Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Due vecchi amici, colpiti entrambi da una grave malattia, dopo averla attraversata decidono di ripescare un’idea di quando erano giovani, un viaggio e un film, che ora però assumono tutto un altro sapore. È un viaggio buffo e profondo, quelo di Mario e Guido, strampalato e denso di domande sulla vita. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: montaggio: musica: distribuzione: 73 MINUTI ITALIA 2012 MARIO BALSAMO MARIO BALSAMO, GUIDO GABRIELLI ANDREA FOSCHI BENNI ATRIA, TOMMASO ORBI TEHO TEARDO HASENSO interpreti: GUIDO GABRIELLI, MARIO BALSAMO. premi: Torino Film Festival 2012, Premio Speciale della Giuria a Mario Balsamo Mario Balsamo Sono regista e autore di (18) documentari: e insegno anche a farli. Compongo libri (romanzi, diari, manuali atipici), ma la mia vera propensione sarebbe stata quella di fare il dee jay (e nelle feste di amici andavo assai bene). Tra i film che ho fatto, ricordo con particolare amore: "Sognavo le nuvole colorate" (2008), "Sotto il cielo di Baghdad" (2003), "Il villaggio dei disobbienti" (2003). I miei brani musicali preferiti (di questo mese): Glad dei Traffic e Peaches En Regalia di Frank Zappa. (Alcuni de)I miei film preferiti (quasi da sempre e forse per sempre): "Morgan: A Suitable Case for Treatment" di Karel Reisz, "The shout" di Jerzy Skolimowski e "Eternal sunshine of the spotless mind" di Michel Gondry. I libri ve li risparmio per il prossimo sito (e film). Guido Gabrielli Paziente professionista, praticante yoga primitivo, eterna promessa della chitarra jazz, ma il suo dharma quotidiano è quella di editore e consulente editoriale, di fede romanista. Come tutti desidera la pace nel mondo e un premio Nobel (qualsiasi). Alla sua prima apparizione cinematografica, a questo film si augura possa portare serenità e saggezza, astenersi perditempo. La parola ai protagonisti Note di regia Il primo nome che gli ho dato era sbagliato: disco volante. No. Un tumore maligno non viene da un altro pianeta. E’ roba interna. Pulsante. Poi, dopo che me l’hanno estirpato, non mi è bastato più trovargli nomi. Avevo proprio il desiderio di raccontarlo, il cancro, e anche di fargli delle domande. Meglio: di girarle a Guido, che è il mio amico più vicino, forse il fratello maggiore che non ho mai avuto. Perché Guido di un tumore si era ammalato nel ’95: una leucemia fulminante, da cui i medici per primi si erano stupiti fosse sopravvissuto. Gli ho proposto di fare un film sulle nostre malattie, dove si ridesse, anche; anzi, soprattutto. “Un film l’avremmo già dovuto realizzare, ce l’eravamo detti in Islanda nel 1985 e ricordo anche il titolo: Noi non siamo come James Bond”, così mi rispose Guido. In quegli anni Bond (per noi, inevitabilmente, Sean Connery) sembrava che ci guardasse dall’alto del suo smoking ingualcibile e dalle stanze d’hotel piene di stelle, che non sarebbe bastata la nostra fatiscente tenda canadese a contenere, né le nostre magliette sozze. Avevamo vent’anni, andavamo all’avventura e l’agente segreto di Sua Maestà (che incrociavamo nei cinema di mezz’Europa) sembrava deriderci. Finita la telefonata con lui mi è bastato un attimo per rendermi conto che Noi, ancor più adesso, non siamo come James Bond. Lui ringiovanisce, noi invecchiamo; lui è immortale, noi siamo (stati?) a braccetto con la morte. Il suo segreto? In una finale e sorprendente conversazione telefonica di 1 minuto e 12 secondi con Sir Sean Connery: sarà vera? Muoversi è un po’ come fare documentari: si sa da dove si parte, ma vai a capire dove approderai... Così, la domanda che avevo pensato all’inizio – Ma noi perché ci siamo ammalati? è sembrata sempre più inadeguata. Si è tradotta e sublimata nel racconto di un’amicizia. E il cancro lo scenario più autentico in cui ambientarla. Proprio quando i sogni del cinema cambiano pelle e si trasformano nella realtà quotidiana: tra le cose per cui sorridere e di cui commuoversi quelle da immaginare, le infinite da fare. Nessuna risposta... Almeno così sembra... Intervista a Mario Balsamo Perché ha scelto il documentario per raccontare questa storia? Perchè il “linguaggio documentario” che qui si miscela con una forte, ma sempre dichiarata e reala ‘mise en scene’, mi sembrava il più adatto per questa storia, che mi riguarda direttamente, e che riguarda Guido, il mio migliore amico; e che ci vede in scena a raccontarci, a creare delle situazioni e a muoverci nell’assoluta imprevedibilità delle evoluzioni narrative. Ciò permette alla realtà di irrompere nel film, di giocare con noi, di metterci in scacco o di portarci, a volte, sulle strade che ha deciso lei. Ritengo che l’imprevedibilità sia una delle caratterische che accomunano la vita e i film più riusciti, e attualmente questo connubio riesce molto spesso nel cinema del reale. “Noi non siamo come James Bond” e il francese “Quasi amici” hanno in comune soprattutto il valore risolutore, “salvifico” dell’amicizia. Come mai questo tema è così sentito? L’incertezza e la precarietà di questo periodo storico sono elementi che hanno anche le loro facce positive, basta trovare una chiave per riuscirli a vivere ed affrontare: così come le malattie gravi, del resto. E generano anche , di frequente, un’altra reazione: quella di cercare dei valori di riferimento, solidi, senza però irrigidirli, per carità. L’amicizia, per me, è uno di questi. Un’amicizia che evolve, che ha i suoi momenti conflittuali (di sicuro la mia con Guido è così), ma anche una componente ludica adolescenziale e una condivisione profonda che permettono un orizzonte, un futuro che non può ormai essere visto in ampie lontananze: forse però proprio per questo è più autentico. “Vivi ogni momento come fosse l’ultimo e ciò ne garantirà l’intensità”, dicono gli orientali e sono convinto che questa sia la cosa più giusta da fare. Nella pellicola, la figura di James Bond resta sempre in sospeso come un’utopia, un modello di cartone. E’ qualcosa a cui i protagonisti tendono con tutte le loro forze ma allo stesso tempo qualcosa di palesemente, volutamente irraggiungibile. La “molla” perfetta per un road movie dal sapore nostalgico ed europeo. Perché, secondo lei, sentiamo così forte il bisogno di riscoprire le radici per guardare avanti? Credo che non si possa andare avanti, evolvere, nella vita, senza confrontarsi con il proprio passato. Ma il confronto dev’essere libero, le radici non devono essere una trappola ma un’opportunità, un tratto connotante che può subire, anzi: deve subire, parziali ridefinizioni. Io, per esempio, prima di questo film, vedevo la mia vita come degli strati sovrapposti. Una sorta di lasagna! Che stava tutta nello stesso piatto, gli strati erano della stessa pasta, ma ognuno era parecchio separato dall’altro. Ecco: dopo “Noi non siamo come James Bond”, questi strati cronologici, queste tante vite (seppur tutte mie), si sono amalgamate senza perdere varietà all’interno dello stesso sapore. Insomma, è diventata (la mia esistenza) un primo piatto decisamente più gustoso e completo! Cosa ha pensato non appena ha saputo di aver vinto il Premio della Giuria all’ultimo Torino Film Festival? Che era la cosa più bella che mi potesse capitare. E’ la tappa, o meglio: il regalo, di un percorso psicologico, spirituale ed esistenziale. A partire dalla battaglia contro il tumore, passando per una rinnovata e più sfaccettata amicizia con Guido, componendo faticosamente ma sempre con molta caparbietà e divertimento questo film, il Premio mi è sembrato una bellissima torta di compleanno. Anzi il dolce preparato per celebrare una rinascita. Anche prima di sapere del Premio, mi sono sentito fortemente e teneramente accolto dal Torino Film Festival, che mi sembra un punto di riferimento cinematografico e culturale italiano e internazionale tra i più affascinanti e di grande qualità. Cosa pensa dell’ultimo palestratissimo James Bond, Daniel Craig? Ha visto lo sketch con la Regina d’Inghilterra alle ultime Olimpiadi di Londra? Quello sketch l’ho visto e mi ha divertito. Devo però confessare che Daniel Craig non mi ‘prende’ del tutto, seppur sia un Bond che sento ‘filosoficamente’ più vicino a me, nel suo essere (come in tanti hanno sottolineato) un agente 007 più ‘figlio del popolo’ e meno altoborghese. Ma alle passioni non si comanda, talvolta anche contraddicendo i propri valori! Per me Sir Sean Connery resta l’irraggiungibile “BOND, JAMES BOND”. Detto questo devo aggiungere che “Skyfall” mi è piaciuto moltissimo (e qui parlo anche per Guido). L’ho trovato pure assai coraggioso: pochi effetti speciali e quei pochi non invasivi, pochi momenti intimi tra Bond e Bond girl, un tocco di psicanalisi… Insomma, mi sa che dovrò cambiare il titolo del film, o fare un sequel: “Noi vorremmo tanto essere come (questo) James Bond!” Come avete fatto a coinvolgere Verdone? E' stata un'idea di Guido. Pensava che il nostro film potesse piacergli per la chiave surreale e gli abbiamo mandato una mail a cui ha risposto. Stava lavorando con Paolo Sorrentino come attore, ma quando l'ha finalmente visto, mi ha scritto una email toccante, commovente, con parole semplici, dirette e spontanee. Ha trovato poesia nel nostro lavoro e ci ha rivelato, in un videomessaggio, la sua fede che l'anima sopravviva al corpo. Mi è venuta anche la voglia di dedicare una serie di documentari a questi temi - la malattia, la morte affrontati da persone popolari. Il progetto vi ha portato a elaborare non solo la malattia, ma il vostro rapporto con il tempo, con le aspettative e le illusioni, mettendovi in scena con coraggio ma anche con un quantum di narcisismo. All'inizio volevo raccontare la malattia parlando di cardiopatici gravi, ma mi sono accorto che, essendo uscito dall'esperienza del cancro, sovrapponevo troppo quello che io stesso pensavo. Il mio cinema, del resto, è sempre una danza tra l'autore e il testimone. Così ho proposto all'amico di sempre Guido, guarito dalla leucemia, di farlo insieme, col tacito accordo che non ci sarebbe stata retorica né lacrime. Insomma, volevamo parlare delle possibilità che una malattia ti offre, come succede in La guerre est declaré, di Valérie Donzelli, che ho visto dopo e che mi ha impressionato perché sia apre con la stessa scena iniziale, quella di una tac. Un altro modello, evidentemente, è l'episodio "Medici" di "Caro diario". Moretti ha reso possibile parlare della propria malattia e mettersi in gioco quando si è malati. Una malattia grave dà la sensazione che la tua vita sia in frammenti con i pezzi che volano da tutte le parti, alcuni si spezzano, altri si infilano sotto il tavolo. Ma questo disastro può diventare l'opportunità per comporre un mosaico differente. Ho ritrovato di recente i miei compagni delle elementari e mi ha colpito come tutti mi ricordassero buffo e simpatico mentre io avevo il ricordo di un bambino travagliato, chiuso in se stesso. E' stata una rivelazione, ma anche la conferma del fatto che i punti di vista, alla Marquez, non sono statici. E poi mettersi in scena soggettivamente vuol dire giocare a carte scoperte col pubblico. In una scena molto divertente, ma anche amara, c'è sua madre che le legge le carte. E rivela che a lei non aveva parlato della sua malattia. Con mia madre ho sempre avuto un rapporto di grande conflittualità ma anche di innamoramento reciproco. Allora mi sono chiesto se fosse giusto che una madre ottantenne sapesse di una malattia così grave e non me la sono sentita di dirglielo, ma poi non potevo non coinvolgerla nel film. Un mese fa ho deciso di parlargliene e questo anche grazie al progetto. Guido, a un certo punto, ha un incidente stradale e chiede di spegnere la macchina da presa. Poi quando scopre che non è stato così, si infuria. E' una classica irruzione della vita nel cinema. Era importante che la vita entrasse a gamba tesa nel film, che la finzione si mescolasse con la realtà. Guido, ripreso in quel momento di fragilità, si è sentito tradito e mi ha accusato di sciacallaggio. Questo perché lui pensa che i film siano una cosa e la realtà un'altra, mentre io no. Il film è contrappuntato dai tentativi di entrare in contatto con Sean Connery, il vostro idolo di ventenni, l'uomo invincibile e seduttivo, oggi alle prese con "un problema medico"... L'abbiamo inseguito con tante telefonate e alla fine ci ha parlato mostrando, secondo me, una sottile per quanto sbrigativa complicità. Gli manderemo il film, che è dedicato a lui, oltre che alla memoria di mio padre e alla madre di Guido. Avete capito perché si guarisce? Non l'abbiamo capito, ma sappiamo che essere in due aiuta. L'amicizia quantomeno ti permette di vivere bene. Recensioni Boris Sollazzo. Pubblico Si avvia alla chiusura il Torino Film Festival numero 30, l'ultimodi Gianni Amelio, che se ne va con il gusto d'aver surclassato la rassegna romana che tutto ha fatto per danneggiare quella piemontese. E stasera conosceremo i premiati di un buon concorso che ha, tra i favoriti, il sardo Su Re e lo svedese Call Girl. Film molto belli e potenti, ma noi preferiamo parlare di un altro piccolo grande film, Noi non siamo come James Bond. Un'opera deliziosa e profonda di Mario Balsamo che si scrive documentario e si legge Bromance, nome di un genere che racconta le storie d'amicizia virili, spesso on the road, di anime perse o disorientate che si ritrovano nella reciproca fragilità. Balsamo parte da una storia vera, la sua, da una malattia che raramente perdona, un tumore maligno. Parte da un amico ritrovato, da un uomo in cui si riconosce, da un viaggio rifatto, con il suo fraterno sodale Guido, trent'anni dopo il primo. I ricordi si intrecciano e scontrano col presente, il male che hanno combattuto entrambi (...) li unisce, forse, ancora di più. E Noi non siamo come James Bond diventa etico ed epico proprio in nome di quell'icona, di quell’agente icona e, appunta come dichiarato nel titolo, inarrivabile. Ma il loro viaggio un po' pazzo lo fanno in smoking, in cerca di Sean Connery, a cui chiedere il segreto dell'immortalità. Troveranno, per loro fortuna, una Bondgirl tra lé più affascinanti, Daniela Bianchi, che proverà ad indirizzarli al meglio. Una presenza meravigliosa ed elegante – speriamo restituita al nostro cinema, finalmente – che si contrappone all'assenza del mito. Tenero, bizzarro, divertito e commovente, il viaggio di Balsamo e del suo amico del cuore Guido parte dal documentario per diventare storia esemplare e interrogativo emotivo e riflessione esistenziale. Lo vedi e ti senti dietro quella Mini d'epoca, quasi invidi quella leggerezza e quella sensibilità con cui superano un muro per molti invalicabile. Altro che 007, quei due sono dei supereroi: così normali e veri, che vorresti abbracciarli. E quel finale ironico e stralunato, girato con tocco da narratore di genere, è la ciliegina sulla torta. La cosa più bella, forse, è che film come questi dimostrano una volta di più che tra cinema del reale e cinema di finzione ormai le barriere sono soltanto nei pregiudizi di chi non ne nota i tratti comuni. Sandro Paté. Film Review Più che il titolo di un bel documentario di Mario Balsamo e Guido Gabrielli, una dichiarazione sul mondo di oggi messo a confronto con quello di quasi trent’anni fa. Noi non siamo come James Bond. Era il 1985, infatti, quando Mario e Guido in un piccolo cinema di Reykjavík si imbattono in un film di James Bond con Sean Connery. Nel 2011, invece, decidono di girare un documentario che parte dal ricordo lontano di quel viaggio avventuroso e, malgrado le mille difficoltà, arriva lontanissimo. “Bisogna essere spilorci - dice Mario - si deve viaggiare sempre spendendo il meno possibile. Altro che grandi alberghi”. Dopo altre piccole epopee, per esempio un memorabile Latina-Amsterdam, monta sempre di più la voglia di dirne quattro a Sean Connery e alle dimostrazioni di lusso di 007. Anche perché entrambi i vecchi amici hanno avuto qualche problema di salute e hanno capito ancor più la differenza tra le esagerazioni su grande schermo e la miseria del vivere quotidiano. L’opera italiana si distingue tra tutti i film della sezione Torino 30 della giornata. (…) Un vero esperimento sui limiti del filmabile tra vita personale da una parte e logiche di un progetto audiovisivo. Quale elemento influenza l’altro? Alla fine, la coppia di amici riuscirà in qualche modo a portare a termine il progetto. Saranno in grado di colmare il vuoto lasciato da un vecchio sogno mai realizzato, reso nuovamente urgente dai casi dalla vita. Anche se a questi ultimi, i dottori in camicie bianco, danno dei nomi spaventosi: massa tumorale maligna e leucemia. Toccante l’esperimento di Noi non siamo come James Bond, filmare la propria vita, le proprie abitudini quotidiane, le ore passate con gli amici, i discorsi più che le azioni, per dare un senso ai problemi che capitano. Chissà che vita avrà questo piccolissimo documentario privato. Speriamo solo che i pensieri di Guido e le insicurezze di Mario siano ascoltate non solo dai soliti noti dei festival. Anche perché fanno proprio bene. Marzia Gandolfi. Mymovies.it Mario Balsamo, documentarista, e Guido Gabrielli, editore, sono amici da sempre e da sempre sono in viaggio sognando di essere come James Bond ma consapevoli di non essere proprio come James Bond. Trent'anni di vita e di vacanze spese insieme rincorrendo goffi e un po' sgualciti il mito dell'agente 007, che veste lo smoking con eleganza senza pari, affrontando sfrontato e a suo agio l'avventura. E a quella disinvolta naturalezza hanno sempre puntato Mario e Guido, accorgendosi molto presto dell'inarrivabilità di James Bond. Poi il mondo ha fatto i suoi giri, Mario e Guido hanno girato col mondo, infilando una brutta avventura e una 'rottura biografica', a cui hanno 'riparato' realizzando un documentario pensato molti anni prima sullo scambio tra schermo e spettatore. L'idea della loro inadeguatezza alle cose del mondo di contro a quel gestuario della disinvoltura incarnato da Sean Connery diventa un documentario e viene aggiornato alla malattia, che in forme diverse li ha colpiti producendo una frattura nelle rispettive trame esistenziali. Determinati a risignificare quell'esperienza traumatica, Balsamo e Gabrielli avviano, dentro uno smoking a noleggio e una Mini d'epoca, un road movie che dalla spiaggia di Sabaudia muove verso la Scozia di Sean Connery, che vorrebbero interrogare intorno all'immortalità. Ma se James Bond non è cambiato di una virgola, mito inossidabile e forte dei suoi stessi difetti, è Sir Connery a non sentirsi troppo bene, declinando l'intervista e confessando in una telefonata, l'ennesima 'composta' da Mario Balsamo, di doversi sottoporre a controlli medici. Non basta una Walther PPK a difendersi dalla malattia che arriva improvvisamente, interrompendo la normalità della nostra vita, ordinaria o straordinaria che sia. La sua intrusione, ci raccontano gli autori attraverso la storia vera della loro affezione, rompe lo schermo dell'immagine dell'io, confrontandoci con una verità radicale: la determinatezza della vita. Dopo il verdetto della scienza, dopo aver esperito la malattia, dopo averla battuta, Mario e Guido decidono di mettersi in schermo e di mettere in schermo la loro vulnerabilità, declinandola in dialoghi rilevanti e sensibili, dando corpo a una memoria (anche) cinematografica condivisa. Nel loro andare affrontano la corruttibilità della materia contro l'inalterabilità di un sogno che non hanno mai smesso di sognare e che non ha mai perso la licenza di piacere. James Bond è per gli autori un modello che connota un ideale di virilità forte e sicura, la cui postura dominante, il moto complessivo del corpo audace e sciolto, il gesto rapido, fermo, netto, contrasta con la manifestazione pratica e crudele della patologia, che se da una parte ha ridotto le loro qualità motorie, dall'altra ha valorizzato un prezioso vissuto emozionale. La narrazione per immagini della malattia diventa un momento importante di condivisione, il valore aggiunto in termini esperienziali che rivela allo spettatore l'unicità e l'universalità dell'individuo. Atto narrativo e terapeutico insieme, l'auto-rappresentazione cinematografica è la mediazione attraverso cui Marco e Guido comprendono (meglio) se stessi e la ragione del loro agire, nel mondo e negli anni. Nel rimettere insieme i frammenti del loro sé i registi rileggono e riportano alle giuste proporzioni le cose della vita, compresa la vita mitico-reale dell'attore scozzese, 'graffiato' dalla confessione di Daniela Bianchi, Bond girl in 007 - Dalla Russia con amore. A sopravvivere a Connery è la costruzione immaginaria di sé, un agente senza paura che si fa beffa del nemico sempre mitomane e di una morte sempre rimandata. Sulle note di Monty Norman, riarrangiate da Guido nell'Umbria del jazz, Noi non siamo come James Bond ricostruisce dentro una tenda lo spazio di un vissuto, dove l'uomo ordinario della vita e quello straordinario del cinema condividono lo stesso orizzonte di senso, lo stesso venir meno, lo stesso incredibile tramonto. Valerio Cappelli. Corriere della Sera «Posso parlare con sir Sean Connery?». 007, «l'originale», al telefono viene cercato ovunque da Mario Balsamo. Dalla casa di New York alla villa in un complesso residenziale alle Bahamas. Se Balsamo avesse saputo che Connery la sua villa ai Caraibi l'ha chiamata (traducendo con un eufemismo), «Fuori dalle scatole», non si sarebbe arreso. Ma chi è Balsamo? È il regista del film in concorso al Festival di Torino, intitolato Noi non siamo come James Bond. In uno strano connubio tra realtà e fiction, la malattia vera si combina alla spia più amata del mondo. Carlo Verdone l'ha visto in anteprima, ne ha apprezzato la poesia e l'ironia, il riassaporare la vita nelle sue cose più semplici, e ha scritto una lettera al regista, che non conosceva: «Un gioiello di rara poesia, una prova di grande coraggio, un insegnamento su come affrontare il passaggio di una grande avversità».I protagonisti sono due cinquantenni di Latina, amici inseparabili che non potrebbero essere più diversi: lo stesso Mario, che fa il documentarista. E Guido Gabrielli, lui era un uomo in carriera, responsabile della RCS Periodici a Parigi, ora fa l'editore in proprio e edita lo «Yoga Journal». Guido ha avuto una leucemia fulminante e ci convive nel fisico lavorato dalla malattia; dopo qualche tempo a Mario è stato diagnosticato un tumore a una gamba. «Il punto è che doveva essere un film sulla mia malattia, nel momento in cui irrompe nella nostra vita qualcosa che pensiamo non accadrà mai a noi stessi», racconta Mario. Poi per caso gli è tornato alla mente il viaggio che lui e Guido fecero in Islanda, in una saletta di Reykjavik videro l'ultimo 007 con Sean Connery: «L'attore, sempre a suo agio, i soldi, gli hotel a cinque stelle, le conquiste femminili; noi, sempre in difficoltà, squattrinati, in tenda, e donne zero. Decidemmo la rivalsa, girare un film su noi e lui, dove alla fine io e Guido avremmo avuto la meglio». Dopo 26 anni, il film si gira ma il finale viene messo in discussione e si sono aggiunte delle domande. «Se allora non eravamo come James Bond, ora che avevamo quasi incontrato la morte lo eravamo ancora di meno. Lui è il prototipo di quello che dovrebbe essere il mondo e non è mai così, l'uomo invincibile che sapeva cosa fare e dire in ogni circostanza. Se dovevamo raccontare la nostra malattia, non potevamo che farlo su questa falsariga». Così ha preso forma questo film sull'amicizia che è anche una riflessione «sulle cose importanti che ci hanno fatti sopravvivere. La musica, il cinema. Ma su 007 nutrivo un certo pudore e vergogna, legato com'ero ai film d'autore, avevo fatto una tesi su Pasolini...». Mario e Guido cercano di arrivare a Sean Connery attraverso Daniela Bianchi, la bond girl di Dalla Russia con amore: «Un angelo. Ha visto due estranei un po' malconci, con una strana richiesta. (...). Nel film Daniela aveva 20 anni, Connery 33, «e aveva già il parrucchino», rivela lei nel film. I due cercano l'anatomia della musica, com'è costruita: «Abbiamo pensato al road movie Leningrad Cowboys Go America» di Kaurismaki. Vanno a Umbria Jazz e si improvvisano suonatori ambulanti, per strada con la chitarra Guido suona il ritornello di 007. D'un tratto se la prende con Mario, vuole far saltare il progetto perché ha avuto un incidente d'auto e l'altro continuava a filmarlo: «Tu confondi la vita col film. La realtà è molto più bella». E sull'esempio di Nanni Moretti in Caro Diario («frequentiamo lo stesso bar, ha apprezzato il nostro film»), Guido si inabissa filosoficamente sulla malattia, «che è un'esperienza spirituale, va gestita con un suo credo, ha un suo rito, va compresa». Finalmente, Connery è dall'altra parte della cornetta. Gentile ma sbrigativo: «Non è il momento, non posso parlare ora di lavoro, mi deve scusare». Dario Zonta. L’Unità Un film scozzese, «The Shell», regia di Scott Graham, vince la trentesima edizione del Torino Film Festival. Questo è il verdetto della giuria capitanata da Paolo Sorrentino (…). Ma la notizia doppia, la vera notizia, è un'altra, ed ha a che fare con il cinema italiano. La parte positiva riguarda il Gran Premio della Giuria che va al film di Mario Balsamo Noi non siamo come James Bond, ex aequo con un film americano indipendente, Pavilion, che racconta di adolescenti nella periferia americana, tra Gus Vant Sant e Cassavetes. La parte negativa della notizia «italiana» riguarda invece l'esclusione dal palmares di un film che a noi è sembrato potentissimo e innovativo: Su Re di Giovanni Columbu. (…) Noi non siamo come James Bond è un film delicatissimo su due trentennali amici, Balsamo stesso e Guido Gabrielli, che indossano i panni della memoria per ripercorrere la cresta della loro storia fatta di picchi e abissi, girando intorno alla grave malattia, un tumore, che li ha colpiti, seppure in forme diverse. Ma che c'entra James Bond? Sullo sfondo, il mito di un eroe immortale e sempre perfetto che fa da ironico contrappunto alla loro ricerca temporale, non senza un finale a sorpresa con un'apparizione lampo, e in voce, del mitico Sean Connery. Film delicatissimo sulla vita, sulla morte e sul cinema. Silvana Silvestri. Il Manifesto «I’m an italian documentarist»: è la voce di Mario Balsamo che al telefono tenta più e più volte di raggiungere Sean Connery in una delle sue varie residenze – Bahamas, Scozia, Svizzera – Lui avrebbe voluto essere, ma non è, James Bond, anzi We're nothing like James Bond come dice il titolo del suo film firmato con Guido Gabrielli, l'editore, l'amico di gioventù, in uscita oggi nelle sale italiane. Come a restare ancora uniti quando la vita a una certa età divide, è arrivata per entrambi la cupa malattia. In questo strabiliante lavoro, che ti costringe a spalancare gli occhi, i frammenti di tempo diventano palpabili, non solo vissuti, ma sicura materia di cinema. I due uomini e un armadio – un peso comunque insostenibile da portare – sono davanti al mare. E appare per un attimo come evocato, Marco Ferreri scomparso nel ricordo dei più, spiaggia primigenia, post apocalittica. In ogni caso luogo dell'animo da abitare come si deve, in smoking per questa festa che è la vita. Smoking come quello indossato da Bond, qualcuno che non morirà mai. E come un colossal di avventure, la storia si sviluppa attraverso sorprese continue – come la vita del resto – (...). «Abbiamo deciso di andare a trovare James Bond, dicono, perché ha rappresentato il prototipo di quello che dovrebbe essere il mondo e alla fine si è rivelato che non è così». La presenza delle malattie che viaggiano anche loro nei corpi, è l'avventura più drammatica a cui si contrappone il bene, l'amicizia, il gioco, la scoperta, l'affetto – mai Balsamo ha parlato in casa del suo male e la madre che non sa dispone per lui sul tavolo le carte del suo destino. Fortuna, denaro, incontri. Hanno il sapore delle scoperte i giochi sulla spiagga con i sassi, le corse (se si riesce a correre è una conquista) i balli nel locale, suonare la chitarra come si è messo a fare Gabrielli a un livello superiore, niente giro in do, fino a una fantascientifica, metafisica scena con sacco a pelo a chiusura totale. Perfino il litigio tra Balsamo e Gabrielli che sembra non si possa più comporre, a causa di una scena da tagliare fa parte di questa avventurosa vicenda, scontro su vita e cinema e loro posto in classifica, per Balsamo cinema al primo posto, per Gabrielli il secondo perché vince la vita: «Questo film, dice Gabrielli, nato per colmare un vuoto, poi è diventato diverso, perché tu confondi la vita con il film La realtà è molto più bella» «Sì?! tu dici?» commenta con un tono che non lascia dubbi Balsamo. I suoi documentari hanno spaziato dai cieli di Baghdad, alla preparazione del G8 di Genova (tra i registi di Un mondo migliore è possibile, alla gente di Seattle (ll Villaggio del disobbedienti), la Piana degli albanesi (Storie Arbereshe), le sfide di un bambino albanese arrivato in Italia su un gommone (Sognavo le nuvole colorate), e con la stessa intensità anche la sua città di origine, Latina, disastrato luogo da cui proviene un altro documentarista con cui ha lavorato, Gianfranco Pannone. Sembra di tensione diversa questo lavoro apprezzato ovunque, una tematica ancora più rivoluzionaria. Rispetto alle peripezie di un documentarista italiano le vicende dell'agente segreto fanno ridere, la vita sempre a rischio, in bilico. Come Bond anche loro ce l'hanno fatta, pronti per un altro viaggio e un'altra avventura. E proprio nel finale irrompe infine l'autentica voce di Bond-Connery finalmente raggiunto al telefono giusto che però, dice, è molto preso al momento e riattacca senza convenevoli. Un film mai patetico, sempre profondo, assai ironico, dal ritmo che ricorda le onde del mare, inarrestabili e che sempre ci accarezzano. Francesco Gallo. Ansa A vincere in questa trentesima edizione del Torino Film Festival è stata la malinconia e la solitudine di due film apparentemente lontani come lo scozzese Shell di Scott Graham, miglior film ex aequo con l'italianissimo filmdocumentario Noi non siamo come James Bond di Mario Balsamo. La giuria presieduta da Paolo Sorrentino e composta da Karl Baumgartner (Germania), Franco Piersanti, Constantin Popescu (Romania), Joana Preiss (Francia) ha privilegiato le note grigie di due storie piene di dolore e riscatto. In Shell, atmosfere minimaliste e lunghe attese a una stazione di servizio di benzina, gestita da padre e figlia. (…) Una storia molta bella di amicizia, vita, malattia, futuro e poesia è quella raccontata da Mario Balsamo e Guido Gabrielli in Noi non siamo come James Bond. Un film che lascia l'amaro in bocca, ma poi redime con la storia vera di questi due ultracinquantenni che scoprono di non essere mai stati dei James Bond anzi, si sono ammalati di tumore, si sono poi risanati, ma non hanno ancora rinunciato a sognare. Era il 1985 quando i due, il primo regista e il secondo editore, decisero di fare il loro primo viaggio assieme. Da allora è passato tanto tempo, ma ora provati dalla vita decidono di affrontare una nuova avventura. Come si vede nel documentario, si fanno riprendere mentre vanno dal medico per i controlli, mentre litigano, mentre parlano di come è cambiata la loro vita dopo la malattia. Tornano poi sui luoghi dell'infanzia, la spiaggia di Sabaudia; a Perugia dove improvvisano un concerto in strada e poi a Milano e Roma le città attuali dell'uno e dell'altro. Vestiti in smoking, come una sorta di blues brothers stagionati e a bordo di una Mini Minor anni Sessanta, i due hanno solo una vera ossessione: quella di chiamare Sean Connery. Consigliati dalla prima Bond Girl italiana, la fascinosa Daniela Bianchi, Guido e Mario prendono il telefono e cercano più volte l'attore. All'alba di un giorno d'estate, sotto una minitenda canadese del 1985, dall'altro capo del filo arriva la risposta di Sir Connery che: «Mi spiace, non posso stare al telefono, sto facendo dei controlli medici...».