terapia - Gruppo di Ricerca Geriatrica
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INDICE CARTE DI CONTROLLO Come utilizzarle in ambito riabilitativo TERAPIA OCCUPAZIONALE Nei pazienti che sono affetti da demenza CIBO E SOLUZIONI Utilizzo sala da pranzo e “collaborazioni” PROTOCOLLO DI LAVORO La diarrea acuta nell’anziano fragile INTEGRAZIONE POSSIBILE L’operatore nell’équipe assistenziale Protocollo clinico assistenziale per il management della diarrea acuta DIMISSIONE PROTETTA Bisogni, competenze e pianificazione TERAPIA E COMPETENZE Operatore socio-sanitario e somministrazione “THE MUST” Una guida per valutare la malnutrizione LAVORO DI CURA Analisi della dimensione uomo-donna > AIOCC CARTE DI CONTROLLO Come utilizzarle in ambito riabilitativo > di G.BELLELLI *- M. PAGANI *- A.M. BRUNENGHI *- B.BERNARDINI **- S. DE MICHELI ***- M. TRABUCCHI **** IL DOCUMENTO “BIOETICA E RIABILITAZIONE”, RECENTEMENTE LICENZIATO DAL COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA (PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, 2006), SOTTOLINEA COME NON VI POSSA ESSERE UN INTERVENTO RIABILITATIVO CHE POSSA DEFINIRSI “ETICAMENTE APPROPRIATO” SENZA CHE GLI ATTORI DELLA CURA, MEDICI, INFERMIERI, OSA, OTA E FISIOTERAPISTI SI IMPEGNINO A CONTROLLARE LA CORRETTEZZA DEI PROCESSI ASSISTENZIALI ED A MISURARE GLI OUTCOMES DI SALUTE. SU QUESTO tema si è largamente discusso di “etica dell’organizzazione”, sottolineando come oggi l’intervento assistenziale implichi non soltanto istanze di natura pratico-organizzativa, ma anche teorica ed etica. Ciò nonostante, l’organizzazione delle procedure di cura in ambito ospedaliero e riabilitativo rimane per molti aspetti ancora carente. Infatti, soprattutto nei confronti delle persone fragili anziane e dementi, la prassi di controllare gli interventi assistenziali e di monitorare costantemente i risultati dei processi di cura appare per molti aspetti utopistica o lontana dal realizzarsi. A tal fine sono state proposte modalità di verifica dei risultati (e di controllo dei processi), alcune delle quali vengono di seguito discusse. 42 GEN 08 ASSISTENZA ANZIANI LE CARTE DI MONITORAGGIO DEI PROCESSI DI CURA Le carte di monitoraggio (CDM) “infermieristiche” Il cambiamento del modello di cura nell’attuale panorama sanitario (da un modello di cura orientato al trattamento della malattia acuta ad un modello fortemente sbilanciato sul trattamento delle malattie croniche) ha significativamente modificato le competenze progettuali e gestionali delle figure dell’assistenza. Il profilo dell’infermiere e l’introduzione di nuove figure di supporto (quali gli operatori socio-sanitari, OSS) favoriscono il modello della pianificazione e progettazione come costruzione, tra i diversi attori dell’assistenza, del significato e del senso delle azioni da intraprendere. A questo scopo è fondamentale la comunicazione, la discussione ed il dialogo tra tutte le figure dell’assistenza (medico, infermiere, OSS, terapista della riabilitazione). Perché ciò non rimanga soltanto un obiettivo a cui tendere, ma diventi una conquista acquisita, è necessario identificare le priorità della cura, pianificare gli interventi e suddividere i compiti tra le figure dell’équipe. Oggi, per decreto regionale, in ogni unità di riabilitazione della Regione Lombardia, l’équipe ha il dovere di compilare entro 72 ore dall’ingresso in struttura il cosiddetto “Progetto Riabilitativo Individualizzato” (PRI) con la finalità esplicita di identificare gli obiettivi della cura e la definizione dei compiti per ogni membro dell’équipe. È un percorso necessario ma che spesso rischia di restare soltanto una nobile dichiarazione di intenti. Non sempre, infatti, al PRI consegue un’analisi di monitoraggio/controllo delle procedure di assistenza effettivamente adottata. Ciò può essere dovuto ad almeno due impedimenti: un primo può essere legato alla difficoltà di strutturare sempre ed in ogni gruppo l’abitudine a lavorare insieme; un secondo, ma non meno significativo, è legato alla mancanza di strumenti specifici per il controllo delle procedure. Si prenda ad esempio il caso dell’idratazione: tutte le figure usualmente concordano sulla necessità di stimolare l’idratazione in un paziente anziano a rischio di disidratazione o incapace di assumere autonomamente i liquidi. Anche se è chiaro chi debba rilevare il rischio (medico e infermiere) non sempre si è tempestivi nel mettere in atto le procedure di controllo. Bisogna, inoltre, affinare la capacità di organizzare un programma di gestione delle procedure assistenziali che ponga sullo stesso piano, in termini di dignità di mansione, la somministrazione dei liquidi con altre procedure igienico-assistenziali specifiche per ruolo professionale. Nella UO Riabilitazione Polifunzionale AIOCC < presidio stesso (sulla CDM è possibile segnalare se alcuni interventi programmati non sono stati attuati per problemi di salute del/la paziente); d) di favorire la comunicazione tra il personale operante su turni differenti in merito a quanto è stato pianificato per il singolo paziente. Fig. 1 > Esempio di carta di monitoraggio per pazienti con patologie respiratorie in corso di O2 terapia della casa di Cura “Ancelle della Carità” di Cremona, sono state approntate alcune carte di monitoraggio (CDM). La prima è stata approntata per l’idratazione: si tratta di uno strumento utilizzato dal personale di assistenza (infermieri, OTA e OSS) che consente di verificare in momenti predefiniti della giornata (alla fine di ogni turno) se l’introito è corrispondente alle attese del progetto assistenziale. Ogni figura coinvolta nel progetto di assistenza (e non soltanto una di queste) utilizza la CDM e verifica se il compito (“fare assumere un bicchiere di liquidi al paziente”) è stato assolto correttamente. L’infermiere ha il ruolo di controllore/osservatore del progetto assistenziale, ed eventuali difficoltà nell’assunzione dei liquidi gli devono essere prontamente comunicate. Un eventuale impedimento al raggiungimento dell’obiettivo assistenziale viene ridiscusso (in tempi rapidi) nel progetto riabilitativo da tutti i componenti dell’équipe. Un’altra CDM è stata approntata per i pazienti con patologie respiratorie croniche gravi (insufficienze respiratorie); pazienti affetti da patologie di questo tipo sono infatti sempre più presenti nei reparti di riabilitazione specialistica e geriatrica, ed il bisogno di avere a disposizione strumenti che permettano di monitorare in modo preciso ed efficace le modalità di gestione degli ausili per la respirazione è molto sentito dall’équipe. La CDM da noi approntata (Fig. 1) permette: a) di precisare gli orari di somministrazione di ogni singolo presidio (occhialini, maschera di Venturi, ventilazione meccanica non invasiva) prescritto dal medico per il paziente; b) di quantificare il monte-ore di erogazione di ogni singolo presidio nell’arco delle 24 ore; c) di ridurre i margini di errori dell’infermiere nell’erogazione della terapia prescritta e del medico nella sotto/sopravalutazione del tempo “effettivo” di erogazione del Le carte di monitoraggio (CDM) “riabilitative” Le CDM possono essere utilizzate non soltanto per controllare le procedure, ma anche per controllare i risultati intermedi durante il percorso riabilitativo. Ciò è fondamentale per modularlo sulla base dei risultati acquisiti nel corso della degenza e permette al terapista della riabilitazione di partecipare più attivamente al progetto stesso. Poiché si assume che lo stato funzionale rappresenta un indicatore grossolano ma molto sensibile delle condizioni cliniche (ad un peggioramento funzionale corrisponde quasi invariabilmente in un soggetto anziano un peggioramento del quadro clinico), la CDM ha anche un carattere anticipatorio in termini di informazioni al clinico. Presso la UO Riabilitazione Polifunzionale della casa di Cura “Ancelle della Carità” di Cremona sono state approntate, sull’esperienza di altre unità di riabilitazione (Cappadonia et al., 2006) alcune CDM che sono state definite “patologia” o “disabilità” specifiche. Le CDM “patologia specifiche” sono state predisposte per la frattura di femore, l’artroprotesi di anca e di ginocchio, per l’ictus cerebri e per i parkinsonismi, mentre le CDM “disabilità specifiche” sono state predisposte per i disturbi dell’equilibrio e della marcia, per le sindromi respiratorie (BPCO, insufficienza respiratoria, etc) e lo scompenso cardiaco. Più specificamente, per la frattura di femore, l’artroprotesi di anca e di ginocchio, le CDM misurano con cadenza settimanale i cambiamenti di punteggio in tre items del Barthel Index (trasferimenti, deambulazione, scale); per l’ictus cerebri viene valutata la variazione degli score nella Motor Assessment Scale (MAS), mentre per i Parkinson-parkinsonismi si verificano i cambiamenti alla subscala 3° (motoria) della Unified Parkinson’s Disease Rating Scale. Per le CDM “disaGEN 08 ASSISTENZA ANZIANI 43 > AIOCC Fig. 2 > Esempio di carta di monitoraggio per pazienti sottoposti ad intervento chirurgico dopo frattura di femore bilità specifiche” si registrano i cambiamenti funzionali con la scala di Tinetti (disturbi dell’equilibrio e della marcia) e/o con la 6-minutes walking test distance (6’WTD) (sindromi respiratorie e scompenso cardiaco). Il terapista della riabilitazione è tenuto a compilare settimanalmente la CDM per ogni singolo paziente, discutendo eventuali problemi (mancato miglioramento o marcato peggioramento) con il medico ed il fisiatra nella riunione settimanale. I possibili vantaggi derivanti dall’uso delle CDM si possono così riassumere: a) Permettono di monitorare nel tempo e con strumenti oggettivi l’andamento di ogni singolo paziente dal punto di vista delle prestazioni funzionali, superando l’attuale prevalente procedura decisionale fondata su aspetti burocratici (i “tetti” dei tempi di degenza stabiliti dalla ASL); b) Facilitano il flusso delle informazioni tra i componenti dell’equipe; c) Permettono di intercettare eventi clinici 44 GEN 08 ASSISTENZA ANZIANI intercorrenti associati ad una perdita funzionale (ad esempio una perdita funzionale o un mancato miglioramento può anticipare la comparsa di delirium); d) Permettono di ipotizzare il raggiungimento del massimo recupero possibile per il paziente in base alla mancata progressione del recupero funzionale; e) Permettono di confrontare i risultati ottenuti su pazienti con medesime problematiche pur utilizzando tecniche riabilitative differenti. DALLE CARTE DI MONITORAGGIO ALLE CARTE DI CONTROLLO La teoria Si potrebbe obiettare che, non sempre, ad una standardizzazione dei processi di cura corrispondono outcomes migliori. In questo senso, uno sforzo necessario è quello di sistematizzare non soltanto le procedure (attraverso le CDM infermieristiche e riabilitative) ma anche le traiettorie attese di recupero funzionale per ottenere valori di riferimento che consentano ai riabilitatori di svolgere il proprio lavoro senza autoreferenzialità. Purtroppo, ad oggi, la scienza della riabilitazione non è stata ancora capace di fornire risultati convincenti in questo ambito. Più di un ricercatore ha lamentato l’insufficienza e la limitatezza degli sforzi profusi, denunciando, come conseguenza di questa incapacità ad identificare parametri di riferimento, la totale autonomia di comportamento da parte dei singoli riabilitatori (Marsden e Greenwood, 2005). Chiunque lavori in reparti di riabilitazione sa infatti che la prognosi funzionale dei pazienti è basata il più delle volte su un mix di informazioni clinico-funzionali (talora desunte in modo approssimativo), esperienza dei singoli operatori e collaborazione-motivazione percepita da parte dell’équipe più che su dati circostanziati. Inoltre i tempi di trattamento dei singoli pazienti sono non sempre determinati da variabili cliniche ma anche da variabili organizzative (ad esempio il numero e la formazione dei terapisti, la disponibilità e l’allocazione delle palestre) (Hoenig et al., 1996). A supporto di questa affermazione, sono stati recentemente pubblicati alcuni lavori scientifici che dimostrano come i pazienti più compromessi per quanto concerne lo stato di salute complessivo, o le performances cognitive, tendono a recuperare di meno dal punto di vista funzionale, non soltanto perché non in grado di tollerare carichi di lavoro impegnativi, ma anche perché, in assenza di prescrizioni specifiche, vengono di fatto sottoposti ad un trattamento riabilitativo meno intensivo (Bellelli et al., 2002; Lenze et al., 2004). Un tentativo di colmare le lacune in questo ambito, identificando curve ideali di recupero per pazienti (relativamente) omogenei in termini di caratteristiche cliniche e funzionali, avrebbe indubbiamente importanti ricadute sul piano clinico e programmatorio-organizzativo. Si potrebbe infatti definire già all’ammissione in reparto una prognosi funzionale attesa, le modalità di trattamento più appropriate ed i tempi di degenza necessari per i pazienti; in caso di mancato recupero o di mancato rispetto dei tempi di recupero previsti, si potrebbero rimettere in discus- AIOCC < sione il progetto riabilitativo ed i trattamenti effettuati. L’idea di realizzare modelli grafici per controllare la relazione tra procedure ed outcomes nacque nel Regno Unito. Walter A Shewhart ne fu il pioniere, implementando per primo dei sistemi standardizzati di controllo dei processi manifatturieri (Cappadonia et al., 2006; Mohammed et al., 2001), che portarono un grande impulso ed un miglioramento complessivo della qualità dei prodotti fino ad allora realizzati. Egli sviluppò un metodo grafico conosciuto come carta di controllo (CDC) che consentiva di definire un target (valore normativo di riferimento) con il minimo di variazioni (scostamenti) possibili dalla media. Secondo questo schema, la qualità era definita come l’insieme dei processi finalizzati a raggiungere il target senza discostarsi dai limiti di confidenza (le variazioni possibili). Più recentemente, Flaherty e Kane hanno introdotto il concetto di “glidepaths” in ambito geriatrico per indicare i confini all’interno dei quali il medico deve sapersi muovere tendendo al target di riferimento (Flaherty et al., 2002; Kane, 2004). Il termine “glidepath” è mutuato dall’aeronautica ed indica, letteralmente, i segnali luminosi e sonori che la torre di controllo utilizza per aiutare il pilota dell’aereo in fase di atterraggio: essi rappresentano certamente un grande aiuto per il pilota che, tuttavia, continua ad essere il principale responsabile dell’atterraggio mantenendo il controllo del velivolo. Per similitudine, i segnali luminosi sul monitor rappresentano, in ambito sanitario, i massimi scostamenti possibili dalla striscia tratteggiata al centro che, a sua volta, è il target di riferimento. Dalla teoria alla pratica: quale utilità per le CDC? Le CDC possono essere utilizzate in ambito sanitario per numerosi scopi, tra i quali i più importanti sono legati al controllo dei macro-outcomes (come la mortalità a 90 giorni per pazienti con frattura di femore) o dell’efficacia delle procedure di cura erogate (Todd et al., 1995). In questo senso le CDC consentono un benchmark esterno (tra ospedali) ed interno (all’interno del singolo reparto) e potreb- bero costituire, almeno in teoria, un significativo avanzamento concettuale rispetto agli attuali sistemi di qualità (utilizzati negli ospedali di alcune regioni italiane), che non vincolano il rispetto delle procedure al raggiungimento degli obiettivi. Qualora infatti, attraverso analisi matematiche, fosse possibile includere in un unico database le CDM riabilitative di un numero consistente di pazienti provenienti da più strutture, si potrebbero identificare “curve attese” di recupero funzionale, stabilire limiti di variabilità e, secondariamente, ipotizzare tariffe di pagamento differenziate in base ai risultati ottenuti. Quei reparti (e quegli ospedali) in grado di mantenere il proprio livello qualitativo nei limiti di confidenza attesi, e di avvicinarsi il più possibile al target di riferimento, potrebbero infatti ricevere contributi maggiori, a discapito di strutture (e/o reparti) inadempienti sotto questo profilo. Non è impossibile immaginare che uno scenario di questo tipo potrebbe configurare una rincorsa alla qualità dei servizi, basata non più sul rispetto di standard strutturali e procedurali ma sugli outcomes. Presso l‘UO Riabilitazione Polifunzionale “Ancelle della Carità” di Cremona sono stati raccolti nell’anno 2006 le CDM riabilitative di 170 pazienti ricoverati per frattura di femore nei due anni precedenti. Per ognuno di questi sono state misurate, con cadenza settimanale, le variazioni di score in 3 items motori del Barthel Index, oltre che altri parametri contenuti nella CDM. Sulla base dell’andamento settimanale i terapisti hanno modulato il proprio intervento e sono stati rivisti i progetti riabilitativi insieme al medico di reparto ed al fisiatra. Attualmente i dati sono utilizzati per individuare le traiettorie di recupero attese, per gruppi differenti alla baseline. Si ritiene che l’introduzione di metodologie oggettive di valutazione del paziente da riabilitare rappresenti una svolta molto incisiva nelle modalità di controllo dell’intervento riabilitativo. Ciò è ancora più valido nel paziente anziano nel quale la complessità clinica rende più difficile un giudizio empirico di efficacia dei trattamenti. * UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura Ancelle della Carità, Cremona - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia ** Dipartimento di Gerontologia e Scienze Motorie, Ospedale Galliera, Genova *** UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura Ancelle della Carità, Cremona **** Università Tor Vergata, Roma - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia BIBLIOGRAFIA - Bellelli G, Frisoni GB, Pagani M, Magnifico F, Trabucchi M. Does cognitive performance affect physical therapy regimen after hip fracture surgery? Aging Clin Exp Res. In press. - Bellelli G, Guerini F, Bianchetti A, De Palma D, Ther P, Trabucchi M. Medical comorbidity and complexity of the rehabilitative procedures for older patients with functional impairments. J Am Geriatr Soc. 2002; 50(12):2095-6. - Cappadonia C, Corsini C, Pagani M, Volontà L, Bernardini B. Dalla valutazione multidimensionale geriatrica ai percorsi di cura integrati. In: Bonaiuti D. Le scale di misura in riabilitazione, Ed. SEU, Roma 2006. Flaherty JH, Morley JE, Murphy DJ, Wasserman MR. The development of outpatient Clinical Glidepaths. J Am Geriatr Soc 2002; 50(11):1886-901. - Hoenig H, Rubenstein L, Kahn K. Rehabilitation after hip-fracture-equal opportunities for all? Arch Phys Med Rehab 1996; 77(1):58-63. - Kane R. Origin of the term “glidepaths”. J Am Geriatr Soc 2004; 52 (4):651–2. - Lenze EJ, Munin MC, Dew MA, Rogers JC, Seligman K, Mulsant BH, Reynolds CF 3rd. Adverse effects of depression and cognitive impairment on rehabilitation participation and recovery from hip fracture. - - Int J Geriatr Psychiatry 2004; 19(5):472-8. Marsden J, Greenwood R. Physiotherapy after stroke: define, divide and conquer J Neurol Neurosurg Psychiatry 2005; 76(4):465–6. - Mohammed AM, Cheng KK, Rouse A, Marshall T. Bristol, Shipan, and clinical governance: Shewhart’s forgotten lessons. Lancet 2001; 357(9254):463-7. - Presidenza del Consiglio dei Ministri. Comitato Nazionale per la Bioetica. Bioetica e riabilitazione, 17 marzo 2006. - Todd CJ, Palmer C, Camilleri-Ferrante C, Freeman CJ, Laxtan CE, Pancer MJ, Payne BV, Rushtan N. Differences in mortality after fracture of hip: the East Anglian audit. BMJ 1995; 311(7011):1025. GEN 08 ASSISTENZA ANZIANI 45 AIOCC < TERAPIA OCCUPAZIONALE Nei pazienti che sono affetti da demenza > di ALESSIA TAFANI * LA CONOSCENZA DEI SINTOMI DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER OGGI È TALE DA CONSENTIRE LA DETERMINAZIONE DEL LIVELLO DI GRAVITÀ DELLA PATOLOGIA. ESISTONO MOLTE CLASSIFICAZIONI AL RIGUARDO, GRAZIE ALLE QUALI È POSSIBILE ATTRIBUIRE IL PAZIENTE AD UN LIVELLO PIUTTOSTO CHE AD UN ALTRO A SECONDA DELLA SINTOMATOLOGIA MANIFESTATA. LA PERDITA DI MEMORIA, I DEFICIT ATTENTIVI, IL VAGABONDAGGIO, LE MODIFICAZIONI DEL CARATTERE, I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO, LE DISINIBIZIONI, IL DISORIENTAMENTO TEMPORALE E SPAZIALE, SONO SOLO ALCUNE DELLE MANIFESTAZIONI DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER. NEL MOMENTO in cui i familiari si accorgono che il loro caro non è più in grado di svolgere le normali attività di vita quotidiana in modo adeguato o sicuro, solitamente tendono a sostituirsi a lui in tutte le attività. Il problema più spesso riportato dai familiari di un paziente con demenza è infatti quello di dover fare tutto ciò che prima faceva lui poiché ora “non riesce più a farlo come prima”, “non lo fa tanto bene”, “non lo fa abbastanza velocemente”, “non lo fa come lo faceva di solito”. L’intervento terapeutico dal punto di vista occupazionale considera come nodo centrale del proprio operare proprio questa mancanza di agire che si manifesta nei pazienti con demenza di Alzheimer. Per il terapista occupazionale, l’agire umano è alla base del benessere della persona, e tutto ciò che costituisce una limitazione per lo stesso, comporta una disfunzione occupazionale che può essere risolta esclusivamente attraverso la promozione di attività particolarmente significative e nelle quali vengono sperimentate le limitazioni più gravi. Il terapista dell’occupazione cerca pertanto di intervenire non focalizzandosi esclusivamente sulle funzioni deteriorate, ma soprattutto sulla mancanza di motivazione ad agire che, se da una parte viene indotta dai familiari per garantire la sicurezza del paziente o lo svolgimento di attività fondamentali per l'organizzazione familiare, dall'altra viene aggravata da un senso di inadeguatezza percepito dal paziente stesso. Questo deriva dal fatto che il paziente sperimenta esperienze di insuccesso nell’agire, rappresentate spesso dall'impedimento da parte dei familiari di svolgere un'attività, oppure dall'impossibilità reale di portare a termine un'attività cominciata. Dunque l'approccio occupazionale (Model of Human Occupation) (Kielhofner et al., 2002) riconosce nella mancanza di motivazione ad agire e nella riduzione e o perdita dell'autostima, lo specifico patologico della demenza. L'intervento della terapia occupazionale è finalizzato a favorire un processo di ri-motivazione ed un aumento graduale dell’autostima del paziente, al fine di favorire il miglioramento o il mantenimento dello stato funzionale e di indipendenza e di controllare i disturbi del comportamento. E’ importante inoltre non dimenticare che l’intervento occupazionale viene sempre svolto in modalità ecologica, cioè con un’attenzione particolare all’ambiente in cui la persona svolge le attività. L’ambiente infatti, sia esso fisico, cioè costituito da spazi e oggetti, sia esso sociale, costituito quindi da persone, è fondamentale per lo svolgimento di qualunque attività, poiché può presentare ostacoli e barriere o al contrario facilitazioni e incoraggiamenti alla persona che agisce. Per queste ragioni le tecniche di adattamento ambientale sono molto efficaci nel compensare la ridotta o, più spesso, assente capacità di apprendimento che sta alla base di qualunque processo riabilitativo. Il processo di ri-motivazione accompagna il paziente affetto da demenza attraverso tre fasi verso “l’autonomia motivazionale”, verso una condizione cioè, in cui lo svolgimento di una attività genera e rafforza il senso di efficacia personale e di autostima a tal punto da spingere il paziente a svolgerla ancora. Il principio che sottende questo approccio riabilitativo consiste nel credere che il paziente, ricominciando a sperimentare situazioni di successo nell’esecuzione delle attività scelte per l’intervento riabilitativo, accrescerà la sua autostima e la sua motivazione ad agire, impiegando le sue energie quotidiane in attività per lui significative, piuttosto che in comporta- FEB 08 ASSISTENZA ANZIANI 37 AIOCC < menti a finalistici e spesso pericolosi. Il processo di ri-motivazione comincia con la fase di esplorazione, che prevede la collocazione del paziente in un ambiente che contenga elementi che possano suscitare il suo interesse e che possano incoraggiarlo attivamente ad esplorare il mondo che lo circonda. Questo viene reso possibile da una previa raccolta di informazioni che il terapista deve ottenere intervistando il paziente (ove possibile), i familiari, il caregiver e il personale che lo assiste, grazie alla quale collocherà nella stanza di terapia occupazionale una serie di elementi che dovrebbero suscitare l’interesse del paziente. L’esplorazione del mondo che ci circonda è fondamentale per la generazione della motivazione ad agire, dunque quanto più l’ambiente è adeguatamente stimolante ed incoraggiante, tanto più facilmente nasce l’interesse a “fare”. I pazienti che hanno completamente perso la motivazione ad agire cominciano il loro percorso proprio da questa fase, e possono essere considerati alla stregua di un artista in attesa dell’ispirazione per incominciare un’opera. L’attuazione di un intervento ecologico offre al terapista occupazionale la possibilità di creare le condizioni affinché il paziente possa trovare il giusto elemento d’ispirazione, che generi in lui la motivazione ad agire. Questo può accadere con l’ausilio dei più disparati oggetti: una pianta con una foglia secca da rimuovere, una macchinetta del caffè da preparare, un giornale da sfogliare o una foto da guardare; ciò che importa non è l’elemento che ha scatenato l’azione ma come l’esperienza è stata vissuta. In questo senso il terapista occupazionale deve assicurarsi che al di là del reale risultato prodotto dal paziente, questi sperimenti una situazione di successo e di piacevolezza nello svolgimento dell’attività. A questo punto il paziente entra di diritto nella seconda fase del processo, la fase della competenza, sicuramente più impegnativa, poiché se nella fase dell’esplorazione il risultato non era un elemento determinante ed il paziente non era mai soggetto al giudizio del terapista, ora viene prestata maggiore attenzione al raggiungimento o meno dell’obbiettivo del compito e dell’attività; in un certo qual modo la responsabilità del processo, che nella prima fase era completamente a carico del terapista, comincia ad essere equamente distribuita su entrambi gli attori dell’intervento terapeutico (terapista e paziente). Anche in questa fase è fondamentale l’intervento ecologico, che in questo caso deve fornire ed utilizzare una serie di accorgimenti al fine di compensare soprattutto i deficit cognitivi. Così una sveglia per richiamare l’attenzione su un dato evento, una sequenza di foto per ricordare o seguire il corretto ordine dell’attività, i colori e le illustrazioni per orientare nel tempo e nello spazio, e tante altre strategie ecologiche da condividere anche con i familiari ed il caregiver, diventano fondamentali per raggiungere il risultato e far sperimentare al paziente la sensazione di efficacia delle proprie azioni e di successo nelle attività che svolge. In questa fase l’esplorazione è molto più attiva da parte del paziente e meno pilotata dal terapista. Per questo, mano a mano che il paziente accresce il senso di fiducia nelle azioni che compie e nei risultati che produce, è sempre più disposto a “mettersi in gioco” accettando o anche richiedendo di svolgere attività più complesse, spesso collegate a ruoli molto forti rivestiti in passato. È esattamente in questo momento che il paziente può essere considerato nella terza ed ultima fase del processo ri-motivazionale, la fase dell’autonomia. In questa fase si presuppone che il paziente sia in grado di interessarsi spontaneamente allo svolgimento di un’attività, ma ciò non significa necessariamente che sia in grado di svolgerla realmente in modo indipendente. In tutte le tre fasi del processo ri-motivazionale il terapista non deve mai perdere di vista le caratteristiche evolutive della patologia, e deve essere perfettamente consapevole del fatto che l’intervento riabilitativo non è volto al ripristino delle funzioni perdute ma delle attività e della partecipazione del paziente nella vita quotidiana (OMS, 2002). Sarà quindi cura del terapista stabilire il reale livello di autonomia funzionale del paziente ed il conseguente livello di assistenza necessario in ognuna delle atti- vità svolte. Il processo di ri-motivazione non avviene, infatti, senza considerare tutte le questioni e le situazioni legate alla sicurezza del paziente e dei suoi cari; per questo l’autonomia motivazionale non corrisponde al concetto di indipendenza. Spesso le attività oggetto e mezzo dell’intervento con il paziente affetto da Alzheimer non possono essere svolte senza una stretta supervisione o anche assistenza da parte dei familiari o di un caregiver, che sono parte attiva dell’intervento occupazionale. Nella nostra esperienza al Day Hospital del Centro di Medicina per l’Invecchiamento del Policlinico Gemelli a Roma, i pazienti che sono stati inseriti in un piano di intervento occupazionale che prevedesse il processo ri-motivazionale e che lo hanno terminato, hanno dimostrato di ridurre i comportamenti aggressivi, di normalizzare il ritmo sonno-veglia e di diminuire la tendenza al vagabondaggio; si è altresì verificato in alcuni casi anche un miglioramento del livello funzionale con conseguente riduzione della quantità di assistenza necessaria; infine i familiari e i caregiver hanno riferito una percezione del carico assistenziale notevolmente minore. Alla luce di tutto ciò possiamo considerare l’intervento terapeutico occupazionale un mezzo per aumentare il livello di qualità della vita del paziente e delle persone che vivono con lui. * Coordinamento Corso di Laurea in Terapia Occupazionale - Dipartimento di Scienze Geriatriche, Gerontologiche e Fisiatriche, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma BIBLIOGRAFIA - Kielhofner Gary et al. “Model of Human Occupation:Theory and application”. Third edition. Baltimora: Lippincott Williams and Wilkins, 2002. - OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). “ICF-Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute”, Spini di Gardolo (Trento): Erickson, 2002. FEB 08 ASSISTENZA ANZIANI 39 AIOCC < CIBO E SOLUZIONI Utilizzo sala da pranzo e “collaborazioni” > di ERMELLINA ZANETTI * LA MALNUTRIZIONE, CHE NEI PAESI SVILUPPATI COLPISCE QUASI ESCLUSIVAMENTE GLI ANZIANI, PUÒ DIPENDERE IN UNA CERTA PERCENTUALE DI SOGGETTI DA CAUSE ORGANICHE MA È LEGATA ALTRESÌ, E SPESSO IN MISURA ALQUANTO MAGGIORE, A FATTORI DI ORDINE PSICOLOGICO, SOCIALE E CULTURALE. I PROBLEMI nutrizionali degli anziani possono essere prevenuti, controllati o trattati, ma i segnali di pericolo di malnutrizione sono spesso sottovalutati. La malnutrizione, invece, è una realtà tutt’altro che trascurabile anche nei paesi più evoluti, è presente soprattutto in ambito istituzionale, ma non é infrequente anche nei soggetti a domicilio con "scarse" disponibilità economiche ed alimentari. In ospedale il bisogno di alimentazione è spesso poco considerato: la routine ospedaliera che propone il cibo indipendentemente dalle abitudini e dai ritmi dei ricoverati, la necessità di esami che richiedono il digiuno, l’erronea convinzione che in pochi giorni di ricovero non si possano arrecare danni allo stato nutrizionale di un soggetto, sono tutti aspetti che contribuiscono a sottostimare il fabbisogno di nutrienti. In realtà molte situazioni che richiedono il ricovero in un setting per acuti si associano alla necessità di modificare la qualità e la quantità dei nutrienti nel breve o nel lungo periodo (Archibald, 2006). In uno studio condotto negli USA è emerso che sono malnutriti il 20% degli anziani che vivono al domicilio, il 40% di coloro che sono ricoverati nelle Case di Riposo e il 50% dei pazienti ospedalizzati (Steen, 2000). In un altro studio gli autori utilizzando il Mini Nutritional Assessment hanno identificato in una popolazione di anziani ricoverati in Casa di Riposo il 32% di pazienti malnutriti e il 43% di pazienti a rischio di malnutrizione (Menecier 1999). La presenza di malnutrizione caloricoproteica incide in modo rilevante sia sugli aspetti clinici sia economici (Pallini, 1998). In particolare la malnutrizione si associa ad un maggior rischio di ospedalizzazione, istituzionalizzazione e mortalità. I soggetti anziani malnutriti hanno un maggior rischio di contrarre malattie infettive, le ferite guariscono più lentamente e la durata della degenza è maggiore rispetto agli anziani con pari condizioni di salute, ma normonutriti (Reuben, 1995; Sullivan, 1995; Wright, 2006). Affrontare possibili soluzioni efficaci è certamente complesso e richiede il lavoro sinergico di amministratori, clinici, manager. Tre interessanti articoli (Wright, 2006; Nijs, 2006; Simmons, 2005) offrono alcuni suggerimenti per la pratica, basati sull’evidenza, di non impossibile attuazione anche da parte degli infermieri e degli ope- ratori che operano nelle geriatrie e nelle case di riposo italiane. La sala da pranzo è indicata dai tre articoli come il luogo privilegiato, sia in una geriatria per acuti sia in casa di riposo, per interventi assistenziali finalizzati a migliorare l’apporto nutrizionale, prevenire la perdita di funzione, favorire la socializzazione e realizzare l’integrazione tra infermieri, fisioterpisti e operatori di supporto. Nell’articolo di Wright (Wright, 2006) i pazienti anziani ricoverati in una geriatria per un evento acuto assumono più cibo se mangiano in una sala da pranzo supervisionata da un operatore di supporto formato. Infermieri e fisioterapisti individuano insieme i pazienti che, in relazione alle condizioni cliniche e funzionali e al potenziale riabilitativo, possono trarre vantaggio dal recarsi in sala da pranzo per consumare il pasto. I due articoli di Nijs (2006) e di Simmons (2005) richiamano l’attenzione sugli TABELLA 1 > DESCRIZIONE DELLE CARATTERISTICHE CHE DEFINISCONO LO “STILE FAMIGLIA” Variabile Stile famiglia Allestimento del tavolo Tovaglia che copre il tavolo; bicchieri di vetro (no bicchieri di plastica); piatti di ceramica; posate al completo; tovaglioli; piccole composizioni floreali Servizi Pasto caldo servito sui piatti a tavola; menu a scelta tra (almeno 2 opzioni possibili per pietanza) Personale di assistenza Il personale si siede ai tavoli e chiacchiera con i residenti; almeno un infermiere o un volontario ad ogni tavolo; eventuali farmaci vengono distribuiti prima dell’inizio del pasto; nessun cambio di personale durante l’ora del pasto; la sala da pranzo viene riordinata subito dopo il pasto, solo quando tutti hanno finito Residenti I residenti sono equamente distribuiti (circa 6 persone per ciascun tavolo); i residenti decidono quando farsi servire le vivande; la maggior parte si serve da sola e l’infermiere o il compagno di tavolo dà un mano; si inizia a mangiare quando sono tutti seduti; prima di iniziare si fa un momento di riflessione o di preghiera Indicazioni organizzative Non vengono svolte altre attività nel contempo (per esempio, pulizie, visite mediche); nella sala pranzo non possono entrare visitatori o operatori sanitari (tranne nei casi in cui è necessaria la presenza di qualcuno che deve aiutarli a mangiare); in ogni caso essi devono essere già presenti nella sala all’inizio del pasto e devono rimanere fino alla fine dell’ora di pranzo; non devono esserci carrelli dei farmaci e cartelle cliniche MAR APR 08 ASSISTENZA ANZIANI 43 AIOCC < aspetti più squisitamente alberghieri delle Case di Riposo: i due lavori dimostrano come piccole modifiche all’organizzazione (adottare uno stile familiare, dedicare attenzione alla preparazione delle sale da pranzo) possano migliorare l’apporto di cibo nei soggetti a rischio di malnutrizione (Tabella 1). Anche in questi due lavori la collaborazione tra infermieri (che valutano i fattori di rischio, individuano i pazienti, pianificano l’assistenza in relazione all’intensità del bisogno e ne valutano l’efficacia) e gli operatori di supporto (che predispongono la sala da pranzo, assistono gli ospiti secondo quanto stabilito dagli infermieri, registrano quanto il soggetto ha mangiato) è fondamentale ed efficace. Tutti gli articoli richiamano l’attenzione degli infermieri e gli operatorio a pensare l’assistenza utilizzando anche le potenzialità fornite dall’ambiente e dall’organiz- zazione, che non devono essere subiti, ma possono essere ragionevolmente modificati in funzione degli obiettivi assistenziali. * Gruppo di Ricerca Geriatria, Brescia e AIOCC BIBLIOGRAFIA - Archibald C Meeting the nutritional needs of patients with dementia in hospital.Nursing Standard. 2006; 20 (45): 41-45. - Menecier P., Menecier-Ossia P., Bonnet N., Bonin P, Lenoir C, Kaker N.: Protein-energymalnutrition associated factors among nursing home elders. Age & Nutrition 1999 vol 10 - Nijs KA, de Graaf C, Kok FJ, van Staveren WA Effect of family style mealtimes on quality of life, physical performance, and body weight of nursing home residents: cluster randomised controlled trial. BMJ. 2006 May 20;332(7551):1180-4. - Pallini P, Saggioro A., Aspetti clinici nutrizio- VALUTARE PER COMPRENDERE I PROBLEMI DEL PAZIENTE ANZIANO Corsi di Formazione per Operatori dell’Assistenza (OSS, ASA) accreditati al programma regionale lombardo di Educazione Continua in Medicina-Sviluppo Professionale Continuo Il Gruppo di Ricerca Geriatrica e l’Associazione Italiana Operatori Cure Continuative propongono alcuni incontri di formazione rivolti agli Operatori dell’Assistenza con l’obiettivo di illustrare i principi, i metodi e gli strumenti della valutazione multidimensionale in relazione a specifici aspetti dell’assistenza con cui si confrontano tutti i giorni gli operatori. I docenti utilizzeranno prevalentemente una metodologia interattiva, proponendo ai partecipanti di rileggere e riflettere situazioni assistenziali di comune esperienza. LA QUOTA DI ISCRIZIONE COMPRENDE: • iscrizione al singolo corso, • dispensa e materiale didattico • certificazione della partecipazione e dei crediti acquisiti LA SEDE DEI CORSI È L’AULA FORMAZIONE DEL GRUPPO DI RICERCA GERIATRICA IN VIA ROMANINO, 1 - BRESCIA INFORMAZIONI E ISCRIZIONI: ELISA BOLDINI - [email protected] - TEL. 030 3757538 SCHEDA ISCRIZIONE WWW.GRG-BS.IT nali e ricadute economiche. Atti del Convegno "Investire in nutrizione per le Aziende Sanitarie del nuovo millennio" Nutricia Service, 1998:7-11. - Reuben DB, Greendale GA, Harrison GG. Nutrition screening in older persons. Journal of the American Geriatrics Society. 1995;43(4):415-25. - Simmons SF, Levy-Storms L.The effect of dining location on nutritional care quality in nursing homes.J Nutr Health Aging. 2005 Nov-Dec;9(6):434-9. - Steen B.: Preventive nutrition in old age - a review J Nutr Health Aging 2000;4(2):114-9 Sullivan DH, Walls RC, Bopp MM. Proteinenergy undernutrition and the risk of mortality within one year of hospital discharge: a follow-up study. Journal of the American Geriatrics Society. 1995;43(5):507-12. - Wright L, Hickson M, Frost G: Eating together is important: using a dining room in an acute elderly medical ward increases energy intake. J Hum Nutr Diet. 2006 Feb;19(1):23-6 20 marzo 2008 - Ore 14,30-18,30 “VALUTARE E COMPRENDERE IL PAZIENTE ANZIANO: LA MALNUTRIZIONE” 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) 14.30-15.30 La malnutrizione: causa di tanti problemi 15.30-16.30 Quando il soggetto anziano è a rischio di malnutrizione? 16.30-17.30 Approccio assistenziale in presenza di disfagia 17.30-18.30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Destinatari: 30 Operatori dell’Assistenza Quota di iscrizione: € 30.00 (IVA 20% compresa) 17 aprile 2008 - Ore 14,30-18,30 “VALUTARE E COMPRENDERE IL PAZIENTE ANZIANO: IL DOLORE” 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) 14.30-15.30 Il dolore del corpo e della mente 15.30-16.30 La valutazione del dolore: il paziente ha sempre ragione! 16.30-17.30 Osservare per comprendere: la valutazione del dolore nei pazienti affetti da demenza 17.30-18.30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Destinatari: 30 Operatori dell’Assistenza Quota di iscrizione: € 30.00 (IVA 20% compresa) 15 maggio 2008 - Ore 14,30-18,30 “VALUTARE E COMPRENDERE IL PAZIENTE ANZIANO: I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO” 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) 14.30-15.30 Agitazione, aggressività, fuga: ecco i disturbi del comportamento 15.30-16.30 Come riconoscere e comprendere i disturbi del comportamento 16.30-17.30 Approccio all’anziano con disturbi del comportamento 17.30-18.30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Destinatari: 30 Operatori dell’Assistenza Quota di iscrizione: € 30.00 (IVA 20% compresa) MAR APR 08 ASSISTENZA ANZIANI 45 > AIOCC PROTOCOLLO DI LAVORO La diarrea acuta nell’anziano fragile LA GERIATRIA, E LA RIABILITAZIONE GERIATRICA IN PARTICOLARE, SONO UN CAMPO RICCO DI AREE DI CONFINE TRA LE DIVERSE COMPETENZE, AREE IN CUI SI INCONTRANO E/O SI SCONTRANO FILOSOFIE E VISIONI APPARTENENTI A FIGURE PROFESSIONALI DIVERSE QUALI I MEDICI, I FISIOTERAPISTI, GLI INFERMIERI, GLI OPERATORI SOCIO-SANITARI, ETC. SE NON DEFINITE CORRETTAMENTE LE AREE DI COMPETENZA, I RAPPORTI TRA LE FIGURE PROFESSIONALI POSSONO FARSI ALQUANTO PROBLEMATICI, CREANDO DISSAPORI E SCONTRI ALL’INTERNO DELL’ÉQUIPE. DIVENTA pertanto essenziale individuare le aree di confine e definire in modo puntuale e preciso i tempi di intervento e le figure coinvolte. Ciò potrebbe favorire la crescita di competenze inter-professionali e la condivisione delle procedure assistenziali in un’ottica di crescita della qualità assistenziale che è fondamentale in geriatria e riabilitazione. La creazione di un gruppo interdisciplinare per la definizione degli interventi assistenziali nei pazienti affetti da diarrea acuta ha avuto, nel nostro setting, questo preciso obiettivo, ed è stata un’occasione per esplicitare e condividere un’area di confine tra le diverse professioni dell’équipe sanitaria. La diarrea acuta è un problema clinico comune nei paesi sviluppati ed una piaga epidemica nei paesi in via di sviluppo: si calcola che essa sia responsabile nel mondo di circa due milioni di morti l’anno. Negli USA viene stimato che si verifichino tra i 211 e 375 milioni d’episodi di diarrea acuta l’anno (con un’incidenza di 1,4 episodi per persona), con più di 900.000 ospedalizzazioni e 6.000 morti (Lew et al., 1991). Nella popolazione anziana fragile può avere anche conseguenze gravi: negli Stati Uniti circa la metà delle morti per diarrea avviene in persone con età superiore ai 74 anni con una mortalità complessiva superiore di quasi 400 volte rispetto a quella dell’adulto (Bennet e Greenough, 1999). TABELLA 1 - CAUSE DI DIARREA DA CONSIDERARE NEL PAZIENTE ANZIANO (BENNET E GREENOUGH, 1999) Non infettive Infettive Iatrogenesi. Pseudodiarrea da fecalomi. Antibiotico Batteri: Campilobacter spp, Clostridium difficile, terapia. Supplementi dietetici. Antiacidi e farmaci Clostridium perfrigens, Escherichia coli, Salmonella spp, inibitori della secrezione acida gastrica, lassativi. Vibrio colera, Vibrio spp. Farmaci vari (digossina, chinidina, metildopa). Neoplasia: lesioni ostruttive, adenoma secretorio, Virus: Adenovirus, Astrovirus, Calicivirus, coronavirus, tumori ormone secernenti. agente Norwalk, Rotavirus. Malattie gastrointestinali: lesioni ostruttive, Parassiti: Criptosporidium, Entameba istolitica, Guardia. dismotilità con formazione di fecalomi, malattia infiammatoria intestinale, malassorbimento. Aterosclerosi intestinale ed ischemia. Ipertensione portale. Malattie sistemiche: diabete mellito, tireotossicosi, uremia. 40 MAG GIU 08 ASSISTENZA ANZIANI Diagnosi Si definisce diarrea l’emissione di feci di peso superiore ai 250 g/24 ore, con un aumento della frequenza d’evacuazione (superiore a tre volte al giorno) e una riduzione della consistenza (feci liquide) (McQuaid, 2002). Viene definita acuta quando è d’insorgenza improvvisa e di durata minore di due settimane. Le cause della diarrea nell’anziano possono essere molteplici (Tab. 1), ma solo in alcune situazioni e in alcuni pazienti è indicato un approfondimento diagnostico ed eziologico (coprocoltura, esami ematochimici). Essendo generalmente la diarrea una manifestazione di breve durata ed a risoluzione spontanea, la valutazione approfondita ed eziologica è indicata solo per alcuni pazienti e per le forme moderate o gravi (Bennet e Greenough, 1999; McQuaid, 2002). Recenti studi clinici raccomandano la valutazione medica in caso di: • febbre >37.8; • diarrea ematica; • dolore addominale; • 6 o più emissioni di feci liquide nelle 24 ore; • diarrea acquosa profusa e disidratazione; • pazienti “fragili” e/o immunocompromessi; In ogni caso, la valutazione iniziale deve escludere la presenza di fecalomi (Bennet e Greenough, 1999; Beers e Berkow, 2000). Le indagini di laboratorio di prima istanza comprendono l’esame emocromocitometrico con conta leucocitaria, gli elettroliti serici, gli esami di funzionalità renale, alcuni parametri nutrizionali (albuminemia, transferrinemia e colesterolemia), l’esame delle feci per la ricerca del sangue occulto e globuli bianchi. AIOCC < La coprocoltura è indicata in pazienti con grave diarrea, febbre, sangue fecale, leucociti fecali, o nel caso di diarrea prolungata nel tempo (Bauer et al., 2001). Trattamento Lo scopo principale della terapia è il mantenimento dell’equilibrio idroelettrolitico, attraverso la reintroduzione delle perdite gastrointestinali con liquidi appropriati per volume e composizione. Sebbene apparentemente banale, si tratta in realtà di un intervento estremamente importante dal punto di vista della salute dell’individuo. Un editoriale di Lancet (Lancet, 1978), pubblicato sul finire degli anni ‘80, ha affermato che la terapia reidratante orale ha rappresentato il più importante avanzamento della medicina nell’ultimo ventennio, poiché un intervento di questo tipo è in grado, se effettuato correttamente, (in alcuni casi in combinazione con la ripresa dell’alimentazione) di migliorare la prognosi ed accorciare i tempi della malattia. Sono disponibili in commercio soluzioni reidratanti già confezionate che possono essere diluite con acqua ed utilizzate facilmente. In realtà la soluzione reidratante può essere confezionata artigianalmente combinando un cucchiaino di sale (3.5 g), 1 cucchiaino di bicarbonato di sodio (2.5 g di Na HCO3), 8 cucchiaini di zucchero (40 g) e 40 ml di succo di arancia (1.5 g KCl) diluiti in 1 litro di acqua. La quantità di liquido da introdurre è stimata in 50-100 ml/Kg/24 ore a seconda dello stato d’idratazione e delle perdite (Rose Burton, 1995). Il modo più semplice per controllare che la soluzione reidratante sia assunta in quantità adeguate è quello di verificare che la diuresi si mantenga appropriata (una minzione ogni 3-4 ore) e che il peso specifico delle urine sia minore di 1.015 (Bennet e Greenough, 1999). La stabilità del peso corporeo può essere considerata come un grossolano indicatore d’adeguatezza della terapia praticata nelle forme di diarrea prolungata. Gli agenti antidiarroici possono essere utilizzati come sintomatici in pazienti con diarrea lieve-moderata. Gli agenti oppia- cei aiutano a ridurre il numero e la liquidità delle scariche diarroiche, controllano l’urgenza fecale e forse ne riducono la durata, ma sono sconsigliati nel paziente con diarrea ematica, febbre elevata, segni di tossicità sistemica o in pazienti in cui si assista ad un peggioramento delle condizioni cliniche nonostante la terapia. La loperamide è il farmaco preferito ad un dosaggio iniziale di 4 mg, seguito da 2 mg da assumere dopo ogni scarica (massimo 16 mg/die). Una terapia antibiotica empirica può essere indicata dopo l’esecuzione di coprocoltura o in caso di diarrea di gravità moderato-severa, non acquisita in ospedale ed associata a febbre, tenesmo e/o feci ematiche. I farmaci di scelta nel trattamento antibiotico empirico sono i fluorochinolonici (ciprofloxacina 500 mg; ofloxacina 400 mg o norfloxacina 400 mg due volte al giorno), o il trimetoprim-sulfametossazolo e la doxiciclina 100 mg due volte al giorno (McQuaid, 2002). Protocollo di lavoro per un management multiprofessionale (medico-infermieristico) della diarrea acuta nell’anziano fragile: il perché di un impegno e lo sviluppo del protocollo La potenziale pericolosità della diarrea acuta nella persona anziana e fragile dipende dalle conseguenze della disidratazione e delle alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico (Bennet e Greenough, 1999, Beers e Berkow, 2000). I rischi della disidratazione sono maggiori nell’anziano per molteplici ragioni, tra le quali la riduzione del senso della sete, della capacità renale di concentrazione delle urine, della riduzione dell’efficacia del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dell’ormone antidiuretico. Inoltre l’anziano è più esposto al rischio di scompenso cardiaco, insufficienza renale, effetti collaterali da farmaci o pratiche assistenziali incongrue (ad esempio la disidratazione da “mancata idratazione”). Il quadro è ancora più complesso per le persone disabili, a volte incapaci di comunicare o soddisfare le proprie necessità e dipendenti da altri nel loro approvvigionamento idrico. Un ulteriore problema è la “malpratice”. Infatti il trattamento della diarrea è spesso rappresentato da una terapia sintomatica (antidiarroici, fermenti lattici, disinfettanti intestinali) e dalla somministrazione di liquidi per os (the, acqua, “brodini”) o per via parenterale (in genere soluzione fisiologica o glucosata). In realtà, questo tipo di approccio non è appropriato non solo perché la diarrea è un meccanismo di difesa dell’organismo che permette l’eliminazione di tossine o batteri e, quindi, non sempre andrebbe arrestata immediatamente (Bennet e Greenough, 1999), ma anche perché i liquidi persi con la diarrea sono isosmolari e di composizione elettrolitica simile al siero, molto diversi dalle soluzioni fisiologiche o glucosate che usualmente vengono impegate (Rose Burton, 1995); allo stesso modo il the ed il caffè, per la presenza di derivati xantinici, possono addirittura peggiorare il quadro clinico, aumentando la peristalsi intestinale (Rose Burton, 1995), così come non vi sono sufficienti indicazioni, allo stato attuale, in merito ad un utilizzo diffuso dei fermenti lattici (Boyle et al., 2006; Miselli, 1997). Per tutti questi motivi, dopo una condivisione delle varie problematiche tra tutte le figure dell’équipe, si è deciso di creare un gruppo di lavoro allargato a medici, infermieri e farmacista. La stesura di un protocollo di lavoro integrato è stato considerato un modello paradigmatico di assistenza multiprofessionale, i cui elementi centrali sono stati individuati nell’esplicitazione e nella condivisione da parte di ogni figura del gruppo della corretta pratica assistenziale (che cosa fare), delle responsabilità (chi fa che cosa) e delle modalità di controllo (come verificare l’efficacia dell’intervento). Gli obiettivi di fondo consistevano nel definire le corrette modalità di gestione della diarrea acuta, nell’uniformare i comportamenti diagnostici ed assistenziali e nel porre le basi per un’efficace comunicazione e coordinazione tra le varie figure. Il protocollo è stato realizzato in tre incontri a cadenza mensile. Ogni figura che ha partecipato all’incontro si è presentata dopo aver effettuato una revisione della letteratura più recente e dopo aver anaMAG GIU 08 ASSISTENZA ANZIANI 41 AIOCC < lizzato attentamente le possibili carenze organizzative incontrate nella gestione del problema “diarrea acuta” nella pratica quotidiana. L’incontro tra le diverse figure professionali ha permesso di integrare in un progetto comune sensibilità, esigenze e priorità differenti. Uno dei punti centrali che il protocollo ha voluto mettere in risalto è la figura infermieristica come case-manager del problema. Nelle prime righe del protocollo si afferma in modo esplicito che la gestione del paziente con diarrea non complicata è compito e responsabilità dell’infermiere: è l’infermiere che stima le perdite, assicura un’adeguata assunzione della soluzione reidratante e controlla tramite il monitoraggio dei parametri vitali l’efficacia dell’intervento. Solo in presenza di precise condizioni di rischio (i semafori rossi) viene coinvolto il medico che procede ad un successivo approfondimento diagnostico. La procedura così descritta è stata schematizzata in un protocollo costituito da una serie di passi successivi: 1) diagnosi accurata: l’infermiere esclude forme spurie di pseudoriarrea verificando tramite l’esplorazione rettale che non vi siano fecalomi; 2) prima igiene ed identificazione della potenziale pericolosità del quadro clinico: viene praticata una corretta igiene intima e si rilevano i parametri vitali e possibili condizioni di rischio (semafori rossi); 3) management: l’infermiere decide, dopo aver escluso o rilevato condizioni di rischio, se deve essere coinvolto il medico nella gestione/terapia della diarrea; 4) terapia: vengono reintegrate le perdite secondo protocollo e sono monitorati i parametri vitali. Conclusioni La stesura di questo protocollo di lavoro si è rivelata proficua dal punto di vista operativo ed anche utile per una crescita professionale dei membri dell’équipe; la stesura del protocollo ha infatti obbligato i partecipanti ad una metodologia di lavoro che costituisce la base del lavoro in équipe. Il protocollo è stato realizzato infatti tra- mite una serie incontri preordinati, ai quali ogni membro del gruppo di lavoro si è presentato dopo aver studiato la letteratura più recente, aver definito le determinanti del proprio intervento, aver considerato le difficoltà e le esigenze delle altre figure coinvolte nel progetto di assistenza e aver proposto un modello pratico di intervento. Gli elementi centrali di questo lavoro sono stati l’esplicitazione e la condivisione da parte di ogni figura dei seguenti quesiti: “che cosa fare, chi fa che cosa, come verificare l’efficacia dell’intervento?”. Il protocollo ha definito in modo chiaro le competenze ed i limiti di ogni singola figura dell’assistenza, mettendo in risalto l’infermiere come case-manager del problema. Crediamo che l’esperienza positiva della discussione e del lavoro possa essere utilizzata come modello di collaborazione tra medici ed infermieri in cui “ ciò che rende produttivo il lavoro di collaborazione è ciò che le persone hanno di differente, non ciò che hanno in comune”, e che possa essere utilizzata per la revisione di altre pratiche clinico assistenziali comuni. United States, 1979 trought 1987. JAMA 1991; 265(24):3280-4. - McQuaid KR. Alimentary tract. In: Tierney L, McPhee S, Papadakis M. Current medical diagnosis and treatment, McGraw Hill, New York 2002:613-5. - Miselli M. Va rivisto il giudizio sui fermenti lattici? Informazione sui farmaci 1997; 21 n. 5. - Rose Burton D. Fisiologia clinica dell'equilibrio acido-base e dei disordini elettrolitici, McGraw Hill Libri Italia, Milano 1995. - Water sugar and salt (editorial). Lancet 1978;2 (8084):300-1. BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA - Alam Nur H, Yunus M, Faruque AS, Gyr N, Sattar S, Parvin S, Ahmed JU, Salam MA, Sack DA. Symptomatic hyponatremia during treatment of dehydrating diarrheal disease with reduced osmolarity oral rehydratation solution. JAMA 2006; 296 (5):567-73. - Avery ME, Snyder JD. Oral Therapy for acute diarrhea. The underused simple solution. N Engl J Med 1990; 323(13):891-4. - Miselli M. Soluzioni idroelettrolitiche orali nella diarrea. Informazione sui farmaci 1994; 18 n.3:139-142. - Thielman NM, Guerrant RL. Clinica Practice.Acute infectious diarrhea. N Engl J Med 2004; 350(1):38-47. A CURA DI BIBLIOGRAFIA - Bauer TM, Lalvani A, Fehrenbach J, Steffen I, Aponte JJ, Segovia R, Vila J, Philippczik G, Steinbruckner B, Frei R, Bowler I, Kist M. Derivation and validation of guidelines for stool cultures for enteropathogenic bacteria other than Clostridium difficile in hospitalized adults. JAMA 2001; 285(3):313-9. - Beers MH, Berkow R. The Merck manual of geriatrics, Edizione italiana Medicom, Milano 2000. Bennet RG, Greenough WB III. Diarrhea in the elderly. In: Hazzard WR, Blass JA, Ettinger WH Jr, Halter JB, Ouslander JG. Principles of Geriatric Medicine and Gerontology, McGraw Hill, New York 1999:1507-17. - Boyle RJ, Robins-Browne RM, Tang ML. Probiotic use in clinical practice: what are the risk? Am J Clin Nutr 2006; 83(6):1256-64. - Lew JF, Glass RI, Gangarosa RE, Cohen IP, Bern C, Moe CL. Diarrheal deaths in the MARCO PAGANI - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia SALVATORE SPECIALE - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia TIZIANA DOSI - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona STEFANIA GUERRESCHI - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona SUOR CARLA ANTONIMI - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona GIUSEPPE BELLELLI - UO Riabilitazione Polifunzionale Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia MARCO TRABUCCHI - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia - Università Tor Vergata, Roma MAG GIU 08 ASSISTENZA ANZIANI 43 > AIOCC Protocollo clinico assistenziale per il management della diarrea acuta La diarrea è definita come “un aumento della frequenza di evacuazione, superiore a tre volte al giorno, o l’emissione di feci liquide”. La gestione della diarrea acuta è compito infermieristico. L’infermiere deve: 1) Escludere, tramite esplorazione rettale, la presenza di pseudodiarrea secondaria a fecalomi. 2) Eseguire successivamente igiene accurata. a) Se il paziente è continente alle feci: viene fornita crema protettiva allo zinco ed iniziato monitoraggio delle caratteristiche e della frequenza della diarrea; b) Se il paziente è incontinente alle feci, dopo il lavaggio e l’applicazione della crema protettiva allo zinco, viene posizionato pannolone. 3) Monitoraggio e controllo del paziente: 3a. Rilevazione dei parametri vitali A. Modificazione dello stato mentale (delirium); B. Pressione arteriosa; C. Frequenza cardiaca; D. Temperatura corporea; E. Frequenza Respiratoria; F. SO2 (Saturazione di Ossigeno ematico). 3b. Rilevazione e monitoraggio della diuresi (una diuresi accettabile corrisponde ad almeno 40 ml/ora); Se il paziente è continente alle urine monitorare la diuresi raccolta in vaso (consigliata verifica ogni almeno tre ore); Se il paziente è incontinente alle urine monitorare la diuresi mediante cateterismo (se il paziente è già portatore di catetere vescicale) o, in alternativa, pesare il pannolone (consigliata verifica almeno ogni tre ore). 4) Valutazione specifica della diarrea: (volume delle feci emesse, presenza di sangue, presenza di sintomi, frequenza). Devono essere identificate una serie di condizioni la cui presenza va intesa come potenzialmente pericolosa e suggestiva di diarrea di tipo infiammatorio (semaforo rosso). In presenza di semaforo rosso il paziente deve essere valutato dall’équipe (infermiere, OSS/OTA, medico). Semafori rossi: - febbre (>37.8°); - emissione di sangue e/o coaguli misto a feci; - dolore addominale di intensità rilevante; - >6 scariche di feci non formate nelle 24 ore; - episodio singolo di diarrea di volume ed entità significative (oltre 1 litro); - fragilità biologica del paziente; - terapia antibiotica prolungata o sistema immunitario compromesso; - delirium ipocinetico o ipercinetico e/o marcato peggioramento delle condizioni cliniche generali. In assenza di semafori rossi • Preparare e somministrare soluzione dicodral (50-100 ml /kg per os nelle 24 ore). • Calcolare bilancio idrico (monitoraggio introito/perdite). • Sospendere alimentazione per os (sono vietati anche the, caffè, succhi di frutta, o 44 MAG GIU 08 ASSISTENZA ANZIANI AIOCC < altre bevande ad eccezione dell’acqua) per le prime 12 ore. • Monitorare la diuresi almeno ogni tre ore. • Monitorare parametri vitali almeno ogni sette ore: A. Modificazione dello stato mentale (delirium); B. Pressione arteriosa; C. Frequenza cardiaca; D. Temperatura corporea; E. Frequenza Respiratoria; F. SO2 (Saturazione di Ossigeno ematico). • A giudizio dell’infermiere, per il comfort del paziente e a fini puramente sintomatici (ma deve esserne considerata la potenziale pericolosità), può essere somministrata loperamide (lopemid, dissenten, imodium, diarstop, etc) 2 cp in un’unica somministrazione ed a seguire una compressa dopo ogni scarica. Superate le cinque compresse il paziente deve essere valutato dal medico. • Se il paziente non assume la quantità prescritta di liquidi per os (almeno 2 litri ogni 24 ore) l’infermiere deve chiamare il medico per iniziare terapia endovenosa con elettrolitica III endovena 40-50 ml/Kg /die (più le perdite). In presenza di semafori rossi 1) Non somministrare farmaci antidiarroici; 2) Chiamare il medico di riferimento (medico responsabile del reparto o, se assente, il medico di guardia). L’equipe deciderà in merito alla: - richiesta di esami ematochimici: (emocromo completo, elettroliti sierici, funzionalità renale, feci per sangue occulto, coprocoltura, compresa ricerca tossina clostridium difficilis); - somministrazione di terapia antibiotica orale (ad esempio ciprofloxacina 500 mg x 2 die, ofloxacina 400 mg die o norfloxacina 400 mg x 2 die, trimetoprim-sulfametossazolo x 2 die, doxiciclina 100 mg x 2 die); 3) Eliminare il pannolone e/o le feci secondo la procedura dei rifiuti ospedalieri speciali (tramite halipac). PROCEDURA DI IGIENE INTIMA PER PAZIENTE CON DIARREA RISCHIO DELLA PROCEDURA: CONTAMINAZIONE FECALE DELLA VAGINA E DELL’URETRA 1. Procurare tutto il materiale necessario per la procedura sistemandolo nei pressi del paziente (telo monouso, guanti monouso, manopole monouso, bricco con acqua tiepida, asciugamani, sacchetto nero per smaltire i rifiuti, ricambio di biancheria o pannolone). 2. Se sono previsti accertamenti diagnostici sulle feci (es. coprocoltura, esame chimico fisico delle feci, SOF), preparare una provetta ed effettuare la procedura. 3. Creare un ambiente adeguato (temperatura e privacy) ed informare il paziente in merito a ciò che ci si accinge ad effettuare. È utile richiedere esplicitamente la collaborazione del paziente alla manovra. 4. Rimuovere le feci con la manopola: si procede rimuovendo inizialmente il materiale fecale dalla regione vaginale (dall’avanti all’indietro) e solo successivamente dall’ano. 5. Detergere accuratamente e lavare con acqua saponata, sciacquare ed asciugare per compressione e non mediante manovre di sfregamento. 6. Applicare la crema protettiva all’ossido di zinco (ad esempio decortil). 7. Rivestire il paziente. 8. Eliminare il materiale utilizzando l’apposito sacco nero o halipac (vedi procedura semaforo rosso). MAG GIU 08 ASSISTENZA ANZIANI 45 AIOCC < DIMISSIONE PROTETTA Bisogni, competenze e pianificazione > di SILVIA MARCADELLI * - VITO PETRAIA* - VITA SAPONARO** LA CORRETTA PIANIFICAZIONE DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA COMPORTA UNA PUNTUALE RILEVAZIONE DEI BISOGNI ASSISTENZIALI EFFETTUATA ATTRAVERSO UN’ACCURATA RACCOLTA DEI DATI. PER EVITARE CHE I DATI RACCOLTI SIANO INFLUENZATI DA ELEMENTI SOGGETTIVI LEGATI ALL’ESPERIENZA ED ALLA COMPETENZA DI OGNI INFERMIERE, CON CONSEGUENTE SCARSA EFFICIENZA ORGANIZZATIVA CHE PRODUCE UNA BASSA STANDARDIZZAZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DELL’ÈQUIPE PROFESSIONALE, È BENE RICORRERE ALL’UTILIZZO DI SCALE VALIDATE SCIENTIFICAMENTE E INDICI ASSISTENZIALI. LE scale di valutazione e gli indici assistenziali favoriscono: una lettura oggettiva e confrontabile dei fenomeni assistenziali; una omogenea valutazione quali-quantitativa dell’assistenza; la comunicazione o lo scambio di informazioni tra le diverse discipline (Silvestro, 2003). In particolare, quando si prende in considerazione il bisogno di assistenza della persona anziana si deve fare i conti con una complessità la cui conoscenza è indispensabile per tutti i professionisti che partecipano all’intero percorso assistenziale; chi si occupa del paziente anziano non può prescindere da questa complessità: solamente una strategia che si fondi sulla valutazione globale dei bisogni può essere garanzia di un piano di cura e assistenza finalizzato alla conservazione della massima autonomia personale e sociale (Zanetti, 2003). La dimissione del paziente dall’ospedale La dimissione di un paziente, dall’ospedale al territorio, al domicilio, presso altre strutture, ma anche nel passaggio da un reparto all’altro è un momento critico nel percorso di qualunque persona, perché si modificano i regimi di cura, cambiano i contesti e gli operatori sanitari, l’intensità e la tipologia degli interventi (Bono e Dutto, 2006). La preparazione del paziente alla dimissione è quindi una responsabilità assistenziale, oltre che un diritto del paziente e dei suoi familiari, che devono essere coinvolti e accompagnati in tutto il percorso assistenziale. In particolare, occorre porre una specifica attenzione agli scambi informativi su di uno stesso caso e non si può non fare riferimento alla modalità di valutazione della persona e dei suoi bisogni, valutazione che viene inevitabilmente influenzata dal contesto di riferimento. Ed il contesto di ricovero ospedaliero e quello domiciliare sono talmente diversi da determinare enormi differenziazioni nella valutazione effettuata. Uno dei più grossi problemi che emerge nella comunicazione ospedale/territorio in merito alle dimissioni protette, quindi alla continuità dell’assistenza, è proprio legato a questo aspetto di difficoltà nel cogliere l’intera complessità della persona, durante e dopo l’evento malattia. La valutazione della persona che viene fatta all’interno del contesto ospedaliero è fortemente condizionata dai ruoli messi in atto durante il ricovero. Cioè, la struttura organizzativa ospedale esercita una forte pressione sulla persona (orari, luoghi, abbigliamento…) che gli impedisce di esprimere le attività di vita, considerate da un punto di vista assistenziale, come farebbe al domicilio, tanto che alcune di queste attività “escono” dalla rilevazione ai fini del processo assistenziale1. A questo si deve aggiungere che la previsione di un progetto assistenziale a domicilio, eseguita prima della dimissione anche dagli stessi operatori dell’assistenza territoriale e domiciliare, può incorrere negli stessi errori di valutazione, se l’assistito non è già conosciuto dal servizio, proprio perché la persona osservata in ospedale, una volta reinserita nel suo ambiente, “cambia” completamente. La continuità dell’assistenza, che inizia con la corretta valutazione della persona e della sua rete informale di cura, si può perseguire attraverso modalità di ascolto reciproco (tra operatori dell’ospedale e operatori del territorio), attraverso il superamento del problema del contenimento dei tempi di ricovero che impone dimissioni precoci, se la persona o la famiglia non sono pronte per affrontare la situazione a domicilio. Ma ancora, attraverso la definizione ed attuazione di percorsi di educazione ed addestramento all’uso di tecnologie o metodiche assistenziali già durante il ricovero anche se i tempi sono stretti, attraverso lo sviluppo di modalità di comprensione e coinvolgimento dei familiari durante il momento del ricovero, anche se oggigiorno i reparti ospedalieri osservano ancora gli orari di apertura ai parenti. La pianificazione della dimissione La pianificazione della dimissione è un intervento assistenziale che mira ad assicurare la continuità delle cure; consiste in una serie di passaggi in cui dovrebbero essere analizzati i problemi della persona ad uno ad uno. Per fare ciò è possibile utilizzare uno strumento di valutazione, l’indice di BRASS (Blaylock Risk Assessment Screening) (Blaylock e Cason, 1992), che può essere adottato già dal momento dell’ammissione in reparto e che consente di identificare i pazienti a rischio di ospedalizzazione prolungata o di dimissione difficile. Pianificare la dimissione consente di attuare quei percorsi educativi di cui sopra, al fine di garantire l’adattamento alla nuova condizione di malattia considerando che, con lo spostamento del fulcro delle malattie da acute e infettive a croLUG 08 ASSISTENZA ANZIANI 39 TABELLA 1 - STRATEGIE IN BASE AL PERCORSO POST-DIMISSIONE (SAIANI ET AL., 2004) AIOCC < Percorso post-dimissione Interventi da includere nel piano di dimissione Rientro a domicilio - assicurare informazioni - attivare interventi di educazione terapeutica per migliorare la capacità di autogestione per problemi temporanei o definitivi Rientro a domicilio con attiva- - informare e discutere col paziente e i familiari gli obiettivi assistenziali zione di servizi (prestazioni da garantire a domicilio mediche, infermieristiche o - condividere con i familiari la richiesta di attivazione dei servizi territoriali sociali programmate e di sup- - valutare le informazioni da trasmettere ai colleghi dell’assistenza porto) territoriale o del distretto (ADI ecc) per garantire continuità - garantire informazioni sulle modalità e recapiti dei servizi Attivazione del servizio sociale - condividere con i familiari o le persone di riferimento la richiesta di per residenze sanitarie protet- attivazione servizi sociali te, strutture riabilitative, o strut- - attivare il servizio sociale ture di accoglienza sociale - valutare le informazioni da trasmettere a coloro che assicureranno le prestazioni nell’ambito residenziale Attivazione dell’assistenza do- - condividere con i familiari o le persone di riferimento la richiesta di miciliare integrata (ADI) che attivazione dell’ADI di solito inizia con una valuta- - attivare precocemente la valutazione multidimensionale zione multidimensionale - trasmettere informazioni ai colleghi del servizio domiciliare integrato Trasferimento a un servizio - condividere con i familiari o le persone di riferimento l’attivazione del per post acuti servizio post acuti concordando anche tempi e modalità del trasporto - attivare il servizio - organizzare il trasferimento del paziente - garantire le informazioni sulla situazione assistenziale del paziente e sulle esigenze di continuità nico-degenerative (Ardirò, 1997), per diminuire i prolungati periodi di ricovero è diventato necessario ridefinire il rapporto ammalato-operatori sanitari: quanto più aumentano le cure a domicilio, le opportunità di home-care, tanto più è indispensabile una collaborazione e cooperazione attiva dei pazienti e dei suoi familiari che volenti o nolenti sono coinvolti nel processo di cura e assistenza domiciliare. Particolare attenzione andrà posta nel tempo di attivazione del processo educativo poiché, ad esempio, non si può istruire un paziente (o un suo familiare) alla gestione di una terapia insulinica (o anticoagulante) il giorno prima della dimissione, ma è necessario iniziare subito dopo che il medico ha impostato la terapia utilizzando tutte le occasioni che si presentano in modo organico ed efficace. L’indice di BRASS L’indice di BRASS fu sviluppato come parte del sistema di pianificazione della dimissione soprattutto per i pazienti di età superiore a 65 anni. Le autrici (Blaylock e Cason, 1992) nella revisione della letteratura, e nella loro esperienza nel campo dell’assistenza in geriatria e gerontologia, hanno identificato i seguenti fattori: età, stato funzionale, stato cognitivo, supporto sociale e condizioni di vita, numero di ricoveri pregressi/accessi al pronto soccorso e numero di problemi clinici attivi. Esse hanno incluso anche: modello comportamentale, mobilità, deficit sensoriali e numero dei farmaci assunti perché, pur non essendo elementi dello stato funzionale o cognitivo, sono rilevanti per gli anziani. L’esperienza delle autrici suggeriva che se il paziente doveva assumere un grande quantitativo di farmaci c’era un’alta probabilità di non compliance al programma terapeutico. Descrizione Il BRASS index è uno strumento utilizzato per identificare i pazienti a rischio di ospedalizzazione prolungata o di dimissione difficile. I dati vengono raccolti compilando la scala, intervistando i parenti o chi assiste il malato. L’indice di BRASS indaga 10 dimensioni (di cui si è detto sopra): • età; • situazione di vita; • supporto sociale; • stato funzionale; • stato cognitivo; • modello comportamentale; • deficit sensoriali; • ricoveri pregressi/accessi al pronto soccorso; • problemi clinici attivi; • numero di farmaci assunti. Popolazione Soggetti ricoverati in ospedale. Modalità di somministrazione Esaminatore: infermiere. Punteggio: la valutazione viene fatta in base ad informazioni fornite da un familiare o persona che conosce bene il paziente. Sono identificate 3 classi di rischio: basso (0-10) medio (11-19) alto (20-40). Durata: la scala è semplice, veloce (circa 15 minuti) e richiede un addestramento minimo. Applicazione Clinica: Valutazione dei pazienti al momento dell’ammissione in ospedale. Limiti Il BRASS index è di facile compilazione e fornisce buone indicazioni per la validità predittiva (specificità) in merito ai problemi legati alla dimissione del paziente: i pazienti ad alto rischio frequentemente non vengono dimessi a domicilio (Mistiaen et al., 1999). Tuttavia dagli studi effettuati (Mistiaen et al., 1999; Chaboyer et al., 2002) l’indice risulta poco sensibile nell’identificare quei pazienti che potrebbero presentare problemi dopo la dimissione probabilmente perché, effettuando la rilevazione al momento dell’ammissione in ospedale, non vengono correttamente identificati quegli anziani che peggiorano le loro condizioni a causa dell’ospedalizzazione, specie se prolungata. Note conclusive La BRASS, somministrata come parte dell’assessment di ammissione del paziente in ospedale, consente di identificare coloro che sono a rischio di ospedalizzazione prolungata e di dimissione difficile: in particolare i pazienti che avranno bisogno dell’attivazione di servizi (o risorse assistenziali anche familiari) per l’assistenza extraospedaliera. Gli infermieri possono utilizzare le informazioni che la BRASS fornisce per pianificare interventi educativi da attuare durante il ricovero e programmi assistenziali domiciliari. Ulteriori studi sulla sua applicazione sono necessari per meglio precisare i livelli di rischio, poiché il bilanciamento tra specificità e sensibilità può essere raggiunto scegliendo diversi livelli di cut-off nel punteggio dell’indice (MiLUG 08 ASSISTENZA ANZIANI 41 > AIOCC BLAYLOCK RISK ASSESSMENT SCREENING (BRASS) Cerchiare ogni aspetto che viene rilevato Età (una sola opzione) 0 = 55 anni o meno 1 = 56 – 64 anni 2 = 65 – 79 anni 3 = 80 anni e più Condizioni di vita e supporto sociale (una sola opzione) 0 = Vive col coniuge 1 = Vive con la famiglia 2 = Vive da solo con il sostegno della familiare 3 = Vive da solo con il sostegno di amici/conoscenti 4 = Vive solo senza alcun sostegno 5 = Assistenza domiciliare/residenziale Stato funzionale (ogni opzione valutata) 0 = Autonomo (indipendente in ADL e IADL) Dipendente in: 1 = Alimentazione/nutrizione 1 = Igiene/abbigliamento 1 = Andare in bagno 1 = Spostamenti/mobilità 1 = Incontinenza intestinale 1 = Incontinenza urinaria 1 = Preparazione del cibo 1 = Responsabilità nell’uso di medicinali 1 = Capacità di gestire il denaro 1 = Fare acquisti 1 = Utilizzo di mezzi di trasporto Stato cognitivo (una sola opzione) 0 = Orientato 1 = Disorientato in alcune sfere* qualche volta 2 = Disorientato in alcune sfere* sempre 3 = Disorientato in tutte le sfere* qualche volta 4 = Disorientato in tutte le sfere* sempre 5 = Comatoso Modello comportamentale (ogni opzione valutata) 0 = Appropriato 1 = Wandering 1 = Agitato 1 = Confuso 1 = Altro Mobilità (una sola opzione) 0 = Deambula 1 = Deambula con aiuto di ausili 2 = Deambula con assistenza 3 = Non deambula Deficit sensoriali (una sola opzione) 0 = Nessuno 1 = Deficit visivi o uditivi 2 = Deficit visivi e uditivi Numero di ricoveri pregressi/accessi al pronto soccorso (una sola opzione) 0 = Nessuno negli ultimi 3 mesi 1 = Uno negli ultimi 3 mesi 2 = Due negli ultimi 3 mesi 3 = Più di due negli ultimi 3 mesi Numero di problemi clinici attivi (una sola opzione) 0 = Tre problemi clinici 1 = Da tre a cinque problemi clinici 2 = Più di cinque problemi clinici Numero di farmaci assunti (una sola opzione) 0 = Meno di tre farmaci 1 = Da tre a cinque farmaci 2 = Più di cinque farmaci PUNTEGGIO TOTALE ________________ * sfere: spazio, tempo, luogo e sè Punteggio Indice di rischio 0-10 rischio basso Soggetti a basso rischio di problemi dopo la dimissione: non richiedono particolare impegno per l’organizzazione della loro dimissione, la disabilità è molto limitata 11-19 rischio medio Soggetti a medio rischio di problemi legati a situazioni cliniche complesse che richiedono una pianificazione della dimissione ma probabilmente senza rischio di istituzionalizzione maggiore o uguale a 20 alto rischio Soggetti ad alto rischio perché hanno problemi rilevanti e che richiedono una continuità di cure probabilmente in strutture riabilitative o istituzioni stiaen et al., 1999). Gli aspetti di criticità evidenziati possono essere limitati da ripetute valutazioni durante l’ospedalizzazione, soprattutto se prolungata, proprio perché le persone anziane possono modificare il loro stato funzionale nel corso del ricovero poiché “la valutazione, specialmente se rigorosa - anche quando sembra difficile o senza speranza - è garanzia di rispetto per ogni singola persona e indicazione di ottimismo sulle potenzialità dell’anziano e sulle sue possibilità di rispondere in modo significativo a un progetto di care (Trabucchi, 2003)”. 42 LUG 08 ASSISTENZA ANZIANI NOTE 1 Si veda, a tal proposito, Bassetti O., “La professione infermieristica oggi: le nuove priorità”, Rosini Editrice, Firenze 2002, cap. 3. *Servizio Assistenza ASL 4, Matera *** Servizio Riabilitativo e Tecnico Sanitario e Sociale ASL 4, Matera BIBLIOGRAFIA Altieri L. (a cura di) Ascolto e partecipazione dei cittadini in sanità: dimensioni, modelli, prospettive, problemi. Salute e Società 2002 n.2, Franco Angeli, Milano. Ardigò A. Società e Salute Franco Angeli, Milano1997. Bassetti O. La professione infermieristica oggi: le nuove priorità Rosini Editrice, Firenze 2002. Blaylock A, Cason C. Discharge Planning predicting patients’ needs, Journal of Grontological Nursing 1992; 18(7). Bono L, Dutto A. Dimissioni del paziente, Dossier Infad, N. 9 2006, http://aifa.progettoecce.it. Chaboyer W, Kendall E, Foster M. Use of the “BRASS” to identify ICU patients who may have complex hospital discharge planning needs, Nursing Critical Care 2002;7(4). D’Addato S, Marcadelli S, Sinoppi M. Famiglia e Servizio di Assistenza Domiciliare nell’Anziano: modello Teorico-pratico, Giornale di Gerontologia 2000;XLVIII(11). Grimmer K, May E, Dawson A, Peoples C. Informing Discharge Plans. Assessment of Elderly Patients in Australian Public Hospital: a Field Study The Internet Journal of Allied Health Sciences and Practice 2004;2(3). La Rosa M, Orsi W, Porcu S. 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La valutazione multidimensionale: per misurare e comprendere in Zanetti E. (a cura di) La valutazione in geriatria, Carocci Faber, Roma 2003. Zanetti E. (a cura di) La valutazione in geriatria, Carocci Faber, Roma 2003. AIOCC < TERAPIA E COMPETENZE Operatore socio-sanitario e somministrazione > di MASSIMO PADERNO* - ERMELLINA ZANETTI ** I SERVIZI SOCIO-SANITARI PER LA POPOLAZIONE ANZIANA, ED IN PARTICOLARE LE RESIDENZE SANITARIE ASSISTENZIALI (RSA), SONO DA ALCUNI ANNI CHIAMATI A FARSI CARICO DI UN’UTENZA CARATTERIZZATA NON SOLO DA UN’ETÀ SEMPRE PIÙ AVANZATA E DA ELEVATI LIVELLI DI DISABILITÀ, MA ANCHE DA UNA CRESCENTE COMPLESSITÀ ED INSTABILITÀ DELLE CONDIZIONI CLINICHE. SONO ben note le ragioni di questa evoluzione della domanda: l’aumento della speranza di vita, del quale beneficiano - in virtù dei progressi della medicina - anche persone affette da gravi patologie croniche; la capacità da parte dei nuclei familiari di far fronte - grazie alle migliorate condizioni di reddito e soprattutto alla disponibilità di personale di assistenza privata a domicilio (le cosiddette “badanti”) - a situazioni gravate da un minor livello di instabilità clinica (Guaita, 2001); le profonde trasformazioni che hanno investito l’ospedale, riducendone le capacità di garantire non solo una funzione “assistenziale”, talvolta impropria, storicamente esercitata nei confronti degli anziani, ma spesso perfino la necessaria stabilizzazione clinica (Capasso, 1999; Savini, 1999). Una simile evoluzione della domanda era in buona parte prevista dalla normativa nazionale istitutiva delle Residenze Sanitarie Assistenziali (D.P.C.M. del 22 dicembre 1989) quale presidio della rete dell’ “Assistenza Geriatrica”, fortemente collegato con le strutture ospedaliere, ed è stata affrontata in termini più concreti dalla Regione Lombardia, che ha sancito per queste strutture residenziali l’obbligato- rietà di un’autonoma organizzazione sanitaria (D.G.R. n 7435 del 14 dicembre 2001). Questo riconoscimento normativo e “culturale”, tuttavia, non ha impedito che le RSA restassero “ai margini” del sistema sanitario, con difficoltà crescenti non solo a reperire le figure sanitarie (data la grave carenza di queste figure, in particolare degli infermieri, sul mercato del lavoro), ma anche a garantire loro lo stesso riconoscimento (economico e di status) della Sanità. I problemi posti alle RSA dall’aumento dei bisogni sanitari non sono però solo di natura “quantitativa”, non sono cioè risolvibili grazie al “parallelo” aumento delle prestazioni sanitarie reso possibile dall’incremento numerico di figure professionali che operano con modelli mutuati dalla medicina clinica. I bisogni specifici degli anziani “fragili” ospiti delle RSA - con il loro bagaglio di polipatologia, di disabilità e di instabilità clinico e funzionale - postulano un nuovo modello di assistenza integrata: un modello capace di promuovere autonomia e benessere coniugando la gestione delle attività della vita quotidiana e la presa in carico complessiva della vita della persona all’interno della RSA (la care) che vede proprio nell’ausiliario socio-assistenziale -ASA- l’attore principale con la gestione delle fluttuazioni cliniche e delle riacutizzazioni delle malattie croniche (le cure) (Senin, 1999). Il modello di assistenza che si è andato faticosamente costruendo nelle nostre strutture chiede agli infermieri - accanto ed oltre le competenze tecniche - crescenti capacità di coordinamento e di guida del gruppo di lavoro e, al tempo, stesso presuppone una crescita complessiva delle competenze sanitarie di tutta l’équipe ed in particolare di quegli operatori - (gli ASA) - che ne costituiscono la figura di base. In questo scenario si colloca l’istituzione da parte del Ministero della Sanità, in AGO SET 08 ASSISTENZA ANZIANI 37 > AIOCC accordo con la Conferenza Stato-Regioni, della figura dell’Operatore Socio Sanitario (OSS) (Conferenza Stato-Regioni, 2001), e la possibilità di riconvertire a questa nuova figura gli operatori di base delle RSA, gli ausiliari socio-assistenziali. L’OSS ha rappresentato e rappresenta per le RSA un’opportunità - senz’altro parziale, non priva di limiti e di ambiguità, ma concreta - per affrontare una situazione particolarmente complessa. Analizzando la storia della figura dell’Operatore Socio Sanitario possiamo considerare che era in origine pensata per uniformare sul territorio nazionale il profilo e la formazione degli operatori “di supporto” che nelle diverse Regioni avevano denominazioni (ASA, OSA, ADB, ADEST…), profili e percorsi formativi diversi. Subito dopo l’approvazione del profilo nel gennaio 2001 la concomitante carenza di infermieri da un lato e i mutati bisogni degli utenti di alcuni servizi, in particolare delle Residenze Sanitarie Assistenziali, hanno innescato un corto circuito formativo che, in particolare in alcune Regioni (Lombardia e Veneto tra le prime), ha messo sul mercato con circa 200 ore di formazione teorico pratica (rispetto alle 1200 previste dal profilo) i primi OSS riqualificando gli Ausiliari Socio Sanitari in servizio da almeno tre anni e che avevano ottenuto la qualifica di ASA con un corso di almeno 600 ore teorico pratiche. La formazione degli OSS è successivamente proseguita su due binari, quello della riqualifica degli ASA e quello rivolto agli studenti che avevano terminata l’istruzione di base obbligatoria. La formazione è stata affidata alle agenzie formative regionali (centri di formazione professionali) che si convenzionavano con le aziende ospedaliere e le aziende sanitarie locali per il tirocinio. La Regione Lombardia ha provveduto al monitoraggio dei percorsi formativi ed è emersa una sostanziale divergenza di contenuti, di ore dedicate alle diverse discipline e alla durata dei singoli tirocini. Il risultato è quello di un operatore che forse ha qualche nozione in più, spesso troppo clinica, ma ancora troppo disomogenea e parcellizzata è la sua formazione e spesso le strutture che lo inseriscono con le competenze e le mansioni previste dal 38 AGO SET 08 ASSISTENZA ANZIANI TABELLA 1: UTILIZZO DI UNA PROCEDURA PER VALUTARE LE CAPACITÀ DELL'OSS NELLA PREPARAZIONE E SOMMINISTRAZIONE DELLA TERAPIA ENTERALE Chi prepara e somministra É adottata una procedura per valutare la capacità dell'OSS nella la terapia preparazione e somministrazione della terapia enterale? non risponde n. % Infermiere prepara e OSS somministra si, una procedura scritta si, esiste una prassi non scritta no Totale n. % n. % n. % 2 50% 1 25% 1 25% 4 20% 1 50% 1 50% 2 10% 2 100% 2 10% L’OSS prepara e somministra durante la notte o in assenza dell'infermiere L'infermiere caso per caso affida la terapia enterale all'OSS L'infermiere caso per caso affida la somministrazione della terapia enterale all'OSS 3 25% 2 17% 5 42% 2 17% 12 60% Totale 3 15% 4 20% 7 35% 6 30% 20 100% profilo devono prevedere un ulteriore periodo di addestramento/inserimento (Zanetti, 2004). Nel 2003 la Conferenza Stato-Regioni ha definito l’istituzione di un percorso di formazione complementare per l’OSS. In particolare, la maggiore formazione era finalizzata all’attribuzione all’OSS della terapia farmacologia, suscitando tra gli infermieri dubbi, perplessità e resistenze. La delibera della Regione Lombardia numero VIII/ 005101 del 18 luglio 2007 ha apportato alcune importanti novità rispetto al profilo dell’OSS e attribuisce all’OSS l’attività di somministrazione della terapia enterale, superando il ruolo di sola collaborazione previsto dalla normativa precedente (D. R. G. Regione Lombardia numero VII 5428 del 06.07.2001). Questo cambiamento dovrà essere affrontato e gestito in particolare dagli infermieri che avranno il compito sia di creare le condizioni organizzative, affinché gli OSS possano con sicurezza e competenza somministrare la terapia entrale, sia di valutare la competenza dei singoli operatori. Gli infermieri, abituati a “lavorare da soli”, dovranno familiarizzare con il processo di attribuzione dei compiti, valutando, di situazione in situazione, l’opportunità o meno di attribuire all’OSS la sommini- strazione della terapia enterale, in relazione all’accertamento e alla definizione dei bisogni assistenziali di ogni singolo utente a della pianificazione dell’assistenza di cui l’infermiere rimane l’unico responsabile. L’autonomia decisionale in merito a quali utenti l’OSS può somministrare i farmaci è, infatti, solo dell’infermiere. La somministrazione della terapia non richiede solo abilità manuale, che potrebbe evidenziare solo l’aspetto esecutivo, ma comprende approfondite ed integrate conoscenze teoriche che coinvolgono anche la sfera psicomotoria: coordinamento, osservazione, comunicazione (Cantarelli, 1998). La somministrazione della terapia richiede, infatti, la comprensione della prescrizione, la conoscenza dei principali farmaci in relazione alle loro modalità di somministrazione, preparazione e conservazione, la corretta preparazione e somministrazione (in particolare in presenza di più farmaci da somministrare allo stesso utente) e il controllo di eventuali effetti collaterali. Ciò configura la somministrazione della terapia come un’attività complessa che le particolari condizioni di fragilità degli utenti di una RSA possono ulteriormente rendere complessa. La somministrazione della terapia in queste strutture si AIOCC < TABELLA 2: REGISTRAZIONE DELLA TERAPIA Dove è registrata la terapia prescritta? n° % Cartella clinica e successivamente sulla scheda di terapia 32 76% Direttamente sulla scheda di terapia 8 19% Non risponde 2 5% Totale 42 100% configura tuttaltro che di routine e richiede specifiche competenze. La possibilità di affidare la somministrazione della terapia enterale agli OSS, opportunamente preparati, deve dunque rimanere una scelta basata sulla valutazione delle competenze e della complessità e richiede l’adozione di modelli organizzativi ad hoc. Certamente ciò può rappresentare per l’infermiere sia un percorso di crescita professionale sia un’opportunità per ottimizzare la propria attività a favore delle situazioni assistenziali più complesse e difficili, peraltro oggi tutt’altro che rare in RSA. Indagine conoscitiva in 40 RSA lombarde Per valutare come attualmente all’interno delle RSA lombarde è organizzata la somministrazione della terapia agli ospiti e, in particolare, quali sono i compiti attribuiti dagli infermieri agli OSS e quali sono le modalità di controllo e valutazione si è realizzata una ricerca mediante la somministrazione di un questionario che ha indagato: • l’organizzazione in atto rispetto all’attività di somministrazione della terapia enterale; • le procedure utilizzate per valutare le abilità e le conoscenze dell’OSS relati- vamente alla terapia enterale; • le procedure poste in atto per ridurre le fonti o la possibilità di errore nella preparazione e somministrazione della terapia enterale. Alla ricerca hanno partecipato volontariamente 40 Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) di 6 province lombarde. Una RSA ha compilato 3 questionari, uno per ciascun nucleo in cui è articolata e pertanto i questionari considerati per l’analisi dei dati sono in totale 42. Delle 40 RSA, 32 hanno meno di 120 posti letto, 6 RSA hanno un numero di posti letto compreso fra 120 e 200, 1 RSA ha più di 200 posti letto e 1 RSA ha oltre 300 posti letto. La compilazione del questionario è stata eseguita per la totalità da infermieri di cui il 55% con la qualifica di infermiere, il 34% con l’abilitazione a funzioni direttive e l’11% con qualifica di master di 1 livello (1 infermiere con master in area geriatrica e 3 con master in coordinamento). Preparazione e somministrazione della terapia: il ruolo dell’OSS tra dubbi e incertezze La preparazione e somministrazione della terapia è un’attività svolta dall’infermiere nel 57% delle RSA del campione. Nelle 20 RSA (43%) dove la terapia enterale è eseguita dall’infermiere e dal- TABELLA 3: REGISTRAZIONE DELL’AVVENUTA SOMMINISTRAZIONE E FIRMA DELL’ESECUTORE Registrazione di avvenuta somministrazione della terapia prescritta non risponde Firma di chi somministra non risponde n. % 1 33% sì no 3 10% Totale 4 9% sì no n. % 7 70% 7 17% Totale n. % n. % 2 67% 3 7% 3 30% 10 24% 26 90% 29 69% 31 74% 42 100% l’OSS (in tre RSA solo occasionalmente e in 17 come prassi), nell’80% dei casi è l’infermiere a preparare la terapia che viene poi somministrata dall’OSS. In particolare: in 4 RSA (20%) è prassi che l’infermiere prepari e l’OSS somministri, in 12 RSA (60%) è l’infermiere che di volta in volta decide se avvalersi della cooperazione dell’OSS nella somministrazione, in 2 RSA (10%) l’OSS si occupa della terapia enterale durante la notte e in altrettante RSA l’infermiere decide di volta in volta se affidare sia la preparazione sia la somministrazione della terapia enterale all’OSS. L’affidamento dell’attività di somministrazione della terapia enterale (più raramente di preparazione) avviene in situazioni di emergenza o per terapie di routine (40% delle RSA). Solo nel 20% delle RSA (3 strutture) l’infermiere affida l’attività di terapia enterale all’OSS valutandone preventivamente le capacità di garantire sicurezza nell’esecuzione. Nel 30% delle strutture non è in uso alcuna prassi condivisa per valutare le abilità dell’OSS nella preparazione e somministrazione della terapia enterale (tabella 1 a pagina 38) Il 35% delle RSA dichiara di utilizzare una procedura non scritta e solo 4 RSA (20%) adottano una procedura scritta; altrettante RSA dichiarano di disporre di una procedura scritta per valutare le capacità dell’OSS nella somministrazione della terapia, sebbene dichiarino che è solo l’infermiere a preparare e somministrare la stessa. In particolare, nelle RSA dove è prassi che l’infermiere prepari e l’OSS somministri è adottata una valutazione delle capacità dell’OSS in 3 strutture su 4 e in due casi la procedura di valutazione è scritta. Nelle 3 RSA in cui l’infermiere dichiara di affidare l’attività di preparazione e somministrazione della terapia enterale solo “se ritiene che l’OSS sia in grado di svolgere l’attività con sicurezza”, solo in una è presente una procedura di valutazione scritta. Nelle 20 RSA dove la terapia enterale è svolta dall’infermiere e dall’OSS solo in 6 (30%) è prassi la registrazione dell’avvenuta somministrazione. In particolare nelle 4 RSA dove l’attività della terapia è AGO SET 08 ASSISTENZA ANZIANI 39 > AIOCC TABELLA 4: ASSOCIAZIONE TRA PIÙ PROCEDURE CHE AUMENTANO LA SICUREZZA NELLA SOMMINISTRAZIONE DELLA TERAPIA Registrazione dell'avvenuta somministrazione esistenza di procedure in caso di dubbi non risponde non risponde n. % 1 33% sì no 1 interamente affidata all’OSS (situazioni di emergenza, durante la notte, se lo decide l’infermiere) solo in una RSA è prevista la firma dell’avvenuta somministrazione. Anche nelle 8 RSA che adottano una procedura scritta per valutare le abilità dell’OSS nella somministrazione della terapia solo 2 richiedono la registrazione dell’avvenuta somministrazione. La gestione della terapia in RSA: la questione della sicurezza Gli errori nella somministrazione della terapia sono tra le prime cause di eventi avversi all’interno dei servizi sanitari. Secondo la definizione proposta dal National Coordinating Council for Medication Error Reporting and Prevention, per “errore di terapia” si intende ogni evento avverso, indesiderabile, non intenzionale, prevenibile che può causare o portare ad un uso inappropriato del farmaco o ad un pericolo per il paziente. Tale episodio può essere dovuto ad errore di prescrizione, di trasmissione della prescrizione, etichettatura, confezionamento o denominazione, allestimento, dispensazione, distribuzione, somministrazione, educazione, monitoraggio ed uso. Lo studio dell’errore umano non deve concentrarsi esclusivamente sulle capacità dell’operatore, ma deve interessare la progettazione del sistema nel suo complesso. (Moray, 1994; Vincent, 1993). Nelle RSA del campione la prescrizione della terapia da parte del medico è nel 55% dei casi per iscritto (23 RSA) e nel 43% (18 RSA) oralmente o telefonicamente. Certamente non essendo prevista dagli standard regionali la presenza del medico sulle 24 ore l’utilizzo, sebbene 40 sì AGO SET 08 ASSISTENZA ANZIANI 2% no n. % Totale n. % n. % 2 67% 3 7% 60% 4 40% 10 24% 2 7% 27 93% 29 69% 8 19% 33 79% 42 100% 6 Totale venuta somministrazione e l’apposizione della firma (o della sigla) di chi l’ha somministrata. Nel 24% delle RSA del campione è adottata una procedura di registrazione dell’avvenuta somministrazione della terapia prescritta che nel 70% dei casi prevede anche la firma di colui che l’ha somministrata (Tabella 3 a pagina 39). Nel 70% delle RSA la registrazione avviene direttamente sulla scheda di terapia e nel 30% sul quaderno della consegna. Si è notata una associazione virtuosa all’utilizzo di più procedure che aumentano la sicurezza e responsabilizzano i professionisti nell’attività di somministrazione della terapia: le strutture dove si registra l’avvenuta somministrazione della terapia, utilizzano anche procedure scritte in caso di dubbi sulla prescrizione (Tabella 4 in alto). L’indagine ha anche evidenziato comportamenti potenzialmente pericolosi: nel 24% delle RSA la terapia è preparata con largo anticipo (da 8 a 16 ore prima) e nel 45% dei casi sono persone diverse che preparano e somministrano. Nel 68% delle RSA dove sono persone diverse che preparano e somministrano la terapia, non si effettua la registrazione dell’avvenuta somministrazione (Tabella 5 in basso). discusso, della prescrizione per telefono in un numero elevato di strutture non stupisce. Una tra le procedure riconosciuta quale concausa di possibili errori di somministrazione della terapia è la trascrizione delle prescrizioni: maggiore è il numero di passaggi, maggiore è il rischio di errore. Nella maggior parte delle strutture (76%) è adottata la trascrizione dalla cartelle clinica alla scheda di terapia (Tabella 2 a pagina 39). La sicurezza deriva dalla capacità di creare sistemi che sono in grado di diminuire le probabilità che vengano commessi degli errori (prevenzione), e di attenuare gli effetti degli errori che comunque si verificano (protezione). (Mills, 1995; Andrews, 1997). E’ quindi necessario creare un ambiente in cui sia condivisa la responsabilità di segnalare gli errori, elaborare delle strategie per la diffusione delle conoscenze, dei protocolli e delle procedure e fare interventi di formazione dei professionisti sulle specifiche tematiche. Una procedura di sicurezza consigliata anche per responsabilizzare chi somministra la terapia è la registrazione dell’av- Lo sviluppo delle competenze: indicazioni operative Sulla base dei dati emersi dalla ricerca e sulle riflessioni scaturite dai risultati, emerge l’importanza di un percorso formativo di base volto ad un continuo miglioramento delle competenze dell’OSS. E’ fondamentale che questa figura acquisisca conoscenze di base specifiche TABELLA 5: PREPARAZIONE E SOMMINISTRAZIONE DELLA TERAPIA E REGISTRAZIONE La stessa persona prepara e somministra Registrazione dell'avvenuta somministrazione della terapia prescritta non risponde n. % non risponde 2 100% sì 1 3 no Totale n. % n. % n. 2 5% 5% 4 19% 16 76% 21 50% 6 32% 13 68% 19 45% 7% 10 24% 29 69% 42 100% no Totale sì % AIOCC < per il proprio ruolo, abilità tecniche e capacità relazionali necessarie ad instaurare una relazione di aiuto fondata sulla fiducia e la stima reciproca che passano attraverso la conoscenza di sé, dei propri limiti e potenzialità. Oltre alla formazione di base, anche per gli OSS diventa importante la formazione permanente, attraverso incontri specifici, per esempio, sulla gestione della terapia enterale nei diversi contesti assistenziali o in utenti con particolari problemi clinici. La formazione deve essere pianificata sulla scorta dei bisogni formativi presenti nella realtà operativa e delle criticità emerse nella pratica assistenziale; essa deve diventare elemento vitale dell’organizzazione di qualsiasi RSA e strutturata nella logica del miglioramento della qualità assistenziale e della prevenzione dei rischi. Strumenti utili al raggiungimento di questi obiettivi possono essere i protocolli operativi specifici, in particolare sulla gestione della terapia enterale. Essi dovrebbero essere il frutto di un percorso di formazione ed integrazione fra OSS ed infermieri e non “calati dall’alto”. All’interno del protocollo dovrebbero essere definite, nello specifico, le azioni attribuite alle diverse figure dell’equipe; il protocollo potrebbe essere integrato da una scheda in cui rilevare chi prepara e chi somministra i farmaci, al fine di aumentare il livello di sicurezza e ridurre il margine dei possibili errori. La strategia per migliorare passa necessariamente attraverso un percorso di conoscenza che presuppone un confronto libero da pregiudizi, sia da parte dell’OSS sia da parte dell’infermiere. In questo senso la “formazione sul campo”, il lavorare insieme su obiettivi comuni (come la gestione sicura dei farmaci), in una RSA, può diventare l’elemento che favorisce l’integrazione, e che permette di offrire un servizio migliore. Fondamentale il ruolo dell’infermiere coordinatore cui spetta il non facile compito di creare le condizioni affinché possano coesistere nell’organizzazione il rispetto delle competenze, l’integrazione e la soddisfazione dei bisogni degli utenti cui devono essere garantiti interventi sicuri ed efficaci. * Master Universitario di I° livello in “Management Infermieristico per le funzioni di coordinamento”Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli”- Roma ** Associazione Italiana Operatori Cure Continuative - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia BIBLIOGRAFIA Andrews LB, Stocking C, Krizek T et al. (1997) An alternative strategy for studying adverse events in medical care. Lancet; 349: 309-331. Cantarelli M. (1998) Il modello delle prestazioni infermieristiche, Masson Milano. Capasso S. et al(1999) Durata della degenza ospedaliera in pazienti anziani con patologie clinicamente instabili negli anni 19911995 (studio GIFA). Giornale di Gerontologia; 47, 235. Conferenza Stato-Regioni: Schema di Accordo tra il Ministro della sanità, il Ministro per la solidarietà sociale e le Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano per la individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'operatore socio-sanitario e per la definizione dell'ordinamento didattico dei corsi di formazione. 22 febbraio 2001. Decreto Presidente Consiglio dei Ministri 22.12.1989:"Atto di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle Regioni e Province autonome concernente la realizzazione di strutture sanitarie residenziali per anziani non autosufficienti, non assistibili a domicilio o nei servizi semiresidenziali." Delibera della Giunta Regionale Lombarda N° VII 5428 del 2001 “Individuazione della Figura e del profilo professionale dell’ Operatore Socio Sanitario”. Delibera della giunta Regionale Lombarda N° VIII/005101 18 luglio 2007 “Regolamentazione dei percorsi OSS” Delibera della Giunta Regionale N° 7435 del 14 dicembre 2001 Attuazione dell'art. 12, commi 3 e 4 della l. r. 11 luglio 1997, n. 31: Requisiti per l'autorizzazione al funzionamento e per l'accreditamento delle Residenze Sanitario Assistenziali per Anziani (R.S.A.)"; Guaita A., Pucci D. (2001) Le motivazioni alla richiesta di ricovero presso una struttura residenziale sanitaria: dimensione quantitativa e qualitativa. 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I luoghi della cura 1;2004: 27-30 AGO SET 08 ASSISTENZA ANZIANI 41 > AIOCC “THE MUST” Una guida per valutare la malnutrizione > di MICHELE ZANI * IL MODELLO MUST (MALNUTRITION UNIVERSAL SCREENING TOOL), PROPOSTO DALLA BAPEN (THE BRITISCH ASSOCIATION FOR PARENTERAL AND ENTERAL NUTRITION) E PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2003, SI PREFIGGE DI AIUTARE I PROFESSIONISTI DELLA SALUTE (INFERMIERI, MEDICI O ALTRI OPERATORI ADEGUATAMENTE PREPARATI) AD IDENTIFICARE I SOGGETTI ADULTI SOTTONUTRITI, I SOGGETTI ADULTI A RISCHIO DI MALNUTRIZIONE E I SOGGETTI OBESI (È ESCLUSA DALLA COMPETENZA DEL MODELLO VALUTARE LE CARENZE O L’ECCESSIVO INTROITO DI VITAMINE O MINERALI). COME noto, il termine malnutrizione è riferito sia alla carenza sia all’eccesso di nutrizione: gli autori del modello sottolineano che nella loro presentazione il termine malnutrizione sarà utilizzato con l’accezione di sottonutrizione. Epidemiologia e soggetti a rischio Gli studi dimostrano che più di due milioni di adulti in Inghilterra sono affetti da malnutrizione e i gruppi più a rischio sono: 1. i soggetti con malattie croniche; 2. gli anziani; 3. i soggetti recentemente dimessi dall’ospedale; 4. i soggetti poveri; 5. i soggetti socialmente isolati. Le sequele Numerose sono le sequele della malnutrizione se, come spesso, essa non viene identificata e trattata. Tra le maggiori complicanze si annoverano: 1. diminuzione della risposta immunitaria con aumento del rischio di infezioni; 2. riduzione della forza muscolare e astenia; 3. riduzione della funzionalità dei muscoli respiratori con difficoltà nella respirazione e nell’espettorazione e aumento delle infezioni polmonari; 4. alterazione della termoregolazione con tendenza all’ipotermia; 5. difficoltà nella guarigione con ritardo 34 OTT 08 ASSISTENZA ANZIANI dei recupero nelle malattie; 6. apatia, depressione e trascuratezza; 7. aumento del rischio di ospedalizzazione con aumento dei tempi di degenza; 8. diminuzione della libido. Come valutare i soggetti attraverso l’utilizzo del MUST? “É sempre meglio prevenire o scoprire i problemi precocemente piuttosto che scoprire tardi problemi complessi”. Comincia con questa frase degli autori la descrizione del percorso in 5 step in cui si articola la valutazione della malnutrizione del soggetto adulto: 1. step 1 e 2: raccogliere le misure antropometriche (altezza, peso, BMI, recente perdita di peso non pianificata); 2. step 3: valutazione delle malattie acute; 3. step 4: stabilire il rischio complessivo di malnutrizione; 4. step 5: utilizzo delle linee guida per un appropriato piano di cura. Attraverso questi passaggi è facile identificare, già al primo contatto, i soggetti a rischio di malnutrizione. STEP 1: Body Maz Index (BMI) Indice di massa corporea (kg/m2) Il BMI fornisce una rapida stima della massa corporea basandosi sui due parametri peso e altezza. Ottenuto il valore al BMI è necessario introdurlo nella tabella di riferimento per ottenere il primo punteggio del modello da sommare ai punteggi degli altri step. (Qualora il peso e l’altezza non siano rilevabili e i dati riportati dal soggetto non siano realistici è possibile adottare strumenti di misurazione diretta del peso e dell’altezza). STEP 2: perdita di peso Una non programmata perdita di peso maggiore del 10% negli ultimi 3 – 6 mesi è indice di alto rischio di malnutrizione. TAB. STEP 1: BODY MAZ INDEX (BMI) - INDICE DI MASSA CORPOREA (KG/M2) PUNTEGGIO BMI CATEGORIA PUNTEGGIO SIGNIFICATO/VALORE < 18.5 Sottopeso 2 Probabile stato di carenza proteinica e energetica 18.5 - 20 Sottopeso 1 Possibile stato di carenza proteinica e energetica 20- 25 Peso desiderabile 0 Improbabile stato di carenza proteinica e energetica 25 - 30 Sovrappeso 0 Aumento del rischio di complicazioni associato a un sovrappeso cronico >30 Obeso 0 30 – 35 Moderato rischio di complicazioni relative all’obesità 35 – 40 Alto rischio di complicazioni relative all’obesità > 40 altissimo rischio di complicazioni relative all’obesità AIOCC < TAB. STEP 2: PERDITA DI PESO NON PROGRAMMATA PERDITA DI PESO PUNTEGGIO NEGLI ULTIMI 3 – 6 MESI (IN PERCENTUALE) SIGNIFICATO / VALORE > 10% 2 Clinicamente significativo 5 -10% 1 Più del normale, primo indicatore di aumento del rischio di malnutrizione < 5% 0 Nella normalità La perdita di peso è rilevabile attraverso l’intervista al soggetto o attraverso la consultazione di documenti clinici precedenti (nei casi in cui il soggetto non abbia avuto perdita di peso il punteggio da assegnare è uguale a 0). Ottenuta la percentuale della perdita di peso è necessario introdurla nella tabella di riferimento per ottenere il secondo punteggio del modello da sommare ai punteggi degli altri step. STEP 3: malattie acute che possono portare a un rischio di malnutrizione Riscontrare la presenza di malattie acute fisiche o psicologiche che possono generare la possibilità che il soggetto non si nutra per più di 5 giorni. In questi pazienti vengono inclusi i malati critici, i soggetti con difficoltà nella deglutizione (ad es. post ictus), i soggetti con lesioni alla testa e i soggetti sottoposti a chirurgia gastrointestinale. In caso di presenza di una delle situazioni sopraindicate aggiungere 2 punti STEP 4: rischio complessivo di malnutrizione Stabilire il rischio complessivo di malnutrizione attraverso la somma dei punteggi (INDICE) degli Steps 1, 2, 3. Qualora non sia possibile ottenere 0 Basso rischio né il BMI né la perdita di peso negli 1 Medio rischio ultimi 3-6 mesi si >2 Alto rischio può procedere con altri criteri di valutazione di tipo soggettivo esposti nella seguente tabella. INDICE RISCHIO STEP 5: utilizzo delle linee guida Predisporre, concordare e condividere un appropriato piano di cura relativo all’indice complessivo di rischio di malnutrizione (come indicato nella tabella). IL PIANO DI CURA 1. Impostare obiettivi e finalità del trattamento. 2. Trattare ogni condizione di base. 3. Trattare la malnutrizione con cibi e o supplementi nutrizionali. Nei soggetti che non sono in grado di soddisfare le loro esigenze nutrizionali per via orale può essere richiesta la nutrizione artificiale entrale o parenterale. Nessuno di questi metodi è esclusivo e può essere necessaria la combinazione di più di essi. In caso di soggetti sovrappeso o obesi consultare le specifiche linee guida. 4. Monitorare e valutare l’intervento nutrizionale e il piano di cura. 5. Rivalutare il soggetto a rischio nutri- ALTRI CRITERI Se altezza, peso e BMI non sono ottenibili esistono una serie di criteri che possono aiutare il clinico a farsi un’idea del rischio complessivo di malnutrizione. Si raccomanda di utilizzare questi criteri non come risultato di un attuale rischio di malnutrizione ma come aiuto per indicare se il soggetto ha un aumentato rischio di malnutrizione. BMI Indicare l’impressione clinica: chiara magrezza (molto magro), magro, peso accettabile, sovrappeso, obesità (molto sovrappeso). PERDITA DI PESO Osservare se abiti o bigiotteria sono palesemente larghi. Raccogliere la storia di diminuito di introito di cibo, ridotto appetito o disfagia da più di 3-6 mesi e chiari segni di disabilità psicologica o fisica che possono causare perdita di peso MALATTIE ACUTE Assenza di nutrizione o possibile assenza di nutrizione per più di 5 giorni STIMA IL RISCHIO DI MALNUTRIZIONE IN BASE ALLA TUA VALUTAZIONE TAB. STEP 5: UTILIZZO DELLE LINEE GUIDA INDICE “MUST” COMPLESSIVO RISCHIO DI MALNUTRIZIONE AZIONI >2 Alto Tratta: a meno che il supporto nutrizionale non abbia benefici o sia dannoso 1 Medio Osserva: o tratta in caso di un rapido deterioramento clinico o se si avvicina una situazione di alto rischio 0 Basso Normale routine: a meno di un deterioramento clinico evidente OTT 08 ASSISTENZA ANZIANI 35 AIOCC < ALGORITMO zionale e monitorare l’andamento nel piano di cura. INTERVENTO NUTRIZIONALE ORALE Affrontando un intervento nutrizionale orale è necessario prendere in considerazione i seguenti punti: 1. Fornire aiuto e consigli sulle scelte alimentari. 2. Garantire pasti e snack gustosi e attraenti e di buon valore nutritivo. 3. Offrire assistenza nella spesa, nella preparazione e nella somministrazione del cibo. 4. Creare piacevoli ambienti nei quali mangiare in qualsiasi setting si trovi il soggetto. SUPPLEMENTI NUTRIZINALI ORALI Affrontando un intervento con supplementi nutrizionali per bocca è necessario prendere in considerazione i seguenti punti: 1. Usare supplementi nutrizionali se non è possibile soddisfare le necessità dietetiche (può essere utile un ulteriore apporto giornaliero variabile tra le 250 e 600 kcal). 2. Può essere utile la consulenza dello specialista. SUPPORTI NUTRIZIONALI ARTIFICIALI Nutrizione Enterale e Parenterale Se richiesti far riferimento alle linee guida specifiche. STEP 1 BMI BMI kg/m2 > 20 (>30 obeso) 18.5-20 < 18.5 STEP 2 STEP 3 % perdita di peso involontaria Effetto della malattia acuta nei 3-6 mesi precedenti Puntegg io =0 =1 =2 % <5 5 – 10 > 10 Punteggio Se il soggetto ha una malattia acuta e vi è stata o vi =0 sarà una assenza di nutrizione per più di 5 giorni =1 Punteggio = 2 =2 STEP 4 Rischio complessivo di malnutrizione STEP 1 + STEP 2 + STEP 3 Punteggio 0 = Basso rischio Punteggio 1 = Medio rischio Punteggio > 2 = alto rischio STEP 5 Gestione 0 Basso Rischio Assistenza routnaria Ripetere lo screening: In ospedale: settimanalmente In istituto: mensilmente Al domicilio: annualmente 1 Rischio Medio Osservare Documentare introito nutrizionale per 3 giorni nei soggetti ricoverati in ospedale o in istituto Se l’introito nutrizionale è adeguato ripetere lo screening nei tempi descritti, se l’introito è inadeguato ricorrere alle linee guida specifiche Ripetere lo screening: In ospedale: settimanalmente In istituto: almeno mensilmente Al domicilio: almeno nei successivi 2-3 mesi MONITORAGGIO Tutti i soggetti identificati a rischio di malnutrizione devono essere monitorati >2 Alto rischio Tratta* *(a meno che il supporto nutrizionale non abbia benefici o sia dannoso) Consultare il dietista e il team di supporto nutrizionale o implementate le linee guida Perfezionare e aumentare l’intake nutrizionale Monitorare e rivedere il piano di cura: In ospedale: settimanalmente In istituto: mensilmente Al domicilio: mensilmente su base regolare al fine di garantire che il piano di assistenza continui a soddisfare le loro esigenze. * Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia Azienda Speciale “Le Rondini”, Lumezzane (BS) BIBLIOGRAFIA The MUST Explanatory Booklet – A guide to the “Malnutrition Universal Screening Tool” (MUST) for Adults. Editet on behalf of MAG by Vera Todorovic, Christine Russell, Rebecca Stratton, Jill Ward and Marions Elia. November 2003 OTT 08 ASSISTENZA ANZIANI 37 AIOCC < LAVORO DI CURA Analisi della dimensione uomo-donna > di GIOVANNA PERUCCI * UNA CULTURA DELLA “NEUTRALITÀ” HA CARATTERIZZATO A LUNGO GLI AMBIENTI IN CUI SI SVOLGONO LE ATTIVITÀ PROFESSIONALI ED È, ANCORA OGGI, UN OBIETTIVO GENERALMENTE AUSPICATO. IN PARTICOLARE, ACCANTONARE, COMPRIMERE, NEGARE LA DIMENSIONE UOMO/DONNA HA SVOLTO, PERALTRO, UNA SUA UTILE FUNZIONE ALL’INTERNO DELLE ORGANIZZAZIONI (AZIENDE, SERVIZI) IN QUANTO HA FAVORITO LA SEMPLIFICAZIONE DEI COMPORTAMENTI INDIVIDUALI E DELLE DINAMICHE INTERPERSONALI. “SEPARARE per semplificare, vivere una cosa alla volta in luoghi diversi facilita la concentrazione sul compito, elimina le distrazioni superflue, è produttivo. Piace agli uomini che sanno controllare meglio i loro sentimenti o, più propriamente, hanno una maggiore dimestichezza con la scissione emotiva. Ma può essere apprezzato anche dalle donne, che al lavoro possono rilassarsi un po’, calmare quell’incessante produzione sentimentale che caratterizza la loro vita ordinaria. Sono queste - a grandi linee - le ragioni per cui le organizzazioni si aspettano dai propri membri, a tutti i livelli, dei comportamenti controllati e ovviamente asessuati (Piva P, 1994)”. Tuttavia, una gestione asettica degli ambienti professionali è difficile. Le stesse organizzazioni che vi aspirano richiedono nel contempo agli individui - sempre più - di lasciarsi coinvolgere nei compiti di lavoro e di collaborare tra colleghi/e. Tale coinvolgimento esige si mettano in campo risorse legate all’identità personale maschile o femminile - e i rapporti uomodonna. Questi fattori, quindi, vanno resi espliciti e governati piuttosto che negati. Esser uomo o donna è differente nella vita privata? E al lavoro? Essere operatore uomo o donna è solo un problema del paziente? O dell’operatore quando interviene sull’”intimo”? E nei rapporti tra colleghi? Innanzitutto, parlando di differenze tra uomini e donne - fuori o dentro al mondo del lavoro - di quali differenze parliamo? In particolare di quella che sta acquisendo oggi un grande rilievo: l’identità di genere. L’ingresso recente (dagli anni ’70) degli uomini nella professione infermieristica, e il numero sempre maggiore di donne nella professione medica e di ASA/OSS, rendono ancora più necessario mettere a fuoco le ricadute dell’identità di genere sui ruoli sociali e professionali. Quando parliamo di ruoli di genere (femminile e maschile) ci riferiamo ad un processo di costruzione sociale. Sarebbe quindi la società - sulla base delle diverse funzioni degli uomini e delle donne nell’ambito della procreazione - ad aver costruito una divisione dei compiti che i due soggetti svolgono nel mondo. In particolare, la cultura ha attribuito tradizionalmente agli uomini il ruolo prevalente di procacciatori del reddito familiare attraverso il lavoro professionale, e alle donne quello prevalente - all’interno della famiglia - della cura del partner, dei figli, di eventuali anziani non autosufficienti, e così via.Tali diversi ambiti di interventi e modelli di comportamento finiscono con l’aderire a tal punto alla base biologica da essere percepiti come un tutt’uno con essa. Si è così giunti, nel tempo, ad identificare anche alcune competenze professionali come “da donna” e altre come “da uomo”, quasi questa fosse una divisione “naturale” e non una sovrastruttura sociale. Mentre se è vero che, in termini strutturali e ormonali, esistono nei due generi predisposizioni ben differenziate, è però solo con lo specifico concorso di un persi- stente rinforzo, sociale e culturale, che tali differenze acquistano il peso, il significato e la portata che tutti conosciamo. Sulla base delle differenti esperienze sociali sviluppate, nel tempo, dagli uomini e dalle donne, si sarebbero sedimentate identità di genere differenti - una prevalentemente maschile e una prevalentemente femminile -. La preoccupazione più recente degli studiosi, e soprattutto delle studiose, è quella di mettere in guardia rispetto al rischio che possibili specificità caratteriali degli uomini e delle donne diventino stereotipi generalizzati, cioè immagini di ruolo che ingabbiano in clichè immutabili i diversi soggetti maschili e femminili. Al contrario, pur condividendo alcune caratteristiche generali del proprio genere, ogni essere è portatore di una propria individualità più articolata e sfumata. Oggi la nostra cultura tende a superare la polarizzazione stereotipata uomo-donna. Essa ipotizza in prospettiva “… la coesistenza di caratteristiche maschili e femminili all’interno del medesimo soggetto, sia esso uomo o donna” (Taurino, 2005). Ma per il momento va segnalato soprattutto il fatto che il carattere “femminile” è stato svalutato storicamente rispetto al valore attribuito socialmente a quello “maschile”, in particolar modo fuori dalle mura domestiche. Lo stereotipo, in questo senso, avrebbe fissato uomini e donne: “… in posture immobili, sempre sfavorevoli alle donne nel lavoro extradomestico. Se gli uomini sono forti, decisi, coraggiosi, valorosi, rapidi, autonomi, indipendenti, naturalmente portati alla carriera, allora sono veri uomini, premiati, perché questi sono valori stimati dalla società. Se le donne sono affettive, deboli, dipendenti, passive, dolci, sottomesse, espressive, mansuete, naturalmente portate alla cura, allora sono vere donne. Peccato che questi valori siano altamente stimati dalla società se restano rinchiusi NOV DIC 08 ASSISTENZA ANZIANI 39 > AIOCC nel segreto di una casa ma non siano affatto valori stimati nel mondo della produzione. Se nel linguaggio comune il lavoro complesso e pluridisciplinare che una donna svolge nell’ambito familiare viene definito “niente” (Che lavoro fa? Niente, la casalinga) anche tutte le abilità ad esso connesse e le capacità in esso maturate saranno “niente”, qualcosa da nascondere sotto il tappeto, da buttarsi dietro le spalle quando dal mondo del lavoro familiare si passa al lavoro extrafamiliare” (Piazza, 1999). Identità di genere e competenze professionali trasversali Il mondo del lavoro, oggi, come è noto, sta cambiando rapidamente. All’interno di tale trasformazione acquista particolare rilievo la crescente importanza attribuita al capitale umano - cioè alle persone nell’ambito delle organizzazioni produttive, tanto nelle aziende quanto, soprattutto, nei servizi di cura. Non è solo la qualità della merce/servizio offerta che oggi fa la differenza, ma è la qualità della relazione che si stabilisce con il ‘cliente’/utente. In questo senso le risorse umane che agiscono tale relazione diventano sempre più cruciali nell’organizzazione del lavoro. A queste risorse umane oggi si chiede di possedere delle “competenze trasversali”. Il termine competenze trasversali sta a segnalare che alle aziende e ai servizi occorre personale non solo in possesso di conoscenze teoriche e di abilità pratiche, ma anche in grado di tradurle operativamente in comportamenti concreti ed efficaci che tengano conto dell’ambiente in cui si opera. Si va inoltre diffondendo una visione non “neutra” delle caratteristiche professionali delle risorse umane. All’interno delle competenze trasversali, quali il mondo del lavoro ritiene più “femminili”, quali più “maschili” e quali più “neutre”, nel senso di attribuibili in egual misura ad entrambi i sessi? Le ricerche condotte (De Fazi et al., 2000) su questo tema evidenziano che: • le competenze relazionali sono ritenute più ‘femminili’, in quanto le donne sarebbero più orientate a tenere conto dell’altro, a gestire le relazioni, ad agire in un’ottica interattiva; 40 NOV DIC 08 ASSISTENZA ANZIANI • le competenze relative alla capacità di affrontare sono ritenute più ‘maschili’, in quanto gli uomini sarebbero più allenati a prendere iniziative, ad agire perseguendo direttamente uno scopo senza necessariamente stabilire relazioni significative di coinvolgimento con le persone e l’ambiente circostante; • le competenze diagnostiche sono invece attribuite in ugual misura ad entrambi i sessi. Anche se è ancora considerato un valore spogliarsi della propria identità di genere nell’ambito lavorativo, da qualche tempo si tende non più a negare ma a valorizzare le specificità femminili e maschili trasferite nell’attività professionale. In particolare, le competenze ritenute più ‘femminili’ cominciano ad avere rilievo nella nuova organizzazione del lavoro orientata ‘al cliente’ e impostata sul lavoro di gruppo. Uscendo dalle mura domestiche - dove erano considerate naturali e date per scontate - le capacità tradizionalmente attribuite alle donne, perché sviluppate nelle cure familiari, cominciano, dunque, a perdere la loro invisibilità. Le ricerche, pur confermando un luogo comune (le donne sono dolci, pazienti, disponibili, ecc.), non evidenziano più una svalutazione di questo tipo di competenze. È questo l’aspetto innovativo. Al contrario, anche se le competenze trasversali ‘femminili’ non sono ancora diffusamente valutate e premiate dalle organizzazioni, nei contesti di lavoro si riconosce loro sempre più valore strategico per l’azienda/il servizio. Quella delle competenze trasversali ‘femminili’ è una grande opportunità per le donne, a condizione di assumerla e giocarla in modo consapevole. Esse infatti risultano particolarmente strategiche nei servizi alla persona, dove l’attività professionale è molto incentrata sulla qualità della relazione con il paziente/utente. Spesso, però, le risorse umane femminili valorizzano poco il proprio patrimonio professionale specifico, anche perché più una competenza professionale femminile risulta vicina ai compiti svolti dalle donne nel ruolo materno - e, quindi, a titolo gratuito - più essa fatica ad acquistare un proprio va- lore ‘di mercato’, cioè sul piano professionale. Dal lavoro familiare al lavoro professionale: quale passaggio di competenze? Il contenuto del lavoro di cura - un lavoro non a caso con una prevalente presenza di donne - ha molte contiguità con i compiti familiari di accudimento. Nonostante rappresenti un’esperienza sociale fondamentale per maturare determinate attitudi-ni/capacità nelle donne, il lavoro di cura svolto all’interno della famiglia è stato -come già detto- per lungo tempo ritenuto un “non lavoro”, un insieme di gesti ovvii, che non richiedono nessuna particolare competenza. Non è quindi facile che esso acquisti valore e venga riconosciuto -sia dagli individui sia dalle organizzazioni- una volta trasferito dall’interno delle case al mercato professionale. Eppure, se consideriamo gli aspetti più tradizionali di tale ‘lavoro’, notiamo che esso ha potenziato nelle donne alcune attitudini utilizzabili proficuamente nell’attività lavorativa. Ma nello stesso tempo, proprio per le sue caratteristiche, tale lavoro ha determinato alcune delle difficoltà che le donne talvolta incontrano nel mondo del lavoro. Le donne infatti: “Dal lavoro materiale della casa, per definizione invisibile, visibile solo quando non è fatto o quando viene riconosciuto dall’altro, portano la capacità riparativa, la sublime arte del rammendo - che tanto più è perfetto quanto più è invisibile - la capacità cioè di far sì che tutto proceda bene senza attirare l’attenzione. Con precisione, attenzione, senso pratico. Ma proprio perché il lavoro nella casa è visibile quando è riconosciuto dall’altro, le donne si aspettano che anche nel lavoro professionale sia l’altro a riconoscerlo, dunque non sono autoassertive, non chiedono, non si propongono, difficilmente sanno affermare il proprio valore. Si aspettano che sia l’altro a farlo. Dal lavoro di mediazione tra famiglia e Stato (servizi sociali, sanitari, educativi,ecc) traggono la capacità di destreggiarsi nei rivoli della burocrazia e della complessità, una mentalità “problem solving”, l’abilità di affrontare e risolvere AIOCC < problemi complessi; ma anche la difficoltà, spesso, ad accettare l’astrattezza delle leggi o le regole delle organizzazioni. Dal lavoro di rapporto (in famiglia e con l’esterno) portano nel lavoro professionale l’attitudine alla relazione, alla mediazione, alla negoziazione nei conflitti, la capacità di tener conto delle differenze, l’attenzione ai pareri degli altri, il senso dell’equilibrio; ma anche la tendenza a non tener conto dei propri bisogni, quindi ad avere scarso rispetto di sé. Dal lavoro materno portano la mancanza di arroganza, l’attenzione ai bisogni dell’altro, la disponibilità, la pazienza. Ma talvolta corrono il rischio di un eccesso di disponibilità, la tendenza a servire. Dal lavoro di manutenzione dell’apparato tecnologico-domestico portano nel lavoro professionale la cura per gli strumenti di lavoro, ed anche dell’ambiente in cui esso si svolge (renderlo gradevole e comodo), ma molto meno la capacità di destreggiarsi con le tecnologie complesse. Dal lavoro di consumo (far la spesa, cucinare) portano la capacità di previsione e programmazione, l’ottimizzazione delle risorse, l’attitudine a contrastare lo spreco. Ma spesso anche la difficoltà a rischiare, un eccesso di timidezza nei confronti del maneggio del denaro. Dal lavoro di organizzazione complessiva del lavoro di cura portano la capacità di tenere contemporaneamente sotto controllo molte variabili, di avere il quadro di insieme della situazione e soprattutto la capacità di definire le priorità; ma anche la tendenza a non accettare la parcellizzazione del proprio lavoro, e la tensione verso il controllo, con il rischio di sovraccaricarsi non delegando (Piazza, 1999)”. Vanno evidenziate, tuttavia, le trasformazioni profonde - negli ultimi decenni verificatesi all’interno del tradizionale lavoro di cura familiare. In precedenza si erano giustamente sottolineati il carattere di disponibilità temporale e psichica di tale lavoro e l’apertura relazionale, la cooperazione, l’attenzione alla dimensione affettiva del rapporto. Oggi, invece, si mettono più in evidenza quelle caratteristiche del lavoro di cura - legate alla sua complessificazione - che ne trasformano in gran parte il contenuto e le modalità. In particolare, si sta superando il concetto di “sacrificio” per evidenziare i problemi organizzativi e strategici, oltre che psicologici. Problemi che, per essere affrontati, richiedono rapidità di decisione, senso dell’organizzazione, capacità di combinare risorse, modalità di espressione e relazionalità, apertura agli altri, ma anche investimento su di sé. Dunque capacità strategiche e decisionali molto forti, cioè manageriali. Anche nel mondo del lavoro, e in particolare dei servizi alla persona, questo intreccio di diverse competenze (gestionali e relazionali) risulta sempre più richiesto. Le donne sarebbero quindi potenzialmente avvantaggiate dai nuovi orientamenti del mercato. Tuttavia, prima che esse lo siano di fatto, c’è ancora molta strada da fare. Il contesto attuale dei servizi, almeno formalmente, ancora non valorizza la cultura della cura, anzi, non riconosce neppure una specificità alle donne che vi lavorano. Di fatto, però, fa affidamento in modo strisciante proprio sulla dedizione, sulla presenza costante, sulla capacità di far da collante, che le donne sembrano “naturalmente” portare con sé. * Infermiera professionale BIBLIOGRAFIA De Fazi S, Perucci MB, Piazza M. Competenze S-convenienti. Domanda di lavoro, valori organizzativi e modi di produzione femminili, Edizioni Editoriale Aesse, Roma 2000. Piazza M, Dal lavoro di cura al lavoro professionale. Sinergie, contaminazioni, perversioni. In: Demetrio D et al. Il libro della cura si sé, degli altri, del mondo, Rosemberg & Sellier, Torino 1999:90-3. Piva P. Il lavoro sessuato. Donne e uomini nelle organizzazioni, Anabasi, Milano 1994:16-8. Taurino A. Psicologia della differenza di genere, Carocci, Roma 2005:88. BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA Perucci G. Sulla nostra pelle. Il corpo dell’operatore nel lavoro di cura, Carocci, Roma 2006. Ruspini E. Le identità di genere, Carocci, Roma 2004:108. CORSI AIOCC - ASSOCIAZIONE ITALIANA OPERATORI CURE CONTINUATIVE 15 gennaio 2009 - Ore 14,30-18,30 29 gennaio 2009 - Ore 14,30-18,30 12 febbraio 2009 - Ore 14,30-18,30 “Valutare e comprendere il paziente anziano: la malnutrizione” “Valutare e comprendere il paziente anziano: il dolore ” “Valutare e comprendere il paziente anziano: i disturbi del comportamento” 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) 4 crediti per Operatori dell’Assistenza (in attesa conferma) Programma 14.30-15.30 La malnutrizione: causa di tanti problemi 15.30-16.30 Quando il soggetto anziano è a rischio di malnutrizione? 16.30-17.30 Approccio assistenziale in presenza di disfagia 17,30-18,30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Programma 14.30-15.30 Il dolore del corpo e della mente 15.30-16.30 La valutazione del dolore: il paziente ha sempre ragione! 16.30-17.30 Osservare per comprendere: la valutazione del dolore nei pazienti affetti da demenza 17,30-18,30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Programma 14.30-15.30 Agitazione, aggressività, fuga: ecco i disturbi del comportamento 15.30-16.30 Come riconoscere e comprendere i disturbi del comportamento 16.30-17.30 Approccio all’anziano con disturbi del comportamento 17,30-18,30 Discussione, valutazione del gradimento e dell’apprendimento e chiusura del corso Destinatari:30 Operatori dell’Assistenza (ASA, OSS,OTA) Scheda iscrizione: www.grg-bs.it Informazioni e iscrizioni:Elisa Boldini - [email protected] - Tel. 030 3757538 NOV DIC 08 ASSISTENZA ANZIANI 41