Formato pdf - Le reti di Dedalus

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Formato pdf - Le reti di Dedalus
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Pensieri (sul) rock
Nico o il mito dell’autodistruzione
Dalla bionda star dei Velvet Underground a Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, giù giù sino a
Kurt Cobain, è evidente il profondo legame tra Rock e Thanatos. Una estetica della sparizione
funzionale alla ‘eternizzazione’ dell’artista
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di Augusto Illuminati
Non meraviglia che la filosofia cerchi periodicamente di annettere regioni confinanti o apparentemente
remote, soprattutto quando riscuotano popolarità molto maggiore della pallida e severa conquistatrice. Per la
musica, poi, ha sempre cercato di farlo, a partire dalla contraddittoria combinazione fra Schopenhauer,
Wagner e Nietzsche, una via di mezzo fra la commedia degli equivoci e una virata esistenziale della pratica
filosofica. Sarà, forse, che la filosofia non sta mai bene dove si trova o addirittura non è mai dove si trova,
contesta irrequieta ogni eredità e detesta lasciarne di incontestabili. Evita il pieno della presenza e soffoca a
casa sua. Gioca sulle tracce per ricostruire retroattivamente l’origine. Ama il paria che si sottrae al potere e
proclama nomadismo ed esodo – parliamo della grande filosofia, quella che ha saputo resistere alle sempre
più distratte tentazioni del potere.
Come la figlia improdiga di una celebre quasi recente canzone pop,
I had disengaged to avoid being totaled
I would run away and say good riddance, soon enough
I had grown disgusted by your small-minded ceiling
Imagine myself bolting had not been difficult…
(Alanis Morissette, Unprodigal Daughter, 2002)
Stante il ruolo centrale del rock nell’esperienza musicale e culturale a partire dalla seconda metà del
secolo scorso, non meraviglia che si sia sviluppata una riflessione generica intorno a tale fenomeno.
Il rock invade orecchie e occhi, colonizza ascolto e lettura (il 90% della poesia che si legge sono
testi di canzoni – come del resto avveniva nell’antica Grecia). Dopo un’iniziale veicolazione
attraverso radio e dischi di vinile il rock si crea la dimensione del grande spettacolo collettivo, con
annesso tour e tutto quanto gravita intorno: il vinile a 33 giri, poi il CD, poi il DVD, da subito le
masse adoranti, i servizi d’ordine, suoni, luci e vapori colorati, i fari oscillanti le groupies nei
camerini e nei lunghi trasferimenti, i festival-evento, droga a strafottere, scandali, morti tragiche
degli idoli, magliette: insomma, l’autentica realizzazione di massa del Gesamtkunstwerk
wagneriano, nella duplice accezione di scatenamento dionisiaco e intorpidimento collettivo. I prati
fangosi di Woodstock sostituiscono efficacemente la clausura piccolo-borghese di Bayreuth. Fumo
e pasticche subentrano alla birra, tanto deplorata da Nietzsche. Per il resto restano le attese
stremanti, mentre il palco rutilante sopra l’oscurità del golfo mistico diventa il proscenio sotto cui si
affollano direttamente i fan. Il volume sonoro cresce, per non parlare dell’immedesimazione della
platea, ma cambia la natura sottostante del mito, neutralizzato nella banalità. La popstar non è più
un idolo irraggiungibile, alla cui identificazione protendersi, ma (prestazioni foniche a parte) fa le
stesse cose dei suoi seguaci, con le maggiori disponibilità concesse dalla fama e dalla ricchezza:
scopa, trangugia, sballa il più possibile, viaggia senza sosta e senza legami. La complicità discreta
con il pubblico (al posto della distanza immedesimante del wagnerismo) è insostituibile per il
successo delle manifestazioni. La groupie rappresenta il tramite reale e illimitatamente sostituibile
fra performer e spettatore, un contatto fisico sul medesimo piano: qualcosa di impensabile nel culto
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wagneriano dell’eroe o nel divismo classico dell’opera poi ripreso dallo star system hollywoodiano.
La frequentazione dell’immaginario si democratizza, concomitante il sesso praticato o sublimato.
Ovviamente la musica rock e pop è tante cose diverse e, malgrado i tentativi spesso futili di
importarvi i criteri storiografici “oggettivi” che rendono tanto rispettabile la tradizione classica,
continua a predominarvi sanamente il gusto del fruitore. Direi che le suggestioni analogiche con la
filosofia rendono le scelte ancor più soggettive. Tante cose diverse, appunto: il rock sperimentale ed
espansivo di Frank Zappa, quello socialmente impegnato di Bruce Springsteen e Ani DiFranco, la
poesia cantata o rappata di Ursula Rucker, l’avidità passionale di Janis Joplin, universi di intimismo
e protesta, blues e canti di lotta. Billie Holiday e Woody Guthrie. L’epica inestinguibile e
multiversa di Patti Smith. Mettiamoci pure la nostra bravissima Cristina Donà e il suo maestro,
Robert Wyatt. L’approccio è tanto più filosoficamente valido in quanto media la parzialità tutta
soggettiva della scelta con il senso di una mitologia diffusa, quella notturna e punk che decanta nel
lutto il titanismo esorbitante dei Sixties. Entriamoci sul filo della voce di Nico, eccelsa mistagoga
del desiderio e della sventura, la più misconosciuta protagonista del rock e delle sue forme di vita.
Una battuta molto blanchottiana da un film di Jacques Rivette; Le jour appartient au pouvoir, la
nuit à la puissance… Esploriamo notte e potenza, silenzio e follia, prendendo di sbieco il tema del
disordine e della morte, componente fissa ma diversamente declinata del rock. Certo, comune è la
figuralità della morte precoce da suicidio o overdose per le prime rockstar che furono Jim Morrison,
Janis Joplin e Jimi Hendrix e per la lunga schiera di quanti seguirono, da Brian Jones a Ian Curtis e
Kurt Cobain. Come per Mozart, non vogliamo sapere cosa avrebbero potuto fare. Dalla loro morte
sono inseparabili.
Nico seguì una strada sua, più simile alla lenta autodistruzione di grandi personaggi del blues e del
jazz come Charlie Parker, Bessie Smith e Billie Holiday. Dopo un esordio solare nella carriera di
modella e qualche parte non irrilevante di attrice (un intero episodio della Dolce vita felliniana le è
dedicato) sbarca negli States nel 1965 e viene coinvolta da Andy Warhol nella confusione creativa
della Factory, nell’avventura degli Exploding Plastic Inevitable e nella formazione dei Velvet
Underground. Bellezza e voce di Nico sono associati per il grande pubblico al celebre disco con la
banana sbucciabile in copertina, alle suggestive Femme fatale e I’ll be your Mirror (emblema della
seduzione nel saggio omonimo di Jean Baudrillard), magari sottovalutando la desolata tragicità di
All Tomorrow’s Parties. Due sezioni dell’interminabile reality show warholiano Chelsea Girls
fissano la sua icona ridente e piangente sotto i capelli biondi e i suoi giochi con l’adorato Ari, il
bambino che aveva avuto da una relazione con Alain Delon. La fascinazione allude
all’inaccessibilità dell’immagine, in perfetta corrispondenza con la ricorsività cultuale di Warhol,
appunto, cui nella splendida raccolta commemorativa che gli dedicheranno Lou Reed e John Cale
(Songs for Drella, 1989) viene attribuito un verso emblematico: I love images worth repeating. Fu
quello un periodo decisivo della sua vita, per l’essersi inserita perfettamente nell’estetica
neutralizzante della pop art e della décadence newyorkese, ma ancor più per gli incontri decisivi
con Jim Morrison (che le insegnò la notazione musicale e la spinse a comporre) e con John Cale,
già collaboratore di LaMonte Young e Terry Riley, che la seguirà in tutti i percorsi successivi.
Unica fra le superstar warholiane, Nico ebbe la forza di rompere con il maestro e di gettarsi da sola
nella vita inaugurando una straordinaria carriera di autrice e cantante, molto meno popolare, segnata
da subito dal maledettismo della droga trasformato in stile di vita e di esibizione. Nei due dischi The
Marble Index (1969) e Desertshore (1970), che Nico scrive, canta e accompagna all’harmonium,
c’è già tutto: stilemi gotici, gregoriano psichedelico, raga, etnico, punk. Di tale musica si potrebbe
dire che realizza completamente quanto aveva scritto Benjamin nel saggio sulle Affinità elettive, che
cioè l’inespresso, in opposizione e in unione all’apparenza, forma nell’opera d’arte un rapporto così
necessario che proprio il bello, pur non essendo in sé apparenza, cessa di essere essenzialmente
bello quando l’apparenza lo abbandona. L’inespresso, insomma, si dà solo in quanto velato in un
involucro, senza il quale riuscirebbe inappariscente. Mostrandosi con il minimo di panneggio sfiora
l’amorfo del più profondo, come il Dio della teologia negativa. Lo Ausdrucklose, il senzaespressione, una volta giunto a percezione, interrompe ogni consumo seducente. L’amorfo è il
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segreto indicibile, scandito dall’inglese straniato che rimanda alla continua traduzione interlineare
da una lingua all’altra, delle molte che la poliglotta Nico ha usato nelle varie fasi della sua vita. Il
riversamento fra inglese e tedesco fa accedere a una lingua neutra, dallo spelling edenico. Allo
stesso tempo è inconciliabile, anche quando non c’è più speranza, rivoltosa pur nell’estremo
abbandono. Jim Morrison le aveva insegnato ad annotare i sogni e a trasformarli in parole e musica.
Nico amò con passione il deserto senza arrendersi ad esso. Se Warhol era stato definito una sfinge
senza enigmi, lei dedica la sua Sphinx ad Andreas Baader.
Come dirà a commento postumo il suo produttore J. Cale, un contributo alla musica classica
contemporanea, una scrittura tardo espressionista perfettamente al livello di Mahler e di Berg.
Altrimenti una Winterreise rock. La femme fatale (che peraltro non aveva tralasciato di irretire John
Cage) si è ormai formata una solida cultura poetica e musicale e, ritornata in Europa, si inserisce
nell’avanguardia parigina del gruppo Zanzibar inaugurando una lunga e tormentata relazione con il
cineasta Philippe Garrel, con cui girerà alcuni memorabili film sperimentali (La cicatrice intérieure,
Athanor, Un ange passe) più la drammatica intervista con un’altra maledetta, Jean Seberg, Les
hautes solitudes.
Il congedo dal mondo è preso con anticipo, un lungo anonimo morire per dipendenza dalla droga
pesante. Il rock gotico si salda alla protesta anarchica seguita alla sconfitta del ’68. Se non accettate
i nostri valori, allora eccoci come siamo, abbiate paura o ribrezzo. E la pace letale dell’eroina,
beninteso. La scimmia che frequentava il backstage è scesa ora per strada e il vizio privato di Nico
si confonde con quello di una generazione disfatta. Non tanto sapersi innocent and vain, ma
indicare come un’intera cultura possa perdere l’innocenza: è il senso della beffarda restituzione
integrale del Lied der Deutschen, cantato ancora in onore di Baader con la strofa patriottarda
prudentemente censurata nella Germania federale. Insomma, beccatevi tutta la retorica
glorificazione e ricordatevi dell’obbrobrio dei simulati suicidi di Stammheim –la deutsche Treue!
Stiamo sulla stessa lunghezza d’onda dell’episodio fassbinderiano di Germania in autunno. Il
dolore rode però ancor più giù. Il deutsches Requiem vale per l’intera umanità. Di ogni civiltà non
resteranno che rovine, come gli edifici cesariani in Memento. Ogni monumento è già in sé rovina.
Dal futuro non c’è da aspettarsi nulla. Ogni bilancio risulterà in perdita. Nico impersonava anima e
corpo la sovrana dépense. La sua stessa innocenza è figura del neutro inoperoso, paziente attesa
senza oggetto, voce obliqua della sventura. Non resta più tempo, neppure un anno:
Will there be another time
Another year, another wish to say.
Lo stringere la dimensione dionisiaca sul tono neutro, senza l’ebbrezza lisergica del rock West
Coast (Led Zeppelin, Grateful Dead, gli stessi Doors), si accompagna al differimento della morte
singola per farla coincidere con il collasso di un’intera generazione. In tre grandi testi di metà anni
’70, nella massima pienezza di una voce profonda ma ancora fermissima, si compone
involontariamente tale programma, che nutrirà poi tutto il punk europeo successivo – dai Bauhaus a
Siouxsie e ai Joy Division. Il citato Lied der Deutschen, che ripeteva l’operazione dissacrante
compiuta da Hendrix a Woodstock su Star spangled banner, la cover profondamente trasformata di
The End dell’amatissimo soul brother Jim Morrison (una storia inebriante di poche settimane e un
culto funerario durato per tutta la vita di Nico), il concerto del dicembre 1974 insieme ai Tangerine
Dream nella cattedrale di Reims, autentica messa nera punk, dopo di cui l’edificio dovette essere
riconsacrato. Il testo di Morrison, già funebre cantico dei cantici di una generazione, era stato
ulteriormente drammatizzato nella storica performance del 1° giugno 1974, al Rainbow Theatre, poi
incisa dalla Island. Nessuno uscirà vivo di qui e perfino quel vitalismo californiano anni ’60 che
affiorava sotto il baritonale sconforto del King Lizard adesso è definitivamente sterilizzato. Il
rimpiazzo dello scoppiettante organo elettrico di Ray Manzarek con lo stridulo harmonium
accoppiato al sintetizzatore di Brian Eno e alla viola di Cale ottiene un effetto gelido e disadorno
superiore all’originale. La disperazione è ancora una volta giocata su toni grigi, spezzati soltanto
nella scandalosa evocazione edipica da un grido tremendo. Nella ripetizione ipnotica del canto
comprendiamo ora che aveva sempre trionfato Thanatos, sino al definitivo ritorno all’inorganico, al
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dolore oscuro dissociato dall’io che è proprio dell’infante e di chi è preso nella fuga vertiginosa di
un morire inessenziale (cui è infedele chi progetta il suicidio). Nella seconda versione, il canto del
cigno del settembre 1985 a Londra, la voce si sgretola e si incrina fino al gorgoglio, laddove prima
esplodeva in urlo, e sprofonda nell’ottava inferiore sui versi finali e nel congedo post-applauso:
thank you, con l’inattendibile, cavernosa promessa we’ll see you again. La solita bugiarda
stralunata, cui resteranno ben poche apparizioni.
Gli ’80 saranno anni di sfacelo narcolettico e difficoltà artistica, dovuta alla mediocrità degli
strumentisti e arrangiatori, con la fulgida eccezione dei periodici interventi del soccorrevole Cale
(Camera Obscura del 1985). La furente dissipazione della bellezza, per cui era andata famosa e che
ora odia al punto di rimpiangere di non essere nata uomo, procede di pari passo quasi sempre con la
disincarnata potenza della voce e la rovina di ogni confortante pienezza strumentale.. Emigrata
interna, sparisce dal circuito scenico e discografico maggiore irrompendovi a tratti con eventi
semiclandestini e complicati dalle liti, come la doppia edizione del pur a volte notevole Drama of
Exile (1981 e 1983). Va in giro con complessi improbabili e impresari fasulli, ormai tutta zigomi e
occhiaie allucinate, guidando un furgone scassato e nascondendo nel sedere preservativi imbottiti di
droga, ma è ancora capace di prestazioni straordinarie, come l’imperdibile trasposizione melodicodark dello standard My funny Valentine o quel gioiello di lirica assoluta che è Orly Flight:
«Understand the fortune spent, / this crazy crime has no regret…». Quasi dimenticata dal pubblico,
affronta una drastica terapia di disintossicazione e torna ad esibirsi nel suo ultimo e stavolta
affollato concerto al Planetario di Berlino, 6 giugno 1988, che prende nome dalla trasognata Fata
Morgana, canzone con soli vocalizzi: le parole, proclama dal palcoscenico, le troverò più tardi. Non
farà a tempo. Un mese dopo, nella diletta Ibiza, cade dalla bicicletta per un malore e muore in
ospedale per un’emorragia cerebrale mal curata – fine warholiana quant’altre mai, lontana dalle luci
del palcoscenico, coerente con l’annichilimento di tutti i giorni.
Pochi giorni prima aveva affermato spavalda: invecchiare male è drammatico, meglio a volte morire
giovani. La citerà involontariamente sei anni più tardi Kurt Cobain: It’s better to burn out then to
fade away. Ma in quest’ultimo caso, dal punto di vista del pubblico, lo stereotipo della morte
violenta giovanile, che ricorda quelle di Jim Morrison e di Jimi Hendrix, rinvia alla fascinazione
ordinariamente romantica del nesso arte-amore-morte, il coinvolgimento piccolo-borghese o
massificato per un destino contemplato da lontano, la brama di amore e dissolvimento in stile
Tristano e Isotta, che completa (beninteso solo virtualmente, contemplativamente) il rapporto
estatico fra performer e spettatore.
La realtà, che l’interminabile odissea di un personaggio peraltro eccezionalmente dotato di
creatività quale Nico esemplifica al meglio, è ben diversa. A leggere le biografie più o meno
autorizzate e le fanzine agiografiche, ne esce un quadro di menzogne pietose e autoinganni, di
traffici di pusher e manovre promozionali, dove la droga, la mitomania delirante, il susseguirsi dei
collassi, l’incidente ferale depongono ogni enfasi romantica in una limacciosa depressione. Ma
proprio qui risiede l’oscuro fascino di una sorte condivisa: in comune non è la singola esperienza,
che può essere remotissima dall’affascinato, ma lo sfondo amorfo e occasionale della sofferenza. La
radicalità del fascinoso smotta nel disagio quotidiano messo sotto lente di ingrandimento. Già Djuna
Barnes aveva secolarizzato la tenebra wagneriana nella piccola infelicità notturna delle ragazze
innamorate. Gli anni ’20 e ’30 francesi anticipavano tutta la mitologia bella e dannata del rock anni
’60 e ’70, tracimando dal Déco alla Pop Art. Jim Morrison non poteva che morire e farsi seppellire
a Parigi. Punk ed eroina spingeranno ancor più sulla strada il circolo di Eros e Thanatos. La
tubercolosi romantica è incomparabile con la morte da overdose o Aids. Il Liebestod è ora più
sordido ma più prossimo. La Road to Ruin è roba da verbale di polizia, non da ultimo atto.
Dunque è la caducità, non la destinalità a colpirci: la pulsione filosofica all’effimero raggiunge nel
riscontro della vita e del suo limite la completa realizzazione. La morte è un presupposto della
contingenza, non l’allegoria del suo trionfo. Non vige la triste coppia di creaturalità e riscatto
trascendente o, ancor peggio, un Da-sein inteso come essere-per-la-morte e da ultimo comunità di
destino. Di certe morti non c’è nulla da dire. Meglio sorvolare sui dettagli. La contingenza mostra
sé e tanto basta. Ci soccorre la differenza posta da Maurice Blanchot fra morte e morire, fra
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evenienza personale auspicabile o evitabile e anonimo movimento, estraneo a ogni progettualità e
desiderio, che ci trascina nella sua fuga. Se la morte, come il potere, resta nel giorno, nell’operosità
del progetto, del divieto e della presenza, il morire è notturno e dissipativo, è quel si muore
abominato da Heidegger, l’umile terreno della dépense e del dispropriato senza fusione,
complementare a quel nichilismo del si vive altrettanto tipico del disincanto punk. Il morire sta nella
sfera del non-potere, esclude ogni vertigine, non libera né protegge; non può mai appartenere a un
soggetto, anzi è dis-appartenenza assoluta, mentre la morte lo è sempre di qualcuno, con un’aura di
pretenziosa unicità. Le lente agonie etiliche di Dylan Thomas o Jim Morrison, quelle tossiche di
Janis Joplin e Nico, lo sprofondare in micidiali cocktails farmacologici di Jimi Hendrix e Kurt
Cobain, i fegati scoppiati di Charlie Parker e Billie Holiday assomigliano molto a quel dispendio,
non hanno pretese eroiche né schiudono un valore superiore. La loro saturnina connessione con il
genio trova banali spiegazioni ambientali legate alla logica della prestazione scenica, cui non
bastano aspirine e aranciate. Le fini controverse di Kurt Cobain e di Marilyn Monroe furono innanzi
tutto momenti di collasso del sistema spettacolare, segnali dell’impossibilità di sostenere in modo
umano un apparato di rapace livellamento.
L’associazione di musica, giovinezza, eccessi e morte è condivisa senza esemplarità con larga parte
del pubblico, si riproduce ogni sabato notte intorno a qualsiasi discoteca romagnola. Fascinazione e
pietà non si convertono in mito, anzi scadono nel consumo devozionale e farmaceutico. Ce li
sentiamo addosso come il doping sportivo, la circolazione degli anabolizzanti in palestra, la cronaca
degli incidenti stradali. Però il livello più infimo e comune definisce la sovranità dissipativa, la
lunga veglia del dolore. Scrisse John Cale di Nico: «One remembers the many occasions she spoke
of wanting to be nothing. Zero». Proprio a questo grado zero la voce tocca il cuore. Nico si
considera, secondo un passo della mai terminata autobiografia, un «bersaglio mobile». Dall’estetica
della sparizione, che sottostava all’icona, a un’etica del declino per la donna e l’artista. «Per vivere
debbo morire», avrebbe dichiarato a Kevin Ayers. La stessa vocazione traspare in Will to Death di
John Frusciante, il più recente sacerdote dei culti associati di Nico e di Cobain. In ogni devozione la
verità deve scavarsi un cunicolo attraverso il kitsch, da cui è inseparabile. Ma irridere il culto e
venerare più freddi idoli è davvero spregevole. Perché appassionarsi alla politica-spettacolo e alla
guerra mediatica quando abbiamo sotto mano la matrice originaria? Giusto o no, resta il fatto che
quelle sorti ci emozionano. Ci parlano di una comune entropia e insieme la eccedono con qualcosa
di toccante, che ci dà un pugno allo stomaco, scaturendo da quegli abusi, che pure alla lunga
rovinano voce e creatività. Insomma, ci sentiamo in colpa senza catarsi. Senza neppure la
wittgensteiniana consolazione di sentirci al riparo.
L’Edipo di Jim e Nico non ci fa risolvere. Non c’è nessuna sfinge appollaiata sulla colonna, è solo
questione di solitudine: My loneliness / Remains attending. Domanda appena riformulata. Le
componenti dell’etico rimangono dissociate. Però persiste l’impressione di meraviglia, il nucleo
resistente del sublime e del mistico, e questa è pur sempre il principio del filosofare, non il timor di
Dio e dei suoi succedanei autoritari. Se quelle morti stanno sulla linea che va da Tolstoj a Rilke, se
le partecipiamo con noi, con gli alberi e gli animali e non ne facciamo, come in Heidegger,
un’apertura privilegiata sull’Essere, allora le sfogliamo senza reverenza come carte di una finitezza
in-significante. Il mito interrotto resiste più a lungo di quello futilmente celebrato.
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