Eccoipulpiti delCavaliere Comespendere senza

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Eccoipulpiti delCavaliere Comespendere senza
Anno IV - Numero 21
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
18 Marzo 2011
nuovo
L’analisi
Ecco i pulpiti
del Cavaliere
Moda
Come spendere
senza farsi spogliare
Rifugiati
I minori afghani
dell’Ostiense
Bufale
Dietro le catene
di Sant’Antonio
CELLULARI-MANIA
TRA SUPERSPOT E GURU
UN TELEFONINO E MEZZO PER OGNI ITALIANO. VODAFONE BATTE TUTTI (GRAZIE A TOTTI)
Primo Piano
Con Barroso l’inaugurazione dell’anno accademico 2011. Il rettore Egidi: centrati i target
Tutte le frecce dell’arco Luiss
Multiculturalità, ricerca e formazione, questi i punti di forza dell’ateneo
Stefano Silvestre
Internazionalizzazione attraverso i dottorati di ricerca,
forte mobilità degli studenti
e una presenza di allievi stranieri in grande crescita, che
raggiunge in alcuni master
anche l’80-90%. Secondo il
rettore della Luiss Massimo
Egidi, sono queste le più acuminate frecce dell’arco dell’ateneo romano.
Il rettore ha aperto l’inaugurazione del trentaquattresimo anno accademico dell’ateneo romano alla presenza del presidente della Luiss
e di Confindustria Emma
Marcegaglia e del numero
uno della Commissione Europea Josè Manuel Barroso.
Nell’occasione, in cui Barroso è stato insignito di una laurea honoris causa in giurisprudenza, il rettore ha analizzato le sfide che le università italiane ed europee devono affrontare all’alba del secondo decennio del 2000.
La grande ascesa degli atenei
asiatici, Cina e India in testa,
la continua supremazia degli
Stati Uniti in ricerca e innovazione. Queste le sfide maggiori alle quali sono chiamate le università europee, che
hanno gradualmente perso
posizioni nel ranking mondiale – come ha notato Egidi
D’ONORE Il rettore Massimo Egidi consegna la laurea a Barroso. Al centro, Emma Marcegaglia
– fino a poter vantare nella
top 20 solo le due maggiori
università britanniche e una
svizzera.
Per vincere la sfida, secondo il rettore, servono decentramento, maggiore competizione, investimenti in qualità
e ripresa del ruolo trainante
delle università. Ma soprattutto
ricerca di soluzioni più attrattive, da raggiungere anche attraverso la creazione di centri
di studio e la collaborazione di
docenti stranieri per i quali al
momento l’Italia è “fuori mercato” se, come sottolineato
dal rettore, “servono 300 mila
dollari per ogni docente straniero”.
Poi è stata la volta del
presidente Barroso, che ha
preso la parola dopo la cerimonia in cui è stato insignito della prima laurea honoris
causa in giurisprudenza nella storia della Luiss. Un titolo conferito “per la capacità di
unire lo studio diretto ad
un’attenta sensibilità economica, con il costante obiettivo di favorire lo sviluppo e il
consolidamento dei valori
culturali”.
Un ospite d’eccezione, Barroso, che nella sua lectio magistralis – con esordio in un
ottimo italiano - ha messo in
risalto l’importanza di ricostruire la fiducia di investitori
e consumatori, ancora provati
dalla crisi finanziaria del
2008. Josè Barroso ha poi
auspicato un maggiore impegno in questo senso da
parte dell’Europa dei Ventisette, affermando che “l’Europa non è un circolo chiuso,
ma un esercizio di solidarietà” in cui “la dignità umana
è valore base”, in riferimento ai recenti avvenimenti in
Africa settentrionale. Il presidente della Commissione
Europea è poi passato all’attacco e ha affermato che in un
periodo di crisi per gli investitori, anche nel campo dell’innovazione, “non è intelligente tagliare i fondi per la
cultura”.
A chiudere l’inaugurazione, il discorso di Emma Marcegaglia. Il presidente di Confindustria ha messo l’accento
sulla necessità di una maggiore apertura del mercato europeo, che sarebbe “un booster” per la crescita, con le riforme a costo zero al centro
dell’attenzione”. Marcegaglia
ha poi parlato di governance
europea: “E’ vero che la Germania ha una leadership chiara, noi imprenditori la consideriamo il nostro benchmark – ha concluso il leader di Confindustria – ma
una germanizzazione della
Ue e un direttorio franco-tedesco non sono una buona
scelta”.
L’analisi di un osservatore competente e non schierato sulla situazione economica e le tendenze
“Serve più equilibrio tra stato e mercato”
Paolo Riva
«Qualsiasi exit strategy si
pensi per la crisi, non potrà sicuramente essere a livello locale perchè gli squilibri che
l’hanno causata sono globali.
Nel mondo ci sono nazioni che
vivono al di sopra delle loro
possibilità e altre che vivono
clamorosamente al di sotto; c’è
uno squilibrio tra domanda e
offerta globali per la crisi della classe media e c’è una governance finanziaria carente».
Parte da lontano, dalle cause della crisi Nino Andreotti.
Per lui l’economia è una passione costante. Più accesa durante le esperienze giovanili alla
Commissione Europea e alla
facoltà di Scienze Politiche
come assistente, un po’ sopita
durante la sua carriera nell’ambito delle comunicazioni
internazionali in giro per il
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mondo, infine, risbocciata nei
suoi “secondi 50 anni”. Osservatore competente e non
schierato, dotato del buon senso del cittadino e dell’esperienza diretta di chi certi cambiamenti globali li ha vissuti direttamente nella sua vita professionale, è la
persona giusta
cui chiedere, in
pillole, sulla situazione economica odierna.
Nel 2007 ha
pubblicato il saggio “Globalizzazione. Una
voce dal sottoscala” e oggi è
tornato con un altro scritto,
“Rischi fatali”, per spiegare la
cause della crisi. Il punto, conclude, “è proprio come se ne
uscirà e chi pagherà i danni”.
Che idee, a livello globale e locale, ha in merito?
«L’unica risposta possibile a
questa crisi è una concertazione non solo tra le potenze
economiche del mondo occidentale, ma anche tra le economie cresciute negli ultimi
anni. I cosiddetti BRIC (Brasile,
Russia, India e Cina), i paesi
emergenti che ora sono emer-
mediato? Condivide le proposte avanzate dal governo a
febbraio?
«Se Tremonti ha un merito indiscutibile è quello di
aver tenuto i conti in ordine.
Bisogna dargliene atto, ma,
detto questo, manca tutta la
parte per
stimolare
la crescita.
E quel che
ha proposto il governo in
materia
non è credibile. Al paese servirebbe, innanzitutto, una serie politica di recupero dell’evasione che ha raggiunto livelli “sudamericani”. Bisognerebbe poi puntare sulla
crescita del valore aggiunto della nostra produzione e molte
delle nostre medie imprese
già lo stanno facendo. Infine,
A colloquio con Antonino Andreotti:
“Per tornare a crescere
bisogna abbinare concorrenza e regole”
si, che ormai sono diventati
protagonisti dell’economia
mondiale. Di fronte a questo
scenario, anche l’Europa deve
reagire e fare un ulteriore passo avanti nella sua integrazione. Gli stati dell’Unione devono coordinarsi».
Ma, a livello nazionale,
che cosa si può fare nell’im-
servirebbero delle politiche
per tornare a spingere la domanda aggregata perchè i consumi languono. Insomma,
non servono rivoluzioni nel
nostro paese, ma un serio avvicinamento agli standard europei».
Che soluzioni globali vede
all’orizzonte dopo decenni
di deregulation?
«La tendenza si sta già invertendo e dopo anni e anni di
liberismo sfrenato sarà necessario un riequilibrio dei ruoli
tra mercato e stato. I privati è
logico facciano il loro interesse, è lo stato che deve essere regolatore in nome del bene
pubblico, controllore e garante. Crescita e sviluppo si ottengono solo se si abbinano
concorrenza e organizzazione,
se la prima è senza regole è
come dare una Ferrari in mano
a un neopatentato».
I NUMERI
Una strada
verso
il lavoro
■ +40% L’incremento in
percentuale del numero
delle domande per partecipare alle prove di
ammissione negli ultimi
cinque anni accademici.
■ +33% nel 2010 La crescita delle richieste di
partecipazione alle prove di ammissione alle
lauree magistrali da
parte di studenti che
hanno conseguito la
laurea triennale in altre
università.
■ 68% Il tasso percentuale degli immatricolati migliori, ossia degli iscritti
all’Università con voto di
maturità superiore a
90/100. La media nazionale si attesta al 26%.
■ 70% La percentuale di
studenti che a un anno
dalla laurea svolge
un’attività lavorativa, gli
occupati a tempo indeterminato sono il
22,1%.
■ 93,6% L’indice dei laureati che sostiene la necessità del proprio
corso di studi per il tipo
di attività svolta.
■ 82,6% Il quoziente dei
laureati soddisfatti dell’attuale lavoro.
■ +97 L’aumento del numero degli studenti che
hanno partecipato a
programmi di scambi
internazionali all’estero. Erano 188 nell’anno
accademico 2001-02,
sono 285 quest’anno.
■ +27 Sempre negli ultimi
dieci anni sale anche il
numero degli studenti
ospiti. Sono 190 nell’anno accademico in corso,
erano 163 nel 2001-02.
■ +1.732 Cresce il totale
degli studenti. Nel 200506 erano 5.763, nel
2009-10 7.495.
■ +229 Curva in su anche
per il numero dei laureati. In quattro anni si è registrato un incremento
di oltre 200 unità. Nell’anno
accademico
2008-09, infatti, i neodottori erano 1.742 contro i 1.513 nel 2004-05.
G. P.
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Politica
Dalla discesa in campo al predellino. I segreti di un comunicatore raccontati da un esperto
Ecco i tanti pulpiti del Cavaliere
Donato Bendicenti: “Si potrebbe definire l’Hugo Chavez di casa nostra”
Tommaso Rodano
Dal video della «discesa in campo» fino alla fondazione del Pdl in
punta di piedi sul predellino della sua
auto, passando per le decine di telefonate a sorpresa durante le trasmissioni televisive, spesso concluse
attaccando il telefono in faccia all’attonito conduttore. E ancora: i comizi virtuali sul sito web dei «promotori della libertà» e le arringhe di
fronte alle platee più disparate, che
conquistano le aperture dei telegiornali e le colonne dei quotidiani.
Da quando Silvio Berlusconi ha rivoluzionato pratica e linguaggio della politica italiana, ogni trasmissione,
evento o incontro pubblico si è trasformato in un potenziale pulpito. E
sempre più spesso il Cavaliere si affida a canali e strumenti diversi da
quelli ordinari: messaggi estemporanei e inattesi, comunicazioni lampo, blitz improvvisi.
Fece la storia delle campagne elettorali il suo intervento al convegno di
Confindustra a Vicenza, a poche settimane dalle elezioni dell’aprile 2006.
Berlusconi si presentò a sorpresa,
zoppicando visibilmente per il mal di
schiena che lo avrebbe dovuto costringere a saltare quell’incontro. Il Cavaliere prese il microfono, balzò in pie-
DI SCENA
Berlusconi nel
salotto televisivo di
Bruno Vespa. La tv
non è l’unico canale
della comunicazione
politica del
cavaliere, spesso
protagonista di
incursioni
estemporanee e
inattese: ogni
evento pubblico si
trasforma in un
potenziale
palcoscenico
di improvvisamente e inziò un autentico show, concluso con urla e un
alterco con Diego Della Valle. L’uditorio si divise tra l’entusiasmo e la contestazione. Luca Cordero di Montezemolo non nascose il suo imbarazzo. Eppure, dopo la sua arringa, la
campagna elettorale svoltò: i sondaggi
che accreditavano Romano Prodi di
un vantaggio incolmabile cominciarono a cambiare direzione. Alla fine
la vittoria del centrosinistra avvenne
per un pugno di voti e consegnò a
Prodi una maggioranza parlamentare praticamente inesistente.
“Berlusconi è senza dubbio il più
bravo a far passare il suo messaggio
anche in situazioni impreviste e sorpendenti”, conferma Donato Bendicenti, giornalista di Rainews24 e docente di Comunicazione politica.
“Ha un atteggiamento grintoso, audace. E’ abile a comunicare direttamente con il suo elettorato, scavalcando il filtro dei media.
Talvolta sembra agire e parlare in
maniera istintiva, quasi seguendo
un’onda emotiva. I suoi interventi
sono studiati?
«È difficile dirlo. Per saperlo bi-
sognerebbe far parte del suo staff. E’
chiaro che personaggi politici così importanti si riservano un ampio margine di autonomia rispetto al protocollo dei propri spin doctor. Certo, se
le uscite di Berlusconi non dovessero essere improvvisate come sembrano, allora bisognerebbe davvero riconoscergli una notevole capacità interpretativa».
Eppure sono anni che Berlusconi rifiuta di confrontarsi in un autentico duello televisivo con un
suo avversario...
«Lo ha fatto per ragioni di calco-
lo politico e questo atteggiamento evidentemente ha funzionato. Ma quando è stato in svantaggio nei sondaggi e ha pensato che un confronto televisivo potesse convenirgli, non ha
esitato a sfidare il suo avversario,
come con Occhetto nel ‘94 e Prodi nel
2006».
C’è un modello di comunicatore
a cui si è ispirato? A chi assomiglia
Berlusconi?
«Per i suoi detrattori il modello è
quello del populismo sudamericano.
Alcuni lo paragonano a Peron. A me
sembra che assomigli a Hugo Chavez,
anche se ovviamente hanno culture
politiche completamente diverse.
Ma entrambi parlano alla pancia
dell’elettorato. Tra i politici europei
Nicolas Sarkozy ha qualche somiglianza con Berlusconi: hanno in
comune la passione per la “scenografia”».
Una sua opinione da giornalista:
come si deve comportare il conduttore di una trasmissione televisiva quando arriva la telefonata di
Berlusconi?
«È molto difficile. L’elemento fondamentale è la reattività. Bisogna
essere pronti, e riuscire a far ascoltare le proprie repliche, altrimenti la comunicazione diventa un messaggio
scagliato dall’alto».
SENSIBILITÀ
Bambini di colore con mani
alzate per sensibilizzare il
mondo contro il razzismo.
A fianco,
il ministro Mara Carfagna
Dario Parascandolo
Mara Carfagna non c’era.
Eppure martedì 15 marzo il
suo intervento avrebbe dovuto chiudere la Conferenza
internazionale per la prevenzione e la rimozione delle discriminazioni martedì
15 marzo. Il ministro delle
Pari Opportunità ha annullato la sua partecipazione
per un imprecisato impegno
politico, che non ha impedito all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali
(Unar) di presentare la nuova campagna di sensibilizzazione contro l’emarginazione.
“Lei è solo straniera, siamo noi a farne un’estranea”.
Questi lo slogan dello spot
dell’Unar che fa da appendice al manifesto presto diffuso in tutte le città d’Italia. Due
donne, una di mezza età dalla pelle chiara e l’altra più giovane e di colore, hanno il volto costellato da secchi imperativi: “Non discutere, lavora, non ti lamentare”. Lo
spot è stato presentato nel
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nuovo
Presentata dall’Unar una campagna contro il razzismo: manifesti in tutta Italia
Pari opportunità! (Senza ministro)
corso della conferenza, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, celebrando così
la Settimana d’azione contro
il razzismo.
Sin dalla sua nascita nel
2003, l’Unar è baluardo contro le discriminazioni e
l’emarginazione razziale. Le
sue armi sono l’assistenza
alle vittime e le inchieste,
spesso sfociate nelle aule dei
tribunali. Anche perché spesso il razzismo si manifesta in-
direttamente: posti di lavoro
riservati a chi conosce perfettamente lingua e tradizioni italiane o classi scolastiche esclusivamente “straniere”, ghettizzando automaticamente i figli degli immigrati. Due volte emarginate, invece, le donne. “Discriminate perché straniere e
donne – spiega Massimiliano Monnanni, direttore dell’Unar – e, per questo, vittime di molestie, come dimostra il 23 per cento delle
nostre segnalazioni. Da qui la
scelta per quello spot”. E
molto diffusa è anche la discriminazione sulla possibilità di avere casa, spesso sotto gli occhi di tutti. Un immigrato regolare su quattro
denuncia infatti difficoltà
nel trovare appartamento in
vendita o in affitto.
Ma chi si rivolge all’Unar?
Soltanto nel 2010, ben 222
vittime e 108 testimoni hanno contattato l’Ufficio per
denunciare episodi di discri-
minazioni. L’identikit tracciato da Monnanni è molto
preciso: “La maggior parte
delle segnalazioni proviene
da uomini tra i 35 e i 64 anni,
spesso provenienti dall’Europa Orientale e dall’Africa
del Nord”. Un atto di coraggio non facile. Quasi tutti gli
episodi riguardano persone
con regolare permesso di
soggiorno e con livello di
istruzione medio-alto, laureati o diplomati. Persone
che conoscono bene i loro di-
ritti, con una condizione sociale stabile e che non hanno
paura di esporsi. Purtroppo
gli irregolari o gli stranieri in
possesso di permesso temporaneo subiscono in silenzio, e obiettivo è l’abbattimento di questo muro, soprattutto alla luce degli ottimi risultati raggiunti in sede
giurisdizionale.
Il 2010 è stato un anno
fondamentale per l’Unar, che
ha gestito ben 776 istruttorie,
esattamente il doppio del
2009. Anche perché, sottolinea Monnanni, “abbiamo cominciato a trattare casi legati alla disabilità, fattori di
genere e di età. Episodi, quindi, non solo relativi alla discriminazione in merito alla
razza o alla religione. questi
casi non avevano ancora trovato un interlocutore istituzionale”.
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Economia
Tra i grandi gestori di telecomunicazione una guerra di pubblicità e testimonial di lusso
Totti seduce più di Belen (per spot)
Su 80 milioni di clienti oltre un terzo segue il capitano della Roma
Stefano Petrelli
Totti batte Belen mentre
Aldo, Giovanni e Giacomo e
Raoul Bova inseguono a distanza. Non è una partita di
calcio, non è un concorso di
bellezza e nemmeno una sfida al botteghino, ma la situazione del mercato della telefonia mobile in Italia, fotografata ricorrendo ai testimonial dei grandi gestori. Una situazione che vede Vodafone,
pubblicizzata dal capitano
della Roma, come l’azienda
con il maggior numero di
clienti: 30 milioni e 700 mila.
Alle spalle del colosso britannico, c’è la Telecom dell’avvenente Belen con 30 milioni e 400 centomila. Dietro
di loro la Wind degli sketch
del trio comico milanese (19
milioni di clienti) e Tre con il
ménage à trois con al centro
l’attore Roul Bova (9 milioni).
Fanalino di coda Poste mobile
con un milione e 300 mila
clienti. Facendo una rapida
somma si arriva ad ottanta milioni di clienti su circa 60 milioni di italiani. Non è un errore di calcolo, il nostro paese è quello con la più alta densità al mondo di cellulari , uno
e mezzo a testa secondo l’autorità inglese delle telecomunicazioni OfCom.
Un mercato dalle enormi
potenzialità. Non a caso fra le
prime dieci aziende che investono in pubblicità ci sono
tre multinazionali delle telecomunicazioni. Secondo il
rapporto Nielsen, il top spender del 2010 è stata proprio
Telecom, terza Vodafone e
quinta Wind. La classifica
della sfida fra gestori non rispecchia la convenienza delle offerte. Analizzando le tariffe delle 4 sorelle della telefonia, il profilo ricaricabile più
economico dovrebbe essere
quello di Tre, con 12,21 euro.
Il più costoso Telecom con 18,
33. Ma non esiste una tariffa
più conveniente in assoluto,
sono molte le variabili da
considerare, dal tempo che si
passa al telefono, al gestore
verso il quale si chiama più
spesso.
Ma nella giungla dei contratti spesso emergono delle
sorprese, come la tassa di
concessione governativa sugli
abbonamenti mensili di telefonia mobile di 5,14 euro.
Una tassa considerata illegale dal Codacons, che sta promuovendo una class action
per abolirla.
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18 Marzo 2011
VODAFONE
TELECOM
WIND
GRUPPO 3
Per fatturato
è la più grande
Malgrado tutto
resta ai vertici
Il proprietario
un big egiziano
Nata in Italia
oggi è cinese
L’operatore italiano di telefonia
mobile con il maggior numero di
clienti è, in realtà, parte di una
multinazionale con sede a Newbury, nel Regno Unito. Vodafone
Italia è una controllata del più
grande gestore telefonico al mondo per fatturato, presente in tutti i continenti, per un totale di 253
milioni di clienti.
Opera in 16 paesi con il proprio marchio e ha partecipazioni
in 25 nazioni. In Italia, la sua base
è a Ivrea, dove sorgeva la Omnitel Pronto Italia (in origine di proprietà della Olivetti), acquisita
da Vodafone nel 2001. Amministratore delegato dal 2008 è Paolo Bertoluzzo (nella foto).
La copertura di rete, per quanto riguarda i servizi Gsm, è arrivata al 98 per cento del territorio
nazionale, mentre la banda larga
copre il 40 per cento.
Primo operatore di telefonia
mobile ad apparire sul mercato italiano (con il sistema analogico
Tacs nel 1994), in Italia Telecom
è stata un’azienda pioniera del settore. A quella che una volta era
l’azienda pubblica delle telecomunicazioni, infatti, si deve l’introduzione del profilo ricaricabile del 1996 (Timmy) e dei servizi Mms nel 2002. Nonostante le
vicissitudini societarie (il ramo
della telefonia mobile fu prima
scorporato e poi rifuso con il resto dell’azienda) e gli scandali
(quello delle intercettazioni illegali nel 2005 e quello Telecom
Sparkle del 2010), che dopo vari
avvicendamenti hanno portato
al vertice Franco Bernabè, attuale amministratore delegato (nella foto), Telecom continua ad
avere una fetta di mercato di
poco inferiore a Vodafone.
Nel mercato della telefonia fissa il 2001 viene ricordato come
l’anno che segna la fine del monopolio di Telecom. Sfruttando la
liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, un’azienda
italiana, nata appena 4 anni prima, entra in competizione con Telecom. L’azienda è la Wind e
l’azionista di maggioranza era
Enel. Passano altri 4 anni e la società smette di essere italiana.
Nel 2005, infatti, Wind viene acquistata dal magnate egiziano
Naguib Sawiris (nella foto) che ha
l’ambizione di trasformarla in un
polo centrale delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo.
Per questo motivo, Sawiris sta ultimando una fusione con la compagnia russa VimpelCom, che
darà vita al sesto maggiore operatore di telefonia mobile al mondo per numero di clienti.
Il gruppo 3 è il più grande
gruppo di telefonia mobile al
mondo per numero di clienti
Umts (la tecnologia di telefonia
mobile di terza generazione, successiva al Gsm). Creata nel
1999 da Franco Bernabè e Renato Soru , ha ottenuto nel 2000 la
licenza Umts. Già nell’agosto dello stesso anno è stata acquisita dalla multinazionale cinese Hutchison Whampoa, che attualmente
detiene l’88,2 per cento delle
quote. Fin dalla sua nascita 3 Italia, che oggi ha come ad Vincenzo Novari (nella foto), si è distinta
per tariffe e promozioni che hanno stravolto il mercato italiano. Su
tutte, l’offerta di cellulari a prezzi scontati, applicando su di essi
l’Usim lock e l’operator lock, due
blocchi che l’operatore impone per
assicurarsi la fedeltà del cliente per
almeno 9 mesi.
La risposta di Federbiomedica alle accuse di Federfarma. A colloquio con il coordinatore Busà
“Non toccate le parafarmacie, sono utili”
Giacomo Perra
C’è chi l’ha ribattezzata la
“guerra dei camici bianchi”,
farmacisti contro parafarmacisti. Ad aprire le ostilità le dichiarazioni di Annarosa Racca, presidente di Federfarma,
l’organizzazione delle farmacie italiane: «Le parafarmacie
non servono, sono proprietà di
grandi catene e qualsiasi cittadino può diventarne proprietario. È semplicemente
business». Uno a zero e palla
al centro. La risposta dei parafarmacisti non si è fatta attendere: «Se non fosse una
cosa seria verrebbe da ridere.
È probabile che per la dott.sa
Racca gli sconti di cui hanno
goduto i cittadini italiani in
questi quattro anni, grazie
alla presenza delle parafarmacie, sono insignificanti (ol-
tre
500
milioni
di
euro/anno)», si legge nel sito
dell’Anpi, l’Associazione nazionale delle parafarmacie italiane.
Il contenzioso, però, nasce
nel 2006 quando con le liberalizzazioni della “legge Bersani” si introduce l’istituto
della parafarmacia. Ai nuovi
punti vendita è concesso di
dispensare farmaci senza l’obbligo di presentare la ricetta
medica, (un mercato che si
aggira intorno all’8 percento
di quello complessivo, circa 2
miliardi di euro annuali), e i
farmaci da banco, i cosidetti
OTC.
Di questo scontro abbiamo
parlato con Lino Busà, coordinatore di Federbiomedica,
la Federazione delle imprese
e dei professionisti del comparto bio-medicale in cui è
compresa anche l’Anpi.
Busà, sembra che non
siate molto simpatici a Federfarma …
«La loro è un’antipatia
molto concreta. Con l’apertura delle parafarmacie, infatti, anche se in maniera limitata, è caduto il monopolio dei titolari di farmacia. Un
potere ereditario, un vero
business, anche in barba ai diritti dei cittadini, che si è riuscito a contenere in qualche
modo».
Annarosa Racca, però, vi
accusa di rispondere esclusivamente a logiche commerciali.
«Guardi, se confrontiamo
i fatturati, a guadagnare di più
sono le farmacie. Comunque, il vero problema è che la
stragrande maggioranza dei
70 mila iscritti all’Ordine dei
Farmacisti in farmacia finisce
a fare il commesso a poco più
di mille euro al mese. Le parafarmacie, invece, hanno
dato lavoro a 5 mila laureati
e hanno contribuito anche a
far abbassare i prezzi dei medicinali dell’8,6 percento. Se
poi parliamo di logiche commerciali, ricordo che i titolari di parafarmacia, spesso,
sono giovani farmacisti dipendenti, che stufi di fare i
commessi a vita, hanno deciso di dare uno sbocco professionale adeguato alla qualità dei loro studi».
L’Antitrust, tra l’altro, recentemente, ha definito “un
grave limite alla concorrenza” la cosidetta “pianta organica” del 1991, la norma
che prevede l’apertura di
una farmacia ogni 5 mila abitanti nei comuni con più di
12.500 residenti e di una
ogni 4 mila negli altri.
«La “pianta organica” è antiquata. È una legge che non
tiene assolutamente conto
dei cambiamenti demografici intercorsi nella popolazione italiana».
Quale può essere allora il
punto d’incontro tra i vostri
interessi e quelli dei farmacisti?
«Prima di tutto, c’è da
dire che la figura del parafarmacista non esiste. Esistono solo i farmacisti e le parafarmacie, dunque attività e
interessi sono complementari. La parafarmacia, in più,
svolge un servizio di vicinato, produce, cioè, informazioni su farmaci di nicchia.
Ma non toglie nulla alla farmacia, anche economicamente».
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Mondo
Minacciati, braccati, quasi a rischio estinzione oltre dieci milioni di cristiani in Egitto
Vita difficile per la minoranza copta
A gennaio la strage di Alessandria. Le radici di una fede nata nel I secolo
Giacomo Perra
Si sentono minacciati, braccati,
quasi a rischio d’estinzione. E d’altra parte è difficile darli torto. L’ultima provocazione risale solo a due
mesi fa e anche questa volta è stata
un bagno di sangue. È il primo gennaio del 2011 quando un’ esplosione di un kamikaze musulmano davanti alla Chiesa dei Santi, nel quartiere di Sidi Bishr ad Alessandria
d’Egitto causa la morte di 24 fedeli. Poi, la settimana scorsa, altre otto
vittime. A ucciderle le violenze di un
gruppo di islamici che cercavano di
reprimere il loro diritto alla libera
professione di fede. Un esercizio che
per tutti i copti, in Egitto, assume
piuttosto i contorni di un pericolo
mortale.
Nel paese dei Faraoni, infatti, solo
negli ultimi trent’anni ne sono stati assassinati circa 1.800. Un manipolo di martiri per Shenouda III, patriarca di Alessandria dal 1971 e attuale papa (il centodiciasettesimo
nella storia) dei copti ortodossi che,
nonostante siano dieci milioni, in
Egitto costituiscono di fatto una minoranza. Più prosaicamente, quindi, il drammatico risultato di una storia di millenaria subalternità subita
all’ombra della cultura e della reli-
PERSEGUITATI L’attentato di Alessandria d’Egitto. A fianco: il capo della Chiesa copta ortodossa Shenouda III
gione islamica. Fin da quando, nel
I secolo, la Chiesa copta, erede dell’illustre tradizione del monachesimo nordafricano, viene fondata in
Egitto. La Chiesa ha origine dalla
predicazione di San Marco, discepolo
di Gesù Cristo, che scrive il suo Vangelo nel I secolo e porta il cristianesimo nel paese africano. Il nome
copto deriva dalla parola greca aigyptios (egizio), trasformata dapprima in gipt e poi in qibt. Più precisamente, il termine qualifica nel-
lo stesso tempo una lingua, un popolo (Egitto), un culto e una Chiesa. Oggi in Egitto i copti, che si sono
sempre considerati gli eredi legittimi delle prime comunità cristiane
sorte nel paese, si riconoscono in tre
chiese: la maggioranza dei fedeli fa
parte della più anziana Chiesa Ortodossa Tawahedo, gli altri sono devoti alla più recente Chiesa cattolica e alle chiese protestanti. Esistono,
però, chiese copte anche in Eritrea
e in Etiopia.
Da quel I secolo, così, la convivenza col mondo musulmano per i
copti è stata sempre molto problematica, con picchi oscillanti tra la
malcelata condiscendenza e la più palese intolleranza, sfociata spesso nell’odio delle violenze e dei diritti negati. Come nel 1980, quando il presidente Sadat dispone per legge, a difesa della fede musulmana, la pena
di morte in caso di apostasia. Inevitabilmente, per contrasto, ai cristiani non è rimasto altro che sposare la
causa del nazionalismo; nel biennio
1881-82, così, dopo le riforme del pascià Mehmet Alì che restituiscono il
possesso dei diritti civili a tutta la comunità, sostengono le rivolte scioviniste di Arabi Pascià, mentre all’indomani del primo conflitto mondiale appoggiano il Wafd, il partito
che porta l’Egitto all’indipendenza. In
questo contesto “protezionistico”, si
giustificano la sfiducia a ogni ingerenza occidentale e la freddezza nei
rapporti col Vaticano.
Ma non si tratta di un contrasto
esclusivamente religioso; in ballo c’è
anche la lotta per la scalata alla società. La sfida ha visto i copti sempre perdenti, soprattutto in politica;
per tutti gli anni Novanta, ad esempio, in Egitto i deputati cristiani erano 7 su 454. Numeri che risultano
ancora più preoccupanti nel caos degli sconvolgimenti che stanno mutando il volto del mondo arabo. I
copti temono una deriva islamista
che spazzerebbe ogni residua speranza di poter incidere nella società, costringendoli ancora alla marginalità. Diversamente, una svolta
pluralista potrebbe influire positivamente sul loro stato di “stranieri”
in casa. Di certo, niente potrà cambiare il rapporto con l’Islam, un rapporto da eterni duellanti.
Il caffè colombiano è minacciato dal clima e i prezzi vanno alle stelle
Meno Arabica ma la tazzina è salva
Stefano Silvestre
“Il caffè di Cauca è il numero uno!”. E’ la scritta che accoglie i visitatori in alcune
cittadine di Cauca, nella regione sud occidentale della
Colombia. Ma le preziose pepite di caffè e la loro commercializzazione sono in pericolo. La Colombia, terzo
produttore al mondo della
materia prima della bevanda
più amata, sta infatti facendo
i conti con il riscaldamento
globale, che sarebbe la causa
del recente drastico abbassamento della produzione. Un
calo dalle proporzioni ancora
poco chiare, anche se una inchiesta del New York Times ha
rivelato come per alcune famiglie di coltivatori colombiane il raccolto sia calato del
70 per cento negli ultimi cinque anni.
Secondo Peter Baker, esperto di caffè del Cabi, un’associazione inglese ambientalista,
l’aumento delle piogge e l’innalzamento delle temperature,
che ha raggiunto in alcune
Reporter
nuovo
zone due gradi in più negli ultimi trent’anni, sta mettendo a
serio rischio le coltivazioni di
Arabica, la qualità di caffè originaria dello Yemen, che necessita di sette anni di maturazione, temperature miti e almeno 1 metro e mezzo di acqua all’anno. Alle attuali temperature, invece, le infiore-
nord-orientale della regione,
soprannominata Eje Cafetero,
“l’asse del caffè”, si produce la
varietà più apprezzata al mondo, per un business da oltre 9
milioni di sacchi di prodotto –
misura standard 59 kg – che
oggi vengono venduti sul mercato a 6 dollari al kg. Una
quantità che in realtà non cor-
A Wall Street l’Arabica ha raggiunto i
livelli più alti da 34 anni, i prezzi
sono aumentati anche del 25 per cento
scenze della pianta finiscono
per seccarsi troppo velocemente, con il rischio di rimanere esposte a devastanti funghi. Problemi che non mettono però a rischio le esportazioni di Arabica, vista anche la
grande capacità produttiva di
Brasile e Vietnam, primi due
paesi al mondo per produzione di caffè.
L’allarme per i chicchi colombiani è stato lanciato proprio da Cauca. Nella zona
risponde alle aspettative del
paese sudamericano, che contava di passare dai 12 milioni
del 2006 a 17 nei prossimi tre
anni.
Produzione che diminuisce,
prezzi che salgono alle stelle.
A Wall Street, il future sull’Arabica ha raggiunto quotazioni che non si vedevano da
34 anni, nonostante il piccolo passo in avanti fatto registrare a inizio anno nella produzione colombiana, precipi-
tata nel 2010 di quasi il 30 per
cento, a fronte di un aumento dei prezzi dei maggiori distributori di oltre il 25 per cento. Il brusco aumento dei prezzi si è già fatto sentire in America e in Europa, dove i distributori, come Maxwell, Yuban
e Folgers hanno già aumentato i prezzi di un quarto rispetto
al 2010.
La coltivazione del caffè
rappresenta per la Colombia la
prima fonte di sussistenza
agricola, con il prodotto che
viene esportato ai più grandi
mercati internazionali, Stati
Uniti, Germania e Italia in testa. L’Arabica è inoltre la qualità utilizzata dai più grandi
brand internazionali, come la
catena Starbucks, Green
Mountain e Nespresso. Le
aree di produzione principali si trovano a ridosso della catena andina, dove il clima è favorevole alla crescita dei chicchi d’oro. Medellin, Armenia, Manizales. Questi i nomi
dei principali prodotti, così
chiamati dal nome della città
in cui vengono commercia-
SIMBOLO Juan Valdez dell’associazione colombiana Federcafè
lizzati. Ma anche Bucaramanga e Bogotà, quest’ultimo
considerato tra i migliori caffè della Colombia. A promuovere la bontà del caffè colombiano, ci pensa la Federcafè, un’associazione no-profit fondata nel 1927 e che
oggi rappresenta mezzo milione di coltivatori. Il suo simbolo è uno dei primi esempi di
marketing moderno, caratterizzato dal marchio ormai riconoscibile in tutto il mondo,
in cui un fittizio coltivatore dai
lunghi baffi - Juan Valdez, il
“Rossi” colombiano - tra-
sporta i più famosi chicchi colombiani accompagnato dal
fido mulo Conchita.
Qualità ma non quantità.
Sono proprio le scorte, visti gli
ultimi magri raccolti, a preoccupare i cafeteros colombiani, come denunciato dall’Ico, l’organizzazione internazionale dei produttori di
caffè: “A livelli di prezzo così
remunerativi ci si può aspettare un’ottima performance
delle esportazioni, ma la prospettiva di una ricostituzione
delle scorte nei paesi produttori rimane debole”.
18 Marzo 2011
5
Cronaca
Viaggio nei
magazzini Zara
di via del Corso
dove era la storica
Rinascente.
Saldi tutto l’anno
in un regime
di anarchia.
Poche le boutique
rimaste
COLORI L’interno del megastore Zara in via del Corso. Pantaloni, magliette e borse. Ma anche scarpe e accessori di ogni tipo a partire da 9,90 euro
Vestirsi senza farsi spogliare
Con cento euro è possibile acquistare il capo più costoso
Irene Pugliese
Il primo manichino è vestito come un marinaio: camicetta a righe bianche e rosse e pantaloni a pinochietto.
Accanto il secondo indossa
una gonna a vita alta azzura,
come vuole la moda del momento. E poi giacche, magliette, borse, tailleur da uomo
e da donna, vestitini per bambini. Scarpe di tutti i tipi.
Abiti sportivi, casual, ma anche eleganti. Tutti i colori
più accesi in una location
suggestiva: un mix di architettura antica e moderna in un
palzzo di fine ‘800 con grandissime finestre luminose. E’
tutto giocato sulla luce e sul
bianco. Ed ecco che si entra
nel paradiso di chi vuole
spendere poco per vestirsi.
Solo il fatto che sia un
martedì mattina permette un
tranquillo giro nel megastore
di Zara di via del Corso. Durante il weekend questo enorme spazio, che ha da poco preso il posto dei grandi magazzini La Rinascente nella loro
sede storica di palazzo Boc-
È un proliferare in tutta Italia di catene di abbigliamento
Pullulano Ovs Qui Madonna
Oviesse è una catena di negozi di abbigliamento low cost appartenente al Gruppo Coin.
Il nome sta per “Organizzazione Vendite Speciali”. Qui un maglietta la paghi otto euro e una
giacca non supera i cinquanta. Il primo negozio Oviesse nasce a Padova nel 1972 e grazie
a una forte crescita negli anni successivi, arriva in tutte le province italiane. Nel 1998, l’acquisizione dei 167 magazzini del ramo di azienda non alimentare della Standa e nel 2004 si raggiungono i 250 negozi, diventando Leader nel
segmento della vendita di abbigliamento. A
Roma Oviesse è ovunque: da via Candia a corso Trieste, da via Collatina a via di Torrevecchia.
E il proliferare dei suoi punti vendita nella Capitale non accenna a fermarsi.
coni, viene preso d’assalto.
Quello che colpisce subito sono i colori. Sulle etichette
i paesi da cui provengono i
capi: Pakistan, Indonesia,
Marocco, Cambogia, che giustificano prezzi così bassi.
Non c’è niente che superi i
cento euro. Giustificazione
anche delle file chilometriche
Hennes & Mauritz AB, più famosa come
H&M, è un’azienda di abbigliamento svedese. Fondata nel 1947 da Erling Persson, inizialmente vendeva solo abiti femminili e si
chiamava Hennes, in italiano “Lei”. Nel 1968
Persson acquisì un negozio di Stoccolma, chiamato Mauritz Widforss, che vendeva vestiti da
uomo, rinominò l’azienda Hennes & Mauritz
e aprì nuovi negozi. Oggi ha oltre 1600 punti vendita in 38 paesi, più di 50.000 dipendenti
ed è una delle marche più famose al mondo,
grazie soprattutto ai suoi bassissimi prezzi. Dal
2006, poi, il sodalizio con la pop star Madonna:
dopo aver disegnato i costumi per un suo tour,
H&M le ha affidato la realizzazione della linea “M by Madonna”.
di fronte ai camerini. Qui è
come se ci fossero sempre i
saldi e il regime che vige è
l’anarchia. Non ci sono commesse ansiose che scalpitano
per aiutare la cliente indecisa, trasformandosi in un incubo per ogni donna.
E’ un fai da te. Sono queste le grandi differenze con
l’inquilina precedente, La Rinascente, che si è spostata di
qualche metro, nella vicina
Galleria Colonna. Su via del
Corso sono diventati tre gli
store di Zara, ma su tutto il
lungo rettilineo che congiunge piazza del Popolo con
piazza Venezia, il luogo più
celebrato dello shopping ro-
mano, negozi dai prezzi bassi stanno spuntando come
funghi: H&M, Tezenis, Calzedonia, Habana, Prima Donna. E’ il regno del low cost. E
le piccole boutique di una
volta sono rimaste poche.
Roberto Anticoli è il proprietario di un negozio di abbigliamento vecchio stile a cui
ha dato il suo nome. «La
crisi economica più il proliferare di questi grandi negozi sicuramente hanno contribuito a un calo delle vendite. In generale non è un bel
periodo», ci racconta Roberto che porta avanti questa attività dagli anni ’70.
Dello stesso parere il proprietario di Vaturi, qualche civico più in là. Ci sono grandi firme nelle vetrine del suo
negozio di abbigliamento maschile, i prezzi sono alti. Una
giacca qui la paghi sui 300
euro, da Zara meno di 50. Lui
è seduto dietro alla cassa,
legge il giornale. Entrano
due turisti. Non vogliono
comprare niente, chiedono
solo come si arriva a piazza
Venezia.
La paradossale condizione dei minori afghani all’ultimo binario dell’Ostiense
Aspettando un treno che non arriva mai
Paolo Riva
Hamasa ha 17 anni e ci ha
messo otto mesi per arrivare in
Italia dall’Afghanistan. “Alone”
(solo), dice, ripercorrendo le
varie tappe del suo lungo viaggio: Iran, Turchia, Grecia, Bari
e, infine, Roma. 2000 euro il
prezzo del “biglietto”.
E ora, dopo essersi fatto più
di cinquemila chilometri a piedi, in bus, su navi e dentro container, si ritrova sul binario 15.
È qui, sull’ultima, inutilizzata
banchina della stazione Ostiense, che la capitale “ospita” gli
adolescenti afghani in fuga
6
18 Marzo 2011
dalla guerra. É qui che, in attesa di ripartire, Hamasa passa le sue giornate, dormendo
all’addiaccio, mangiando alle
mense e rimanendo lontano
dalla polizia perchè non vuole farsi identificare.
Per la maggior parte dei ragazzi dell’Ostiense, infatti, il nostro paese è solamente una tappa delle loro moderne odissee.
“Puntano al nord Europa: Germania, Norvegia, Gran Bretagna -spiega Nadio La Gamba,
responsabile dei Centri Pronto Intervento Minori della Caritas- e aspettano di arrivarci
per fare richiesta di asilo poli-
tico. Considerano quei paesi
più accoglienti e ricchi di opportunità del nostro”.
Finché restano in Italia non
possono essere aiutati secondo
le procedure classiche che tutelano il diritto d’asilo. Sono
“viaggiatori invisibili”, come
li ha definiti in un suo dossier
l’Onlus L’Albero della Vita, e il
fatto che siano minori spesso li
ostacola anziché tutelarli maggiormente. “È un’emergenza spiega l’operatrice Andreina
Rossitto- perchè i ragazzi sono
esposti anche a rischi di abusi
e violenze. Spesso ce ne sono
anche di giovanissimi, di dodici,
tredici anni”.
E le dimensioni del fenomeno, secondo le stime della
Onlus che da mesi pattuglia la
stazione con il suo camper, sarebbero preoccupanti. I ragazzi mediamente restano a Roma
tra due settimane e un mese e,
nel corso di un anno, i minori afghani che transitano per la
città eterna sarebbero oltre
mille. Mille ragazzini, a volte
bambini, lasciati al binario 15
ad aspettare un treno che non
passa o un biglietto per il quale non hanno i soldi.
“Voglio andare in Germania, ad Amburgo, dove ho dei
parenti -spiega Hamasa-, ma ora
non ho nulla. Forse quando arriverà qualche altro afghano gli
chiederò un prestito. Intanto
me ne sto qui, a pensare. Tutto il giorno. Troppi problemi,
troppi pensieri per la testa”.
Nel frattempo, il Comune
ha siglato ad inizio febbraio un
nuovo accordo con ministero
dell’Interno e prefettura. Secondo l’assessore alle politiche
sociali Sveva Belviso, servirà per
“dotare Roma di un nuovo welfare dei rifugiati”. Il governo ha
stanziato 10 milioni di euro.
Chissà se arriveranno anche al
binario 15.
LA RISPOSTA
Ci uniamo
per
sopravvivere
Come reagiscono i
commercianti di fronte al
profilerare di questi megastore in centro e dei
grandi magazzini in periferia? Abbiamo sentito
Adriano Angelini, presidente dell’Associazione
Tridente Centro Storico
che unisce residenti e
esercenti del centro storico e che opera da circa
vent’anni.
«I problemi sono tanti: innanzitutto c’è la crisi economica, la gente
inoltre viene poco in centro perché è difficile arrivarci e si lanciano di continuo messaggi a favore
dei grandi centri commerciali aperti in periferia. Infine ci sono gli affitti altissimi che noi commercianti dobbiamo pagare qui in centro. In un
locale medio tra i 50 e i
60 metri quadrati si viaggia a 6/7.000 euro al
mese». Quali i possibili
rimedi? «Per ora abbiamo
fondato un immaginario
centro commerciale naturale all’aperto di nome
“Carpe Diem”, che attraversa via del Corso,
partendo da piazza del
Popolo fino a piazza Venezia ed è composto da
tutti questi piccoli proprietari, uniti per far capire alla gente che in
centro si può venire.
Faremo delle iniziative per mostrare anche
tutte le bellezze artistiche
presenti nel centro di
Roma. Così cerchiamo
di combattere le grandi
marche che hanno delle
caratteristiche che noi
non ci possiamo permettere. Fondamentalmente stiamo lavorando per riporatre la gente
in centro».
I. P.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Quando la letteratura anticipa l’apocalisse. Da Giacomo Leopardi alla strada di Mc Carthy
Scenari da day after giapponese
In quelle pagine sono raccontati gli incubi di un disastro globale
Tommaso Rodano
“La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per
le strade automobili incrostate di
cenere, ogni cosa coperta da cenere
e polvere. Impronte fossili nel fango
secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di
scherno rivolta al giorno”. Questo scenario apocalittico è uno degli allucinati e inquietanti ritratti del mondo
raccontato da La strada, romanzo di
Cormac Mc Carthy, premio Pulitzer
per la narrativa nel 2006. È la storia
di un bambino e di suo padre, due tra
i pochi reduci di un’umanità sterminata e riportata alla violenza ferina dello stato di natura da una catastrofe della quale non si fa menzione, ma di cui
si descrivono gli effetti devastanti: “Su
questa strada non c’è benedetta anima viva. Sono scomparsi tutti tranne
me. E si sono portati via il mondo”.
I paesaggi della terra morente di
Mc Carthy somigliano in maniera impressionante ad alcune immagini del
Giappone devastato dallo tsunami e
sull’orlo dell’apocalisse atomica: in
questi giorni di suggestioni drammatiche, le pagine de La strada paiono
trasformarsi in una macabra profezia.
L’opera di Mc Carthy è uno dei casi
più recenti e brillanti in cui la lette-
INCUBO
Una scena di La
strada, il film tratto
dal romanzo
omonimo di Cormac
Mc Carthy.
I paesaggi
apocalittici
somigliano in
maniera
impressionante ad
alcune immagini del
Giappone del dopo
tsunami
ratura si presta al racconto di un mondo a un passo dall’estinzione. Si tratta della forma più radicale di distopia:
un’utopia capovolta, la narrazione di
una società completamente indesiderabile, prossima al tracollo. Le
Scritture della catastrofe sono state studiate e raccontate nel libro di Francesco Muzzioli, docente di Teorie della letteratura alla Sapienza di Roma,
pubblicato nel 2007. Il suo saggio prova a indagare il motivo del fascino profondo che gli scenari distopici e apo-
calittici esercitano su scrittori e lettori.
“Vi è forse un masochismo di massa che spinge a bearsi di quanto
gode cattiva reputazione?”, si chiede
Muzzioli: “La ragione è diversa: è semplicemente che quel mondo dove il
clima è pessimo e si rischia la morte
a ogni passo non è mica poi così lontano”, non è poi così dissimile dal nostro “mondo ‘strappato’ tra superpotenza tecnologica e terrorismo kamikaze, tra la fame e la ‘realtà virtuale’,
tra multinazionali rapaci e disperati
migranti, tra capi fanatici e leaders telegenici”.
Altri grandi autori, prima di Mc
Carthy hanno raccontato questo
incubo. “Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta” annuncia un
brano delle Operette morali (1827)
di Giacomo Leopardi, decretando il
fallimento della pretesa di poter
dominare la natura. In The Last
Man di Mary Shelley, uno dei romanzi meno conosciuti dell’autrice
di Frankenstein, è un’epidemia di pe-
ste a sancire l’estinzione della razza
umana. Uno scenario simile a quello raccontato da Jack London nel
1915: Il morbo scarlatto descrive una
piaga inarrestabile che conduce i pochi reduci alla regressione a uno stato di selvatichezza primordiale: proprio come ne La strada il mondo è
battuto da bande di sciacalli e di razziatori armati. Nel Novecento le
profezie degli scrittori sull’estinzione si fanno più frequenti. Muzzioli
cita i casi di Morte dell’erba di John
Cristopher, del 1956, Barbagrigia di
Brian Aldiss, del 1964 e I figli degli
uomini di P.D. James, del 1992. Ma
una delle più famose e suggestive
profezie della catastrofe è inserita
proprio nelle pagine conclusive di
una delle opere più studiate della letteratura italiana, che con il filone della narrativa distopica ha poco o
nulla a che vedere. Con questa riflessione si chiude La coscienza di
Zeno di Italo Svevo: “Quando i gas
velenosi non basteranno più, un
uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile […]. Ed un altro uomo […]
ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà
essere il massimo”.
VINCENTI
A sinistra un busto di
Cicerone. Nel De Oratore
confessa la sua balbuzie.
A destra una scena del film
The King Speech in cui Colin
Firth interpreta il re
d’Inghilterra Giorgio VI che
sconfisse il suo problema
Stefano Petrelli
Da Cicerone a Paolo Bonolis, passando per George
Washinghton, Theodor Roosevelt e Winston Churchill.
Oltre a Giorgio VI – il re la cui
vicenda è stata raccontata
dal film The King Speech, che
ha trionfato agli Oscar – la
storia riporta numerosi esempi di personaggi pubblici che
hanno vinto, o comunque
sono riusciti dominare, la
balbuzie.
E se Manzoni rinunciò a
un seggio nel neonato parlamento italiano a causa di
questo problema, c’è chi, recitando o cantando, riesce a
canalizzare le proprie emozione e a farvi fronte.
È il caso di Filippo Timi l’attore che ha interpretato
Mussolini nel film Vincere di
Bellocchio – che nella vita di
tutti i giorni incespica nel parlare.
Lo stesso vale per Vinicio
Marchioni, “il Freddo” della
serie tv Romanzo criminale.
Probabilmente lo stesso Ci-
Reporter
nuovo
La balbuzie non è per sempre. Parla l’esperto: dopo Giorgio VI altri esempi
E Cicerone vinse il suo difetto
cerone apparteneva a questa
seconda categoria, visto che
nel De Oratore confida di essere balbuziente. L’importanza del suo ruolo di oratore,
però, deve aver rappresentato lo stimolo giusto che gli
permetteva di non tentennare quando parlava in pubblico.
Una cura definitiva per la
balbuzie non è ancora stata
trovata. E poiché non si conoscono del tutto le cause
che scatenano questo problema, che affligge cinque
bambini tra i 2 e i 7 anni su
cento, esistono diversi approcci terapeutici. Molti
sono basati su uno studio
scientifico che indica una
causa organica e neurologica e, per questo motivo, intervengono esclusivamente
sulla correzione del sintomo
fonetico; altri professionisti, invece, hanno individuato una causa di natura
psicologica e lavorano sulla
riduzione dell’ansia.
Esistono corsi intensivi
della durata di 10 giorni sulla rieducazione ortofonica e
altri, organizzati da ex bal-
buzienti, che hanno trovato
un metodo personale e lo insegnano ad altri balbuzienti.
Uno di questi è il professor
Enzo Galazzo, presidente
dell’associazione “Vivere Senza Balbuzie: il piacere di non
tacere onlus”. Galazzo è un
ex balbuziente che oggi organizza corsi di 13 giorni, in
diverse città d’Italia, per aiutare le persone che soffrono
di questo questo disagio. A
suo parere non si è ancora arrivati a una soluzione definitiva per la balbuzie, perché
si tratta di un disagio com-
plesso che coinvolge sia la
sfera fonetica sia quella relazionale. «Dipende molto anche dalla personalità del balbuziente – dice Galazzo – Innanzitutto va detto che 4
bambini affetti da balbuzie su
5 guariscono spontaneamente.
Se a balbettare è un soggetto con una forte personalità, ci sono maggiori possibilità che impari a comunicare correttamente.
Per chi invece sviluppa
balbuzie cronica, l’unica soluzione è riuscire a gestire lo
stress e l’ansia, che non sono
una causa del problema, ma
lo acuiscono. Solo canalizzando le emozioni è possibile diminuire la balbuzie fino
a renderla impercettibile».
Ma come bisogna comportarsi con un bambino
che sviluppa la balbuzie?
«Nel caso di un insegnante che abbia un allievo balbuziente, è importante che
non gli metta fretta, magari
scambiando il tentennamento per insicurezza o impreparazione. Sembra banale ma
a volte succede.
Se invece si è genitori di
un bambino che balbetta,
non aiuta dirgli di calmarsi o
di parlare lentamente.
I bambini imparano dall’esempio, per cui è il genitore
stesso che deve parlare più
lentamente per indurre il
bambino a fare lo stesso».
18 Marzo 2011
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Costume & Società
Il judo, il calcio, il rugby. Attività tipicamente maschili dove però vincono anche le ragazze
Dove anche la donna è un “macho”
Da Suzanne Lenglen a Giulia Quintavalle, la storia dello sport in rosa
Irene Pugliese
Pechino, 11 agosto 2008: Giulia
Quintavalle, una venticinquenne di
Livorno, è sul tatami olimpionico. A
qualche minuto dalla fine del suo incontro con l’olandese Deborah Gravenstijn, prende un colpo al gomito.
Piange dal dolore, ma non si ferma.
E così entra nella storia, conquistando
il primo oro dell’Italia nel judo femminile. Sport che nell’immaginario
collettivo sono praticati dagli uomini, in cui invece le donne non solo
sono brave, ma eccellono addirittura. Come nel calcio. Tutti conoscono
Maradona, tutti parlano di Ronaldo
o di Shevchenko con competenza assoluta e chiunque si sentirebbe in imbarazzo nel non sapere chi è Pelè.
Molti però ignorano chi sia Carolina
Morace, anche se nel 1995 è stata eletta e premiata miglior calciatrice del
mondo. Destino del calcio al femminile, visto ancora come una curiosità o come un divertimento poco
serio. Eppure, come nel caso di Carolina, ci sono fior di atlete che han-
GRINTA Giulia Quintavalle, medaglia d’oro a Pechino 2008 nel judo
no scelto questa strada così poco popolare. E lei ci è riuscita davvero, non
senza difficoltà. Prima donna a diventare allenatrice di una squadra
femminile e poi addirittura di una
maschile, la Viterbese di Serie C1. Una
breve avventura in realtà visto che
dopo una vittoria ottenuta alla prima
giornata di campionato, una sonora
sconfitta 5-1 durante il secondo impegno (unita ad alcune discussioni
con la società laziale e alle pressioni
della stampa) la convinse alle dimissioni. Una storia di difficili conquiste, quella delle donne e lo sport.
La prima donna ad allenarsi come un
uomo fu Suzanne Lenglen. Quando
il tennis per le dame era ancora un
gioco da affrontare con le mani ricoperte di guanti bianchi e impacciate
da lunghe gonne, con grande scandalo Suzanne entrò nei campi da gioco più esclusivi indossando un completo composto da una gonna corta
a pieghe senza sottovesti, delle calze
di seta bianca e una fascia colorata intorno alla testa. E da lì fu un crescendo, fino al 1998 quando il Co-
mitato olimpico internazionale dichiarò l’apertura di tutte le nuove discipline olimpiche indistintamente sia
alle donne che agli uomini. Con
vere rivoluzioni.
Quale sport appare più maschile
del rugby, definito uno sport di contatto perché il confronto fisico tra i
giocatori è una costante del gioco?
Eppure, mentre la nazionale maschile annunciava amaramente la
sconfitta contro il Galles, c’era un’Italia del rugby che nel suo “Sei Nazioni” vinceva a testa alta: quella tutta in
rosa. Il 6 marzo scorso le ragazze guidate da capitan Paola Zangitolami
hanno piegato proprio le gallesi.
Passione, voglia di vincere, resistenza, dunque, sono elementi che uniscono gli uomini e le donne nello
sport. Una differenza, però, c’è. Ed è
la diversa retribuzione. Sicuramente
una Carolina Morace, anche nel momento più alto della sua carriera di allenatrice, si è solo sognata gli stipendi
d’oro di un Mourinho o un di Leonardo. Perché i meccanismi ‘di mercato’ sono ancora maschilisti.
Nonostante una legge che le punisce, non si arresta il fenomeno delle catene
Occhio alla bufala di Sant’Antonio
Su Internet e-mail portaiella e richieste di aiuti
Dario Parascandolo
La rete è una risorsa inesauribile di informazioni e di
testimonianze di prima mano.
Ma in questi giorni di caos
dopo il terremoto giapponese
si propagano sul web vere
bufale, veicolate da alcune
catene di Sant’Antonio che si
diffondono in modo virale.
Perverso scopo di queste mail
è scatenare ulteriore panico
nella popolazione. Richieste di
beni di prima utilità o il sospetto dell’esistenza di una
superpotenza dotata di armi
capaci di generare terremoti
hanno invaso la posta elettronica di navigatori di mezzo mondo. Immediata la replica delle autorità giapponesi, che hanno raccomandato i
cittadini di prestare fede solo
a messaggi provenienti da canali ufficiali.
Ma le bufale del web propagate da pc a pc, spesso accompagnate da richieste di denaro, affondano le radici alla
fine dell’Ottocento, quando un
istituto religioso metodista di
Chicago inviava lettere ai fedeli chiedendo offerte economiche in cambio di un
8
18 Marzo 2011
voto a una preghiera a Sant’Antonio. Inoltre, pena l’inefficacia della benedizione, il destinatario doveva inoltrare la
missiva ad altre persone.
Il sistema ha conosciuto un
successo esponenziale con la
nascita della posta elettronica.
Le catene sono oggi il mezzo
vita”. E intanto l’indebito arricchimento si realizza, anche
perché è sufficiente che una
minuscola percentuale di ingenui la inoltri ad altre centinaia di migliaia di utenti. Diffusissime, inoltre, le minacce
di sfortuna, morte o malocchio, che fanno leva sulla pro-
In crescita il fenomeno dello spam,
alimentato dalla leggerezza di alcuni utenti
che lasciano in chiaro firma e indirizzo
più veloce di diffusione di
notizie “non ufficiali”, la cui
veridicità è difficile da controllare. La truffa, però, è appena dietro l’angolo. A moltissimi è capitato almeno una
volta di ricevere una mail da
persone sconosciute che chiedono offerte da destinare a una
famiglia che non ha soldi per
curare la figlia. È oggettivamente impossibile per l’utente medio verificare la buona
fede dell’autore, ma tanti destinatari abboccano proprio
perché spesso si fa leva sul senso di colpa del ricevente: “Il
tuo euro potrebbe salvarle la
pensione umana alla scaramanzia: un unico clic per
esorcizzare il male e le mail fasulle si moltiplicano.
In alcuni casi, le catene
che chiedono di inoltrare il
messaggio sono utilizzate per
alimentare il fenomeno illegale
dello spam.
Avviando una catena di
questo tipo, lo spammer può
ricevere di ritorno, senza fatica, migliaia di messaggi, dai
quali potrà estrarre un numero enorme di indirizzi mail validi. Questi dati saranno poi
riutilizzati per l’invio di messaggi pubblicitari o truffaldini.
Il fenomeno si aggrava grazie
alla leggerezza di molti utenti, che inoltrano la missiva lasciando in chiaro la propria firma l’indirizzo. Grazie ad appositi software, il pirata della
rete può così risalire all’identità della vittima, ricostruire la
propria cerchia di amici e organizzare vere e proprie truffe utilizzando i metodi dell’ingegneria sociale.
Nonostante i proverbiali
ritardi legislativi in merito
alla rete, nel 2005 le catene di
Sant’Antonio sono state definitivamente dichiarate illegali dalla commissione Attività
Produttive alla Camera.
I truffatori rischiano fino a
un anno di carcere ed è sufficiente la segnalazione all’Autorità, senza querela di parte,
direttamente sul sito della Polizia di Stato. Il testo della legge è disponibile in pdf sulla pagina web della Camera: “Sono
vietate le catene di Sant’Antonio che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui
il diritto a reclutare si trasferisce all’infinito previo il pagamento di un corrispettivo”.
SANT’ANTONIO In suo nome la prima catena a fine Ottocento
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