Con l`economia digitale spazio al lavoro autonomo

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Con l`economia digitale spazio al lavoro autonomo
Domenica
23/10/2016
Con l’economia
digitale spazio
al lavoro autonomo
di Aldo Bonomi
A confermare che la grande crisi e la
sua lunga coda di stagnazione è da
leggere come una vera e propria
metamorfosi sistemica e non come
semplice adattamento alle nuove
condizioni competitive globali, vi
sono le conseguenze sul lavoro,
quello che c’è e quello che non c’è.
Partiamo da quello che c’è, quello
che viene avanti, osservandolo dai
piani alti degli analisti dei flussi. Il
McKinsey Global Institute ha
recentemente licenziato il rapporto
Indipendent work: choice, necessity,
and the gig economy (ottobre 2016).
Dalla lettura si desume che anche il
prestigioso think tank sia giunto alla
consapevolezza di quanto la
digitalizzazione
dell’economia
nasconda “qualche” rischio dietro il
mare di opportunità di cui,
soprattutto noi in Italia (questo il
rapporto non lo dice, ma è pensiero
di molti) non saremmo in grado di
appropriarci. Il rapporto MGI
evidenzia come negli USA e
nell’Europa a 15 i lavoratori
indipendenti hanno ormai raggiunto
i 162 milioni, pari ad una quota
oscillante tra il 20 e il 30% della
popolazione in età lavorativa. Per il
30% di questi l’indipendenza risulta
essere il frutto di una precisa scelta
(free agents), per il 14% una scelta
obbligata (i reluctans), mentre per il
restante 56% un forma di
integrazione al reddito (40%, casual
earners) o un modo per sopravvivere
(16%, financially strapped). In Italia,
patria
del
lavoro
autonomo
tradizionale, la riflessione sul destino
di questa importante fetta di
composizione sociale data a qualche
lustro addietro. Ciò che il MGI
fotografa oggi è un processo di lunga
durata che evidenzia l’attualità
dell’inattuale, quella richiamata da
Danilo Taino qualche giorno fa sul
Corriere alludendo al ritorno dell’età
del jazz dei primi del ‘900, epoca in
cui fu coniato il termine “gig”
(ingaggio a serata) oggi accostato ad
una vasta gamma di attività che
vanno
dal
professionismo
strutturato al lavoretto occasionale.
Da noi questo dibattito, ancorché
inizialmente confinato alla sfera dei
diritti e della rappresentanza, risale
ai tardi anni ’90, ai tempi della new
economy, nel passaggio dal lavoro
autonomo di prima generazione a
quello di seconda generazione. Il
primo, quello delle micro e piccole
imprese a prevalente carattere
manifatturiero o collegato al ciclo
edile, era nato nei sottoscala e
cresciuto nel sommerso per
affermarsi in età adulta come
ossatura del capitalismo molecolare
radicato in decine di distretti
produttivi. Era l’esito di un processo
di inclusione nella società del
benessere, un potente dispositivo di
mobilità sociale. Era un capitalismo
mediocre ma affluente, popolare.
Inoltre
era
un
capitalismo
strutturato intorno alla solidità
dell’impresa, del capannone. A
quell’epoca il padrone era un
imprenditore, o almeno un protoimprenditore, mentre oggi i padroni
degli algoritmi sono di fatto
impresari della società dello
spettacolo.
La
figura
dell’imprenditore poteva apparire
ruspante e naif, ma aveva comunque
il compito di organizzare un’attività
destinata a camminare nel lungo
periodo, essendo di fatto un
progetto di vita, mentre oggi la
durata media delle imprese digitali è
molto più breve. In quanto modello
sociale quello del capitalismo
molecolare non ha retto l’urto della
modernizzazione, specie quando si è
fatta hard a partire dal 2008. Nel
frattempo si è affermata la seconda
generazione cui fa riferimento il
rapporto MGI, molto diversa dalla
prima e ancora oggi difficilmente
incastonabile in un preciso ritratto
sociale. Ma, d’altra parte, anche
all’inizio del ‘900, quando ancora
non si sapeva cosa fosse l’impiego a
vita, il “gig” poteva riguardare una
serata di jazz quanto un passaggio in
calesse o la consegna a domicilio del
latte. Oggi siamo in una situazione
simile, salvo il dettaglio che in mezzo
c’è stato il fordismo, il lavoro
salariato, lo Stato redistributore, la
rappresentanza sindacale, il welfare.
Tutte “conquiste” del ‘900 oggi in
profonda
ristrutturazione
nell’affermarsi dello scenario della
Connectography di cui racconta
Parag Khanna, dominato dalle
logiche dei flussi e delle supply chain
che ridisegnano geoeconomia e
geopolitica. In questo nuovo
paesaggio galleggiano i 162 milioni
di “individui ingaggiati in attività
indipendente”,
in
cui
la
digitalizzazione è intrinsecamente
portata a favorire il rapporto “gig”,
ben al di là del neo-taylorismo
algoritmico di Uber, Amazon,
Foodora, etc. Questi ultimi spesso
mettono insieme lavori e attività
tradizionali, mentre il “gig” rimanda
a rapporti mediati da un impresario
che ingaggia qualcuno (o se stesso)
per fornire un servizio, ad un certo
club, più o meno ampio, di
utenti/clienti. Questa condizione
richiama in me quanto avevo
osservato nei primi anni ’00 nei
territori della riviera romagnola dove
il “gig” era una forma molto diffusa
nell’economia dell’intrattenimento
del
distretto
del
piacere.
Un’economia in cui gli eventologiimpresari
organizzavano
tanti
lavoretti ad ingaggio da società dello
spettacolo. Oggi questa situazione si
è allargata notevolmente in un
processo di circolarità che espone
tanti soggetti “indipendenti” al gioco
della ruota della fortuna o li
costringe a correre come criceti nella
ruota del working poor. E qui
arriviamo ai piani bassi, quelli di sui
quali si focalizza il rapporto Vasi
Comunicanti appena pubblicato da
Caritas Italiana. Qui si legge come in
base ai dati ISTAT la povertà
assoluta, che riguarda 4,5 milioni di
abitanti, è oggi un fenomeno
inversamente proporzionale all’età.
Fatto inedito rispetto al passato:
10,2% è l’incidenza della povertà
assoluta tra le famiglie con la
persona di riferimento (per reddito)
compresa nella fascia 18-34 anni
(1,9% nel 2005), 8,1% nella fascia 3544 anni (3,2% nel 2005). Avere più di
un figlio significa aumentare il
rischio di povertà, a maggior ragione
se la famiglia abita nel Mezzogiorno
e a ulteriore ragione se formata da
due coniugi stranieri. Il 50,5% delle
200mila persone che si rivolgono ai
Centri di ascolto della Caritas,
principalmente
per
povertà
economica
e
problemi
di
occupazione, ha un’età inferiore ai
45 anni. Sono persone in cerca di
assistenza materiale e di qualche
sussidio
per
tirare
avanti,
mischiandosi con i migranti che non
riescono a risalire sulla ruota della
fortuna. Pensare di affrontare
questo impoverimento e scadimento
del lavoro mettendo in mezzo la
logica del lavoro salariato e normato
a vita appare del tutto inattuale,
tuttavia la questione della dignità
del lavoro e del suo posto nella vita
delle persone rimane questione
aperta. Qui non è questione di
essere gufi, e questione di non
essere struzzi con la testa nella
sabbia del ‘900.
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