Alla ricerca di Ethos

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Alla ricerca di Ethos
L’Ethos ritrovato
di Stefano Montobbio
Responsabile Sri di BSI
L
a Storia perde i pezzi. Non capita sempre, soltanto qualche volta. Alcune cose vengono
rimosse, dimenticate e spesso sono gli aspetti più difficili, meno semplici o che
complicano la vita. In fin dei conti succede a tutti, anche a noi.
Pensiamo al famoso motto della rivoluzione francese, liberté, égalité, fraternité ancora inciso
sulle monete della repubblica transalpina. Oggi si parla tanto di libertà e di uguaglianza, ma
che fine ha fatto la parola fraternité? Libertà ed eguaglianza sono termini relativamente chiari,
tutti riusciamo a capirne il significato e le implicazioni pratiche. Il termine fraternità implica
invece fattori più emotivi, dal contorno più sfumato. Però, umanamente parlando, delle tre
parole è forse la più bella. Oppure ricordiamo Adam Smith, il teorico della “mano invisibile dei
mercati”. È conosciuto per le sue teorie liberiste, tuttavia la sua figura è più complessa. Smith,
prima che economista, era un filosofo morale che teorizzava l’esistenza di una specie di
spettatore imparziale che permette all’uomo di compiere un passo indietro, di uscire
dall’attenzione al presente e di mettere sentimenti, compassioni ed emozioni nell’analisi della
realtà e nel rapporto con gli altri. Secondo alcuni studiosi il filosofo scozzese considerava la
“Teoria dei sentimenti morali” come la sua opera più importante.
Con l’articolo di oggi vogliamo chiudere la parte più introduttiva di questo percorso e di queste
riflessioni. Avremmo voluto finire già la volta scorsa, ma rileggendo e ripensando al tempo
dedicato a questa tematica ci sembra necessario chiarire ancora un aspetto.
Alcuni anni fa, quando abbiamo cominciato ad approfondire l’idea della sostenibilità,
miravamo a ottenere il maggior impatto extra-finanziario dagli investimenti, senza ricorrere a
formule strane o accessibili solo a pochi. Per questo dovevamo creare un sistema che ci
permettesse di identificare in quali aziende o in quali strumenti investire. Serviva un modo di
pensare, una serie di principi guida che ci aiutassero a mantenere la direzione e una certa
coerenza. Questo sistema doveva essere ragionevole, spiegabile e condivisibile il più possibile.
Ci sembrava quindi necessario lasciar fuori considerazioni di tipo etico o morale. I sistemi
d’investimento basati esclusivamente su approcci etici (evitare il settore X o Y) non hanno mai
funzionato molto bene, finanziariamente parlando. Da questo punto di vista anche la cattiva
performance è poco sostenibile.
A un certo punto, però ci siamo accorti di una cosa: la stessa rimozione che è avvenuta verso la
parola fraternité, o verso la più complessa figura di Smith, l’abbiamo incontrata anche noi con
la parola etica. Pur con tutta la buona volontà e le buone intenzioni, stavamo cadendo nello
stesso errore. È una parola difficile da gestire più di quanto non sia la parola sostenibile, ma è
un termine che non si può eliminare dal nostro ambito. Il motivo è molto semplice: l’etica è
una componente fondamentale del concetto stesso di sostenibilità. Così come il termine
fraternité o l’essere un filosofo morale, sono parole che appartengono a una dimensione un
po’ particolare, più emotiva, meno razionale, più difficile da spiegare, ma tuttavia molto
umana.
L’esistenza di una componente di questo tipo tocca però i sistemi di analisi che avevamo in
mente. Che rilevanza dare ai fattori ambientali? Quanto è importante rispettare i diritti dei
lavoratori o la vita di popolazioni indigene anche se non siamo in grado di quantificarne il
rischio economico? Che peso dobbiamo dare a queste componenti?
In aggiunta, parlare di valori o principi a chi si occupa di finanza non è sempre facile, secondo
alcuni è un po’ come parlare della volpe al contadino. Le due cose sono spesso viste in
contrapposizione. A ragione pensano alcuni, a torto pensiamo noi. O perlomeno a torto per la
finanza che immaginiamo e intravvediamo. Pensiamo che il concetto di sostenibilità, arricchito
dal concetto di etica, diventi molto più sensato e in qualche modo preannunci o lasci sperare
un significativo cambiamento verso un diverso modo di concepire la relazione con gli altri, la
società e la natura. Per usare le parole di C.U. Becker, professore di filosofia presso l’università
della Pennsylvania, il concetto di sostenibilità così costruito implica un “cambio paradigmatico
e il passaggio da un essere umano visto come autonomo e a sé stante, a un uomo legato ai
contemporanei, alle generazioni future e alla natura”. Questo però rende tutto più difficile.
Esiste una parte razionale nella sostenibilità ed è quella legata alle conseguenze economiche di
gesti e azioni. È quella analizzata da diversi studi che suggeriscono di prendere in
considerazione criteri di sostenibilità negli investimenti. Uno dei più famosi è quello prodotto
dalle Nazioni Unite e che va sotto il nome di Freshfields Report, dal nome dello studio legale
che ha condotto l’analisi. Le conclusioni sono che quando considerazioni di ordine sociale o
ambientale hanno o possono avere degli impatti finanziari devono essere prese in
considerazione. Tuttavia, se ci pensiamo bene, questo è poco più che buon senso. Se
un’azienda di bevande possiede impianti in aree a rischio di carenza d’acqua è evidente che
esiste un rischio finanziario. Le cose cambiano se la stessa azienda possiede un impianto in un
posto dove può trovare acqua a sufficienza, ma sottraendola all’agricoltura locale. L’esperienza
suggerisce che probabilmente la fabbrica continuerà a funzionare, mentre l’agricoltura locale
lentamente si inaridirà. Da un punto di vista finanziario l’azienda rischia poco, dal punto di
vista della sostenibilità intesa come capacità di durare nel tempo forse anche. Dal nostro punto
di vista, quest’azienda non è tuttavia sostenibile, o lo è meno di altre. Per giustificare questa
affermazione, si può argomentare che l’azienda rischia proteste locali, scioperi, boicottaggi e
campagne di protesta da parte di ONG e dei consumatori occidentali. Alla fine però, il
consumatore che boicotta un prodotto lo fa esclusivamente per una scelta di comportamento,
per una decisione morale. La stessa crescita del potere mediatico delle ONG, così come il
commercio equo-solidale, nasce da una maggior consapevolezza in questo senso. L’azienda
dell’esempio rischia effettivamente un boicottaggio, e quindi un danno finanziario, ma lo
rischia per una questione “deontologica”, per un problema di valori. L’aspetto interessante è
che se l’etica ritorna in gioco, scelte che oggi appaiono basate su principi etici potrebbero
diventare premianti anche dal punto di vista finanziario, economico o industriale.
In ogni caso, nel momento in cui consideriamo questa componente le cose si complicano.
Siamo infatti molto bravi a dare un prezzo a tante cose, ma non sappiamo ancora farlo con i
Valori o i beni comuni. L’etica quindi è indispensabile anche per questo motivo, perché
fortunatamente non tutto può essere monetizzato.
Nel 1997 un gruppo internazionale di ricercatori provò a dare un valore approssimativo ai
servizi prodotti dall’ecosistema. Il risultato fu di $33 trilioni, pari a circa il 180% del prodotto
interno lordo dell’epoca. Lo studio dell’Unepfi citato nello scorso articolo parlava, riferendosi
solo ai danni ambientali creati dal sistema economico, di una cifra pari al 10% del PIL. Altri
studi forniscono numeri variabili, ma sempre significativi. Attualmente è in corso uno studio
(www.teebtest.org) condotto dal ministero per l’Ambiente tedesco e della Commissione
europea, per cercare di trovare un sistema di valutazione corretta dell’ecosistema che tenga
conto dei complessi legami esistenti tra ambiente, povertà e sviluppo. Crediamo che sia un
passo necessario, ma, anche se imparassimo a prezzare correttamente l’ambiente, non si potrà
prescindere da considerazioni basate su valori e principi. Valutare l’ecosistema tramite fattori
di sconto, come si fa in finanza per le aziende, significa che se oggi attribuiamo un valore di 100
a una risorsa, il valore attuale dello stesso bene tra 40 anni sarà compreso tra 10 e 20, secondo
il tasso utilizzato. Con la stessa logica, il valore che avrà tra 100 anni sarà pressoché nullo. Il che
sarà anche corretto, finanziariamente parlando, ma è decisamente poco giusto nei confronti
delle future generazioni.
In qualsiasi modo si guardi a queste tematiche quindi l’etica c’entra. Crediamo sia anche un
problema di senso e di priorità. L’economia deve avere come scopo il benessere dell'umanità,
non solamente la sua ricchezza. O perlomeno una ricchezza non fine a se stessa, ma finalizzata
alla creazione di opportunità e benessere.
Nello stabilire i principi guida abbiamo quindi introdotto considerazioni razionali e di rischio,
ma anche etiche tenendole separate quando possibile. Nei modelli che abbiamo costruito, ove
possibile, abbiamo cercato di capire dove situare il confine per poter essere più trasparenti.
Nel momento in cui decidiamo che non possiamo prescindere dall’etica, si apre un altro
problema. Cosa dobbiamo fare con aziende belliche, del tabacco, o di altri settori critici? Dal
punto di vista della sostenibilità “razionale” possiamo fare gli stessi ragionamenti e quindi
scegliere le aziende maggiormente efficienti, che consumano meno risorse, tutelano i
dipendenti ecc. Possiamo trattare le società del settore difesa come aziende industriali e
misurarne i consumi e le emissioni. Quando però vediamo che sul sito del nuovo aereo da
combattimento F35 esistono 70 pagine che contengono le parole “sustainability” e derivati,
beh, forse c’è qualcosa che non funziona.
Se il settore fosse esclusivamente rivolto alla difesa, potrebbe anche avere un senso. Ma così
com’è oggi…. Il commercio delle armi rappresenta un 2% del commercio mondiale, ma è
responsabile di circa il 40% della corruzione internazionale (fonte SIPRI). A parità di
investimenti genera meno posti di lavoro di molti altri settori (University of Massachusetts) e,
sebbene abbia ricadute tecnologiche, non è probabilmente il modo più efficiente per
ottenerle. È un settore poco regolamentato, la Svizzera in questo senso rappresenta
un’eccezione ed è ai primi posti al mondo per trasparenza e controllo. Il risultato di questa
scarsità di regole significa che molti dei soldati morti nei recenti conflitti sono stati uccisi con
armi prodotte da compatrioti. Questo vale per gli Stati Uniti, ma anche per l’Italia. Nonostante
la crisi il budget bellico è relativamente immutato, in alcuni Paesi come la Grecia, addirittura
cresce. L’aspetto più inquietante però, è che l’industria bellica ha bisogno di guerre per
vendere.
Nel momento in cui introduciamo considerazioni etiche, alcuni settori diventano quindi difficili
da gestire. Un’azienda che produce componenti per motori usati anche su aerei militari non
deve magari essere esclusa necessariamente, ma una che produce mine antiuomo o bombe a
grappolo, sì. Se così non facessimo non saremmo coerenti.
Non è facile segnare un confine o dare giudizi, né è qualcosa che ci piace. Qualche volta però
può essere necessario. In generale crediamo che occorra creare più informazione, capire le
conseguenze dei gesti e dare la possibilità di scelte maggiormente informate. Quello che ci
sembra importante è l’assunzione di responsabilità individuale; noi proponiamo quello che ci
sembra giusto cercando di essere il più trasparente possibile. Ognuno, poi, farà le sue scelte.