Nel tempo dell`inganno universale
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Nel tempo dell`inganno universale
Università degli studi di Roma «La Sapienza» Il tema del conflitto balcanico in alcuni scrittori emigrati in Italia dal 1990 di Barbara Ronca Corso di laurea in letteratura musica e spettacolo anno accademico 2003/2004 Relatore: Armando Gnisci I II Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario. George Orwell III Gli anni Novanta del XX secolo si aprono e si chiudono sulle date di inizio e fine1 di una delle più recenti e tragiche diaspore europee: quella dai Balcani. Scatenatosi nella ex-Jugoslavia un feroce conflitto etnico, molte nazioni europee hanno assistito all’arrivo disperato di migliaia di profughi in fuga da genocidi e violenze che sembravano ormai cancellati dalla memoria del vecchio continente. La Bosnia detiene il triste primato di essere il primo paese europeo ad aver avuto campi di sterminio e di concentramento sul suo territorio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il “cuore dell’Europa” ha vissuto, negli anni tra il 1991 e il 1999, una delle pagine più buie della storia recente, a seguito della quale la federazione Jugoslava ha cessato di esistere, e con essa sono scomparsi i delicati equilibri che avevano permesso ad una popolazione etnicamente e religiosamente eterogenea di convivere pacificamente per quasi 70 anni. Eppure, questo ex stato federale che per alcuni decenni aveva reso possibile il sogno di una compagine statale multietnica, tollerante e pacifica, meritava forse – lo dice anche Predrag Matvejević – un diverso destino; seppur cosciente di quello che profetizzava Ivo Andric nella sua Lettera del 1920, e cioè che i Balcani comprendevano un mosaico di etnie e popolazioni che amavano ardentemente la propria terra, “ma in tre o quattro modi che si escludono a 1 In realtà, la diaspora balcanica non può dirsi conclusa dopo il 1999, continuando infatti ancora oggi: le due date indicate sono però quelle in cui si è concentrato il maggior numero di migrazioni. IV vicenda, e si scontrano frequentemente, con un fervore che genera un'ostilità senza tregua”, l'Europa è rimasta incredula e impotente di fronte agli eccessi di furore esplosi nel 1991. I Balcani sono stati abbandonati a se stessi come se non fossero l'Oriente del nostro mondo, ma un ricettacolo di orrori con cui il nostro civile continente, sempre più volto ad Occidente, non doveva confondersi. Eppure, a pochi anni dalla fine del conflitto che ha insanguinato questa regione, è necessario tornare a parlare della sua importanza culturale e storica; i Balcani sono di per sé un crocevia, una linea di demarcazione, tra Oriente e Occidente, tra Cristianesimo e Islam, tra Cattolicesimo e Ortodossia, tra i resti di imperi sopranazionali e conquistatori, come il turco e l’asburgico, tra capitalismo e comunismo, tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Questa regione ha dimostrato nei secoli “una tenace volontà di superare la maledizione di ‘eterne contrapposizioni’”2, e nel momento in cui è caduta vittima di una dilagante miopia politica volta all’omogeneizzazione culturale, ci ha mostrato come “la negazione dell'Altro spesso significa la mutilazione del proprio essere storico, del proprio vissuto, della complessità culturale insita nell'identità culturale europea.”3 Se è vero, come sostiene Predrag Matvejevic, che l’Europa degli stati nazionali lascia spazio ad un’Europa sopranazionale, di questa i Balcani sono stati, e possono ancora essere, un banco di prova. 2 3 Melita Richter, “Due note sull’identità”, in «Sagarana», http://www.sagarana.net/rivista/numero16/hibridazioni1.htm/ Melita Richter, op. cit. V Ho scelto di sottolineare l’importanza culturale di questa terra di confine attraverso le opere degli scrittori migranti che dai Balcani sono arrivati in Italia (e hanno cominciato a scrivere nella nostra lingua, inserendosi quindi nel solco della nostra letteratura) perché la loro produzione letteraria mi sembra rivestire una particolare importanza. Prima di tutto, perché, come ogni scrittore migrante, essi, vivendo in un paese diverso da quello in cui sono nati, e scrivendo in una lingua diversa da quella dell’infanzia, si pongono come punti di raccordo, e d’incontro, tra realtà culturali diverse ed eterogenee. Lo “straniamento” di cui sono vittime (l'ostranenie di cui parlava Josif Brodskij) costituisce un terreno straordinariamente fertile per la creazione artistica: il migrante vive in equilibrio tra i mondi, tra il paese di partenza e quello di arrivo, e li modifica e arricchisce entrambi. In secondo luogo, perché i migranti che hanno abbandonato la ex-Jugoslavia in fiamme non hanno operato una scelta, per quanto dolorosa o sofferta: hanno agito per necessità, fuggendo da un paese in cui non potevano più essere davvero se stessi, e in cui la loro identità, e la loro vita, non potevano più essere difese. Per le migliaia di profughi dei Balcani, la migrazione ha assunto i caratteri di un esilio, perché la guerra li ha privati (oltre che del presente, del passato e della speranza per il futuro) di un paese a cui tornare, o verso cui, semplicemente, proiettare il desiderio del ritorno. La scelta letteraria è diventata, per chi ha visto il proprio mondo e la propria identità culturale cancellati con violenza, una scelta di dissidenza, e quindi di resistenza. VI Gli scrittori della diaspora balcanica sono il monito più forte contro chi difende particolarismi ed erige barriere, e la dimostrazione più convincente del potere salvifico della letteratura: portando con sé la propria testimonianza, essi hanno salvato se stessi e ciò che rimane del proprio paese dall’oblio. Nel presentare la situazione balcanica, cercando di illustrare la complessità e la ricchezza culturale, politica e sociale della regione, mi sono servita dei testi di Predrag Matvejević, intellettuale che da anni vive “tra asilo ed esilio”, e che dal 1994 ha fatto dell’Italia la sua patria d’adozione. Opponendosi, con le proprie opere, ad ogni forma di tirannia politica ed egemonia culturale, egli propone una nuova definizione dell’Europa, che non si rassegni alla massificazione e alla sopraffazione. I testi su cui è stata basata l’analisi critica sono i racconti e i romanzi del bosniaco Božidar Stanišić e delle croate Vera Slaven e Tamara Jadrejčić (molti dei racconti di questa scrittrice sono ancora inediti in Italia, e sono stati citati con il consenso dell’autrice). La scelta di questi testi, e di questi autori, ha seguito diversi criteri: gli scrittori le cui opere sono state analizzate sono tutti emigrati in Italia dopo il 1990; i testi considerati sono stati scritti, con qualche eccezione per quanto riguarda Stanišić, in italiano, e si è scelto di considerare scrittori che avessero prodotto un numero di opere non troppo esiguo. Fondamentale è stata infine una considerazione riguardo al contenuto delle opere stesse: il tema del conflitto balcanico è infatti centrale in tutte quelle prese in considerazione. VII Piove sempre in questo paese forse perché sono straniero Gëzim Hajdari VIII 1 La letteratura della migrazione. Nella prefazione al libro di racconti di Božidar Stanišić Bon Voyage4, Paolo Rumiz parla di una “geniale mistificazione” che Benito Mussolini compì quando fece scolpire, sul palazzo dell’ Eur a Roma, l’inno agli Italiani “santi e navigatori”. L’ultimo dei mestieri citati, fa notare Rumiz, è “trasmigratori”: non “emigranti”, che faceva troppo pensare “a valigie di cartone”, sventurate traversate transoceaniche e miseria senza fine che costringe ad abbandonare una vita per iniziarne un’altra chissà dove e chissà come, ma “trasmigratori”. La mistificazione geniale consiste proprio in questo: nell’aver rovesciato, con abile mossa linguistica, il significato di intere esistenze: non si parlava più di vite spezzate di disorientati sofferenti in cerca di fortuna, ma di virili corse incontro al futuro, di entusiastici balzi verso una nuova avventura. Provocatoriamente, Rumiz suggerisce allora di rivalutare il vocabolo mussoliniano: “Ma sì, torniamo a questa parola fascista. Può aiutarci a chiamare allo stesso modo quelli che partono e quelli che arrivano. Capire che viaggiatori e profughi, immigrati ed emigranti, fanno parte della stessa macchina maledetta. Trasmigratori, vivaddio.” 4 Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova Dimensione, Portogruaro, , 2003, p.8 IX 1. 1 Immigrati, migranti, trasmigratori Riporto volentieri la provocazione nel momento in cui mi accingo a parlare del profondo e fruttifero cambiamento – sociale e politico, senza dubbio, ma anche culturale - avvenuto al nostro paese da quando, da qualche anno a questa parte, da terra di “emigranti” ci siamo trasformati in terra di “immigrati”. A differenza di altri paesi europei, che all’arrivo della prima ondata migratoria hanno assistito negli scorsi decenni, e della cui importanza e portata culturale non sempre si sono accorti per tempo, noi Italiani abbiamo l’enorme privilegio di veder compiersi questo fenomeno proprio sotto i nostri occhi, e di parteciparvi.5 La realtà della migrazione, che riveste caratteri di tragicità assoluta per chi la vive in prima persona, è però straordinariamente promettente, dal punto di vista culturale, per noi che la vediamo accadere. A differenza di quanto avvenne ai “nostri” migranti, agli Italiani che andarono nel mondo e non ebbero portavoci (cantori, artisti) che potessero testimoniarne la “diaspora planetaria”6, i nostri nuovi interlocutori portano con sé anche un gran desiderio di narrare la propria esperienza, di 5 Una precisazione riguardo la definizione mi sembra d’obbligo: nell’introduzione alla sua raccolta di saggi “Creolizzare l’Europa”, Armando Gnisci fa notare che, se parliamo di qualcuno che abbandona il proprio paese per ricominciare la propria esistenza altrove, proprio di prima ondata migratoria si tratta, e non di prima generazione, definizione che identifica piuttosto i figli nati in Italia da coloro che arrivano ora nel nostro paese. 6 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 10 X testimoniare il “pressappoco”, il “perenne stato di sospensione”7 in cui il migrante vive. Nasce quindi con loro una nuova forma di letteratura, elaborata nella nostra lingua da autori provenienti dai quattro angoli del globo terrestre (o, per essere più precisi, da quell’asse migratorio che va dal Sud-Est al Nord-Ovest del mondo), e che particolarismo, si né presenta come non esotica come appendice provinciale di quella Weltliteratur (letteratura del mondo) ormai più o meno appiattita sulle logiche di mercato; piuttosto, come nuova frontiera della Worlds’ Literature (letteratura dei mondi) che rappresenta, secondo una definizione gnisciana, la “poetica dell’avvenire”. 1.2 Tra “qui” e “altrove”: una vita in equilibrio Ma chi è, in definitiva, lo scrittore migrante? Almeno tre sono gli elementi che lo definiscono: 1. vive in un paese diverso da quello in cui è nato. 2. sceglie la lingua di arrivo come lingua letteraria. 3. vivendo nella memoria la prima parte della propria vita, che ha definitivamente abbandonato, si pone come ponte, punto di raccordo tra la cultura da cui proviene e quella in cui è stato – più o meno – accolto; 7 Tahar Lamri, “E della mia presenza; solo il mio silenzio. Una riflessione lunga cinque antologie”, introduzione a Parole oltre i confini, sul sito www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0128&file=parole_in_04.html §§ XI E’ ovvio che questa semplificazione non permette di cogliere tutte le sfumature insite in una condizione esistenziale e culturale di delicatezza estrema; sono però presenti, già in queste poche righe, alcune delle caratteristiche fondamentali dello scrittore migrante, che rendono il suo scrivere così prezioso per noi lettori/ospiti. Prima di tutto, lo scrittore migrante vive diviso tra la prima parte della vita, spesa in “un altrove che era, e rimane, comunque patria, e la seconda”, vissuta “da qualche anno in una lingua nuova”8. Ricordando che parliamo di scrittori di prima ondata, e seguendo il loro peregrinare, è evidente l’assoluta unicità della loro condizione: perché a chi attraversa mari per giungere nella nostra patria, “nel distacco si spezza la vita in due tronconi (…): il primo resta sulla riva del paese del passato, e l’altro cresce sulla costa ancora ignota del paese del dopo.”9 La partenza divide la vita in due “blocchi esistenziali” che non sempre hanno lo stesso peso, pur risultando magari, alla fine, quantitativamente uguali. Nel suo saggio I viaggi e la letteratura10, Domenico Nucera analizza l’etimologia del verbo “partire”. Esso deriva da latino pars, partis, cioè “parte, frazione”; ha quindi in sé, implicito, il senso della separazione, del distacco, termini che in genere troviamo applicabili alla morte, alla “dipartita”. Eppure, dice ancora Nucera, dalla stessa radice viene il verbo parere, cioè “partorire”. “Partire significa abbandonare uno stato, nel senso di condizione, per cercarne un altro; lasciare qualcosa di sé alla ricerca di una rinnovata identità. 8 9 10 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 7 Armando Gnisci, op. cit, p. 10 Domenico Nucera, “I viaggi e la letteratura”, in Introduzione alla letteratura comparata, a cura di Armando Gnisci, Bruno Mondadori, Milano, 1999, p. 120 XII (…) Nell’atto del partire è quindi contenuta una morte e poi una nascita, una separazione e poi il tentativo di congiungimento con il futuro”. Tanto più se la partenza, come spesso accade nel caso del migrante, non prevede un ritorno, ma una nuova esistenza da innestare sulle macerie della vecchia, abitando un altrove e una nuova lingua. L’impossibilità di tornare nel proprio paese costituisce uno dei fardelli del migrante; preda della nostalgia, vede la patria abbandonata come “un mondo intatto nel quale, qualunque cosa succeda, rimane vuoto un posto destinato a lui”11; nella sua disperata ricerca di un punto fermo, egli – soprattutto se è uno scrittore – l’immagine poetica costituirà nella sua mente della patria abbandonata, stregato da quella che Kundera definisce “la grande magia del ritorno”.12 Sospeso tra un passato che “rimorde” in senso demartiniano e un futuro immerso nell’incertezza, il migrante soffre doppiamente l’allontanamento dalle proprie radici, da tutto ciò che costituisce una solida definizione di sé. La perdita culturale diviene quindi anche esistenziale: “solo nella mia terra – scrive Predrag Finci – io sono padrone del mio destino, non importa quanto miserabile esso sia”13. Andare altrove significa lottare per ricostruire un’identità perduta, sentirsi esclusi da una cultura che non ci appartiene e che ci ricorda in ogni momento che siamo stranieri, indesiderati, perdersi in una società che chiude per noi “le anime e le porte”.14 11 12 13 14 Nora Moll, “Immagini dell “ altro”. Imagologia e studi interculturali”, in Introduzione alla letteratura comparata, op. cit, p. 243 Milan Kundera, L’ignoranza, Adelphi, Milano, 2001, p. 11 Predrag Finci, Il Blues dei rifugiati , in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.25 Gladys Basagotia Dazza, citata da Serge Vanvolsem in “La letteratura d’immigrazione ossia la forza della parola, da Parole oltre i confini, sul sito XIII Eppure, nonostante la drammaticità di questa lacerazione, a ben guardare ciò che di irripetibile un migrante porta con sé è proprio la possibilità di vivere in equilibrio tra i mondi: tra il paese di partenza e quello di arrivo, tra la cultura abbandonata forzatamente e quella che si deve imparare a fare propria, tra la lingua dell’infanzia, che rimane da qualche parte nella memoria, e quella della nuova quotidianità; tra la nostalgia del mondo lasciato dietro di sé e la nuova identità, che si insinua tra le pieghe della nuova vita. Lo scrittore migrante, dotato di uno sguardo caleidoscopico, di molteplici prospettive ed esperienze di vita, costituisce un ponte tra la cultura di origine e quella dell’arrivo, apportando ad entrambe elementi di novità. Secondo Predrag Matvejević15, egli parte “con un libro in valigia” e conserva la propria identità con la quale “feconda il paese di accoglienza”; sospeso tra qui e altrove, acquisisce una polivalenza esistenziale che gli consente di porsi come elemento di raccordo tra realtà lontane ed eterogenee, modificandole, arricchendole entrambe . 1.3 “Désir d’exister”: la letteratura della migrazione e la cultura europea Lo scrittore migrante, che non appartiene a “una, due, o più nazioni ma alla rete delle relazioni formata dalla migrazione transmondiale”16 , si pone, nei confronti della nostra secolare cultura europea, come un detonatore di innovazione. 15 16 www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0130&file=parole_in_06.html Predrag Matvejevic, Introduzione al Quaderno balcanico II in I cittadini della poesia, a cura di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 2000 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 9 XIV La storia della modernità occidentale si presenta come storia imperialista; e l’Occidente, nutrito delle proprie certezze, difficilmente accoglie uno sguardo “altro”, che possa far crollare i valori attraverso i quali i suoi figli si riconoscono, si identificano, si definiscono. Secondo Milan Kundera17, la storia degli ultimi decenni ha portato l’Europa ad allontanarsi da ciò su cui, nell’era moderna, aveva poggiato la sua unità, ciò che rappresentava la realizzazione dei valori supremi attraverso cui gli Europei definivano se stessi: la cultura, la “creazione culturale”. Crollato questo baluardo identitario – sostituito forse dalla tecnologia, dalla politica, dal mercato globale - “l’immagine dell’identità europea si allontana nel passato”, e l’Europeo perde sempre più di vista “tanto l’insieme del mondo quanto se stesso, affondando così in quello che Heidegger (…) chiamava, con una formula bella e quasi magica, ‘l’oblio dell’essere’”. A questo oblio si oppongono le opere dei migrant writers, i quali, con le loro identità doppie, multiple, ricostruite, precarie, sempre in bilico – o meglio, in equilibrio – tra i mondi, offrono uno sguardo nuovo, straniante, sulla cultura ormai stanca del nostro millenario continente. Propongono una nuova definizione dell’identità europea, che si costruisca certamente a partire da valori culturali, ma che non si rassegni alla massificazione e al dominio dell’altro; piuttosto, che trovi il suo fondamento nel riconoscimento del potere salvifico pacificamente rappresentato dalle nuove realtà che “invadono” e “colonizzano” il nostro continente. 17 Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, p. 179 XV La letteratura della migrazione si pone quindi non come “una letteratura marginale, o una letteratura etnica, ma come letteratura tout court, perché innova il dire, innova le rappresentazioni di mondi possibili. (…) Essa costruisce, se pure a livello dell’immaginario, mondi possibili, sentimenti negati; è una letteratura dell’esistente, che rivendica il suo diritto all’esistenza. E nel dur désir de durer – come nei versi di Apollinaire – essa esprime il dur désir d’exister .”18 Questa breve citazione di Khaled Foum Allam conferma la portata rivoluzionaria di questi autori; i quali, con le loro opere, offrono “rappresentazioni di mondi possibili”: ci donano cioè la possibilità della creazione di mondi, o quantomeno l’esaltante consapevolezza che il nostro non sia l’unico possibile. Ci dicono che proprio nella pluralità, nel colloquio, nell’esperienza dell’ospitalità, nell’alterità come ricchezza sono rintracciabili i semi identitari del nuovo intellettuale Europeo. 1.4 Una nuova forma di cultura, transnazionale e creola Quando Khaled Fouad Allam afferma che la letteratura della migrazione si presenta come letteratura dell’esistente, intende probabilmente porre l’accento sulla “posizione privilegiata” di cui il migrante gode nell’essere testimone della Storia attraverso la propria esperienza. Privato delle certezze che regolavano la prima parte della propria vita, costretto ad una continua “migrazione identitaria” dentro e fuori di sé, posto a confronto con una cultura che non 18 Khaled Fouad Allam, “Introduzione”, in Mosaici d'inchiostro, sul sito §§www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0028&file=mosaici_in_02.html XVI gli appartiene, egli vive, nella propria storia personale, il senso di quella “creolizzazione planetaria” di cui parla Edouard Glissant19. Egli è il vivente portatore dei due mutamenti culturali attraverso cui si manifesta la creolizzazione: essa infatti è possibile solo se si abbandona la radicata convinzione secondo cui ogni identità si definisce escludendo e/o dominando l’identità altrui; e si manifesta come la relazione di elementi eterogenei che si “intervalorizzano”, senza subire degradazioni, e con in più il valore aggiunto dell’imprevisto. Riprendiamo la metafora usata da Matvejević che ho citato qualche riga fa: lo scrittore migrante si avvia verso il nuovo con una valigia in cui “solo qualche libro trova spazio” assieme a “pochi altri oggetti cari o indispensabili”.20 Il cammino intrapreso è quello dell’intervalorizzazione non degradante: il nostro trasmigratore viene armato, sì, ma della sua cultura. Il punto d’arrivo è l’imprevisto: l’incontro tra questa e la nostra produce effetti che possiamo seguire nel loro svolgersi, ma che per ora sono assolutamente imprevedibili, tantopiù che nascono da un fenomeno già di per sé totalmente inaspettato: una nuova – e non belligerante – invasione dell’Europa, che segue di oltre un millennio la precedente. Seguendo questi cambiamenti culturali fino alle estreme conseguenze, non potremo più parlare, quindi, di letteratura come immutabile oggetto accademico e strumento di dominio; ma di una nuova poetica, rivoluzionaria e sperimentale, di cui gli autori migranti rappresentano l’avanguardia. 19 20 Edouard Glissant, La poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998, p. Predrag Matvejević, introduzione a “in Quaderno balcanico II” in I cittadini della poesia, a cura di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 2001, p. 8 XVI I La realtà che il migrante rispecchia, nelle proprie opere letterarie e nelle proprie esperienze, non è, non può essere, univoca, controllata o prevedibile; avendo attraversato la Storia, egli riflette, come dice Roberta Sangiorgi21, “immagini non di se stesso ma di più mondi.” Riconoscendo la pluralità dell’umano, e rivendicandone l’esistenza – e la resistenza - lo scrittore migrante si pone quindi davvero nel solco della letteratura, della vera letteratura (della letteratura tout court, dicevamo); del resto, già Josif Brodskij, in un discorso del 198722, sosteneva che la diversità umana sia la materia prima della letteratura, e che ne costituisca la ragion d’essere; che “essendo la forma più antica, e anche la più letterale, di iniziativa privata, l’arte” – e in particolar modo la letteratura – “stimola nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità”. Lo scrittore migrante non è, in definitiva, solo un numero, uno delle migliaia di sventurati che si riversano ogni anno, per le ragioni più disparate, nel nostro paese; egli è, come dice Jarmila Očkayova, il portavoce del fondamentale passaggio da un modello culturale faustiano – l’intellettuale europeo pecca di orgoglio – ad uno amletiano, shakespeariano: il migrante “apre le porte al dubbio”. Ed è un dubbio salvifico quello che ci pone, (ogni dubbio è un omaggio alla speranza, sosteneva Voltaire) perché ci insegna che riconoscere la propria unicità, rifiutare la massificazione, specie per coloro che il destino ha voluto divisi tra più patrie, tra più vite, significa anche intraprendere il cammino verso la libertà. 21 22 Roberta Sangiorgi, “La ricchezza del doppio sguardo”, in Il doppio sguardo, culture allo specchio, sul sito www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0000000192&file=doppio_in_02.htm Josif Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, in Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p.15 XVI II Ci ricorda che il nuovo, il “diverso”, altro non è se non un “potente antidoto contro la malattia dell’omologazione”.23 Ci rinnova la consapevolezza che la letteratura sia “una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina”.24 23 24 Jarmila Očkajova, L’impegno di vivere, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Edizioni interculturali, 2002, p.60 Josif Brodskij, op. cit., p.15 XIX …anomalo, dissimile, sproporzionato, per nulla calibrato, quindi squisitamente balkanico… Angelo Floramo XX 2. I Balcani Peculiarità della situazione balcanica. Questione identitaria e difesa della diversità come valore culturale, testimonianza della macrostoria e migrazione che assume i caratteri di un esilio, scelta della letteratura come ultimo baluardo di una dissidenza possibile e frattura esistenziale in cui siano ben distinti un “prima” ed un “dopo”, ridefinizione culturale che si basi sul dialogo e non sulla sopraffazione: tutto ciò che caratterizza il fenomeno della letteratura migrante è particolarmente evidente nella più recente diaspora europea: quella dai Balcani. Migliaia di persone hanno abbandonato questa regione situata nel cuore dell’Europa durante gli anni che vanno dal 1991 al 1999: date di inizio e fine dell’ultima guerra nella exJugoslavia, la prima che insanguinasse il nostro continente dalla fine del secondo conflitto mondiale. Diretta conseguenza dell’orrore bellico scatenatosi a seguito del riemergere di folli ideologie nazionaliste, la migrazione dai Balcani, e quindi anche la produzione letteraria ad essa collegata, assume caratteri assolutamente peculiari: primo fra tutti, la migrazione è un passo obbligato e doloroso, non una delle scelte possibili, volto a garantire due dei diritti fondamentali per chi fugge: la vita e il rispetto della propria umanità. Secondariamente, la scelta della letteratura come forma di denuncia, in qualche modo di resistenza, è di estrema importanza per chi ha visto cancellare il proprio mondo. XXI E’ necessario ripercorrere le fasi di questo conflitto, e conoscere il complesso quadro storico-politico all’interno del quale si inserisce, per comprendere l’importanze degli scrittori migranti dai Balcani e della loro produzione letteraria. 2.1 L’importanza dei Balcani: alcune metafore Il “nostro” secolo breve è iniziato, si dice, nel 1914 a Sarajevo; ed è finito, nel 1999, a Belgrado. In mezzo a questi due estremi c’è il Novecento, con tutta la storia che ha prodotto; in mezzo, ci sono anche i Balcani, continente nel continente, che sfugge a prima vista ad ogni definizione, o si presta a molte. L’“anomalia balcanica” consiste, da sempre, nella sorprendente convivenza di una moltitudine di gruppi etnici, religiosi e linguistici all’interno di uno spazio geografico relativamente ristretto e non sovrappopolato. Questo mosaico non è stato, com’è noto, immune da scontri e tensioni, che anzi sembrano essere una delle sue cifre caratteristiche, tanto da produrre per questa regione le definizioni di “polveriera” o “ventre molle” d’Europa. Già Miroslav Krleža, scrittore deceduto dieci anni prima che la dissoluzione del suo paese avesse inizio, difendeva strenuamente, accanto alla sua identità croata, anche quella jugoslava, avvertendo i suoi “confratelli” della pericolosità dei “culti ideologici” e dei nazionalismi esasperati. Nel 1952, al Congresso degli scrittori di Lubiana, sosteneva: “Rimettere insieme tutta la coscienza politica, culturale e intellettuale che nei nostri giorni si vede frantumata e dispersa dai nostri provincialismi, (…) mettere in evidenza XXI I gli aspetti tragici dei nostri propri scismi così come delle nostre negazioni reciproche, questa dovrebbe essere la nostra missione”25. In molti non hanno esitato a definire i Balcani “culla” d’Europa, o suo “cuore”, volendo coglierne così la ricchezza culturale e storica e la complessità sociale, ma anche l’importanza nella costruzione di un’identità europea. Qui si è infatti costituita la civiltà mediterranea; questa regione di fronte alla quale la “fortezza Europa”, sempre più volta ad Occidente, chiude le sue frontiere, anche culturali, non è un’entità politico-culturale a noi estranea, o da noi indipendente. Quella che chiamiamo con la bella e rassicurante metafora di casa Europa, andando verso est, si ricompone, non si allarga, fa notare Melita Richter26. Abbiamo dimenticato – ed è una grave perdita, in termini culturali – che dell’identità europea partecipa anche “l’anima grande dell’Oriente”27; quello che una volta era “l’Oriente del nostro mondo”, “oggi è solo Est, una sigla che marchia le periferie della politica e della mente”28. Non sembra quindi azzardato parlare di questa Regione come di una “vetrina” del nostro continente, una sorta di suo “compendio”; in definitiva, parlare di Balcani significherebbe parlare di Europa ma soprattutto all’Europa. Perché la storia balcanica (non solo quella più recente) ci insegna e ci avverte; se consideriamo il conflitto degli anni Novanta, essa 25 26 27 28 Miroslav Krleža, citato da Predrag Matvejevic, in Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 103 Melita Richter, “Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro”, in «Osservatorio sui Balcani», marzo 2004, sul sito www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/2889/1/50 Paolo Rumiz, E’ oriente, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 15 Paolo Rumiz, op. cit, p. 39 XXI II costituisce anzi, per utilizzare le parole di Edmund Stillmann, “un avvertimento mortale” 29. Un continente nel continente, abbiamo definito i Balcani; un’Europa nell’Europa, uno “specchio perfetto delle nostre divisioni, e al tempo stesso l’ultima isola della nostra complessità perduta”30, secondo Rumiz; “una specie di campo di prova”31 delle tensioni europee per Predrag Matvejević; “la camera oscura dell’Europa32” a parere di Angelo Floramo, nella quale “il buio genera forme, linee, idee, sogni.”; infine, nell’opinione di Georges Prévélakis, “termometro per l’Europa”, che anticipa e riassume cambiamenti culturali e tensioni sociali che turbano l’intero continente.33 E’ partendo da questi presupposti che si può comprendere il sanguinoso conflitto degli anni Novanta. Perché la complessità è sicuramente una delle caratteristiche fondamentali della regione balcanica (all’interno della quale la Jugoslavia è esistita come stato federale solo per alcuni decenni) e riveste l’ambito geografico, politico, storico, etnico, linguistico; gran parte degli eventi degli ultimi quindici anni trovano la propria origine in questa complessità. 2.2 Comprendere i Balcani attraverso le opere di Predrag Matvejević 29 Edmund Stillman, citato da Georges Prévélakis, ne I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 11 Paolo Rumiz, L’ultima isola, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998, p.154 31 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma edizioni, Napoli, p.9 32 Angelo Floramo, Parole in esilio, tra il sogno e la voce. Spunti per una rapsodia balkanica, in «PaginaZero Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 21 Angelo Floramo è studioso medievista, esperto di tecniche multimediali, intenditore raffinato della vignettistica, e un profondo conoscitore delle culture dell'est Europa di cui spesso scrive su giornali e riviste di ogni nazione. 33 Georges Prévélakis, Les Balkans, poudrière ou thermomètre de l’ Europe, in «Confluences Méditerranée», n.8, 1993, p.97 30 XXI V Alla fine del 1994 un gruppo di intellettuali e politici europei si ritrova a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina, per commemorare una tragica ricorrenza: la città bosniaca, trascinata nel 1992 nella guerra fratricida che sta dilaniando la ex-Jugoslavia, ha superato il millesimo giorno di assedio. Più di settantamila persone sono intrappolate all’interno della città, senza cibo né acqua, costantemente sotto il tiro dei cecchini che presidiano le più importanti strade del centro. Diecimila sono già morti. Altrettanti sono fuggiti chissà dove. Sarajevo (l’unica capitale al mondo che avesse nel suo centro, a poche centinaia di metri di distanza, quattro luoghi di preghiera, uno ebraico, uno musulmano, uno cattolico e uno cristiano ortodosso) diviene, nella prima metà degli anni Novanta, il simbolo di una guerra tragica e insensata, di fronte alla quale l’Europa e il mondo s’interrogano, stupiti e impotenti, senza riuscire a fare nulla per fermarla. Gli intellettuali intervenuti a sostegno della popolazione imprigionata in quello che ormai viene definito “il più grande campo di concentramento del mondo”34 pubblicano sull’International Herald Tribune un necrologio “in memoria dei nostri cari Principi, Valori morali e Impegni, defunti in Bosnia nel 1994”.35 Tra quegli intellettuali c’è Predrag Matvejevic. Jugoslavo per nascita ed Europeo per scelta, è nato a Mostar, in Bosnia Erzegovina, da madre croata cattolica e padre ucraino di origine, russo di lingua, ortodosso per formazione, jugoslavo di adozione. 34 35 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 43 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 440 XX V Questo complesso mosaico identitario viene sempre, fedelmente, riportato, ogni volta che si parla di questo scrittore che da qualche anno ha fatto dell’erranza una scelta di vita, e che vive “tra asilo ed esilio”, lavorando tra Roma, Parigi, e ciò che resta della sua Jugoslavia ormai perduta. Si riportano questi dati biografici forse cercandovi l’origine della sua predilezione per la “dissidenza”36, il “cosmopolitismo”37, la necessità di testimonianza e di denuncia di tutti gli orrori del mondo; specialmente del suo mondo, quello dell’“altra Europa”, quell’“est” da cui sempre più ci allontaniamo. Credo che questa predilezione sia da ricercarsi, oltre che nella complessità delle sue origini (di sé, nel suo testo Mondo «ex» Matvejević dice : “ero destinato ad essere internazionale”38), nella sua scelta di porsi sempre dalla parte dell’umano; ciò che il dissidente Metvejević combatte nei regimi di cui ha avuto, più o meno direttamente, esperienza, sono i particolarismi, i nazionalismi esasperati, i fondamentalismi, i clericalismi (in più di una sede, l’autore ha tenuto a precisare che non ama, in genere, gli “ismi”; preferisce, dice, le parole che finiscono per “tà”: libertà, fraternità, jugoslavità, e, soprattutto, verità.) La necessità, intimamente sentita e portata avanti con coraggio, di denunciare le storture della storia e dei governi, l’ha portato lontano dalla Jugoslava che amava, ma in cui vedeva avverarsi il celebre monito di Ivo Andrić, secondo cui “la verità è la prima vittima della guerra”. In una lettera diretta ad Andrej Sacharov del 1984, nell’esprimere la necessità che egli continui a parlare al suo 36 37 38 Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 40 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi editore, Roma, 1998, p. 233 Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p.89 XX VI popolo (Sacharov era allora confinato a Gorkij), Matvejević lo definisce “ostaggio della verità”39. Ed è così che lui stesso ci appare: cosciente di ciò che affermava il pittore Kazimir Malević, cioè che l’arte ha bisogno di verità, non di sincerità, non rinuncia mai, nei suoi scritti, alla ricerca del nesso profondo tra arte e vita, tra ispirazione ed occasione. I suoi libri sono fedele cronaca dei nostri tempi: non sapendo che farsene di “poesie che non riposano su niente”40, diffida dell’intellettuale che non si schiera, dolorosamente conscio che, anche nelle pieghe più dolorose della storia, “ci deve essere pure chi ricorda”41. Di lui, Robert Brechon scrive: “Ormai, ‘erede senza eredità’, socialista senza socialismo, democratico senza democrazia, iugoslavo senza Iugoslavia, europeo senza Europa, poiché la sola Europa nella quale avere ‘cieca fiducia’, cioè la nostra, a sua volta si richiude nelle sue frontiere, tutto ciò che può fare è di eseguire questi esercizi di libertà di pensiero che sono i suoi libri. Il vagabondaggio geopoetico nello spazio terraqueo del Mediterraneo e le ‘bottiglie gettate in mare’ incaricate di portare ai suoi fratelli europei i messaggi della ‘nuova dissidenza’, tutto ciò sembra testimoniare, in quella coscienza ferita, di una invincibile fiducia nell’uomo”42. Non va dimenticato infatti – e soprattutto non dovrebbe dimenticarlo l’intellettuale – che della storia “siamo talvolta tutti responsabili, per quanto possiamo essere individualmente impotenti”43. 39 40 41 42 43 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 130 Wolfgang Goethe, Conversazioni con Eckermann, 18 settembre 1823, citato da Predrag Matvejevic, Mondo « ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 176 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 65 Robert Brechon, “Cittadino di un’ Europa introvabile”, postfazione a Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 186 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 67 XX VII Indispensabile chiave di lettura della storia recente della “nostra” e dell’“altra” Europa, le sue parole saranno utili nel ripercorrere la storia del crollo del suo paese, così tanto amato. 2.3 Una regione piena di contraddizioni “Chi approda nei Balcani” afferma Matvejević in un recente articolo “non tarda a rendersi conto delle loro contraddizioni”44. E’ l’essere un crocevia, probabilmente, il senso ultimo di questa zolla d’Europa: nei secoli, essa si è trovata ad essere un punto di incontro (e di scontro) tra Oriente e Occidente, tra mondo bizantino e mondo latino, tra Impero d’Oriente e Impero d’Occidente, tra cattolicesimo e ortodossia, tra Austria asburgica e Impero Ottomano, tra cristianesimo e islam, tra paesi del blocco sovietico e occidente industrializzato. Essa rimane vittima di quella che Prévélakis chiama “tirannia della geografia”45: perché, ben lungi dall’essere caratterizzata da una natura accogliente e favorevole, pure ha una posizione invidiabile, che l’ha resa nei secoli preda di bramosie di ogni genere. Mentre si rafforzava così nelle popolazioni che l’abitavano lo spirito di resistenza e il senso di una libertà da difendere anche a costo della vita, i Balcani vivevano il dramma di una unificazione che risultava impossibile se non sotto una dominazione straniera. Mai costituitasi in un’entità indipendente, questa regione vive la tirannia della storia tanto quanto quella geografica: perché non avere una storia globale della penisola, 44 45 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 7 Georges Prévélakis, I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 18 XX VIII ma singole storie nazionali spesso in contrasto tra loro ha reso più semplice il salto (quasi impercettibile ma pericolosissimo) da cultura nazionale a ideologia della nazione46. Infine, parlare dei Balcani vuol dire ammettere, come base dell’analisi, una certa indeterminatezza; anche solo definire quali paesi facciano parte a tutti gli effetti della Regione non è impresa da poco: “A quale regione appartiene la Romania, ai Balcani o all’Europa Centrale? (…) Dobbiamo includere nei Balcani la Slovenia, così vicina, geograficamente e culturalmente, all’Austria? In che misura la Croazia cattolica è balcanica? E la Turchia? (…)”47. Dubbi come quelli che si pone Prévélakis sono inevitabili, inoltrandosi nel territorio che sta oltre la catena montuosa della Stara Planina: le cause di questa particolarità vanno ricercate in quindici secoli di storia, durante i quali il territorio dei Balcani è stato teatro di vicende molto complesse, e che hanno lasciato come eredità un’estrema instabilità politica. 2.4 La Jugoslavia prima del conflitto Divisi fin dall’antichità greca tra ellenismo e barbarie, i Balcani videro aumentare la propria importanza dopo il 330 d.C., quando, unificati sotto il dominio di Roma, Costantinopoli divenne il reale centro di gravità dell’impero ormai in declino. Le tensioni politiche, dovute alle pressioni barbariche sui confini, e quelle religiose dovute all’affermazione del cristianesimo come fondamento ideologico dell’impero, portarono ad un graduale allontanamento tra centro e periferia, 46 47 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.9 Georges Prévélakis, I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 16 XXI X culminato nel primo Scisma del 482, poi in quello definitivo del 1054, e quindi nell’affermazione della Chiesa Ortodossa. Tra il IX e il X secolo, l’impero bizantino è al suo culmine, e si presenta come un impero multinazionale che non ha problemi a gestire le invasioni di popoli barbari (tra cui Serbi e Croati, che slavizzano gran parte della regione) a nord dei suoi territori; la vera minaccia mortale è l’Occidente, che nel 1204, con la quarta crociata, attacca e distrugge Costantinopoli affermando la propria superiorità politica ed economica. Nel momento della definitiva presa di Costantinopoli, nel 1453, i Balcani sono divisi tra un’area linguistica slava e una greca, ma uniti dall’ortodossia, con le sostanziali eccezioni della Croazia cattolica e dell’islam, affermatosi in Bosnia, Bulgaria, Albania grazie all’influenza ottomana. Ed è proprio con la conquista da parte dell’impero Ottomano che i Balcani ritrovano una certa stabilità con la cosiddetta pax ottomanica. E’ una pace che però ha il suo prezzo: il dominio turco, imposto per quasi mezzo millennio a tutta la regione, taglia fuori i popoli balcanici (in misura minore quelli del nord, come croati e sloveni, in modo drammatico quelli del sud, come serbi, albanesi, bulgari, rumeni, ma anche greci e macedoni) da ogni contatto culturale con il resto d’Europa. E’ solo nel Settecento, con la decadenza ottomanica e l’affermazione nella regione dell’influenza asburgica, che idee riformiste e un certo fervore culturale iniziano a palesarsi. Influenzata a partire dall’ Ottocento dal nazionalismo romantico di matrice tedesca, una pleiade di letterati, poeti e studiosi, soprattutto filologi, si impegna per riscoprire la storia e la lingua dei popoli balcanici, per rendere possibile l’inserimento della regione nell’Europa. XX X La cultura si laicizza; si afferma un forte sentimento patriottico, e per quanto riguarda le popolazioni slave, la sensazione di far parte di una grande famiglia. In una regione in cui l’affinità etnica aveva avuto certamente più peso dell’unità politica, l’idea herderiana del popolo-nazione quale organizzazione naturale e spontanea, contrapposta alla nazione-Stato, diviene centrale. Nasce l’Illirismo, e con esso l’idea di unificare tutti gli “Slavi del sud”, legati tra loro dall’affinità linguistica, in un unico stato; “la lingua è la storia dell’umanità, la sua eredità”48, affermavano i romantici: su questa base si tenta di semplificare e razionalizzare una realtà estremamente frammentaria. Ma le spinte nazionalistiche sono fortissime; e il secolo successivo è sconvolto da una serie di rivolte che portano alla graduale emancipazione dalla Sublime Porta e alla creazione di uno Stato Serbo sempre più forte che aspira al ruolo di Piemonte balcanico. L’Austria Ungheria, che già “aveva avvertito il glaciale passaggio dell’ombra della propria fine”49 si oppone con fermezza allo Jugoslavismo occupando la Serbia nel 1878. Il progetto è destinato a fallire, e la resistenza serba culmina nella crisi finale del 1914. Dopo la prima guerra mondiale (durante la quale i Serbi combattono dalla parte degli alleati mentre Sloveni e Croati a fianco degli imperi centrali), viene costituito un regno “dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni” che diviene, nel 1929, “Regno di Jugoslavia”. Lo stato fra le due guerre si mostra politicamente fragile ed economicamente in difficoltà: nel 1941 il paese non resiste all’attacco delle truppe tedesche, italiane, ungheresi e bulgare, 48 49 Giampiero Moretti, Heidelberg romantica, Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Guida, Napoli 2002, p. 110 Josip Krulic, Storia della Jugoslavia dal 1945 ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1997, p. 14 XX XI e “crolla come un castello di carte”50. La Jugoslavia cessa in pratica di esistere, la Germania e l’Italia spartiscono il territorio e permettono agli ustascia di Ante Pavelić di costituire un Regno Croato indipendente, fortemente antiserbo. Si levano in armi a questo punto i cetnici di Draža Mihalović (serbi e filomonarchici), e i partigiani guidati da Josip Broz, detto Tito (filosovietici e decisi a portare avanti una rivoluzione di tipo bolscevico), ostili tra di loro e agli ustascia: quella che segue è una vera lotta di tutti contro tutti. Il movimento partigiano esce vittorioso dalla guerra, e Tito ristruttura la nuova Jugoslavia socialista su basi federali. Il paese tra il 1945 e il 1980 è fortemente caratterizzato dal prestigio del suo presidente, che riesce ad affermarsi al punto di sollevare economicamente lo stato grazie all’autogestione e all’autodeterminazione e ad opporsi allo stalinismo – nel 1948 tra Jugoslavia ed Unione Sovietica nasce un’insanabile contrasto che porterà ad un vero e proprio scisma, accolto con favore dall’Occidente. Tito rende l’instabile Jugoslavia non solo il centro del movimento dei non allineati, ma anche “uno dei rari paesi multinazionali del mondo, che aveva saputo risolvere il problema della convivenza”.51 L’impatto sull’opinione pubblica internazionale è fortissimo. Ma la sicura unità jugoslava, la promessa di una serena convivenza tra popoli non aveva tenuto in debito conto alcuni dei maggiori focolai di tensione del paese: sussistevano ancora, negli anni Settanta – e anzi cominciavano a minacciare la sicurezza titoista – le gravi contraddizioni del problema delle minoranze, del risorgere di miti nazionalistici e della 50 51 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 16 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 9 XX XII pericolosa convivenza di spirito bellico tradizionale (in cui le forme comunitarie del clan e della famiglia superano per importanza quella dello stato) e patriottismo espansionistico di stampo moderno. Nel 1980, in occasione della morte di Tito, decine di statisti di tutto il mondo giungono a Belgrado per inchinarsi davanti al feretro dell’uomo che aveva reso possibile l’unità e la pacificazione di una regione priva di stabilità. Senza averne piena coscienza, salutano anche uno stato ormai avviato verso la fine; scomparso il presidente, “tutti i nodi” della Jugoslavia vengono infatti “fatalmente al pettine”52. 2.5 La guerra Eppure quando, negli anni Novanta, le tensione nazionalistiche maturate in seno alla ex-Jugoslavia sono esplose in uno dei conflitti più crudeli degli ultimi decenni, l’Europa è rimasta a lungo incredula di fronte al risvegliarsi di odi che pensava superati. I conflitti identitari erano stati relegati al rango di barbarie che mai si sarebbero ripetute dopo il termine della seconda guerra mondiale. Si era coscienti che la creazione dello stato federale non aveva dato vita a nazioni etnicamente omogenee; ma si era creduto che “il secolare komišiluk – parola di origine turca che in Bosnia indicava cordiali rapporti di vicinanza tra persone di diversa religione e tradizione – avrebbe prevalso sui sospetti e gli odi reciproci”53. Invece la Jugoslavia, col suo sogno di uno stato plurinazionale in cui la convivenza pacifica fosse non solo 52 53 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 226 Jože Pirjevec, op. cit., p. 124 XX XIII possibile, ma addirittura necessaria alla sopravvivenza dello stato stesso, è miseramente crollata sotto i colpi delle ideologie nazionaliste. Le vecchie ferite, che si credevano rimarginate, hanno ricominciato a sanguinare; e l’Europa si è trovata impreparata di fronte ad un conflitto di cui era stato possibile, come afferma Predrag Matvejević, prevedere l’odio, ma non il furore. Una guerra durata dieci anni, che ha fatto del rancore etnico il suo vessillo, che ha visto realizzarsi sul suolo del civilissimo Vecchio Continente massacri, stupri etnici, deportazioni, campi di concentramento e di sterminio, ha chiaramente dimostrato quanto in realtà fosse fragile l’illusione di una soluzione dei contrasti che non prevedesse uno scontro armato. Cronologicamente, l’ultimo conflitto consumatosi nella penisola balcanica si colloca negli anni Novanta del XX secolo. Esplode nel territorio di quella che ancora nel 1990 era la Repubblica Federale Socialista Jugoslava, in cui “convivevano sei gruppi nazionali: serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini e musulmani bosniaci, oltre a una miriade di gruppi etnici minori quali albanesi, ungheresi, italiani, bulgari, rumeni, slovacchi, cechi, ucraini, rom (zingari), turchi; (…) si usavano tre lingue ufficiali e due alfabeti – latino e cirillico – (…) si praticavano le religioni cattolica, ortodossa e musulmana”54, e si configura come un conflitto etno-nazionalista, la cui ferocia è stata aumentata a 54 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 4 XX XIV dismisura da una fatale mescolanza di miti caricaturali (la “Grande Serbia”, la “Sacra aria croata”) e revisionismo storico. Un conflitto che vede a capo dello stato più forte della federazione, la Serbia, Slobodan Milošević, politico dotato di forte personalità ma preda di folli volontà espansionistiche, e dimentico del fatto che questa “penisola è (…) troppo ristretta per simili ambizioni”55. (Non sarà l’unico, ma sarà certo il più pericoloso). I teatri di guerra, infine, sono quattro: l’asburgica e quasi etnicamente pura Slovenia; la cattolica ma molto più “balcanica” Croazia; la Bosnia Erzegovina, un vero mosaico etnico-religioso (il paese che più ha sofferto per questo conflitto); il Kosovo, appartenente alla Serbia ma con popolazione a maggioranza (quasi il 90%) albanese. Ricordando una suggestiva suddivisione delle fasi del conflitto operata da Matvejević in suo diario, e semplificando eventi che richiederebbero una trattazione ben più ampia, si potrebbe affermare che il 1991 è l’anno in cui i demoni nazionalistici si risvegliano: la Slovenia, la più ricca delle repubbliche jugoslave, riesce, dopo una guerra lampo, ad ottenere l’indipendenza. Il 1992 è l’anno della nascita di nuove frontiere: il conflitto si sposta in Croazia, dove le truppe fedeli a Milošević rivendicano il possesso dei territori a maggioranza serba; la Jugoslavia non ha solo perso una delle sue repubbliche, ma è ormai vittima di un meccanismo crudele che è impossibile fermare. Le immagini di Vukovar assediata fanno il giro del mondo: ancora incosciente della perdita, il mondo attende una soluzione che non arriva. 55 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 18 XX XV Nello stesso anno, la guerra giunge in Bosnia, e si svolge ora su due fronti: sia i Serbi che i Croati portano avanti rivendicazioni territoriali ai danni dell’etnia musulmana, che costituisce la maggioranza della popolazione bosniaca. Dal 1992 al 1995, le ferite inferte al cuore dell’Europa diventano irreparabili, e il sogno di unità dei migliori tra gli jugoslavi cede il posto alla disillusione e allo sgomento. Con gli accordi di Dayton del 1995, la Bosnia è divisa in una Repubblica Serba e una Federazione Croatomusulmana. In un momento che l’Europa vive come un trionfo, gli abitanti di uno stato ormai “ex” riconoscono la sconfitta di vincitori e vinti. Il conflitto sembra risolto, ma si riaccende nel 1999, con l’attacco di Milošević al Kosovo: i bombardamenti NATO su Belgrado mettono fine al contrasto, senza peraltro risolvere le questioni etniche. Nel 1995, Bogdan Bogdanović, ex sindaco di Sarajevo, dichiarava: “I serbi hanno perso la guerra, hanno perso l’anima, hanno perso l’onore, hanno perso tutto.”56 Questo non impedisce al maggiore artefice dell’orrore jugoslavo, Slobodan Milošević, nel 1999, di affermare, con vana retorica e senza tema di cadere nel ridicolo, che la “sua” Jugoslavia era “il paese più libero e più democratico di tutto il mondo”57. La migrazione dai Balcani. 2.6 Colpire i simboli: nuove frontiere e ponti che crollano 56 57 Bogdan Bogdanović, citato da Jože Pirjevec, in Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p.553 Bogdan Bogdanović, op. cit., p.553 XX XVI Ci sono immagini di questo conflitto che racchiudono in sé tutto il senso di un orrore durato anni: le case distrutte della città croata di Vukovar, tenuta sotto assedio dalle truppe serbe durante il 1991; lo sterminato memoriale di Potočari, nella cittadina di Srebrenica, in Bosnia, in cui, nel 1995, più di ottomila cittadini di etnia musulmana sono stati massacrati nell’arco di appena tre giorni; la biblioteca di Sarajevo, splendido edificio che conteneva manoscritti di inestimabile valore, bombardata e divorata dalle fiamme, ridotta ormai ad uno scheletro le cui finestre sono orbite vuote; i posti di blocco e le frontiere, che non esistevano affatto, prima; infine, il simbolo forse più forte e più tragico: il ponte, costruito nel 1566 e distrutto dalle truppe croate, nel 1993, a Mostar, la città “dove Oriente e Occidente si erano date la mano”58. “I simboli”, dice Gigi Riva59 in un articolo del 1998, “contano sempre. Soprattutto contano in guerra.”60 In particolar modo, contano in questa guerra, in cui gli opposti nazionalismi, per risultare accettabili in una regione da secoli abituata alla convivenza multietnica, hanno necessitato del risveglio di fantasmi passati, della promozione mediatica di un feroce odio etnico, della demonizzazione dell’altro, dell’identificazione di chi difendeva il pluralismo culturale con un nemico da annientare, anche fisicamente. Acquistano allora un senso più profondo le parole della scrittrice Melita Richter, quando afferma che assieme al Vecchio (lo Stari, così i mostarini chiamavano la superba costruzione che si ergeva sulla Neretva “come un arco sottile 58 59 60 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p.19 Gigi Riva, giornalista professionista, vanta esperienze al Gazzettino di Venezia, al Giorno, a Repubblica e in televisione come collaboratore di Gad Lerner nel programma Pinocchio. Ha seguito le guerre dei Balcani, in Croazia e Bosnia come inviato speciale sino al 1996, conflitti sui quali ha scritto due libri. Attualmente è inviato speciale del settimanale L'Espresso. Gigi Riva, “Kamerni Teatar” 55, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998, p.154 XX XVI di luna”61, come se fosse uno di famiglia) “annegò un mondo intero; l’antico mondo che aveva fatto sua l’arte e la saggezza del vivere insieme”62. Simbolo di unione e condivisione per eccellenza, il ponte è una metafora di enorme forza, che molti scrittori hanno utilizzato nei secoli: primo fra tutti – inevitabile citarlo parlando di questo most bosniaco - Ivo Andric: che dei ponti balcanici è stato il più grande narratore, e che ne ha colto, molto prima che il suo mondo si disgregasse, il profondo significato simbolico; nel breve e famoso racconto I ponti, del 1963, dice infatti: “Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti”, che si propongono “come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi…”63. La spinta verso l’altro, la ricerca di un’altrove possibile, dice lo scrittore Mauro Daltin, attiva “nell’essere umano la capacità creativa di gettare ponti (il linguaggio, la metafora, il dialogo...) che consentono comunicazione e possibilità d’incontro tra differenti sponde, senza per questo ostacolare né ostruire il fluire di ciò che in mezzo scorre”64. Se è vero, come abbiamo affermato, che i simboli contano sempre, e soprattutto in guerra, allora “la distruzione del ponte di Mostar, così come quella della biblioteca di Sarajevo, (…) ci fanno intravedere l’abisso di barbarie nel 61 62 63 64 Melita Richter, “All’ombra del ponte”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 15 Ibidem Ivo Andrić, Racconti di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995, p.157 Mauro Daltin “Editoriale”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.5 XX XVI quale sprofonda l’umanità quando disconosce i valori etici e culturali”.65 E’ sembrato impossibile tornare a darsi la mano dopo un atto di violenza che non aveva nulla di strategico, ma che voleva solo dimostrare la cieca volontà dei distruttori, per cui la vendetta contava di più della “buona intesa” di chi si bagnava nel fiume all’ombra del Vecchio; perché questa distruzione ha avuto come conseguenza l’annullamento stesso della possibilità di pensare un’alternativa, l’obbligo di scegliere se stare da una parte o dall’altra del fiume: un ponte non attraversabile è, a tutti gli effetti, metaforici e non, una barriera invalicabile. 2.7 “Un paese che produce più storia di quanta riesca a gestirne”: il peso del passato nell’intellettuale balcanico Dopo aver appreso la notizia del bombardamento, Matvejević scrisse un testo, intitolato semplicemente Mostar, in cui esprimeva il suo dolore con queste parole: “Non avrei mai creduto che avrebbero osato distruggere il vecchio ponte della mia città natale. Durante questi anni di emigrazione, andavo da una città all’altra senza cessare di evocarlo.(…) Ero convinto che, nonostante tutto, sarebbe rimasto in piedi, garante dei valori e della storia comuni, per salvare quanto ancora poteva essere salvato in Bosnia Erzegovina e nella exIugoslavia, di fronte alla guerra fratricida, alla distruzione barbara, alla strage.”66 65 66 Mauro Daltin “Editoriale”, op. cit., p.4 Predrag Matvejević, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 167 XX XIX Non è più solo architettonica la perdita che ha colpito la Jugoslavia nel luglio del 1993; è di questo spirito di unione e condivisione che si è perduto il senso dopo la distruzione del “miracolo dell’arcata”67. Sembrava che ogni forma di impegno intellettuale fosse ormai inutile; eppure, dice ancora Matvejević, “bisognava prendere posizione, o tradire se stessi”. Nonostante la sfiducia maturata a seguito di una guerra che sembrava non voler concedere tregua, il testo fu trasmesso a più riprese da una radio locale che tentava di ridare coraggio ai sopravvissuti, e di tenere in vita l’idea di un futuro in cui fosse ancora possibile dialogare; e, in qualche modo, il tentativo riuscì. “Fu una delle rare volte nella mia vita – commenta Matvejević – in cui ebbi davvero l’impressione che la letteratura potesse essere più che un gioco o un lusso”. Nel suo ribellarsi al non dire, al non scegliere, l’intellettuale può addirittura (seguendo il corso etimologico della sua ribellione: da re-bellum), opporsi alla guerra. 2.8 Tra asilo ed esilio: nuove forme di dissidenza dai Balcani Al di là dell’estrema complessità che caratterizza questo conflitto (dal punto di vista politico, religioso, geografico, in qualche modo anche antropologico), nella sostanza esso ricalca ciò che tutte le guerre portano inevitabilmente con sé: esse privano l’essere umano del suo presente, cancellano il suo passato e minacciano il suo futuro; e quindi dimostrano, nelle parole e nei fatti, a chi le subisce, che nulla più gli appartiene: neanche la sua stessa vita. 67 Così i costruttori musulmani chiamarono lo Stari Most al tempo della sua costruzione. XL E, in special modo quando il conflitto assume i caratteri di una guerra etnica, quando cioè può bastare un nome a determinare se ci si trova o meno dalla parte “giusta” della barricata, viverlo vuol dire molto di più che temere per la propria vita (o per quella dei propri cari). Vuol dire riconoscere di non poter controllare più nulla, neanche la propria esistenza; che si è stranieri in patria, e che nulla di ciò che si conosceva sarà mai come prima; che non sarà più concessa la possibilità di costruire il proprio destino, né quello dei propri figli, e che l’ultima cosa di cui si verrà privati sarà il proprio diritto primario, quello di essere considerati esseri umani. Andarsene, migrare altrove, non è quindi – come nel caso di chi fugge dalla miseria alla ricerca di una nuova vita una scelta, per quanto dolorosa e sofferta: è una necessità. Si abbandona il proprio mondo in fiamme – o quel che ne resta – perché l’unica alternativa possibile, in patria, alla morte, è il silenzio, l’umiliazione, una non-vita in cui nulla di ciò che si era trova spazio. Lo sguardo di chi decide di partire, di scegliere “con piena consapevolezza uno status, poco confortevole, tra asilo ed esilio”68, si posa sul passato infranto tanto quanto su un futuro possibile, ancora da costruire: fuori da quella che nell’ultimo quindicennio è diventata la “prigione dei popoli” jugoslava, e dentro l’Europa. Ed è letteralmente dentro l’Europa che si costruisce una nuova esistenza per chi fugge dall’orrore della guerra: è nei nostri paesi – in Germania, in Francia, in Italia – che ha inizio la seconda metà della loro vita. 68 Predrag Matvejevic, op. cit., p. 97 XLI Dai molti luoghi della loro diaspora, gli scrittori migranti denunciano un mondo che “amalgama, banalizza ed espelle, una dopo l’altra, le diversità”69. La migrazione è un incentivo inesauribile alla difesa dell’identità, ma anche della pluralità, culturale; perché, come afferma lo scrittore albanese Ron Kubati, conferisce una sensibilità sociale che diventa poi prospettiva letteraria: la microstoria del migrante, apolide ed emarginato dalla vita pubblica del paese di arrivo, si inserisce nella macrostoria70. La sua testimonianza è preziosa: perché se è vero ciò che sosteneva Hanna Arendt, (“Non c’è filosofia, analisi, aforisma, per quanto profondi, che si possano paragonare per intensità e ricchezza di significati a un racconto ben narrato”)71, gli unici che possano denunciare ogni totalitarismo che distrugga e appiattisca le differenze, sono i narratori di altri mondi possibili; nel caso presente, i figli di quei Balcani maledetti che hanno scelto “questa” Europa come interlocutrice del proprio dolore. La stessa terminologia con cui descriviamo la loro condizione contribuisce a definire il peso del recente passato sulle loro esistenza; noi parliamo infatti di “migranti”, mentre loro spesso definiscono se stessi “esiliati”; forse nessuno dei due termini descrive con esattezza la situazione, ma certo la loro scelta non è casuale né insensata. La differenza tra un esiliato e qualcuno che vive “tra asilo ed esilio”, spiega Matvejevic72, è che il primo è vittima di un regime totalitario che impedisce, a chi si allontani più o meno volontariamente dal proprio paese, di tornare; il secondo, invece, vive in una nuova “democratura” (neologismo col 69 70 71 72 Paolo Rumiz, “L’isola”, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998, p.153 Ron Kubati, “La ricerca dell’altrimenti”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura “creola”», sul sito www.disp.let.uniroma1.it\kuma\kuma.html Hanna Arent, L’umanità nei tempi bui. Pensieri su Lessing, p. 14 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio. Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 249 XLI I quale Matvejevic definisce quei regimi che non sono democrazie né dittature in senso stretto) e il suo abbandono dei luoghi dell’infanzia non esclude il ritorno. Non “esiliati”, quindi, almeno nella terminologia, i Bosniaci, i Croati, o i Serbi che vivono nei nostri paesi; ma esiliati nella sostanza, perché un paese a cui tornare non l’hanno più. Tornando tornano appunto in Serbia, Croazia, Bosnia, o in quel che ne resta: non certo nella Jugoslavia in cui sono nati e cresciuti, in cui si è sviluppata la loro identità e nutrita la loro cultura, che quello è un paese che, nell’arco di pochissimi anni, è scomparso, tragicamente, dalle carte geografiche. La testimonianza del filosofo Ivan Iveković non è rara né esclusiva: "Mio padre è nato in Austria-Ungheria, io nel Regno di Jugoslavia, i miei due figli nella Repubblica Federale Socialista Jugoslava ed io sono un cittadino croato che vive temporaneamente in Egitto, ma non posso prevedere dove nasceranno i miei nipoti e come si identificheranno"73 A volte non è necessario andare “altrove” per sentirsi stranieri. In un brano del suo testo “Mondo ex”, Predrag Matvejević scrive: “Siamo abituati a perdere. Ogni giorno qualcuno intorno a noi si allontana o sparisce, un’amicizia o un amore impallidisce o si estingue, la morte si porta via uno dei nostri. Perdere fa parte del nostro destino. Però è raro perdere un paese. A me è capitato. Non parlo di uno stato o di un regime, ma proprio del paese dove 73 Ivan Ivekovic, “Postille sull'identità”, in Melita Richter, Identità e genere nel conflitto jugoslavo, (libro in preparazione) XLI II sono nato, e che, ancora ieri soltanto, era il mio. Non c’è più.”74 Nel descrivere il disagio del migrante, forzatamente allontanato da tutto ciò che costituisce una sua definizione identitaria, la scrittrice e psicologa Christiana de Caldas Brito sostiene che la migrazione comporta una triplice perdita: quella della madre biologica, quella della madrepatria, quella della madrelingua. Per i migranti balcanici se ne aggiunge una quarta, spaventosa e quasi grottesca: quella del proprio paese di origine, non tanto (o non solo) in termini di allontanamento, quanto piuttosto di cancellazione del luogo a cui si vorrebbe tornare, e della complessità culturale che ne costituiva la ragion d’essere: il migrante che abbandona la ex-Jugoslavia sembra non aver diritto neanche alla nostalgia. La loro salvezza sta nella testimonianza, e nella letteratura; lo scrittore che fugge dai Balcani è, a tutti gli effetti, un dissidente, termine ormai desueto, che identifica però un ruolo di cui, dopo la resurrezione delle ideologie nazionalistiche in seno alla nostra Europa, forse sarebbe il caso di riappropriarsi. “Un certo tipo di dissidenza – dice ancora Matvejević pensando alla sua Jugoslavia distrutta – rimane quindi necessario e di nuovo indispensabile.”75 Il compito degli scrittori migranti, e in particolare di quelli provenienti dai Balcani, è quindi rendere possibili, all’interno dell’Europa tutta, ove necessarie, nuove forme di dissidenza. 74 75 Predrag Matvejević, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 95 Predrag Matvejević, op. cit., p. 44 XLI V Scrittori non si diventa per caso: il subdolo effetto della biografia è il primo e il più intenso stimolo. E ciò che predomina in una biografia è la sensazione della diversità, è il marchio infamante della diversità il detonatore della fantasia. Lo scrittore o il futuro scrittore si interrogano sulla propria esistenza, cercano di spiegare l’origine di questa diversità e la sua relazione con il mondo. Quando poniamo a noi stessi delle domande facciamo anche il primo passo verso la letteratura, la quale, come disse Barthes, altro non è se non il porre questioni a se stessi. Danilo Kiś XL V 3. I testi e gli autori: gli scrittori migranti dai Balcani in Italia 3.1 Un conflitto nel cuore dell’Europa:l’autobiografia come specchio della storia Si comincia a parlare, negli ultimi anni, di scrittori migranti dai Balcani. Si comincia ad apprezzare le loro opere e a riconoscere l’importanza della loro testimonianza. Si comincia a capire che il loro esempio di difesa dell’umano contro la barbarie, ci è “dannatamente prezioso”76. Perché ci apre gli occhi sugli orrori consumati nel cuore stesso del nostro continente; e perché ci racconta cose che nessun migrante, almeno nessun migrante europeo, aveva mai raccontato. Nel 1992, una giovane giornalista di Sarajevo, Jadranka Hodzić, da qualche anno residente in Italia, “nella Rimini di Fellini” 77, si toglie la vita sulla riva dell’Adriatico, al di là del quale aveva abbandonato la propria città in fiamme. Cosciente dell’impossibilità di un ritorno, poco prima di morire aveva scritto in italiano queste righe, nelle quali sembrano condensarsi la dolente malinconia e il doloroso stupore di chi sente di non appartenere più “a nessun luogo e a nessuna lingua, ma solo a qualche pezzo di carta ufficiale”78: 76 Paolo Rumiz, prefazione a Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p. 10 77 Jadranka Hodzić, “L’altra parte dell’ariatico”, da Mosaici d’inchiostro, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996, p. 17 78 Gabriella Parati introduzione a Mosaici di inchiostro, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996, p.23 XL VI “Quando fuggi dalla Bosnia, e dalla guerra, sei convinto che un giorno da qualche parte ti fermerai. Ti sistemi temporaneamente e pensi di esserci riuscito, perché l’importante era sfuggire alla disgrazia da cui ti separa solo il mare; tutto d’un tratto capisci che in realtà non appartieni più a nessuno, nemmeno a te stesso, la tua vita è uscita dal binario, sei colpevole senza avere delle colpe, ti senti come Kafka: lo sguardo degli occhi è spento guardando il mare, immagini com’è dall’altra parte dell’Adriatico, sulla costa che una volta ti faceva sentire te stesso e dove ora non puoi appoggiare il piede senza un permesso speciale. Ti fai una passeggiata, e il pensiero ti risuona nella mente: E’ facile tornare se sai dove.” Sistemata “temporaneamente” dall’altra parte dell’Adriatico, separata dalla sua città in fiamme solo da una striscia di mare, Jadranka ha scelto di morire, proprio sulla riva di qual mare su cui la sua esistenza stava sospesa, senza riuscire a staccarsi definitivamente dalla Jugoslavia né a sentire di appartenere ormai, definitivamente, all’Italia. Jadranka era una delle migliaia di profughi che hanno abbandonato la ex-Jugoslavia dal 1991 al 1999, e una degli scrittori migranti che dai molti luoghi della loro diaspora hanno testimoniato l’orrore vissuto da questo paese “ex” situato nel cuore dell’Europa. La giornalista non ha retto al crollo dei suoi ideali; ma, a dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia e a cinque dalla (discutibile) soluzione della faccenda kosovara, molti altri scrittori balcanici hanno alzato la propria voce sopra i rumori della guerra, e popolano ora il nostro panorama letterario: la diaspora balcanica trova nelle opere di Božidar Stanišić, Spale XL VII Miro Stevanović, Vera Slaven, Stevka Smitran, Vesna Stanić, Tamara Jadreičić la sua più attenta e trascinante rappresentazione in Italia. Attenta e trascinante, perché questi autori oscillano tra una minuta e accurata descrizione della realtà che li circonda e una resa del proprio intimo sentire intensa e dolente. “Piccolo fiore di nostalgia”79, definisce Paolo Rumiz la raccolta di racconti di Bozidar Stanišić I buchi neri di Sarajevo, e così ci appaiono le opere di tutti questi autori, che si infilano nelle pieghe della storia restituendoci, con stordente forza poetica, vite perdute, amori infranti, quotidianità dissolte. Fuggiti in fretta dal “sanguinoso imbroglio jugoslavo”80, privati di tutto ciò che costituiva il loro passato – quindi anche una promessa per il futuro – gli scrittori balcanici si appropriano della nostra lingua, la abitano, la rinnovano, e attraverso di essa intraprendono quel cammino di difesa contro la massificazione che abbiamo visto essere il fardello più prezioso che il migrante porta con sé. Difendere, davanti agli orrori delle dittature e dei totalitarismi, il ruolo degli intellettuali, riconoscere il valore politico del loro operare, l’importanza della loro difesa della pluralità dell’umano, significa porsi automaticamente contro un’ideologia per definizione massificatrice (i totalitarismi agiscono sugli uomini “con la delicatezza di una ruspa”, diceva Josif Brodskij).81 Eppure, abbiamo visto, è un atto necessario per non tradire se stessi. Le opere letterarie degli scrittori migranti dai 79 80 81 Paolo Rumiz, prefazione a I buchi neri di Sarjevo e altri racconti, Božidar Stanišić, Mgs Press, Trieste, 1993, p. 7 Paolo Rumiz, Bon voyage, Božidar Stanišić, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p. 7 Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1998, p. 15 XL VIII Balcani posseggono, rispetto al resto della letteratura migrante, un valore aggiunto. Claudio Magris, nel suo romanzo-saggio intitolato Danubio, scrive: “Quando una realtà sta venendo cancellata con violenza, pensarla diventa un atto di fede”82: è operando quest’atto di fede che gli autori balcanici, privati del loro mondo, scelgono la letteratura come forma di resistenza. All’irrazionale logica del conflitto, all’impavida gioia dei distruttori, i narratori oppongono le parole, il racconto, la memoria; perché sono consapevoli che “il paese che brucia i propri ricordi è un paese che vuole morire”83. Portando con sé nella loro precipitosa fuga, tra le poche cose care o indispensabili, la propria denuncia, essi salvano se stessi dall’oblio, e insieme preservano ciò che è rimasto della propria patria perduta; con le loro opere – in cui è sempre presente una forte componente autobiografica - si oppongono non solo alla guerra e alla sua violenza fratricida, ma anche al suicidio di una cultura che si priva, man mano che esaspera particolarismi e nazionalismi, del proprio potenziale per il futuro. Nel suo romanzo autobiografico Cercasi Dedalus disperatamente, Vera Slaven, scrittrice croata rifugiatasi in Italia all’inizio della guerra, “quando nessuno fuggiva ancora”84 scrive: “Per quell’aria pesante e per non rendermi indifferente a tutto sono scappata in un paese straniero, per non vedere come si distrugge una parola grande come ‘patria’. (…) Non si scappa dalla propria pelle – forse sono giuste le dicerie popolari, ma io ancora non voglio credere che tutto ciò che è successo e che ancora accadrà, si ricucirà un giorno 82 Claudio Magris, Danubio, Garzanti, Milano, 1997, p. 63 Agata Keran, “L’andata senza ritorno”, tratto da Anime in viaggio, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, Adnkronos, Roma, 2001 84 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.26 83 XLI X con ‘fatalità slava’ o con altre due parole come ‘polveriera balcanica’ e ‘doveva succedere’.” 3.2 Tematiche migranti e tematiche belliche Se in tutti i testi sono sicuramente presenti, come avevamo già notato, tutte quelle che potremmo identificare come tematiche migranti (ossia comuni a tutti gli autori divisi tra due o più patrie, vite, lingue) ce ne sono però anche altre, più specificamente legate al contesto da cui questi autori provengono, e che potremmo definire tematiche belliche. Nei racconti e nelle poesie scaturite dalle penne di questi uomini e donne dei Balcani la guerra campeggia su tutto, nelle sue numerose (e a volte non tutte facilmente immaginabili) declinazioni: la fame, l’assedio, il freddo, la fuga, la follia, in una sorta di catartica disamina del proprio recente passato. Eppure quest’introspettivo viaggio “lungo strade che si allungano all’indietro”85 non impedisce alla maggior parte di questi scrittori di padroneggiare la nostra lingua e la propria capacità poetica fino a giungere ad un prodotto letterario di qualità. Il peso della storia non àncora la loro produzione letteraria al ristretto ambito dell’autobiografia, ma si dipana come una trama sottesa ad ogni racconto o poesia, e non necessariamente ostacola il loro inserimento a pieno titolo nel solco della vera letteratura. L’essenza dell’identità balcanica consiste, secondo Goran Petrović, nell’assenza di presente compensata da un eccesso di 85 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p184 L passato e futuro86. Lo scrittore balcanico, preda di questa oscillazione priva di un centro di gravità permanente, sembra essere innamorato dell’attimo. Ed è l’attimo di una lacerazione profonda, personale quanto storica, che questi autori catturano nei loro testi, affrontando sostanzialmente lo stesso tema pur partendo da prospettive diverse. La “Jugotragedia”87 diventa la materia incandescente attraverso cui il valore delle loro opere può mostrarsi. 3.3 La guerra in casa e la quotidianità stravolta. Tamara Jedreičić Uno degli elementi che caratterizza questo conflitto, e ne svela la tragicità, è il modo in cui esso è stato condotto: il contrapporsi di nazionalismi, in un territorio etnicamente eterogeneo, ha portato ad una guerra condotta con chirurgica precisione, nella quale l’ “altro”, il nemico, veniva stanato all’interno della propria abitazione ed eliminato attraverso sommarie esecuzioni. In una sorta di incubo ad occhi aperti, le soleggiate primavere jugoslave si trasformano improvvisamente in un orrore di cui non si vede la fine. L’autrice che meglio ha reso nelle sue opere l’istantanea del momento in cui il corto circuito storico deflagra, è stata senza dubbio Tamara Jadrejčić. La produzione letteraria di questa autrice è costituita da un discreto numero di racconti per la maggior parte ancora inediti in Italia, con alcune sostanziali eccezioni (ad esempio Il 86 87 Angelo Floramo, a cura di, “Una babele di storie e di sogni: dialogo con Goran Petrović”, da «Pagina Zero. Letterature di frontiera», Quadrimestrale di letterature, arti e culture, Ottobre 2004 – Numero 5, Direttore Mauro Daltin, Sede Cervignano del Friuli, (UD), p. 48 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p.186 LI bambino che non si lavava, con cui l’autrice ha vinto l’edizione del 2002 del concorso per scrittori migranti Eksetra, e I prigionieri di guerra, primo classificato alla XVII edizione del premio Italo Calvino – Tamara sembra essere la più perfetta dimostrazione che la letteratura migrante non può essere ancora a lungo considerata marginale o esotica). La scrittrice, croata di nascita, per molti anni residente in Italia e ora sistematasi – momentaneamente? – a New York, nei suoi racconti “italiani” ferma lo sguardo, lucido e rassegnato, sull’attimo esatto in cui la guerra invade l’esistenza, travolge la quotidianità, diventando “un argomento giornaliero, come andare a prendere il pane, lavorare, sfamare i bambini, comprare il gelato.”88 Con una narrazione fluida e lineare, Tamara fotografa la Jugoslavia perduta nel momento in cui tradisce se stessa. Nel racconto Il bottino, Joško e Petar, due amici “di sempre, vale a dire d’infanzia e di guerra”, alla ricerca di un guadagno facile, giungono in un villaggio abbandonato, in cui tutto testimonia silenziosamente la precipitosa fuga dei suoi abitanti. Attraversando il paese “completamente muto”, le cui case hanno ancora “le persiane alzate e spesso i portoni dei cortili aperti” i due giungono ad un’abitazione: “dentro, come congelata dentro ad un freezer, c’era scritta la vita di una famiglia”. “La prima porta aperta portava in cucina. Sul tavolo, coperto di briciole di pane, c’erano dei bicchieri e due tazzine. Sul pavimento erano volate carte e tovaglioli, come se fosse passata una folata di vento. Di lato, accanto alla finestra, il 88 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.67 LII lavandino con i piatti messi ad asciugare e il fornello con sopra una grande pentola d’acciaio inox.” La materia bellica è filtrata dalla scrittrice con voce originale e disincantata; il quotidiano è reso minuziosamente e puntualmente, ogni particolare diventa prezioso, rilevante, anche perché il punto di vista adottato è spesso quello di chi non è perfettamente cosciente di quello che accade, e percepisce la tragedia come un’anomalia della quotidianità. Come accade in Il bambino che non si lavava, in cui a rendere ancora più evidente l’ovvia verità secondo cui quando uno stato entra in guerra, sono in realtà i suoi cittadini a combatterla, Tamara osserva la realtà attraverso gli occhi di Ivan, figlio undicenne di Sanja. Armato solo della sua rabbia, con il suo rifiuto di lavarsi, di ubbidire alla madre, Ivan esprime la propria dolorosa protesta per un mondo che gli è troppo velocemente mutato intorno, e di cui non comprende più le regole. Lo sguardo bambino permette a Tamara di cogliere l’insensatezza di ogni conflitto e l’angoscia di chi si ritrova privato di certezze e affetti. “Sanja non poteva neanche immaginare che ogni mattina Ivan si alzava sperando di incontrare il padre arrivato la notte precedente. E che prima di addormentarsi se lo ricordava con quello strano vestito verde, un giaccone largo con tante tasche, una grossa cintura di pelle consumata, degli stivali grandi e neri che quasi da soli riuscivano a mettere paura. Gli sembrava una via di mezzo tra Robin Hood e i combattenti Ninja. Aveva già visto tante volte in televisione della gente vestita nello stesso modo, però per ragioni inspiegabili sembravano tutti diversi, più LIII sporchi, più brutti, più terribili. Non aveva mai notato uno che gli assomigliasse.” L’accuratezza della descrizione si accompagna sempre ad una sincera disamina dei sentimenti, e il tempo della narrazione appare come dilatato, sospeso. Nel racconto intitolato Una questione di fiducia – toccante narrazione del rifiuto di una madre di convincersi della morte del figlio – la reazione dei due protagonisti alla telefonata che annuncia la tragedia diviene materia di una profonda e attenta analisi psicologica, e di una voce narrante che si posa, quasi con gentilezza, sul dolore dei due genitori. “Quella mattina, sette anni fa, fu lui a rispondere al telefono. (…) Dopo aver messo giù la cornetta era rimasto per buoni due minuti in mezzo al corridoio. Con il suo pigiama a righe e le pantofole di plastica, con i capelli arruffati dal sonno e ritti dietro la pelata come i pennacchi dei capi indiani. Respirava a bocca aperta lottando per l’aria, cercando intanto di riempire con qualche parola intelligente il vuoto che gli si era creato in testa. Erano i suoi ultimi minuti da protagonista. Appena sarebbe tornato nella stanza da letto, la sofferenza sarebbe ingiustamente diventata solo materna, per un’antica e ingiusta convinzione che le donne, ma soprattutto le madri, abbiano una capacità maggiore nel sentire il dolore. Nel frattempo, Katarina sapeva che una persona normale non chiamava per una sciocchezza a quell’ora e che lui non stava impalato lì in mezzo per un nulla. Aveva trascorso gli ultimi cinque minuti sereni della sua esistenza seduta sul letto LIV con le mani incrociate in grembo, affondata nei cuscini bianchi, come un regalo prezioso appoggiato sull’ovatta. Ormai era così che passava la gran parte della notte, poiché il sonno non s’infilava più con semplicità nel suo corpo, a conferma che le anime tristi non sono benvolute proprio da nessuno. Quando lo vide entrare nella stanza, le sembrò sfinito, ridotto di volume, come sprofondato in se stesso. Così rimpicciolito si sedette sul letto.” I testi di Tamara seguono un percorso narrativo che giunge infine ad una svolta, una sorta di “rivelazione” (il momento in cui l’ostinazione di Ivan cede il posto alla confessione: “Io sono un maschietto e faccio il bagno solo con papà”, o la fiduciosa rivelazione di Katarina davanti alla salma del figlio: “…è vivo…me l’ha detto la Madonna!”) raggiunta la quale il climax emotivo si scioglie, lasciando spazio al sollievo o alla rassegnazione. Il tono è sempre pacato e misurato, e l’utilizzo dell’italiano è consapevole e maturo; la narrazione è molto più lineare di quella di altri autori, meno stratificata e inusuale, ma Tamara gioca con la lingua italiana ottenendo effetti di grande suggestione. “ (…) Quando una granata del calibro 128 mm, e nella maggioranza dei casi erano quelle, cade sull’asfalto, lascia un segno simile ad una goccia d’acqua sfracellata sul vetro.” L’angosciante sensazione di prigionia in cui la guerra precipita chi la subisce è resa da Tamara attraverso le toccanti parole di Dara, protagonista del racconto La poltrona rossa, in cui l’ultima speranza di due coniugi separati da tutta la famiglia è un gruzzoletto di marchi tedeschi nascosto nella federa di una poltrona della loro casa di Dubrovnik, precipitosamente abbandonata. LV Pensando alla figlia lontana, alla madre e alla sorella, Dara si lascia sfuggire un commovente lamento sull’insensata crudeltà della guerra: “O Dio! (…) O, Marko, che cosa ci è successo? Com’è possibile che tutto sia cambiato all’improvviso? Non siamo più sicuri di niente e non crediamo a nessuno. Ci siamo ridotti come delle bestie. Prima eravamo gente normale, partivamo, telefonavamo, mandavamo cartoline d’auguri, mentre adesso cerchiamo di decifrare i bigliettini puzzolenti e sgualciti della Croce Rossa. Che disastro…Mi sento morire l’anima!” La disumanizzazione del nemico, e la sensazione di potere essere considerati da chiunque come il nemico, è evidente ne La guerra di Mira, in cui la protagonista, veterana di quella che Tamara chiama “una guerriglia casalinga”, affronta quotidianamente il marito soldato. Incattivito dalla familiarità con morte e distruzione, consumato dalla non –vita condotta al fronte, considera Mira il bersaglio migliore per la sua rabbia. E lei, cercando di sopravvivere alla guerra che l’ha raggiunta in casa, “era cambiata tanto da non riconoscersi più in questa donna impaurita, bugiarda, pronta ai compromessi.” Se gli affetti sono l’unico rifugio di fronte alla distruzione, se si può contare solo su se stessi e su chi si ama, tutta l’amarezza di Tamara, tutta la sofferenza di chi vive assediato dalla paura, si condensano in queste poche parole: “Mira aveva imparato bene come può cambiare il mondo dopo che hai visto sopra la testa il buchino vuoto e nero della canna del fucile. La gentilezza e la purezza d’animo se ne vanno per primi. Come se non fossero mai stati tuoi. E non importa di chi è la mano che tiene l’arma.(…) Il dolore viaggia più veloce della coscienza.” LVI 3.4 Il sé e l’altro: la paura del fratello slavo Vera Slaven Nelle opere degli autori presi in considerazione, alla narrazione della guerra si accompagna l’incredulità per la brutalità di un conflitto che ha distrutto la fiducia tra popoli che, pur tra scontri e tensioni, negli ultimi decenni avevano convissuto pacificamente: il terremoto è politico, ma anche esistenziale; perché la dolorosa coscienza di non potersi fidare di nessuno porta a temere chiunque. Dall’inizio della guerra, racconta Tamara Jadrejčić, si cominciò “ad aver paura di quelli che corrono e di quelli che si fermano, di quelli che parlano e di quelli che stanno zitti, che guardano, che hanno le mani in tasca, che portano il cappello. Tutto poteva significare tutto, tutti potevano avere una bomba in tasca e a chiunque potevi non piacere.”89 Si arriva a desiderare di essere il più possibile muti ed incorporei, di “abitare un mondo senza lingua e senza forma”. Nel suo romanzo autobiografico intitolato Cercasi Dedalus disperatamente, Vera Slaven descrive così il momento in cui si cominciò a non riconoscere nessuno, neanche se stessi, quando, per la prima volta, lo speaker di una radio annunciò lo stato di guerra. “Tutti fuggivano a casa…come se fosse una fortezza dove la guerra non può arrivare. La radio era rimasta accesa… alzai il volume…si trasmetteva la solita musica (…) Ero impaziente. Volevo spiegazioni. Volevo sapere cosa fare. Mi affacciai al balcone …Al balcone del palazzo di fronte vidi un giovanotto (più un ragazzo che un giovane uomo) che puliva e 89 Tamara Jadrejčić, L’abito da sposa, (opera non pubblicata.) LVI I ungeva due fucili. La scena mi sconcertò così tanto che scappai dentro. Rimasi stupefatta. Non conoscevo per niente il ragazzo, non conoscevo le abitudini della sua famiglia, mi sentii estranea a quella gente che mi circondava, mi sentii persa.”90 Anche Vera Slaven è una scrittrice croata, ed è uno dei pochi narratori della diaspora balcanica ad essersi cimentata nella stesura di un romanzo interamente elaborato nella nostra lingua.91 In Cercasi Dedalus disperatamente la narrazione di Vera oscilla tra passato e presente, in un continuo rimando tra i due tronconi di vita che stanno ai due lati dello spartiacque costituito dalla guerra. Il linguaggio di Vera è diretto e a tratti evocativo; l’italiano è una lingua correttamente padroneggiata, che costituisce lo strumento per giungere al distacco necessario per ripercorrere la propria esistenza. (“Lara: ‘Piangeresti alla fine di ogni rigo se scrivessi nella tua lingua?’ Io: ‘Si, morirei alla fine di ogni pagina. (…) L’italiano è una linea di distacco, una frontiera invisibile, ma invalicabile’.”) Quella di Vera è una “cronaca del quotidiano” di forte impatto emotivo, resa con un linguaggio omogeneo e denso. La struttura del romanzo è duplice, alternata; da una parte la narrazione della vita di Vera, dall’altra la struttura aneddotica, nella quale si inseriscono la figura di Lara e il ricordo tormentoso della guerra. 90 91 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.66 Un altro è Spale Miro Stevanović, con Le Confessioni, Opera, Venezia, 2001. LVI II “Nel momento in cui, entrando in casa, ho messo il piede in un lago di merda (i tubi di scarico si erano congelati o erano scoppiati, non so) e dai due water strapieni usciva, piano piano, la ‘cosa’. (…) Ho urlato per un’ora intera, per l’umiliazione, per la nostra disperazione estrema, non più tollerabile, mentre i miei vicini portavano via in assoluto silenzio i tappeti e staccavano la moquette. (…) Sono scappata di casa con la certezza che la guerra mi era entrata sotto la pelle e che non avrei più potuto lavarla né levarla di dosso.”92 Eppure, nonostante tutto, emerge nella narrazione di Vera il tentativo di mostrare i modi di resistenza attraverso cui vincere l’orrore: come le feste da ballo organizzate a Sarajevo, che permettevano ai cittadini di non arrendersi “nella città assediata, senza via di scampo, senza futuro, con un passato scottante e bruciante. (…)Abbiamo deciso di fare le feste per non morire prima della morte. Abbiamo staccato per un momento gli attori e i cantanti dai bar e li abbiamo costretti a vivere. (…) Non posso spiegare l’ebbrezza di quei balli”. Fortissimo in questo romanzo l’elemento autobiografico; centrale nella prima produzione migrante, in quest’opera non è stato ancora abbandonato a favore di una creazione narrativa a tutto tondo. 3.5 L’esilio dell’intellettuale jugoslavo: si perde un’identità per acquistarne una nuova? Božidar Stanišić 92 Vera Slaven, op. cit., p. 86 LIX La questione dell’identità e dell’alterità si pone con gravità estrema, quando ci si sente estranei a tutti e vicini a nessuno. Nel momento in cui ci si confronta con un mondo che non è più quello che si conosceva, si è costretti a fare i conti anche con il passato, che rischia di essere completamente rimesso in discussione. L’autore in cui appare più evidente lo spaesamento e la sensazione di costante straniamento esistenziale che segue questa perdita identitaria è sicuramente Božidar Stanišić, nelle cui opere l’umanità astratta si trasforma in volti, persone che chiedono di poter riconoscere un ruolo nel proprio mondo e che s’interrogano, con tristezza ma non con disperazione, su un futuro umano incerto, che si sa difficile ma si ritiene possibile. Božidar Stanišić è nato a Visoko, in Bosnia Erzegovina. Ex insegnante di letteratura, ha abbandonato la Bosnia nel 1992, spinto alla fuga dal rifiuto di vestire qualsiasi divisa, e si è rifugiato prima in Slovenia e poi in Italia, dove risiede tuttora, a Zugliano, presso Udine. Continuando in Italia l’attività letteraria intrapresa in patria, (in Bosnia aveva pubblicato testi di narrativa per ragazzi e critica letteraria), Stanišić ha continuato a narrare il suo mondo di memorie operando una sostituzione, graduale ma non irreversibile, della lingua serbo-croata con quella italiana. L’italiano si configura per Božidar come la “lingua dell’essenziale” contrapposta alla lingua “delle sfumature”93, e quest’essenzialità narrativa diviene evidente anche stilisticamente: nel passaggio dall’una all’altra lingua il 93 Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sul sito www.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm LX linguaggio si fa più scarno, quasi telegrafico, antinaturalistico e rarefatto. Non è un caso che uno dei più recenti lavori di questo autore sia una piece teatrale, intitolata Il sogno del mio amico Orlando94, in cui la storia di un pacifista disilluso si intreccia a quella di due profughi bosniaci, Ivan e Petar, che in una lunghissima conversazione telefonica si confrontano sul proprio passato, e sulla nuova vita, che conducono l’uno in Canada e l’altro nella provincia del nord-est italiano. Ivan ha mantenuto il ricordo della patria e dell’identità perdute, e vive il proprio sradicamento diviso tra memoria e speranza; Petar, gettato via l’inutile fardello del rimpianto, si è ormai convinto che adattarsi al nuovo mondo, dimenticare chi era, sia l’unico mezzo per sopravvivere all’ondata del passato che ritorna: accusato dall’amico di miope cinismo, si difende avvertendolo che “essere normali è più che necessario... Più che necessario...”. L’utilizzo del linguaggio teatrale, quindi il ricorso quasi esclusivo al discorso diretto, permette a Božidar di condensare in poche righe una grande intensità emotiva. Il confronto tra i due amici, i cui sguardi sulla vita sono ormai irrimediabilmente divergenti, diventa un’amara constatazione del pericolo insito nella negazione della propria memoria storica, e un fervente invito a salvare se stessi dall’oblio. Ivan: Hai ricevuto la mia lettera? Petar: La tua lettera? Nessuna lettera, da nessuno... Qui ormai la posta viene usata soltanto per spedire materiali pubblicitari e gli auguri per Natale... Che lettera! 94 Božidar Stanišić , “Il sogno del mio amico Orlando”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura “creola”», direttore Armando Gnisci, sul sito www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html LXI Ivan: In quella lettera che non è ancora arrivata ti ho scritto di Orlando... Petar: Orlando? Di chi stai parlando? Ivan: Orlando, uno dei miei migliori amici... Petar: Orlando, Orlando, Orlando...? Ivan: Non ricordi? Petar: O, Dio...(cammina frettolosamente) Aspetta... Ivan: Ti ricorderò io... Dieci anni fa... Petar: (tenta di scherzare) Dieci anni fa, quindi in un secolo passato, in un millennio dietro le nostre spalle...95 Attraverso la sua scrittura complessa e stratificata, ricca di incisi e parentesi che si nutrono di diversi linguaggi, da quello pubblicitario a quello giornalistico, da quello del parlato quotidiano a quello della tradizione popolare balcanica, Stanišić riflette la frammentazione dell’identità del migrante e l’incertezza dell’esistenza. Il libro del 2003 Bon voyage raccoglie due racconti, uno dei quali è la narrazione di un viaggio in treno compiuto dal protagonista, Mirko, attraverso il nord Italia. E’ un racconto polifonico, in cui le voci dei viaggiatori (“una vecchietta con un cappellino di velluto nero”, un giovane “dagli occhi brillanti”, un “critico dei ladri di orizzonti”, un “giovane nero” studente di medicina) si intrecciano in un dialogo in cui è spesso udibile la voce dell’autore. Mirko non interviene nella discussione, ma i suoi pensieri sono indagati da Božidar, che li insegue attraverso il loro scontrarsi con l’esterno, perlopiù con i cartelloni pubblicitari che scorrono fuori dal finestrino. “(Un attimo prima il nostro viaggiatore era stato guardato dall’orso 95 bianco di un’insegna pubblicitaria: Božidar Stanišić, ibidem. LXI I ACCOMODATEVI…non era riuscito a leggere: le esigenze del nostro tempo che chiede ecc. ‘Risposte? Urgenti o attuali?’ sussurrò nella lingua da cui si era allontanato nel tempo e nello spazio).”96 Nei suoi testi, che egli chiama non-poesie o qualcosacome-racconti, emerge costantemente la difficoltà di testimoniare, che si scontra con la necessità morale di continuare a farlo. Nel gioco di incastri intertestuali e nella sperimentazione linguistica entrano spesso domande esistenziali che è l’autore stesso a suggerire al personaggio. Come accade per Lela, la protagonista de Il rapimento, che, abbandonata ormai la Bosnia per vivere in Italia, e scoprendo sulle pagine dell’Oslobodjenje la morte del suo amato, si ritrova a pensare: “la morte è un oblio e una lontananza che devo attraversare”.97 I testi di Stanišić nascono dal “cuore” dell’esilio; la guerra non è mai attesa – tranne in alcuni racconti della raccolta I buchi neri di Sarajevo, scritti però nel 1992 – ma è sempre già stata vissuta: il protagonista è sempre qualcuno che fa i conti con il proprio post-conflitto interiore. E quest’intima esplorazione conduce spesso al sogno di un’altra esistenza, al desiderio di negare la propria identità per cancellare il proprio passato, quando non all’estrema conseguenze di questa negazione, la follia. Questo è ciò che succede a Neven O., nel lungo racconto Il giardino di Mr. O’Brien, quando tenta di liberarsi di un passato troppo ingombrante cambiando nome e paese, e addormentandosi ogni notte sognando di essere qualcun altro. 96 97 Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p.18 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p. 191 LXI II Il primo passo verso l’oblio Neven lo compie distruggendo tutti i ritagli di giornale, fino ad allora gelosamente custoditi, riguardanti la guerra che sta dilaniando il suo paese; “così comincia la liberazione dal passato, la negazione del presente e il pensiero del futuro di Neven O. : buttando i ritagli di giornale nella carta vecchia”. Diventato ormai Virgin O’Brien, uomo di successo che in Australia si spaccia per sudafricano con origini montenegrine, soddisfatto della sua ricca mediocrità, Neven dovrà alla fine affrontare i fantasmi del suo passato. Le ombre delle persone che ha abbandonato (il suo commilitone al fronte, con cui aveva progettato la fuga, un compagno di liceo, poeta e rivoluzionario, il primo amore, una ragazzina bionda di Mostar, l’anziana madre…) verranno a cercarlo per ricordargli chi è davvero. “Un uomo non può avere due mari al mondo”98, lo ammonisce il padre; e Neven, che ha ossessivamente tentato di fuggire da sé, perderà completamente la capacità di ritrovarsi. Narratore abile e colto, Božidar Stanišić utilizza le armi della parola dell’ironia per scovare l’umanità anche in mezzo alla distruzione del conflitto, per cercare uno spiraglio di speranza anche per chi è “in fuga dalle cuciture fra i mondi”.99 Una delle liriche contenute nella raccolta Non-poesie, intitolata Simile a rosa incantevole100, scritta nel 1995, si conclude con questi versi: “…Dio, Ti ringrazio per i doni che mandi, anche a noi, che siamo, da così tanto tempo, sulla bassa terra, e perdona la mia stanchezza, in un giorno in cui la mia anima, 98 99 100 Božidar Stanišić, “Il giardino australiano di Mr Virgin O’ Brien”, in Bon voyage, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003 p. 98 Božidar Stanišić, Tre racconti, Associazione culturale “E. Balducci”, Zugliano, 2002, p.24 Božidar Stanišić, “Simile a rosa incantevole”, in Non poesie, Associazione culturale “E. Balducci”, Zugliano 1995 LXI V tuttavia, la primavera intuisce.” 3.6 La lingua italiana Ciò che appare certo nelle opere di tutti questi autori è che risulta quasi impossibile per loro trovare un luogo in cui si possa ormai essere davvero se stessi, non c’è una lingua abitabile che sia davvero la propria. Il rapporto con la lingua è uno degli aspetti più complessi e interessanti della produzione letteraria della migrazione; lo scrittore migrante utilizza, nelle sue opere, la lingua del paese d’arrivo: e in questa scelta, audace e “fisiologica” ad un tempo, si rispecchia l’elemento fondamentale della scrittura migrante, ovvero, secondo una definizione di Julio Monteiro Martins, “una deterritorializzazione interiore ed esteriore, (…) straordinariamente fertile”101. L’ostranenie, quello straniamento che Josif Brodskij considera alla base di ogni produzione artistica, si concretizza nel vissuto di chi è costretto ad abitare due culture, due lingue. In un testo intitolato significativamente Il ponte Vesna Stanić, scrittrice croata residente in Italia da venticinque anni, parla dello sradicamento vissuto da ogni migrante; e spiega che esso si configura come “una sensazione di non appartenenza a nessun luogo. Ci si allontana dalla propria cultura e lingua e si sente una nostalgia immensa, ci si avvicina ad un’altra e non si diventa mai veramente suoi figli.” 101 Julio Monteiro Martins, Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sul sito www.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm LX V Si vive “come su un ponte: né di qua, né di là.” Ben coscienti che ogni ponte unisce solo se lo si attraversa, gli scrittori migranti operano una costante oscillazione linguistica: perché l’utilizzo di una lingua diversa da quella madre può essere sia uno strumento di collegamento tra sé e la nuova realtà culturale in cui si desidera integrarsi, sia il filtro necessario attraverso cui guardare con distacco un passato toppo doloroso. E se l’italiano, la più ricca stratificata tra le lingue europee, da quest’incontro esce modificato e in qualche modo “tradito”, è un tradimento fecondo quello che subisce. Perché attraverso di esso diviene veicolo di messaggi che non possiamo più ignorare; e, soprattutto, perché quest’italiano che si presta a chi non l’ha imparato da bambino, si modella, si rinnova, risultando sicuramente più interessante di quello stanco e un po’ banale di certi scrittori alla moda. Tornando allo specifico degli autori fin qui considerati, la lingua italiana si piega alle loro esigenze letterarie fluida, docile, a volte esitante, ma mai clamorosamente sbagliata. E se stride, stride nella creazione di neologismi/refusi che, a ben analizzarli, sembrano rendere l’idea voluta molto più precisamente di quanto possa fare qualsiasi parola dell’italiano corretto: come quando Spale Miro Stevanović, di una poesia che può essere recitata a due voci col proprio amante, suggerisce di declamarla – molto più sensualmente “a due bocche”; o quando, nella penna di Tamara Jadreičić, un divano di cuoio logoro, segnato dal tempo e dalla vita dei suoi proprietari, non è più di un neutro color “marrone”, ma teneramente si degrada in “marrognolo”. LX VI La lingua rimossa dell’infanzia ritorna, ad inquinare e rinsanguare un italiano che non è più solo il nostro, in una mescolanza inedita che rende la parola di questi autori sperimentale, essenziale e ricca di sfumature allo stesso tempo. Se poi l’idioma lasciato dietro di sé è quel serbo-croato sfinito da anni di strumentalizzazioni sistematiche, la scelta della nostra lingua (lingua dell’essenziale e barriera necessaria, secondo le già citate definizione di Stanišić e Slaven), equivale ad acquistare un nuovo centro di gravità culturale senza perdere se stessi e la propria complessità. Gli scrittori della diaspora balcanica ci mostrano quindi il volto di un’Europa che dobbiamo imparare a ri-conoscere come parte integrante del nostro bagaglio culturale; e se lo fanno nella nostra lingua, e abitando la nostra terra, è perché siamo noi, ormai, gli interlocutori del loro dolore. LX VII “Nessuno può immaginare cosa significhi nascere e vivere al confine tra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter far nulla per avvicinarli, amarli entrambi e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa ovunque e rimanere estraneo a tutti, in una parola, vivere crocefisso ed essere carnefice e vittima allo stesso tempo” Ivo Andrić LX VIII La dolorosa sensazione di non appartenenza – vera costante sottesa a tutte le opere fin qui analizzate – diviene specchio, nelle opere degli autori balcanici, di una realtà storica di tragica instabilità. La vita ormai “uscita dal binario”, deviata per sempre da una normalità impossibile da riconquistare, viene resa possibile (che tanto basta alla sopravvivenza: una possibilità) attraverso l’esercizio letterario, che da sempre si propone come “casa comune” o patria d’elezione a chi non ha patria: gli scrittori e gli apolidi; nel caso – non così raro – che le due condizioni convivano (o coincidano), essa diventa una vera e propria “sovrapatria”. Nel parlare di patrie d’elezione, sovrapatrie, apolidi e migranti, pensiamo di sottolineare quasi insignificanti questioni terminologiche e ci accorgiamo invece di andare all’essenza del problema: la questione identitaria. Che è – lo abbiamo visto nel primo capitolo - il fondamentale filtro attraverso cui leggere ed interpretare le opere di ogni autore migrante, e che assume un significato di particolare rilevanza per gli autori dei Balcani. Perché è sulla questione identitaria che si sono innestate le ideologie ultranazionaliste da cui è deflagrato il conflitto, e perché difendere la propria identità (se non di jugoslavi in senso politico almeno di slavi del sud in senso culturale) è diventato un modo, forse l’unico, per risollevarsi sulle macerie del proprio passato. Bisogna difendere la pluralità culturale come unico anticorpo contro l’omologazione, dice Jarmila Očkajova; questa potente verità letteraria (ma anche esistenziale) valida per ogni autore migrante, diventa LXI X paradigmatica per il migrante balcanico; che della negazione di sé ha avuto direttamente esperienza attraverso quell’atroce e insensato tentativo di massificazione che è la guerra etnica. Eppure la con-vivenza culturale, la necessità di affermare se stessi senza annientare l’altro, siamo ormai costretti a riconoscerla (l’abbiamo già visto parlando della nascente creolizzazione planetaria di cui gli scrittori migranti sono i portavoce) come elemento vivificatore e innovatore di ogni cultura; dovremmo ormai essere coscienti che “la questione non solo dei Balcani, ma del futuro europeo non consiste nel radicamento e nella difesa delle identità particolari, esclusive, ma nella capacità di uno sviluppo armonioso di identità plurime”102. Pretendere un’appartenenza che ogni definita identità alla nascita, sia è limitata ad quantomeno anacronistico; perché presuppone un’idea ormai superata, e cioè che, usando le parole di Tzvetan Todorov, “la cultura sia un codice immutabile, cosa empiricamente falsa”103 . Al contrario: come afferma l’antropologa Arianna Dagnino, “l’uomo è un improvvisatore culturale”, e di questa capacità creativa sono dotati, in modo particolare, gli scrittori migranti, che vivono, in una sola vita, più vite; e che ci accompagnano, coi loro testi, verso una nuova definizione culturale possibile: “ci avviamo verso l’Utopia”, afferma Božidar Stanišić. Non possiamo non riconoscere di avere il diritto/dovere di accoglienza e di ascolto nei confronti dei migranti (e degli scrittori migranti) che arrivano sulle nostre coste: tanto più nel 102 103 Melita Richter, Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro, in Osservatorio sui Balcani, sul sito www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/2889/1/50/ Tzvetan Todorov, L'uomo spaesato. I percorsi di appartenenza, Donzelli Roma, 2000, p. 11 LX X caso di migranti della ex-Jugoslavia, e tanto più noi Italiani, che dai Balcani siamo divisi da solo dalla striscia di mare che costituisce l’Adriatico. (I greci e i romani alternavano, per definirlo, i termini di “golfo” e “mare”; questa duplicità ne accompagna la storia, dice Matvejevic, e sicuramente accorcia le distanze, almeno ideologiche, tra “noi” e “loro”.) E proprio gli autori fin qui considerati si pongono come necessario e fecondo punto di raccordo tra quel “noi” e quel “loro” i cui rapporti è necessario tornare ad indagare. A partire da una concezione che non preveda confini, ma ponti: che sia possibile attraversare, perché un ponte non attraversato presume la diversità che sta al di là del fiume, e separa, invece di unire. Nel luglio 2004, il Vecchio Pomte di Mostar, lo Stari, è stato restituito ai mostarini, e al mondo, completamente ricostruito. Durante una cerimonia di grande suggestione, e di profondo impatto, molte personalità internazionali hanno commentato l’importanza, anche simbolica, dell’evento. Predrag Matvejeic, il 24 luglio, all’ex Teatro dei Burattini, si è espresso su questo fatto dicendo: “Il ponte di Mostar è stato ricostruito; ma si potrà dire che la sua ricostruzione sarà completata quando tutti i mostarini, di ogni origine ed etnia, vi avranno lasciato le loro impronte.” Quello che Matvejevic auspica per il Nuovo Vecchio della sua città, è quello che gli scrittori migranti dai Balcani già fanno per noi: camminano sui ponti tra noi e loro, si pongono come mediatori, punti di contatto, equilibristi, LX XI facilitando l’incontro, e la contaminazione, tra “questa” Europa, che è già qui, e l’altra, che attende. Paolo Rumiz, che dell’Oriente dell’Europa (Oriente dalla “grande anima”, come è solito chiamarlo) ha fatto l’oggetto di numerosi studi – o il soggetto di un colloquio appassionato – si chiede a chi possa interessare, ormai, occuparsi di Balcani, e di ex-Jugoslavia, per rispondere immediatamente che una tale analisi dovrebbe interessare l’Europa tutta. Perché “la guerra in Jugoslavia non era una cosa Jugoslava. Era una malattia europea, anzi mondiale (…). Il buco nero in cui guardare siamo noi, ricchi, sazi, frastornati, dunque poveri di percezione e impauriti di fronte alla complessità”104. Non solo: lo scrittore Dževad Karahasan, bosniaco migrato in Germania nel 1994, sostiene, nel suo libro del 1995 Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città: “La prova della tua esistenza non sta nel fatto che tu pensi, come pensava un signore molto intelligente. La prova del fatto che tu esisti te la dà il fatto che qualcun altro pensa a te”.105 Aprire le porte alla complessità, e ridare esistenza e solidità all’identità – culturale ma non solo – dei figli della diaspora balcanica: questo sembra essere l’invito che le opere di questi autori ci porgono, ed è anche un’inestimabile opportunità che viene donata all’ Europa. Poiché tentare di comprendere le vicende di questo “brandello esausto” del nostro continente, ascoltare le voci di chi è giunto sulle nostre terre armato della sua preziosa 104 105 Paolo Rumiz, prefazione a Bon voyage, Božidar Stanišić Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p.7-8 Dževad Karahasan “Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città” citato da Armando Gnisci, Creoli mitici migranti clandestini ribelli, Meltemi, Roma, 1998, p.115 LX XII testimonianza, significa riscoprire un nuovo modo di intendere l’Europa, e la cultura europea. Affrontare questa riscoperta dal punto di vista della letteratura, e rimanendo consapevolmente dalla parte di chi fa letteratura, vuol dire infine porsi, senza esitazioni, dalla parte del liberamente umano. 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Letterature di frontiera», Quadrimestrale di letterature, arti e culture, Ottobre 2004 – Numero 5, Direttore Mauro Daltin, Sede Cervignano del Friuli, (UD) Kuma, rivista di arte e letteratura creola, a cura di Armando Gnisci http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html Osservatorio sui Balcani, per uno sviluppo umano, democratico e responsabile dell' est Europa http://www.osservatoriobalcani.org/ Sagarana, Rivista letteraria trimestrale on-line, direttore Julio Monteiro Martins www.sagarana.net El Ghibli, rivista on line di letteratura della migrazione, direttore responsabile Pap Kohuma http://www.elghibli.it/ LX XVI