Garibaldi tra mito e realtà
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Garibaldi tra mito e realtà
Ottimo guerrigliero, pessimo politico: era un patriota appassionato che piaceva anche ai nazionalisti più reazionari Garibaldi tra mito e realtà Tra i protagonisti "l´eroe del secolo" del quale ora si celebra il bicentenario della nascita . Il 27 marzo sarà in edicola il primo di otto volumi sul Risorgimento Un´opera inedita, curata da Lucio Villari. In Inghilterra nel 1864 fu accolto con ammirazione con l´eccezione di Marx e della regina Vittoria. Solo Gladstone ne colse l´intransigenza, unita alla sua capacità di difendere le classi popolari. STEFANO MALATESTA Nel 1864 il periodo eroico delle gesta dei Mille, a quattro anni di distanza dalla spedizione, sembrava già appartenere ad un´altra epoca e la fama di Giuseppe Garibaldi si era leggermente appannata, dopo Aspromonte. Ma quando, nel mese di marzo, sbarcò in Inghilterra, per una visita non ufficiale, seicentomila londinesi scesero lungo le strade alle sei di mattina per dimostrare il loro affetto e la loro ammirazione all´eroe del secolo (l´iperbole non è mia è di Philip Gilbert Hamerton): la più grande accoglienza mai attribuita ad uno straniero, prima o dopo di lui. Solo la regina Vittoria si dichiarò «not amused», dicendo che si vergognava di essere la regina di un popolo che faceva simili manifestazioni e Karl Marx scrisse sul suo giornale che era stata tutta una miserabile pagliacciata. Ma queste si rivelarono due voci isolate. Meglio di altri come spesso gli succedeva riassunse il senso della giornata William Gladstone, futuro primo ministro: « Siamo in molti a non poter mai dimenticare l´effetto meraviglioso prodotto su tutti gli spiriti dalla semplice nobiltà del suo contegno. Oltre alla magnifica onestà, l´ampia e universale simpatia che suscitava, a quell´affascinante semplicità di maniera che non lo abbandonava mai, a quella gentilezza innata, io vorrei ricordare la sintesi che in lui si realizzava tra il più fiero coraggio e il più profondo e delicato senso di umanità». Con la sicurezza del buon giudice di uomini, Gladstone aveva capito che in Garibaldi si fondevano due aspetti che vanno raramente d´accordo: era il primo patriota d´Italia, acceso e intransigente, che piaceva immensamente anche ai nazionalisti più reazionari e violenti come era Nino Bixio. E nello stesso tempo era anche il difensore delle classi più popolari che partecipavano al Risorgimento solo marginalmente. In lui destra o sinistra non avevano più senso, perché si fondevano, o come diceva qualcuno si confondevano, in un impasto ingenuo, che è stato analizzato cento volte con scarsi risultati. Bisognava seguire quello che faceva Garibaldi e non quello che diceva, perché tutto il suo temperamento risorgeva nell´azione: un´azione portata avanti con la massima audacia come non si vedeva da secoli in Italia e che la fortuna incaricò di aiutare, nei limiti del possibile e anche dell´impossibile. Fu probabilmente il più grande o uno dei più grandi capi guerriglieri del secolo scorso: un Che Guevara con molta più esperienza e molto meno sfigato, che prendeva da solo le decisioni senza qualcuno che lo spingesse alle imprese più disperate come è successo per il Che. Quando parlavano delle sue qualità militari, i generali piemontesi ostentavano un atteggiamento di sufficienza, forse per ripagarsi del disprezzo con cui loro stessi venivano trattati dagli stati maggiori di tutta Europa, comportandosi in maniera bestiale nei confronti dei garibaldini che avevano conquistato un regno e che volevano entrare nell´esercito regolare. Ma nessuno di loro sarebbe stato capace di imitare quel capolavoro di arte tattica, di improvvisazione e di riflessi pronti che è stata la ritirata del ‘49 da Roma attraverso l´Italia centrale, nel tentativo fallito di creare un´insurrezione popolare, con circa 4.500 uomini e un cannoncino a quattro libre inseguito da 22.000 soldati appartenenti a quattro eserciti. E sarà anche vero che la spedizione dei Mille venne enormemente facilitata dalla totale inettitudine dei comandi borbonici, dalla avidità delle truppe mercenarie e dalla fortuna che sembrava accompagnare le camicie rosse in ogni momento dell´impresa: una serie di eventi rimasta unica nella storia dell´Italia che ha sempre risentito semmai della cattiva fortuna. Ma l´entusiasmo che sospingeva gli animi di questi antenati dei leghisti tutti bergamaschi milanesi genovesi bresciani era dovuto alla presenza di Garibaldi, uno di quei rari comandanti che a sentire la sua voce gridare «all´attacco» faceva alzare anche i morti. In Sicilia la decisione di far credere che da Corleone stava puntando verso Messina per rientrare dopo quattro ore di marcia notturna verso Palermo e penetrare in città attraverso una delle sue porte all´alba, fece saltare tutto l´apparato difensivo dei borbonici: la prima ma non l´ultima delle sue finte tattiche. Anche Macmahon, il comandante dell´esercito francese nella campagna lombarda del ‘59, pensava che a Garibaldi mancasse la necessaria ampiezza di vedute. Ma nel 1871 era andato a combattere i tedeschi mentre i francesi se la davano a gambe davanti a Von Moltke ed era stato eletto all´assemblea nazionale nel dipartimento di Orano. Quando il presidente dell´assemblea propose l´annullamento delle elezioni di Garibaldi perché era straniero si alzò dai banchi indignato Victor Hugo: «Io non voglio offendere nessuno - ma di tutti i generali francesi impegnati in questa guerra Garibaldi è il solo che non sia stato sconfitto». La fortuna lo accompagnò anche nel fisico, perché poteva contare su un aspetto che rispondeva pienamente alla figura dell´eroe come se li immaginavano tutti quelli che non ne hanno mai visto uno. Era piccolo, ma ben proporzionato, i capelli castani non biondi. Gli occhi marroni e non celesti come voleva la leggenda. La fronte alta e larga, insieme con una struttura del volto particolare si combinavano con un modo di fare mai affettato, dandogli quel nobile fascino che incantava tutti. Senza il cappello poteva sembrare il Salvatore come all´epoca veniva dipinto sui santini. E durante la risalita dell´Italia meridionale interi paesi si erano inginocchiati davanti a lui chiedendo la benedizione come a Dio Padre Onnipotente, suscitando l´irritazione del generale, così nemico della religione. Ma una volta conquistata Napoli, si mise immediatamente a disposizione del popolo napoletano immergendosi di continuo nella folla che lo osannava, sicuro che non ci sarebbe stato nessun attentato e perfettamente consapevole che il suo modo non militaresco di trattare era una delle sue armi migliori. Bisognava stare attenti a non prendere questa gentilezza per arrendevolezza e a non intralciare il suo cammino nel momento delle decisioni. Non esitò un momento a far fucilare alcuni dei suoi che avevano rubato ed era sempre di un estremo rigore nel giudicare il comportamento dei suoi soldati verso i civili. Uno degli atti che rispecchiano la semplicità e a volte anche la contraddittorietà delle sue idee è stato l´aver assunto la dittatura in Sicilia e a proclamando che era venuto nell´isola per combattere la dittatura dei Borboni. Non era fatto per la politica in particolare quella politica parlamentare e si rendeva benissimo conto che la sua presenza in Parlamento aveva l´odore dei cavoli a merenda. La sua polemica con Cavour, quando accusò il capo del governo di averlo reso straniero nella sua città non fu una mossa felice e non resse alla prova di un semplice dibattito parlamentare perdeva il filo del discorso e alla fine si interruppe. Ma tutti i tentativi, e sono stati molti, di diminuire la sua figura accusandolo di non capire nulla di politica, di essere «un eroico ciula» ossia un fesso sono serviti a poco. La nota battuta «non si parla male di Garibaldi» non ha indicato solo una reverenza sbagliata per uno dei padri della patria che tentava di annullare ogni critica, ma l´impossibilità di danneggiare in qualsiasi modo una figura ormai andata al di là della denigrazione delle polemiche di basso e alto cortile per aver raggiunto il regno dei miti intangibili che sfidano i secoli.