% Il tasso percentuale degli immatricolati migliori, ossia degli iscritti all’Università con voto di maturità superiore a 90/100. La media nazionale si attesta al 26%. ■ 70% La percentuale di studenti che a un anno dalla laurea svolge un’attività lavorativa, gli occupati a tempo indeterminato sono il 22,1%. ■ 93,6% L’indice dei laureati che sostiene la necessità del proprio corso di studi per il tipo di attività svolta. ■ 82,6% Il quoziente dei laureati soddisfatti dell’attuale lavoro. ■ +97 L’aumento del numero degli studenti che hanno partecipato a programmi di scambi internazionali all’estero. Erano 188 nell’anno accademico 2001-02, sono 285 quest’anno. ■ +27 Sempre negli ultimi dieci anni sale anche il numero degli studenti ospiti. Sono 190 nell’anno accademico in corso, erano 163 nel 2001-02. ■ +1.732 Cresce il totale degli studenti. Nel 200506 erano 5.763, nel 2009-10 7.495. ■ +229 Curva in su anche per il numero dei laureati. In quattro anni si è registrato un incremento di oltre 200 unità. Nell’anno accademico 2008-09, infatti, i neodottori erano 1.742 contro i 1.513 nel 2004-05. G. P. Reporter nuovo Politica Dalla discesa in campo al predellino. I segreti di un comunicatore raccontati da un esperto Ecco i tanti pulpiti del Cavaliere Donato Bendicenti: “Si potrebbe definire l’Hugo Chavez di casa nostra” Tommaso Rodano Dal video della «discesa in campo» fino alla fondazione del Pdl in punta di piedi sul predellino della sua auto, passando per le decine di telefonate a sorpresa durante le trasmissioni televisive, spesso concluse attaccando il telefono in faccia all’attonito conduttore. E ancora: i comizi virtuali sul sito web dei «promotori della libertà» e le arringhe di fronte alle platee più disparate, che conquistano le aperture dei telegiornali e le colonne dei quotidiani. Da quando Silvio Berlusconi ha rivoluzionato pratica e linguaggio della politica italiana, ogni trasmissione, evento o incontro pubblico si è trasformato in un potenziale pulpito. E sempre più spesso il Cavaliere si affida a canali e strumenti diversi da quelli ordinari: messaggi estemporanei e inattesi, comunicazioni lampo, blitz improvvisi. Fece la storia delle campagne elettorali il suo intervento al convegno di Confindustra a Vicenza, a poche settimane dalle elezioni dell’aprile 2006. Berlusconi si presentò a sorpresa, zoppicando visibilmente per il mal di schiena che lo avrebbe dovuto costringere a saltare quell’incontro. Il Cavaliere prese il microfono, balzò in pie- DI SCENA Berlusconi nel salotto televisivo di Bruno Vespa. La tv non è l’unico canale della comunicazione politica del cavaliere, spesso protagonista di incursioni estemporanee e inattese: ogni evento pubblico si trasforma in un potenziale palcoscenico di improvvisamente e inziò un autentico show, concluso con urla e un alterco con Diego Della Valle. L’uditorio si divise tra l’entusiasmo e la contestazione. Luca Cordero di Montezemolo non nascose il suo imbarazzo. Eppure, dopo la sua arringa, la campagna elettorale svoltò: i sondaggi che accreditavano Romano Prodi di un vantaggio incolmabile cominciarono a cambiare direzione. Alla fine la vittoria del centrosinistra avvenne per un pugno di voti e consegnò a Prodi una maggioranza parlamentare praticamente inesistente. “Berlusconi è senza dubbio il più bravo a far passare il suo messaggio anche in situazioni impreviste e sorpendenti”, conferma Donato Bendicenti, giornalista di Rainews24 e docente di Comunicazione politica. “Ha un atteggiamento grintoso, audace. E’ abile a comunicare direttamente con il suo elettorato, scavalcando il filtro dei media. Talvolta sembra agire e parlare in maniera istintiva, quasi seguendo un’onda emotiva. I suoi interventi sono studiati? «È difficile dirlo. Per saperlo bi- sognerebbe far parte del suo staff. E’ chiaro che personaggi politici così importanti si riservano un ampio margine di autonomia rispetto al protocollo dei propri spin doctor. Certo, se le uscite di Berlusconi non dovessero essere improvvisate come sembrano, allora bisognerebbe davvero riconoscergli una notevole capacità interpretativa». Eppure sono anni che Berlusconi rifiuta di confrontarsi in un autentico duello televisivo con un suo avversario... «Lo ha fatto per ragioni di calco- lo politico e questo atteggiamento evidentemente ha funzionato. Ma quando è stato in svantaggio nei sondaggi e ha pensato che un confronto televisivo potesse convenirgli, non ha esitato a sfidare il suo avversario, come con Occhetto nel ‘94 e Prodi nel 2006». C’è un modello di comunicatore a cui si è ispirato? A chi assomiglia Berlusconi? «Per i suoi detrattori il modello è quello del populismo sudamericano. Alcuni lo paragonano a Peron. A me sembra che assomigli a Hugo Chavez, anche se ovviamente hanno culture politiche completamente diverse. Ma entrambi parlano alla pancia dell’elettorato. Tra i politici europei Nicolas Sarkozy ha qualche somiglianza con Berlusconi: hanno in comune la passione per la “scenografia”». Una sua opinione da giornalista: come si deve comportare il conduttore di una trasmissione televisiva quando arriva la telefonata di Berlusconi? «È molto difficile. L’elemento fondamentale è la reattività. Bisogna essere pronti, e riuscire a far ascoltare le proprie repliche, altrimenti la comunicazione diventa un messaggio scagliato dall’alto». SENSIBILITÀ Bambini di colore con mani alzate per sensibilizzare il mondo contro il razzismo. A fianco, il ministro Mara Carfagna Dario Parascandolo Mara Carfagna non c’era. Eppure martedì 15 marzo il suo intervento avrebbe dovuto chiudere la Conferenza internazionale per la prevenzione e la rimozione delle discriminazioni martedì 15 marzo. Il ministro delle Pari Opportunità ha annullato la sua partecipazione per un imprecisato impegno politico, che non ha impedito all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) di presentare la nuova campagna di sensibilizzazione contro l’emarginazione. “Lei è solo straniera, siamo noi a farne un’estranea”. Questi lo slogan dello spot dell’Unar che fa da appendice al manifesto presto diffuso in tutte le città d’Italia. Due donne, una di mezza età dalla pelle chiara e l’altra più giovane e di colore, hanno il volto costellato da secchi imperativi: “Non discutere, lavora, non ti lamentare”. Lo spot è stato presentato nel Reporter nuovo Presentata dall’Unar una campagna contro il razzismo: manifesti in tutta Italia Pari opportunità! (Senza ministro) corso della conferenza, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, celebrando così la Settimana d’azione contro il razzismo. Sin dalla sua nascita nel 2003, l’Unar è baluardo contro le discriminazioni e l’emarginazione razziale. Le sue armi sono l’assistenza alle vittime e le inchieste, spesso sfociate nelle aule dei tribunali. Anche perché spesso il razzismo si manifesta in- direttamente: posti di lavoro riservati a chi conosce perfettamente lingua e tradizioni italiane o classi scolastiche esclusivamente “straniere”, ghettizzando automaticamente i figli degli immigrati. Due volte emarginate, invece, le donne. “Discriminate perché straniere e donne – spiega Massimiliano Monnanni, direttore dell’Unar – e, per questo, vittime di molestie, come dimostra il 23 per cento delle nostre segnalazioni. Da qui la scelta per quello spot”. E molto diffusa è anche la discriminazione sulla possibilità di avere casa, spesso sotto gli occhi di tutti. Un immigrato regolare su quattro denuncia infatti difficoltà nel trovare appartamento in vendita o in affitto. Ma chi si rivolge all’Unar? Soltanto nel 2010, ben 222 vittime e 108 testimoni hanno contattato l’Ufficio per denunciare episodi di discri- minazioni. L’identikit tracciato da Monnanni è molto preciso: “La maggior parte delle segnalazioni proviene da uomini tra i 35 e i 64 anni, spesso provenienti dall’Europa Orientale e dall’Africa del Nord”. Un atto di coraggio non facile. Quasi tutti gli episodi riguardano persone con regolare permesso di soggiorno e con livello di istruzione medio-alto, laureati o diplomati. Persone che conoscono bene i loro di- ritti, con una condizione sociale stabile e che non hanno paura di esporsi. Purtroppo gli irregolari o gli stranieri in possesso di permesso temporaneo subiscono in silenzio, e obiettivo è l’abbattimento di questo muro, soprattutto alla luce degli ottimi risultati raggiunti in sede giurisdizionale. Il 2010 è stato un anno fondamentale per l’Unar, che ha gestito ben 776 istruttorie, esattamente il doppio del 2009. Anche perché, sottolinea Monnanni, “abbiamo cominciato a trattare casi legati alla disabilità, fattori di genere e di età. Episodi, quindi, non solo relativi alla discriminazione in merito alla razza o alla religione. questi casi non avevano ancora trovato un interlocutore istituzionale”. 18 Marzo 2011 3 Economia Tra i grandi gestori di telecomunicazione una guerra di pubblicità e testimonial di lusso Totti seduce più di Belen (per spot) Su 80 milioni di clienti oltre un terzo segue il capitano della Roma Stefano Petrelli Totti batte Belen mentre Aldo, Giovanni e Giacomo e Raoul Bova inseguono a distanza. Non è una partita di calcio, non è un concorso di bellezza e nemmeno una sfida al botteghino, ma la situazione del mercato della telefonia mobile in Italia, fotografata ricorrendo ai testimonial dei grandi gestori. Una situazione che vede Vodafone, pubblicizzata dal capitano della Roma, come l’azienda con il maggior numero di clienti: 30 milioni e 700 mila. Alle spalle del colosso britannico, c’è la Telecom dell’avvenente Belen con 30 milioni e 400 centomila. Dietro di loro la Wind degli sketch del trio comico milanese (19 milioni di clienti) e Tre con il ménage à trois con al centro l’attore Roul Bova (9 milioni). Fanalino di coda Poste mobile con un milione e 300 mila clienti. Facendo una rapida somma si arriva ad ottanta milioni di clienti su circa 60 milioni di italiani. Non è un errore di calcolo, il nostro paese è quello con la più alta densità al mondo di cellulari , uno e mezzo a testa secondo l’autorità inglese delle telecomunicazioni OfCom. Un mercato dalle enormi potenzialità. Non a caso fra le prime dieci aziende che investono in pubblicità ci sono tre multinazionali delle telecomunicazioni. Secondo il rapporto Nielsen, il top spender del 2010 è stata proprio Telecom, terza Vodafone e quinta Wind. La classifica della sfida fra gestori non rispecchia la convenienza delle offerte. Analizzando le tariffe delle 4 sorelle della telefonia, il profilo ricaricabile più economico dovrebbe essere quello di Tre, con 12,21 euro. Il più costoso Telecom con 18, 33. Ma non esiste una tariffa più conveniente in assoluto, sono molte le variabili da considerare, dal tempo che si passa al telefono, al gestore verso il quale si chiama più spesso. Ma nella giungla dei contratti spesso emergono delle sorprese, come la tassa di concessione governativa sugli abbonamenti mensili di telefonia mobile di 5,14 euro. Una tassa considerata illegale dal Codacons, che sta promuovendo una class action per abolirla. 4 18 Marzo 2011 VODAFONE TELECOM WIND GRUPPO 3 Per fatturato è la più grande Malgrado tutto resta ai vertici Il proprietario un big egiziano Nata in Italia oggi è cinese L’operatore italiano di telefonia mobile con il maggior numero di clienti è, in realtà, parte di una multinazionale con sede a Newbury, nel Regno Unito. Vodafone Italia è una controllata del più grande gestore telefonico al mondo per fatturato, presente in tutti i continenti, per un totale di 253 milioni di clienti. Opera in 16 paesi con il proprio marchio e ha partecipazioni in 25 nazioni. In Italia, la sua base è a Ivrea, dove sorgeva la Omnitel Pronto Italia (in origine di proprietà della Olivetti), acquisita da Vodafone nel 2001. Amministratore delegato dal 2008 è Paolo Bertoluzzo (nella foto). La copertura di rete, per quanto riguarda i servizi Gsm, è arrivata al 98 per cento del territorio nazionale, mentre la banda larga copre il 40 per cento. Primo operatore di telefonia mobile ad apparire sul mercato italiano (con il sistema analogico Tacs nel 1994), in Italia Telecom è stata un’azienda pioniera del settore. A quella che una volta era l’azienda pubblica delle telecomunicazioni, infatti, si deve l’introduzione del profilo ricaricabile del 1996 (Timmy) e dei servizi Mms nel 2002. Nonostante le vicissitudini societarie (il ramo della telefonia mobile fu prima scorporato e poi rifuso con il resto dell’azienda) e gli scandali (quello delle intercettazioni illegali nel 2005 e quello Telecom Sparkle del 2010), che dopo vari avvicendamenti hanno portato al vertice Franco Bernabè, attuale amministratore delegato (nella foto), Telecom continua ad avere una fetta di mercato di poco inferiore a Vodafone. Nel mercato della telefonia fissa il 2001 viene ricordato come l’anno che segna la fine del monopolio di Telecom. Sfruttando la liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, un’azienda italiana, nata appena 4 anni prima, entra in competizione con Telecom. L’azienda è la Wind e l’azionista di maggioranza era Enel. Passano altri 4 anni e la società smette di essere italiana. Nel 2005, infatti, Wind viene acquistata dal magnate egiziano Naguib Sawiris (nella foto) che ha l’ambizione di trasformarla in un polo centrale delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. Per questo motivo, Sawiris sta ultimando una fusione con la compagnia russa VimpelCom, che darà vita al sesto maggiore operatore di telefonia mobile al mondo per numero di clienti. Il gruppo 3 è il più grande gruppo di telefonia mobile al mondo per numero di clienti Umts (la tecnologia di telefonia mobile di terza generazione, successiva al Gsm). Creata nel 1999 da Franco Bernabè e Renato Soru , ha ottenuto nel 2000 la licenza Umts. Già nell’agosto dello stesso anno è stata acquisita dalla multinazionale cinese Hutchison Whampoa, che attualmente detiene l’88,2 per cento delle quote. Fin dalla sua nascita 3 Italia, che oggi ha come ad Vincenzo Novari (nella foto), si è distinta per tariffe e promozioni che hanno stravolto il mercato italiano. Su tutte, l’offerta di cellulari a prezzi scontati, applicando su di essi l’Usim lock e l’operator lock, due blocchi che l’operatore impone per assicurarsi la fedeltà del cliente per almeno 9 mesi. La risposta di Federbiomedica alle accuse di Federfarma. A colloquio con il coordinatore Busà “Non toccate le parafarmacie, sono utili” Giacomo Perra C’è chi l’ha ribattezzata la “guerra dei camici bianchi”, farmacisti contro parafarmacisti. Ad aprire le ostilità le dichiarazioni di Annarosa Racca, presidente di Federfarma, l’organizzazione delle farmacie italiane: «Le parafarmacie non servono, sono proprietà di grandi catene e qualsiasi cittadino può diventarne proprietario. È semplicemente business». Uno a zero e palla al centro. La risposta dei parafarmacisti non si è fatta attendere: «Se non fosse una cosa seria verrebbe da ridere. È probabile che per la dott.sa Racca gli sconti di cui hanno goduto i cittadini italiani in questi quattro anni, grazie alla presenza delle parafarmacie, sono insignificanti (ol- tre 500 milioni di euro/anno)», si legge nel sito dell’Anpi, l’Associazione nazionale delle parafarmacie italiane. Il contenzioso, però, nasce nel 2006 quando con le liberalizzazioni della “legge Bersani” si introduce l’istituto della parafarmacia. Ai nuovi punti vendita è concesso di dispensare farmaci senza l’obbligo di presentare la ricetta medica, (un mercato che si aggira intorno all’8 percento di quello complessivo, circa 2 miliardi di euro annuali), e i farmaci da banco, i cosidetti OTC. Di questo scontro abbiamo parlato con Lino Busà, coordinatore di Federbiomedica, la Federazione delle imprese e dei professionisti del comparto bio-medicale in cui è compresa anche l’Anpi. Busà, sembra che non siate molto simpatici a Federfarma … «La loro è un’antipatia molto concreta. Con l’apertura delle parafarmacie, infatti, anche se in maniera limitata, è caduto il monopolio dei titolari di farmacia. Un potere ereditario, un vero business, anche in barba ai diritti dei cittadini, che si è riuscito a contenere in qualche modo». Annarosa Racca, però, vi accusa di rispondere esclusivamente a logiche commerciali. «Guardi, se confrontiamo i fatturati, a guadagnare di più sono le farmacie. Comunque, il vero problema è che la stragrande maggioranza dei 70 mila iscritti all’Ordine dei Farmacisti in farmacia finisce a fare il commesso a poco più di mille euro al mese. Le parafarmacie, invece, hanno dato lavoro a 5 mila laureati e hanno contribuito anche a far abbassare i prezzi dei medicinali dell’8,6 percento. Se poi parliamo di logiche commerciali, ricordo che i titolari di parafarmacia, spesso, sono giovani farmacisti dipendenti, che stufi di fare i commessi a vita, hanno deciso di dare uno sbocco professionale adeguato alla qualità dei loro studi». L’Antitrust, tra l’altro, recentemente, ha definito “un grave limite alla concorrenza” la cosidetta “pianta organica” del 1991, la norma che prevede l’apertura di una farmacia ogni 5 mila abitanti nei comuni con più di 12.500 residenti e di una ogni 4 mila negli altri. «La “pianta organica” è antiquata. È una legge che non tiene assolutamente conto dei cambiamenti demografici intercorsi nella popolazione italiana». Quale può essere allora il punto d’incontro tra i vostri interessi e quelli dei farmacisti? «Prima di tutto, c’è da dire che la figura del parafarmacista non esiste. Esistono solo i farmacisti e le parafarmacie, dunque attività e interessi sono complementari. La parafarmacia, in più, svolge un servizio di vicinato, produce, cioè, informazioni su farmaci di nicchia. Ma non toglie nulla alla farmacia, anche economicamente». Reporter nuovo Mondo Minacciati, braccati, quasi a rischio estinzione oltre dieci milioni di cristiani in Egitto Vita difficile per la minoranza copta A gennaio la strage di Alessandria. Le radici di una fede nata nel I secolo Giacomo Perra Si sentono minacciati, braccati, quasi a rischio d’estinzione. E d’altra parte è difficile darli torto. L’ultima provocazione risale solo a due mesi fa e anche questa volta è stata un bagno di sangue. È il primo gennaio del 2011 quando un’ esplosione di un kamikaze musulmano davanti alla Chiesa dei Santi, nel quartiere di Sidi Bishr ad Alessandria d’Egitto causa la morte di 24 fedeli. Poi, la settimana scorsa, altre otto vittime. A ucciderle le violenze di un gruppo di islamici che cercavano di reprimere il loro diritto alla libera professione di fede. Un esercizio che per tutti i copti, in Egitto, assume piuttosto i contorni di un pericolo mortale. Nel paese dei Faraoni, infatti, solo negli ultimi trent’anni ne sono stati assassinati circa 1.800. Un manipolo di martiri per Shenouda III, patriarca di Alessandria dal 1971 e attuale papa (il centodiciasettesimo nella storia) dei copti ortodossi che, nonostante siano dieci milioni, in Egitto costituiscono di fatto una minoranza. Più prosaicamente, quindi, il drammatico risultato di una storia di millenaria subalternità subita all’ombra della cultura e della reli- PERSEGUITATI L’attentato di Alessandria d’Egitto. A fianco: il capo della Chiesa copta ortodossa Shenouda III gione islamica. Fin da quando, nel I secolo, la Chiesa copta, erede dell’illustre tradizione del monachesimo nordafricano, viene fondata in Egitto. La Chiesa ha origine dalla predicazione di San Marco, discepolo di Gesù Cristo, che scrive il suo Vangelo nel I secolo e porta il cristianesimo nel paese africano. Il nome copto deriva dalla parola greca aigyptios (egizio), trasformata dapprima in gipt e poi in qibt. Più precisamente, il termine qualifica nel- lo stesso tempo una lingua, un popolo (Egitto), un culto e una Chiesa. Oggi in Egitto i copti, che si sono sempre considerati gli eredi legittimi delle prime comunità cristiane sorte nel paese, si riconoscono in tre chiese: la maggioranza dei fedeli fa parte della più anziana Chiesa Ortodossa Tawahedo, gli altri sono devoti alla più recente Chiesa cattolica e alle chiese protestanti. Esistono, però, chiese copte anche in Eritrea e in Etiopia. Da quel I secolo, così, la convivenza col mondo musulmano per i copti è stata sempre molto problematica, con picchi oscillanti tra la malcelata condiscendenza e la più palese intolleranza, sfociata spesso nell’odio delle violenze e dei diritti negati. Come nel 1980, quando il presidente Sadat dispone per legge, a difesa della fede musulmana, la pena di morte in caso di apostasia. Inevitabilmente, per contrasto, ai cristiani non è rimasto altro che sposare la causa del nazionalismo; nel biennio 1881-82, così, dopo le riforme del pascià Mehmet Alì che restituiscono il possesso dei diritti civili a tutta la comunità, sostengono le rivolte scioviniste di Arabi Pascià, mentre all’indomani del primo conflitto mondiale appoggiano il Wafd, il partito che porta l’Egitto all’indipendenza. In questo contesto “protezionistico”, si giustificano la sfiducia a ogni ingerenza occidentale e la freddezza nei rapporti col Vaticano. Ma non si tratta di un contrasto esclusivamente religioso; in ballo c’è anche la lotta per la scalata alla società. La sfida ha visto i copti sempre perdenti, soprattutto in politica; per tutti gli anni Novanta, ad esempio, in Egitto i deputati cristiani erano 7 su 454. Numeri che risultano ancora più preoccupanti nel caos degli sconvolgimenti che stanno mutando il volto del mondo arabo. I copti temono una deriva islamista che spazzerebbe ogni residua speranza di poter incidere nella società, costringendoli ancora alla marginalità. Diversamente, una svolta pluralista potrebbe influire positivamente sul loro stato di “stranieri” in casa. Di certo, niente potrà cambiare il rapporto con l’Islam, un rapporto da eterni duellanti. Il caffè colombiano è minacciato dal clima e i prezzi vanno alle stelle Meno Arabica ma la tazzina è salva Stefano Silvestre “Il caffè di Cauca è il numero uno!”. E’ la scritta che accoglie i visitatori in alcune cittadine di Cauca, nella regione sud occidentale della Colombia. Ma le preziose pepite di caffè e la loro commercializzazione sono in pericolo. La Colombia, terzo produttore al mondo della materia prima della bevanda più amata, sta infatti facendo i conti con il riscaldamento globale, che sarebbe la causa del recente drastico abbassamento della produzione. Un calo dalle proporzioni ancora poco chiare, anche se una inchiesta del New York Times ha rivelato come per alcune famiglie di coltivatori colombiane il raccolto sia calato del 70 per cento negli ultimi cinque anni. Secondo Peter Baker, esperto di caffè del Cabi, un’associazione inglese ambientalista, l’aumento delle piogge e l’innalzamento delle temperature, che ha raggiunto in alcune Reporter nuovo zone due gradi in più negli ultimi trent’anni, sta mettendo a serio rischio le coltivazioni di Arabica, la qualità di caffè originaria dello Yemen, che necessita di sette anni di maturazione, temperature miti e almeno 1 metro e mezzo di acqua all’anno. Alle attuali temperature, invece, le infiore- nord-orientale della regione, soprannominata Eje Cafetero, “l’asse del caffè”, si produce la varietà più apprezzata al mondo, per un business da oltre 9 milioni di sacchi di prodotto – misura standard 59 kg – che oggi vengono venduti sul mercato a 6 dollari al kg. Una quantità che in realtà non cor- A Wall Street l’Arabica ha raggiunto i livelli più alti da 34 anni, i prezzi sono aumentati anche del 25 per cento scenze della pianta finiscono per seccarsi troppo velocemente, con il rischio di rimanere esposte a devastanti funghi. Problemi che non mettono però a rischio le esportazioni di Arabica, vista anche la grande capacità produttiva di Brasile e Vietnam, primi due paesi al mondo per produzione di caffè. L’allarme per i chicchi colombiani è stato lanciato proprio da Cauca. Nella zona risponde alle aspettative del paese sudamericano, che contava di passare dai 12 milioni del 2006 a 17 nei prossimi tre anni. Produzione che diminuisce, prezzi che salgono alle stelle. A Wall Street, il future sull’Arabica ha raggiunto quotazioni che non si vedevano da 34 anni, nonostante il piccolo passo in avanti fatto registrare a inizio anno nella produzione colombiana, precipi- tata nel 2010 di quasi il 30 per cento, a fronte di un aumento dei prezzi dei maggiori distributori di oltre il 25 per cento. Il brusco aumento dei prezzi si è già fatto sentire in America e in Europa, dove i distributori, come Maxwell, Yuban e Folgers hanno già aumentato i prezzi di un quarto rispetto al 2010. La coltivazione del caffè rappresenta per la Colombia la prima fonte di sussistenza agricola, con il prodotto che viene esportato ai più grandi mercati internazionali, Stati Uniti, Germania e Italia in testa. L’Arabica è inoltre la qualità utilizzata dai più grandi brand internazionali, come la catena Starbucks, Green Mountain e Nespresso. Le aree di produzione principali si trovano a ridosso della catena andina, dove il clima è favorevole alla crescita dei chicchi d’oro. Medellin, Armenia, Manizales. Questi i nomi dei principali prodotti, così chiamati dal nome della città in cui vengono commercia- SIMBOLO Juan Valdez dell’associazione colombiana Federcafè lizzati. Ma anche Bucaramanga e Bogotà, quest’ultimo considerato tra i migliori caffè della Colombia. A promuovere la bontà del caffè colombiano, ci pensa la Federcafè, un’associazione no-profit fondata nel 1927 e che oggi rappresenta mezzo milione di coltivatori. Il suo simbolo è uno dei primi esempi di marketing moderno, caratterizzato dal marchio ormai riconoscibile in tutto il mondo, in cui un fittizio coltivatore dai lunghi baffi - Juan Valdez, il “Rossi” colombiano - tra- sporta i più famosi chicchi colombiani accompagnato dal fido mulo Conchita. Qualità ma non quantità. Sono proprio le scorte, visti gli ultimi magri raccolti, a preoccupare i cafeteros colombiani, come denunciato dall’Ico, l’organizzazione internazionale dei produttori di caffè: “A livelli di prezzo così remunerativi ci si può aspettare un’ottima performance delle esportazioni, ma la prospettiva di una ricostituzione delle scorte nei paesi produttori rimane debole”. 18 Marzo 2011 5 Cronaca Viaggio nei magazzini Zara di via del Corso dove era la storica Rinascente. Saldi tutto l’anno in un regime di anarchia. Poche le boutique rimaste COLORI L’interno del megastore Zara in via del Corso. Pantaloni, magliette e borse. Ma anche scarpe e accessori di ogni tipo a partire da 9,90 euro Vestirsi senza farsi spogliare Con cento euro è possibile acquistare il capo più costoso Irene Pugliese Il primo manichino è vestito come un marinaio: camicetta a righe bianche e rosse e pantaloni a pinochietto. Accanto il secondo indossa una gonna a vita alta azzura, come vuole la moda del momento. E poi giacche, magliette, borse, tailleur da uomo e da donna, vestitini per bambini. Scarpe di tutti i tipi. Abiti sportivi, casual, ma anche eleganti. Tutti i colori più accesi in una location suggestiva: un mix di architettura antica e moderna in un palzzo di fine ‘800 con grandissime finestre luminose. E’ tutto giocato sulla luce e sul bianco. Ed ecco che si entra nel paradiso di chi vuole spendere poco per vestirsi. Solo il fatto che sia un martedì mattina permette un tranquillo giro nel megastore di Zara di via del Corso. Durante il weekend questo enorme spazio, che ha da poco preso il posto dei grandi magazzini La Rinascente nella loro sede storica di palazzo Boc- È un proliferare in tutta Italia di catene di abbigliamento Pullulano Ovs Qui Madonna Oviesse è una catena di negozi di abbigliamento low cost appartenente al Gruppo Coin. Il nome sta per “Organizzazione Vendite Speciali”. Qui un maglietta la paghi otto euro e una giacca non supera i cinquanta. Il primo negozio Oviesse nasce a Padova nel 1972 e grazie a una forte crescita negli anni successivi, arriva in tutte le province italiane. Nel 1998, l’acquisizione dei 167 magazzini del ramo di azienda non alimentare della Standa e nel 2004 si raggiungono i 250 negozi, diventando Leader nel segmento della vendita di abbigliamento. A Roma Oviesse è ovunque: da via Candia a corso Trieste, da via Collatina a via di Torrevecchia. E il proliferare dei suoi punti vendita nella Capitale non accenna a fermarsi. coni, viene preso d’assalto. Quello che colpisce subito sono i colori. Sulle etichette i paesi da cui provengono i capi: Pakistan, Indonesia, Marocco, Cambogia, che giustificano prezzi così bassi. Non c’è niente che superi i cento euro. Giustificazione anche delle file chilometriche Hennes & Mauritz AB, più famosa come H&M, è un’azienda di abbigliamento svedese. Fondata nel 1947 da Erling Persson, inizialmente vendeva solo abiti femminili e si chiamava Hennes, in italiano “Lei”. Nel 1968 Persson acquisì un negozio di Stoccolma, chiamato Mauritz Widforss, che vendeva vestiti da uomo, rinominò l’azienda Hennes & Mauritz e aprì nuovi negozi. Oggi ha oltre 1600 punti vendita in 38 paesi, più di 50.000 dipendenti ed è una delle marche più famose al mondo, grazie soprattutto ai suoi bassissimi prezzi. Dal 2006, poi, il sodalizio con la pop star Madonna: dopo aver disegnato i costumi per un suo tour, H&M le ha affidato la realizzazione della linea “M by Madonna”. di fronte ai camerini. Qui è come se ci fossero sempre i saldi e il regime che vige è l’anarchia. Non ci sono commesse ansiose che scalpitano per aiutare la cliente indecisa, trasformandosi in un incubo per ogni donna. E’ un fai da te. Sono queste le grandi differenze con l’inquilina precedente, La Rinascente, che si è spostata di qualche metro, nella vicina Galleria Colonna. Su via del Corso sono diventati tre gli store di Zara, ma su tutto il lungo rettilineo che congiunge piazza del Popolo con piazza Venezia, il luogo più celebrato dello shopping ro- mano, negozi dai prezzi bassi stanno spuntando come funghi: H&M, Tezenis, Calzedonia, Habana, Prima Donna. E’ il regno del low cost. E le piccole boutique di una volta sono rimaste poche. Roberto Anticoli è il proprietario di un negozio di abbigliamento vecchio stile a cui ha dato il suo nome. «La crisi economica più il proliferare di questi grandi negozi sicuramente hanno contribuito a un calo delle vendite. In generale non è un bel periodo», ci racconta Roberto che porta avanti questa attività dagli anni ’70. Dello stesso parere il proprietario di Vaturi, qualche civico più in là. Ci sono grandi firme nelle vetrine del suo negozio di abbigliamento maschile, i prezzi sono alti. Una giacca qui la paghi sui 300 euro, da Zara meno di 50. Lui è seduto dietro alla cassa, legge il giornale. Entrano due turisti. Non vogliono comprare niente, chiedono solo come si arriva a piazza Venezia. La paradossale condizione dei minori afghani all’ultimo binario dell’Ostiense Aspettando un treno che non arriva mai Paolo Riva Hamasa ha 17 anni e ci ha messo otto mesi per arrivare in Italia dall’Afghanistan. “Alone” (solo), dice, ripercorrendo le varie tappe del suo lungo viaggio: Iran, Turchia, Grecia, Bari e, infine, Roma. 2000 euro il prezzo del “biglietto”. E ora, dopo essersi fatto più di cinquemila chilometri a piedi, in bus, su navi e dentro container, si ritrova sul binario 15. È qui, sull’ultima, inutilizzata banchina della stazione Ostiense, che la capitale “ospita” gli adolescenti afghani in fuga 6 18 Marzo 2011 dalla guerra. É qui che, in attesa di ripartire, Hamasa passa le sue giornate, dormendo all’addiaccio, mangiando alle mense e rimanendo lontano dalla polizia perchè non vuole farsi identificare. Per la maggior parte dei ragazzi dell’Ostiense, infatti, il nostro paese è solamente una tappa delle loro moderne odissee. “Puntano al nord Europa: Germania, Norvegia, Gran Bretagna -spiega Nadio La Gamba, responsabile dei Centri Pronto Intervento Minori della Caritas- e aspettano di arrivarci per fare richiesta di asilo poli- tico. Considerano quei paesi più accoglienti e ricchi di opportunità del nostro”. Finché restano in Italia non possono essere aiutati secondo le procedure classiche che tutelano il diritto d’asilo. Sono “viaggiatori invisibili”, come li ha definiti in un suo dossier l’Onlus L’Albero della Vita, e il fatto che siano minori spesso li ostacola anziché tutelarli maggiormente. “È un’emergenza spiega l’operatrice Andreina Rossitto- perchè i ragazzi sono esposti anche a rischi di abusi e violenze. Spesso ce ne sono anche di giovanissimi, di dodici, tredici anni”. E le dimensioni del fenomeno, secondo le stime della Onlus che da mesi pattuglia la stazione con il suo camper, sarebbero preoccupanti. I ragazzi mediamente restano a Roma tra due settimane e un mese e, nel corso di un anno, i minori afghani che transitano per la città eterna sarebbero oltre mille. Mille ragazzini, a volte bambini, lasciati al binario 15 ad aspettare un treno che non passa o un biglietto per il quale non hanno i soldi. “Voglio andare in Germania, ad Amburgo, dove ho dei parenti -spiega Hamasa-, ma ora non ho nulla. Forse quando arriverà qualche altro afghano gli chiederò un prestito. Intanto me ne sto qui, a pensare. Tutto il giorno. Troppi problemi, troppi pensieri per la testa”. Nel frattempo, il Comune ha siglato ad inizio febbraio un nuovo accordo con ministero dell’Interno e prefettura. Secondo l’assessore alle politiche sociali Sveva Belviso, servirà per “dotare Roma di un nuovo welfare dei rifugiati”. Il governo ha stanziato 10 milioni di euro. Chissà se arriveranno anche al binario 15. LA RISPOSTA Ci uniamo per sopravvivere Come reagiscono i commercianti di fronte al profilerare di questi megastore in centro e dei grandi magazzini in periferia? Abbiamo sentito Adriano Angelini, presidente dell’Associazione Tridente Centro Storico che unisce residenti e esercenti del centro storico e che opera da circa vent’anni. «I problemi sono tanti: innanzitutto c’è la crisi economica, la gente inoltre viene poco in centro perché è difficile arrivarci e si lanciano di continuo messaggi a favore dei grandi centri commerciali aperti in periferia. Infine ci sono gli affitti altissimi che noi commercianti dobbiamo pagare qui in centro. In un locale medio tra i 50 e i 60 metri quadrati si viaggia a 6/7.000 euro al mese». Quali i possibili rimedi? «Per ora abbiamo fondato un immaginario centro commerciale naturale all’aperto di nome “Carpe Diem”, che attraversa via del Corso, partendo da piazza del Popolo fino a piazza Venezia ed è composto da tutti questi piccoli proprietari, uniti per far capire alla gente che in centro si può venire. Faremo delle iniziative per mostrare anche tutte le bellezze artistiche presenti nel centro di Roma. Così cerchiamo di combattere le grandi marche che hanno delle caratteristiche che noi non ci possiamo permettere. Fondamentalmente stiamo lavorando per riporatre la gente in centro». I. P. Reporter nuovo Costume & Società Quando la letteratura anticipa l’apocalisse. Da Giacomo Leopardi alla strada di Mc Carthy Scenari da day after giapponese In quelle pagine sono raccontati gli incubi di un disastro globale Tommaso Rodano “La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni cosa coperta da cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di scherno rivolta al giorno”. Questo scenario apocalittico è uno degli allucinati e inquietanti ritratti del mondo raccontato da La strada, romanzo di Cormac Mc Carthy, premio Pulitzer per la narrativa nel 2006. È la storia di un bambino e di suo padre, due tra i pochi reduci di un’umanità sterminata e riportata alla violenza ferina dello stato di natura da una catastrofe della quale non si fa menzione, ma di cui si descrivono gli effetti devastanti: “Su questa strada non c’è benedetta anima viva. Sono scomparsi tutti tranne me. E si sono portati via il mondo”. I paesaggi della terra morente di Mc Carthy somigliano in maniera impressionante ad alcune immagini del Giappone devastato dallo tsunami e sull’orlo dell’apocalisse atomica: in questi giorni di suggestioni drammatiche, le pagine de La strada paiono trasformarsi in una macabra profezia. L’opera di Mc Carthy è uno dei casi più recenti e brillanti in cui la lette- INCUBO Una scena di La strada, il film tratto dal romanzo omonimo di Cormac Mc Carthy. I paesaggi apocalittici somigliano in maniera impressionante ad alcune immagini del Giappone del dopo tsunami ratura si presta al racconto di un mondo a un passo dall’estinzione. Si tratta della forma più radicale di distopia: un’utopia capovolta, la narrazione di una società completamente indesiderabile, prossima al tracollo. Le Scritture della catastrofe sono state studiate e raccontate nel libro di Francesco Muzzioli, docente di Teorie della letteratura alla Sapienza di Roma, pubblicato nel 2007. Il suo saggio prova a indagare il motivo del fascino profondo che gli scenari distopici e apo- calittici esercitano su scrittori e lettori. “Vi è forse un masochismo di massa che spinge a bearsi di quanto gode cattiva reputazione?”, si chiede Muzzioli: “La ragione è diversa: è semplicemente che quel mondo dove il clima è pessimo e si rischia la morte a ogni passo non è mica poi così lontano”, non è poi così dissimile dal nostro “mondo ‘strappato’ tra superpotenza tecnologica e terrorismo kamikaze, tra la fame e la ‘realtà virtuale’, tra multinazionali rapaci e disperati migranti, tra capi fanatici e leaders telegenici”. Altri grandi autori, prima di Mc Carthy hanno raccontato questo incubo. “Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta” annuncia un brano delle Operette morali (1827) di Giacomo Leopardi, decretando il fallimento della pretesa di poter dominare la natura. In The Last Man di Mary Shelley, uno dei romanzi meno conosciuti dell’autrice di Frankenstein, è un’epidemia di pe- ste a sancire l’estinzione della razza umana. Uno scenario simile a quello raccontato da Jack London nel 1915: Il morbo scarlatto descrive una piaga inarrestabile che conduce i pochi reduci alla regressione a uno stato di selvatichezza primordiale: proprio come ne La strada il mondo è battuto da bande di sciacalli e di razziatori armati. Nel Novecento le profezie degli scrittori sull’estinzione si fanno più frequenti. Muzzioli cita i casi di Morte dell’erba di John Cristopher, del 1956, Barbagrigia di Brian Aldiss, del 1964 e I figli degli uomini di P.D. James, del 1992. Ma una delle più famose e suggestive profezie della catastrofe è inserita proprio nelle pagine conclusive di una delle opere più studiate della letteratura italiana, che con il filone della narrativa distopica ha poco o nulla a che vedere. Con questa riflessione si chiude La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile […]. Ed un altro uomo […] ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo”. VINCENTI A sinistra un busto di Cicerone. Nel De Oratore confessa la sua balbuzie. A destra una scena del film The King Speech in cui Colin Firth interpreta il re d’Inghilterra Giorgio VI che sconfisse il suo problema Stefano Petrelli Da Cicerone a Paolo Bonolis, passando per George Washinghton, Theodor Roosevelt e Winston Churchill. Oltre a Giorgio VI – il re la cui vicenda è stata raccontata dal film The King Speech, che ha trionfato agli Oscar – la storia riporta numerosi esempi di personaggi pubblici che hanno vinto, o comunque sono riusciti dominare, la balbuzie. E se Manzoni rinunciò a un seggio nel neonato parlamento italiano a causa di questo problema, c’è chi, recitando o cantando, riesce a canalizzare le proprie emozione e a farvi fronte. È il caso di Filippo Timi l’attore che ha interpretato Mussolini nel film Vincere di Bellocchio – che nella vita di tutti i giorni incespica nel parlare. Lo stesso vale per Vinicio Marchioni, “il Freddo” della serie tv Romanzo criminale. Probabilmente lo stesso Ci- Reporter nuovo La balbuzie non è per sempre. Parla l’esperto: dopo Giorgio VI altri esempi E Cicerone vinse il suo difetto cerone apparteneva a questa seconda categoria, visto che nel De Oratore confida di essere balbuziente. L’importanza del suo ruolo di oratore, però, deve aver rappresentato lo stimolo giusto che gli permetteva di non tentennare quando parlava in pubblico. Una cura definitiva per la balbuzie non è ancora stata trovata. E poiché non si conoscono del tutto le cause che scatenano questo problema, che affligge cinque bambini tra i 2 e i 7 anni su cento, esistono diversi approcci terapeutici. Molti sono basati su uno studio scientifico che indica una causa organica e neurologica e, per questo motivo, intervengono esclusivamente sulla correzione del sintomo fonetico; altri professionisti, invece, hanno individuato una causa di natura psicologica e lavorano sulla riduzione dell’ansia. Esistono corsi intensivi della durata di 10 giorni sulla rieducazione ortofonica e altri, organizzati da ex bal- buzienti, che hanno trovato un metodo personale e lo insegnano ad altri balbuzienti. Uno di questi è il professor Enzo Galazzo, presidente dell’associazione “Vivere Senza Balbuzie: il piacere di non tacere onlus”. Galazzo è un ex balbuziente che oggi organizza corsi di 13 giorni, in diverse città d’Italia, per aiutare le persone che soffrono di questo questo disagio. A suo parere non si è ancora arrivati a una soluzione definitiva per la balbuzie, perché si tratta di un disagio com- plesso che coinvolge sia la sfera fonetica sia quella relazionale. «Dipende molto anche dalla personalità del balbuziente – dice Galazzo – Innanzitutto va detto che 4 bambini affetti da balbuzie su 5 guariscono spontaneamente. Se a balbettare è un soggetto con una forte personalità, ci sono maggiori possibilità che impari a comunicare correttamente. Per chi invece sviluppa balbuzie cronica, l’unica soluzione è riuscire a gestire lo stress e l’ansia, che non sono una causa del problema, ma lo acuiscono. Solo canalizzando le emozioni è possibile diminuire la balbuzie fino a renderla impercettibile». Ma come bisogna comportarsi con un bambino che sviluppa la balbuzie? «Nel caso di un insegnante che abbia un allievo balbuziente, è importante che non gli metta fretta, magari scambiando il tentennamento per insicurezza o impreparazione. Sembra banale ma a volte succede. Se invece si è genitori di un bambino che balbetta, non aiuta dirgli di calmarsi o di parlare lentamente. I bambini imparano dall’esempio, per cui è il genitore stesso che deve parlare più lentamente per indurre il bambino a fare lo stesso». 18 Marzo 2011 7 Costume & Società Il judo, il calcio, il rugby. Attività tipicamente maschili dove però vincono anche le ragazze Dove anche la donna è un “macho” Da Suzanne Lenglen a Giulia Quintavalle, la storia dello sport in rosa Irene Pugliese Pechino, 11 agosto 2008: Giulia Quintavalle, una venticinquenne di Livorno, è sul tatami olimpionico. A qualche minuto dalla fine del suo incontro con l’olandese Deborah Gravenstijn, prende un colpo al gomito. Piange dal dolore, ma non si ferma. E così entra nella storia, conquistando il primo oro dell’Italia nel judo femminile. Sport che nell’immaginario collettivo sono praticati dagli uomini, in cui invece le donne non solo sono brave, ma eccellono addirittura. Come nel calcio. Tutti conoscono Maradona, tutti parlano di Ronaldo o di Shevchenko con competenza assoluta e chiunque si sentirebbe in imbarazzo nel non sapere chi è Pelè. Molti però ignorano chi sia Carolina Morace, anche se nel 1995 è stata eletta e premiata miglior calciatrice del mondo. Destino del calcio al femminile, visto ancora come una curiosità o come un divertimento poco serio. Eppure, come nel caso di Carolina, ci sono fior di atlete che han- GRINTA Giulia Quintavalle, medaglia d’oro a Pechino 2008 nel judo no scelto questa strada così poco popolare. E lei ci è riuscita davvero, non senza difficoltà. Prima donna a diventare allenatrice di una squadra femminile e poi addirittura di una maschile, la Viterbese di Serie C1. Una breve avventura in realtà visto che dopo una vittoria ottenuta alla prima giornata di campionato, una sonora sconfitta 5-1 durante il secondo impegno (unita ad alcune discussioni con la società laziale e alle pressioni della stampa) la convinse alle dimissioni. Una storia di difficili conquiste, quella delle donne e lo sport. La prima donna ad allenarsi come un uomo fu Suzanne Lenglen. Quando il tennis per le dame era ancora un gioco da affrontare con le mani ricoperte di guanti bianchi e impacciate da lunghe gonne, con grande scandalo Suzanne entrò nei campi da gioco più esclusivi indossando un completo composto da una gonna corta a pieghe senza sottovesti, delle calze di seta bianca e una fascia colorata intorno alla testa. E da lì fu un crescendo, fino al 1998 quando il Co- mitato olimpico internazionale dichiarò l’apertura di tutte le nuove discipline olimpiche indistintamente sia alle donne che agli uomini. Con vere rivoluzioni. Quale sport appare più maschile del rugby, definito uno sport di contatto perché il confronto fisico tra i giocatori è una costante del gioco? Eppure, mentre la nazionale maschile annunciava amaramente la sconfitta contro il Galles, c’era un’Italia del rugby che nel suo “Sei Nazioni” vinceva a testa alta: quella tutta in rosa. Il 6 marzo scorso le ragazze guidate da capitan Paola Zangitolami hanno piegato proprio le gallesi. Passione, voglia di vincere, resistenza, dunque, sono elementi che uniscono gli uomini e le donne nello sport. Una differenza, però, c’è. Ed è la diversa retribuzione. Sicuramente una Carolina Morace, anche nel momento più alto della sua carriera di allenatrice, si è solo sognata gli stipendi d’oro di un Mourinho o un di Leonardo. Perché i meccanismi ‘di mercato’ sono ancora maschilisti. Nonostante una legge che le punisce, non si arresta il fenomeno delle catene Occhio alla bufala di Sant’Antonio Su Internet e-mail portaiella e richieste di aiuti Dario Parascandolo La rete è una risorsa inesauribile di informazioni e di testimonianze di prima mano. Ma in questi giorni di caos dopo il terremoto giapponese si propagano sul web vere bufale, veicolate da alcune catene di Sant’Antonio che si diffondono in modo virale. Perverso scopo di queste mail è scatenare ulteriore panico nella popolazione. Richieste di beni di prima utilità o il sospetto dell’esistenza di una superpotenza dotata di armi capaci di generare terremoti hanno invaso la posta elettronica di navigatori di mezzo mondo. Immediata la replica delle autorità giapponesi, che hanno raccomandato i cittadini di prestare fede solo a messaggi provenienti da canali ufficiali. Ma le bufale del web propagate da pc a pc, spesso accompagnate da richieste di denaro, affondano le radici alla fine dell’Ottocento, quando un istituto religioso metodista di Chicago inviava lettere ai fedeli chiedendo offerte economiche in cambio di un 8 18 Marzo 2011 voto a una preghiera a Sant’Antonio. Inoltre, pena l’inefficacia della benedizione, il destinatario doveva inoltrare la missiva ad altre persone. Il sistema ha conosciuto un successo esponenziale con la nascita della posta elettronica. Le catene sono oggi il mezzo vita”. E intanto l’indebito arricchimento si realizza, anche perché è sufficiente che una minuscola percentuale di ingenui la inoltri ad altre centinaia di migliaia di utenti. Diffusissime, inoltre, le minacce di sfortuna, morte o malocchio, che fanno leva sulla pro- In crescita il fenomeno dello spam, alimentato dalla leggerezza di alcuni utenti che lasciano in chiaro firma e indirizzo più veloce di diffusione di notizie “non ufficiali”, la cui veridicità è difficile da controllare. La truffa, però, è appena dietro l’angolo. A moltissimi è capitato almeno una volta di ricevere una mail da persone sconosciute che chiedono offerte da destinare a una famiglia che non ha soldi per curare la figlia. È oggettivamente impossibile per l’utente medio verificare la buona fede dell’autore, ma tanti destinatari abboccano proprio perché spesso si fa leva sul senso di colpa del ricevente: “Il tuo euro potrebbe salvarle la pensione umana alla scaramanzia: un unico clic per esorcizzare il male e le mail fasulle si moltiplicano. In alcuni casi, le catene che chiedono di inoltrare il messaggio sono utilizzate per alimentare il fenomeno illegale dello spam. Avviando una catena di questo tipo, lo spammer può ricevere di ritorno, senza fatica, migliaia di messaggi, dai quali potrà estrarre un numero enorme di indirizzi mail validi. Questi dati saranno poi riutilizzati per l’invio di messaggi pubblicitari o truffaldini. Il fenomeno si aggrava grazie alla leggerezza di molti utenti, che inoltrano la missiva lasciando in chiaro la propria firma l’indirizzo. Grazie ad appositi software, il pirata della rete può così risalire all’identità della vittima, ricostruire la propria cerchia di amici e organizzare vere e proprie truffe utilizzando i metodi dell’ingegneria sociale. Nonostante i proverbiali ritardi legislativi in merito alla rete, nel 2005 le catene di Sant’Antonio sono state definitivamente dichiarate illegali dalla commissione Attività Produttive alla Camera. I truffatori rischiano fino a un anno di carcere ed è sufficiente la segnalazione all’Autorità, senza querela di parte, direttamente sul sito della Polizia di Stato. Il testo della legge è disponibile in pdf sulla pagina web della Camera: “Sono vietate le catene di Sant’Antonio che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all’infinito previo il pagamento di un corrispettivo”. SANT’ANTONIO In suo nome la prima catena a fine Ottocento Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo