Introduzione

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Introduzione
Introduzione
Il sindacato e le tasse
All’origine di questo libro vi è l’insoddisfazione di come nel nostro paese
si discute di tasse. La riflessione sulle politiche fiscali resta, infatti, in ambiti specialistici molto angusti. La stampa informa l’opinione pubblica sugli effetti quantitativi delle diverse decisioni assunte dal governo e Parlamento senza soffermarsi quasi mai sulle scelte valoriali sottese a queste decisioni e molto spesso trascurando le stesse implicazioni pratiche delle diverse policy. Il prelievo fiscale nasce, infatti, dalla necessità di finanziare
beni e servizi di cui tutti godono e al cui costo, quindi, tutti debbono partecipare. A prima vista tutto sembrerebbe chiaro, ma non è così, sia perché
non esiste in tutti i campi una distinzione netta tra beni che possono essere
forniti soltanto dal settore pubblico e beni che possono essere forniti anche
dal mercato, sia perché i costi dei servizi pubblici possono essere sostenuti
con diverse tipologie di prelievo fiscale e con diverse distribuzioni del carico fiscale. Dietro alle diverse discussioni che si fanno sul fisco ci sono
però, oltre a interessi contrapposti e aspetti pratici, visioni ideologiche e
concettuali che riguardano un nesso più profondo: quello tra proprietà, individuo e Stato. Dopo una lunga fase in cui il moderno costituzionalismo
aveva battuto la strada della riconciliazione tra proprietà e società, si è riproposta
una
visione
dell’obbligazione
fiscale
nell’ottica
dell’espropriazione. È in questa visione dei secoli pre-moderni, protoliberali che, ad esempio, può essere iscritta la frase «non metteremo le mani nelle tasche degli italiani», un mantra ripetuto ossessivamente da Berlusconi e Tremonti in tempi passati e oggi improvvisamente abbandonato.
Avere un quadro delle scelte valoriali è quindi fondamentale per comprendere l’effettiva portata delle diverse politiche fiscali.
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Nel corso del lavoro di redazione si sono però verificati eventi (primo
fra tutti la straordinaria affermazione elettorale delle destre) che hanno, almeno in parte, modificato il progetto editoriale, trasformando così il libro
anche in un instant book, in un testo cioè, molto legato all’attualità.
Il libro si struttura in due parti.
Nel primo e nel secondo capitolo si espongono, anche se in modo estremamente sommario, alcune fondamentali questioni teorico-valoriali così come si sono andate definendo nel corso del processo storico che ha generato gli attuali sistemi fiscali. Nei restanti capitoli si affrontano gli sviluppi più recenti delle politiche fiscali del nostro paese, fino ad arrivare,
come si è innanzi sottolineato, alle questioni di più immediata attualità e alle rivendicazioni avanzate negli ultimi mesi dalle confederazioni. Il sindacato, con la piattaforma «per valorizzare il lavoro e far crescere il paese»
del novembre 2007, ha sollevato con forza la necessità di rimettere mano al
sistema fiscale. Occorre, infatti, ridare respiro ai salari oggi fortemente
compressi anche a causa dell’eccessivo carico tributario e mettere a punto
incentivi fiscali per favorire lo sviluppo della contrattazione di secondo livello. Ciò è indispensabile per innalzare la produttività e far crescere i salari, facendo così riprendere al paese un sentiero di crescita e sviluppo. Bisogna pertanto riaprire il cantiere delle riforme fiscali, un cantiere che ha lavorato alacremente nel corso degli ultimi dieci anni, producendo ben tre riforme/revi-sioni, riguardanti sia la tassazione delle imprese, che quella delle persone fisiche. I risultati sono stati però deludenti: come evidenziato nei
capitoli terzo e quarto del libro, ciascun governo ha rimesso in discussione
quanto fatto da quello precedente ma, almeno per quanto riguarda il trattamento fiscale delle persone fisiche, ci troviamo ancora di fronte ad una situazione ampiamente insoddisfacente. Il governo Berlusconi nel corso della XIV legislatura ha approvato un ambizioso progetto di riforma
dell’IRPEF (che è stata rinominata IRE) mutuato dalle suggestioni neoliberiste della flat-tax e del taglio delle aliquote ai ricchi. I due moduli attuati,
come messo in evidenza nel capitolo terzo, hanno però lasciato questa riforma ampiamente incompiuta e beneficiato, quasi esclusivamente, i redditi
medio-alti e alti. Il governo Prodi, entrato in carica dopo le elezioni del
2006, come illustrato nel capitolo quarto, ha sostanzialmente abolito il secondo modulo della riforma Tremonti, utilizzando le risorse così liberate
per rimodulare il prelievo IRPEF a favore dei redditi più bassi e delle famiglie. Questa riforma, a differenza dei moduli Tremonti che hanno avuto
un costo di circa 12 miliardi di euro, si è realizzata a sostanziale parità di
gettito, attuando una redistribuzione all’interno della platea di contribuenti
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di entità troppo modesta per l’amplissima platea dei beneficiari, e troppo
pesante per la minoranza dei contribuenti che ha subito una maggiorazione
del prelievo. La sostanza dei problemi è rimasta però immodificata. La base imponibile IRPEF resta troppo ristretta e riferita, nei fatti, quasi esclusivamente ai redditi da lavoro e da pensione. Il gettito IRPEF è troppo elevato rispetto ad altre fonti di prelievo, soprattutto all’IVA che fornisce entrate
per circa 2 punti di PIL inferiori a quelle di altri paesi europei. Il previsto
confronto di CGIL, CISL e UIL con il governo Prodi non ha avuto luogo
per la fine anticipata della legislatura e, ancora una volta, il sindacato dovrà
misurarsi con le politiche fiscali del governo delle destre. A differenza di
quanto accaduto nella campagna elettorale del 2001 e in quella del 2006,
questa volta Berlusconi è stato più cauto nelle promesse. Il leader de «Il
Popolo delle Libertà» ha, anzi, sostenuto di non poter promettere miracoli,
fino a parlare della necessità di adottare anche scelte impopolari. Anche nel
discorso parlamentare sulla fiducia, il presidente del Consiglio, tranne che
per l’ICI e gli straordinari, non si è sbilanciato molto sulle promesse di riduzioni fiscali. Dietro questa cautela si sente la mano di Giulio Tremonti,
di nuovo superministro dell’Economia, che ha ancora ben vivo nella memoria il ricordo della procedura di infrazione per deficit eccessivo avviata
dalla Commissione europea nei confronti del precedente governo Berlusconi. Non si tratta di un timore infondato, perché la congiuntura economica negativa che aveva segnato nel 2001 l’avvio di quella precedente esperienza di governo si ripropone anche questa volta. Una recessione di durata
non breve sembra ormai inevitabile per l’economia USA e sta già avendo
un impatto negativo sull’e-conomia europea. I dati particolarmente buoni
di inizio anno non devono, infatti, trarre in inganno. La ripresa è stata trainata dalla Germania grazie alla crescita del settore delle costruzioni favorita da un inverno particolarmente mite. I dati buoni sono, quindi, attribuibili
a fattori temporanei, non destinati a durare a lungo. In una fase di debolezza ciclica della UE, l’economia italiana non potrà che ristagnare, poiché gli
effetti della crisi internazionale si sommano al suo principale problema
strutturale degli anni più recenti, cioè alla bassa produttività. Sulla base di
queste previsioni, i principali organismi internazionali stimano per l’Italia
una crescita molto vicina allo zero, sia per il 2008, sia per il 2009. Bruxelles ha subito avvertito Tremonti con la precisa raccomandazione di abbassare le tasse soltanto a fronte di tagli di spesa. Il timore della Commissione
è che, con una crescita vicina allo zero, un qualsiasi imprevisto possa portare l’Italia a sforare nuovamente il limite del 3 per cento del rapporto deficit/PIL. Ma non è soltanto la paura dell’apertura di una nuova procedura di
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infrazione dal parte della Commissione europea che spinge Tremonti alla
cautela in materia di riduzione delle imposte. Dopo la crisi dei subprime
sono in corso in tutto il mondo la ritirata del mercato e la riscoperta della
necessità dell’intervento pubblico, e il superministro dell’Economia non ha
perso tempo nel delineare un nuovo profilo della destra italiana.
La metamorfosi della destra
La destra italiana, infatti, ha modificato la sua posizione rispetto a quella
sostenuta a partire dalla metà degli anni ’90 e ancora nel 2001. Essa ha abbandonato il ruolo di interprete liberista della modernizzazione per assumere quello di alternativa critica alla rivoluzione dei mercati che focalizza tutta la sua attenzione sul tema della sicurezza. Non occorre meravigliarsi più
di tanto di questa trasformazione: la destra italiana, non da oggi, è incline
al populismo e i populisti di tutto il mondo oscillano tra libero mercato e
difesa del-l’economia locale, anche a rischio di proporre politiche economiche incoerenti. Ancora una volta, Giulio Tremonti, artefice nel 2001 della riconciliazione con la Lega, ha fornito alla politica berlusconiana una ridefinizione ideologica e culturale. Lo ha fatto con il suo libro La paura e la
speranza, con cui ha compiuto la sua ennesima metamorfosi, completando
la conversione al colbertismo iniziata già qualche tempo fa. In questo libro,
Tremonti arriva a sconfessare quello che definisce il dictum thatcheriano
sintetizzato nella frase «Non esiste la società, esistono solo gli individui».
Questa visione viene giudicata sbagliata al pari di quella che identifica tutto nello Stato. Tremonti sostiene, al contrario della lady di ferro, che accanto allo Stato esistono le famiglie e le comunità e quindi definisce essenziale
il ruolo delle strutture comunitarie. Ma non si limita al neo-comunitarismo:
la sua nuova parola d’ordine è «Mercato dove si può, Stato dove è necessario». Per reggere la sfida imposta dalla modernità non solo non basta più
soltanto il mercato, ma bisogna creare fortezze per arginare la globalizzazione e per fare questo occorrono politiche pubbliche. La distanza con la
precedente impostazione può essere misurata citando le parole con cui
Tremonti, nel gennaio 2002, esponeva, in un convegno all’Università di
Bari, le misure fiscali dei primi cento giorni del governo Berlusconi. «Se
mi si chiede quale elemento fondamentale caratterizzi l’azione del governo
in Italia e nello scenario europeo rispondo: se c’è un senso nel trattato di
Maastricht è un senso politico. È sintetizzato nel parametro del 3 per cento
che politicamente vuol dire una cosa molto semplice: meno Stato più mer14
cato». Ma la distanza con la precedente versione della destra non risulta
meno marcata se si leggono le affermazioni fatte da Berlusconi nel suo discorso al Parlamento del 15 maggio 2008: «Dobbiamo accrescere la volontà e la capacità di contrastare l’evasione fiscale, ristabilendo il principio liberale secondo il quale le tasse non sono belle in sé e neppure un tributo
moralistico al potere indiscusso dello Stato. Le imposte sono il corrispettivo che i cittadini devono allo Stato per i servizi che ricevono e sono quindi
il presupposto e la garanzia del buon funzionamento dei servizi pubblici e
la tutela di un equilibrio sociale responsabile, mai punitivo verso chi produce la ricchezza da ridistribuire con equità».
Sembrano passati anni luce da quando sosteneva (ma era solo il 2004)
che: «Se lo Stato ti chiede di più di un terzo di quello che guadagni, c’è
una sopraffazione nei tuoi confronti e allora ti impegni a trovare sistemi elusivi o addirittura evasivi, ma in sintonia col tuo intimo sentimento di moralità» o quando dichiarava (era solo il 2006) di non volere un paese in cui
il fine del governo fosse «ridistribuire il reddito, aumentare le tasse, rendere uguale il figlio del professionista al figlio dell’operaio». Dall’ideologia
populista-libe-rista del 1994 e del 2001, il governo Berlusconi è passato,
grazie a questa metamorfosi, ad un impianto populista-dirigista-compassionevole. Il «blocco sociale» di riferimento su cui ha modellato la sua prima
manovra economica è restato, però, quello di sempre: micro-imprese, liberi
professionisti e partite IVA. Mancando le risorse per ridurre le aliquote
formali del prelievo a questi settori sociali, si sono depotenziati gli strumenti di lotta all’evasione cancellando «i fastidi da tracciabilità», modificando le norme sugli studi di settore per permettere una più agevole autoriduzione delle imposte, sopprimendo l’obbligo dell’invio al fisco
dell’elenco clienti e fornitori. Ancora una volta a subire gli effetti negativi
della manovra sono state le Regioni e gli enti locali che, non potendo aumentare imposte e addizionali, saranno costretti a ridurre i servizi e aumentare le compartecipazioni alla spesa sociale e sanitaria. Nulla è andato ai
lavoratori dipendenti e ai pensionati che subiranno soltanto gli effetti negativi dei tagli di spesa e lo smantellamento del protocollo sul welfare firmato
col governo Prodi. Il taglio dell’ICI e dell’IRPEF sugli straordinari, deciso
con i primi atti del nuovo governo ha, infatti, ridotto drasticamente le risorse per migliorare il reddito disponibile delle famiglie. Questo nei prossimi
mesi sarà un grosso problema per Berlusconi. Il governo infatti, se vorrà
mantenere l’ampio consenso ottenuto con le elezioni, avrà bisogno di risorse da spendere. Non potrà vivere solo alimentando le paure degli italiani.
Le destre, infatti, in Italia hanno approfittato di un meccanismo di psicolo15
gia collettiva che è in atto in tutti i paesi occidentali e che, come ricorda
Bauman, tende a spostare sul piano del timore per la sicurezza fisica ansie
e insicurezze legate alla globalizzazione, cioè a fattori di origine sociale ed
economica. È evidente che per dare risposte concrete all’insicurezza dei
cittadini, alla lunga non basterà occuparsi soltanto delle paure connesse alla
sicurezza fisica (immigrazione clandestina, Rom, piccola criminalità).
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