Il servizio di assistenza domiciliare educativa
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Il servizio di assistenza domiciliare educativa
1 QUADERNI DEL CENTRO SERVIZI SCUOLA & FAMIGLIA ricerca, progetto, intervento Questo numero è dedicato ad un approfondimento del Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa dal punto di vista progettuale, operativo e delle chiavi teoriche di riferimento. Cooperativa Alce Nero G. CAVICCHIOLI, B. BANDIOLI Il Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa Primo Numero Il Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa a cura di Giorgio Cavicchioli e Barbara Bandioli CENTRO SERVIZI SCUOLA & FAMIGLIA QUADERNI DEL CENTRO SERVIZI SCUOLA & FAMIGLIA 1 QUADERNI DEL CENTRO SERVIZI SCUOLA & FAMIGLIA ricerca, progetto, intervento PRIMO NUMERO Il Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa a cura di Giorgio Cavicchioli e Barbara Bandioli Cooperativa Alce Nero La Redazione La collana dei “QUADERNI” è curata dal Centro Servizi Scuola & Famiglia della Cooperativa Alce Nero. Il comitato di redazione di questo numero è composto da: Giorgio Cavicchioli, Sonia Benatti, Cinzia Chesi, Alfonso Alfonsi e Laura Baratti. Il Centro Servizi Scuola & Famiglia si trova a Mantova in via Frattini, 26 telefono 0376 221717 e.mail [email protected] prima edizione: gennaio 2003 INDICE 13 Prefazione Moreno Gueresi, Presidente della Cooperativa Alce Nero 17 Introduzione o avvertenza al lettore Giorgio Cavicchioli, Barbara Bandioli CAPITOLO 1 19 La storia e il percorso del Gruppo dell’Assistenza Domiciliare Educativa della Coop. Alce Nero Barbara Bandioli, Coordinatrice dell’Area Assistenza Domiciliare Educativa CAPITOLO 2 25 La normativa e gli obiettivi del servizio di Assistenza Domiciliare Educativa Rosaria Furlani, Psicologa Eva Fazzi, Educatrice CAPITOLO 3 29 L’approccio narrativo Giorgio Cavicchioli, Psicologo Rosaria Furlani, Psicologa CAPITOLO 4 61 Le riflessioni degli educatori Barbara Bandioli, Coordinatrice dell’Area Assistenza Domiciliare Educativa 63 Prima scheda: L’importanza del gruppo degli educatori domiciliari della Cooperativa Alce Nero nell’ottica del lavoro educativo di qualità Barbara Bandioli, Coordinatrice dell’Area Assistenza Domiciliare Educativa 66 Seconda scheda: L’identità professionale lavorare sulle nuvole Virginia Ghidini, Educatrice 68 Terza Scheda: La motivazione al lavoro educativo domiciliare Virginia Ghidini, Educatrice 70 Quarta scheda: Imprenditorialità e carichi di responsabilità. Aspetti lavorativi stimolanti e fatiche psicologiche nell’educativa domiciliare M.Luisa Guandalini, Educatrice 8 72 Quinta scheda: La collocazione professionale dell’Educatore domiciliare, membro di una cooperativa sociale e mediatore - filtro tra i Servizi, le famiglie e il territorio Barbara Bandioli, Coordinatrice dell’Area Assistenza Domiciliare Educativa 75 Sesta scheda: Il tesoro nascosto. Eva Fazzi, Educatrice CAPITOLO 5 77 Proposte per un servizio di qualità Marco De Pietri, Direttore Tecnico della Cooperativa Alce Nero 99 Riferimenti bibliografici DI IL SERVIZIO ASSISTENZA DOMICILIARE EDUCATIVA Prefazione Quando, qualche tempo fa, mi venne presentata per la prima volta l’idea di un quaderno sul Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa con la richiesta di pensare ad una prefazione, ricordo che, oltre a promuovere e condividere la necessità di questo progetto, pensai che non sarebbe stato un lavoro semplice. Non è infatti semplice parlare di un servizio che, pur essendo ormai conosciuto e consolidato (tanto che da più parti se ne chiede una revisione), è sempre stato interpretato in modo piuttosto libero, al punto da soffrire di “crisi di identità”, a partire dalla sigla con la quale viene individuato. A seconda della zona o dell’ente gestore si passa dall’A.D.M. all’A.D.E. per concludere con un’inquietante S.A.D.E…. Un’altra difficoltà è legata al turn over degli operatori che nell’A.D.E. è altissimo in quanto si tratta di un servizio che pesa principalmente sulle spalle degli educatori domiciliari, spesso soli, con scarse possibilità di confronto e differenti strumenti di valutazione. Una situazione che rende quindi complicato accumulare conoscenze e cultura che permettano di riflettere sul servizio stesso. 13 Ma soprattutto è difficile per me pensare anche ad una semplice pagina di prefazione ad un quaderno sull’A.D.E. senza sentirmi personalmente coinvolto in quanto la mia avventura di educatore nell’ambito dei servizi sociali per i minori è iniziata con due anni di assistenza domiciliare. Si è trattato di una esperienza importante della quale conservo nella memoria ancora i volti, gli episodi, le suggestioni, le sensazioni provate. Nella memoria e in nessun altro posto perché, a quel tempo, ed era questo forse il limite più grande con il quale quotidianamente gli operatori si confrontavano, raramente nei servizi dell’A.D.E ci si dava la possibilità di documentare i vissuti, le emozioni; ci si giocava tutto da soli, con il proprio utente o al massimo con l’èquipe che si occupava del caso. Operatore e servizi nello sforzo di offrire supporto al minore e fare supplenze al nucleo familiare in difficoltà spesso finiscono per assomigliare ad una sorta di famiglia allargata. In questa situazione capita che si generi una sorta di pudica riservatezza nella quale le informazioni diventano segreti da custodire e gli aspetti più legati alla sfera emotiva confidenze da trattare in relazioni informali. Degli interventi di educativa domiciliare si riesce a ricostruire quasi sempre la mappa e il percorso, ma non l’esperienza del viaggio fatto insieme; alla fine compaiono solo i dati e scompaiono le storie. Le storie restano scolpite magari nella mente dei ragazzi, degli educatori o degli operatori delle équipe psicopedagogiche, ma raramente trovano posto nelle relazioni sul servizio; queste sono quasi sempre storie orali 14 di cui i narratori e protagonisti sono spesso anche gli unici lettori. Ritengo quindi che sia stata una scelta giusta ed importante quella di provare a prendere in esame l’esperienza ed il pensiero che da oltre quindici anni la Cooperativa Alce Nero ha sviluppato sull’A.D.E., affiancando ai dati tecnici ed organizzativi anche una riflessione di tipo narrativo. Ciò consente, forse per la prima volta, di lasciare spazio anche a quegli aspetti emotivi e personali che sono a mio parere l’anima dell’intervento domiciliare. Ringrazio quindi gli educatori, i curatori di questo testo e il direttore tecnico della nostra Cooperativa per la pazienza e la tenacia con la quale hanno organizzato e realizzato questo progetto documentativo. Ringrazio ancora una volta gli operatori del Gruppo A.D.E per averci creduto fino in fondo, mettendo a disposizione la loro esperienza, il loro tempo e le loro energie per la buona riuscita di questo lavoro. E ringrazio di cuore anche tutti gli educatori che hanno lavorato per la Cooperativa Alce Nero e per altri nei servizi di Assistenza Domiciliare; tutti quei Don Chisciotte che, combattendo per anni in solitudine e pagando anche conti salati, hanno costruito relazioni, aiutato famiglie, migliorato situazioni o fallito combattendo contro mulini a vento. È grazie a loro che, anche nella oggettiva complessità di un servizio difficile da codificare, si è potuta costruire nel tempo una prassi operativa ed elaborare strumenti di supporto degli educatori come il gruppo dell’A.D.E. In conclusione vorrei esprimere il mio apprezzamento 15 per aver scelto la forma del “quaderno” e non del libro per raccogliere la prima riflessione della Cooperativa Alce Nero sul Servizio A.D.E.. I libri, infatti, sanno di valutazione conclusiva, mentre con questo lavoro mi pare che si tenti di iniziare un percorso, di fare un primo, parziale tentativo di riordinare le idee e gettare le basi per il futuro. Anche perché, nella nostra cooperativa, i progetti più interessanti sono sempre quelli che si devono ancora pensare. Il Presidente della Cooperativa Alce Nero Moreno Gueresi 16 Introduzione o avvertenza al lettore Questo quaderno di lavoro nasce nella frenesia dell’attività educativa quotidiana, dimensione del tempo che corre e che genera esperienza, vissuto, pensiero. Volutamente, non compone un’analisi tecnica completa del Servizio di Assistenza Educativa Domiciliare rivolta ai minori. Si tratta, piuttosto, di un racconto plurimo, redatto a più mani, che restituisce un’immagine del lavoro non basata sull’utilizzo di indicatori e schemi teorici “consueti” ma fondata sul vissuto e sull’espressione libera da parte degli operatori, di linguaggi, generi narrativi e relativi contenuti in cui l’attenzione è posta più sull’operatore e sul processo che sul risultato pedagogico o organizzativo del servizio. Non pretende di porsi, questo quaderno, tra i contributi scientifici della teoria o della teoria della tecnica in ambito socio-pedagogico. Vuole dire degli operatori o, meglio, vuole far dire agli operatori, del lavoro educativo, dei vissuti in cui riecheggiano le dinamiche transferali e controtransferali, dei vissuti relativi al setting mancante, alla solitudine “strutturale” sperimentata nell’operatività quotidiana, al lavoro di rete con 17 gli altri operatori psico-sociali del territorio, all’organizzazione di appartenenza – la Cooperativa Alce Nero – che rappresenta anche simbolicamente il contenitore del lavoro educativo. Anche per questo “taglio” del quaderno si è preferito dedicare uno spazio ampio all’unico contributo di natura teorica, in cui l’approccio narrativo viene esposto come impianto teorico di un’esperienza formativa del gruppo degli operatori coinvolti e come chiave di lettura dei diversi contributi che compongono il quaderno. Apporti soggettivi che, in particolare nel quarto capitolo, si presentano come narrazioni degli operatori in grado di contribuire in maniera originale e diversificata alla composizione di una narrazione aperta del gruppo di lavoro. Narrazione aperta anche nel senso che i vissuti e le loro rielaborazioni sono sempre situati in una geografia socio-culturale ben determinata - il contesto del territorio mantovano, all’inizio del XXI secolo -. Accorto, perciò, sarà il lettore che nella sua interpretazione terrà conto del rapporto circolare tra le parti e il tutto, tra il testo e il contesto. G.C. e B.B. 18 Capitolo 1 LA STORIA E IL PERCORSO DEL GRUPPO DELL’ASSISTENZA DOMICILIARE EDUCATIVA DELLA COOPERATIVA ALCE NERO Gli educatori domiciliari della Cooperativa Alce Nero hanno iniziato attorno al 1995 a configurarsi come gruppo di lavoro, ritrovandosi in riunioni mensili. Si è partiti inizialmente con sei operatori, attivi su tre zone d’intervento nella provincia mantovana e si è arrivati, sette anni dopo, a circa venti educatori, distribuiti ancora più estesamente sul territorio. Il gruppo è nato come luogo di apprendimento e di pensiero, attraverso il rafforzamento del sentimento di appartenenza ad un’entità produttiva. Nel gruppo ci si è avvalsi delle singole immagini ed esperienze lavorative come elementi fondanti della dimensione teorica sfociante nella definizione di un sapere educativo specifico. Nonostante il turn over degli operatori nel corso degli anni il gruppo è stato mantenuto in vita internamente da forti spinte motivazionali, dalla condivisione del lavoro educativo, dall’ impegno per la costruzione della propria identità lavorativa ed esternamente dalla costante domanda sociale di figure educative talvolta sfumate nei loro confini, ma organizzate in modo da funzionare come “luoghi-ponte” capaci di 19 contatto con le realtà a rischio di emarginazione. Il gruppo si è espresso attraverso un lessico comune, dando vita ad un “linguaggio gruppale” fortemente permeato dalle proprie storie collocate in una zona d’intervento specifica e riguardanti un’area d’utenza definita. Il gruppo ha prodotto cultura educativa, narrando contenuti e significati del lavoro realizzato, un lavoro coinvolgente, arricchente, impegnativo, non strutturato secondo linee d’intervento canoniche, ma diversificate a seconda delle situazioni considerate. La problematicità del lavoro educativo emerge spesso nei racconti del gruppo, lasciando trasparire la duplice dimensione dell’”essere dentro la società” - il lavoro - e contemporaneamente l’”essere fuori insieme all’utente”, nell’ottica di una maggiore individuazione e approfondimento delle relazioni, ma correndo anche il rischio di non riuscire a mantenere posizioni di autorità sul piano organizzativo. Il gruppo ha espresso spesso l’impressione che l’investimento di energie sia talvolta sproporzionato rispetto ai risultati e che non si riesca ad individuare un “contenitore” adatto a valorizzare i processi creativi attivati dagli educatori che risentono del vincolo opprimente della precarietà. È anche emersa la consapevolezza del limite secondo il quale la ricchezza delle proprie risorse operative sia legata in via privilegiata alla dimensione del presente, trovando molte resistenze a sedimentarsi nella storia della professione e a trasformarsi in patrimonio trasmissibile e memoria professionale. 20 È come se il permanere in questo ambiente di lavoro fosse sorretto dal desiderio e dalla volontà di “testimoniare” la qualità della propria professione, per riconoscerle storicità e garantirle luoghi d’accoglienza. Dal gruppo traspare infatti una forte richiesta di legittimazione delle proprie potenzialità, probabilmente perché il lavoro dell’educatore è “giovane” e rivendica uno status più riconosciuto. Il gruppo ha promosso un’elaborazione professionale dell’esperienza maturata nel corso degli anni della sua esistenza, per evolvere da una modalità lavorativa basata sul fare individuale e puntare ad un percorso formativo che faciliti il passaggio dalla dimensione del lavoro ideale a quella del lavoro reale mirando ad una situazione di benessere emotivo ed operativo. Il ruolo del coordinatore In questo processo emerge la guida del Coordinatore dell’Area Organizzativa della Cooperativa Alce Nero che riunisce gli educatori domiciliari. Egli è nel gruppo ma in una posizione particolare: essere troppo dentro al gruppo può portare infatti alla non-neutralità e all’impossibilità di tutelare la propria identità di ruolo. È un ruolo, quello del coordinatore, che si ricopre in solitudine come tutti i ruoli d’autorità; personalmente riesco a fronteggiare serenamente questa condizione grazie agli spazi d’ascolto e di sostegno che la Cooperativa riesce a garantirmi. 21 Coordino l’Area dell’Assistenza Domiciliare Educativa da poco più di due anni, continuando ad essere anche educatrice. Nel gruppo mi sono ritrovata a sostenere processi di pensiero, a mediare aspetti conflittuali, legati al bisogno d’affermazione individuale e a facilitare espressioni cooperativistiche, funzionali al bisogno d’appartenenza. Nel gruppo ho avuto la possibilità di sperimentare il ”significato del potere” e di capire quanto sia complicato gestirlo fra azioni di contenimento, necessarie per il giusto riconoscimento degli spazi altrui e l’esercizio dell’autorevolezza indispensabile per un’oculata conduzione del gruppo. Non penso esista un modello standard di “buon coordinatore” perché molto influente nell’assunzione di questo ruolo è la propria storia personale e culturale, ma si possono individuare delle competenze specifiche che spaziano dalla conoscenza teorica di tematiche psico–pedagogiche alla capacità di comunicazione, di mediazione e di conduzione di gruppi di lavoro. Personalmente mi sono trovata a gestire carichi di responsabilità impegnativi non soltanto a livello cognitivo ma anche emozionale e relazionale, ciò mi ha portato a ricercare un equilibrio fra le richieste altrui e i miei possibili apporti, tenendo conto delle mie risorse e dei miei limiti. Rispetto al mio gruppo di lavoro mi sono posta come referente tecnico, attento alla supervisione dei casi, ma anche come buona ascoltatrice e persona sulla quale poter contare nei momenti di bisogno, assu22 mendo una valenza “materna” in funzione dell’inevitabile esigenza di chi si prende cura degli altri a voler essere a sua volta “curato”. Le situazioni diverse che mi si presentano nella concretezza dell’agire quotidiano mi portano a mettermi continuamente in discussione, richiedendomi molte energie e lo sforzo a non lasciarmi invadere al fine di difendere la mia identità professionale, ma restituendomi anche un arricchimento fondamentale alla crescita per evitare di cristallizzarmi e di accontentarmi dei risultati raggiunti. Occorre munirsi di una disponibilità permanente all’apprendimento per seguire con creatività l’evoluzione dei processi operativi, ma senza crearsi false aspettative, una difficoltà che ho incontrato spesso e alla quale ho cercato di reagire con realismo ed ironia. Ho investito molte risorse nell’accompagnamento del gruppo in un processo costante di formazione perché penso sia indispensabile lavorare per il benessere dei propri operatori che vanno salvaguardati in quanto risorse umane importanti. Siamo partiti insieme lo scorso anno con un percorso di supervisione, supportati dalla figura facilitatrice di una psicologa, per far emergere il nostro vissuto di operatori attraverso l’utilizzo dell’approccio narrativo, chiave teorica che nel seguito del testo verrà illustrata. È stata un’esperienza che ha garantito continuità alla formazione degli anni precedenti e che abbiamo vissuto come “trampolino di lancio” verso future opportunità formative; ci ha infatti permesso di fare un salto di qualità ossia di rinnovarci, passando da un 23 percorso di conoscenza ad uno d’approfondimento. Per la prima volta abbiamo condiviso la scelta di partire dalle nostre emozioni, staccandoci dai “racconti – cronaca” e lasciando spazio alle espressioni spontanee. Sono emersi feedback nascosti, reazioni inaspettate, aspetti di dolore, ma anche la volontà di continuare a mettersi in gioco e di farlo con maggior fiducia in se stessi. È stato un momento di crescita che ha valorizzato il bisogno degli educatori di “prendere aria”, per prepararsi a respirare un’aria nuova nella prospettiva del rilancio del servizio educativo domiciliare nel settore sociale. Confidiamo nella forza dei cambiamenti per dare maggiore spazio al confronto e al dialogo con realtà diverse dalla nostra nell’area dell’assistenza educativa domiciliare e siamo interessati allo scambio d’opinioni con chi è coinvolto in ambito educativo al di fuori del sistema cooperativistico, per studiare un modello istituzionale di servizio che consenta agli operatori di lavorare in modo più connesso al fine di essere più radicati sul territorio. 24 Capitolo 2 LA NORMATIVA E GLI OBIETTIVI DEL SERVIZIO DI ASSISTENZA DOMICILIARE EDUCATIVA Quadro di riferimento legislativo Nato quale forma d’aiuto e sostegno per singole e specifiche situazioni di disagio dell’area minorile, il servizio di assistenza domiciliare, ben presto inserito nelle politiche sociali dei servizi, diviene programma d’intervento esteso all’interno del contesto sociale urbano. La professione di assistente domiciliare assume un ruolo dominante soprattutto in seguito al diffondersi di una nuova cultura dell’infanzia e di una diversa rappresentazione del bambino (da oggetto passivo a soggetto privilegiato di tutela). Tale cambiamento di prospettiva ha indotto i servizi sociali alla promozione di progetti finalizzati alla salvaguardia del minore e dei suoi diritti. Già nel 1977 i comuni della regione Lombardia venivano incaricati di amministrare e organizzare servizi di assistenza e beneficenza (D.P.R. 24, luglio 1977). In seguito, nella legge regionale del 1986 (cod. reg. 7 gennaio 1986, art. 2) furono ben definiti gli obbiettivi sottostanti il sistema socio-assistenziale (pieno svi25 luppo della personalità, soddisfacimento esigenze essenziali, benessere fisico e psichico del nucleo…). Secondo l’articolo 73 l’assistenza domiciliare è costituita da un complesso di prestazioni di natura socio-assistenziale e sanitaria, prestate a domicilio a realtà in condizione di emarginazione e di disagio al fine di garantire al minore la permanenza nel normale ambiente di vita, promuovendo acquisizione e miglioramento delle capacità educative dei genitori. Si cerca quindi di trovare misure di intervento alternative al contributo economico e all’istituzionalizzazione, con le quali mantener unito il nucleo familiare. Questo progetto è supportato dalla legge 184 (L.184 del 4 maggio 1983) con cui si ribadisce il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della propria famiglia. All’interno di questa cornice interpretativa l’assistenza domiciliare guarda alla famiglia rivalutando la presenza di risorse e capacità (spesso trascurate e inutilizzate), per far fronte a problemi oggettivi e difficoltà soggettive. Collocazione istituzionale del servizio domiciliare Il servizio domiciliare si colloca nella tipologia di interventi istituzionali, nel settore psicosociale, in una posizione intermedia tra l’area dell’attività di sostegno dell’utente e l’area della sostituzione del nucleo familiare. Precisamente si configura come presenza di operatori qualificati, con diverse competenze professionali, che prestano il loro sevizio nel domicilio di un minore in difficoltà, curando parallelamente un programma di 26 recupero e rafforzamento del nucleo; quindi il lavoro di sensibilizzazione e sostegno educativo è rivolto a tutto il nucleo, oltre al minore in particolare. Indispensabile è la condivisione-conoscenza del progetto da parte dei genitori, per lavorare “con” la famiglia e non “su” la famiglia. La figura dell’educatore: uno sguardo alla sua identità professionale L’educatore è una figura professionale molto recente e si differenzia da tutti gli altri collaboratori che si occupano dei minori sul territorio. Egli è anzitutto chiamato ad una funzione di accudimento e sostegno cui si aggiunge un preciso compito educativo ed istruttivo. Deve dimostrare capacità di lavoro progettuali che si esplicitino nella definizione di interventi su una realtà complessa e dominata da un senso di incertezza, restituendo al nucleo provocazioni che offrano significati possibili di lettura dello stesso. Egli è chiamato a dare indicazioni pratiche e complete, creando misure organizzative, inducendo aspettative per il futuro e concretizzando ruoli e identità familiari nascoste. Caratteristiche organizzative peculiari dell’intervento domiciliare Gli elementi salienti dell’intervento domiciliare sono riassumibili in cinque punti: 27 a. Un intervento in situazioni complesse e multi problematiche di tipo organizzativo, educativo, psicologico, economico; b. attuato in loco. L’educatore si focalizza sul minore in relazione al nucleo familiare di appartenenza e contemporaneamente al contesto di vita, lavorando al contempo sul nucleo e sul territorio in un lavoro di rete; c. il servizio è temporaneo. L’educatore concorre a rendere autosufficiente il nucleo e contemporaneamente a ridurre il suo stato di disagio, lavorando per costruire una rete di legami tra nucleo e ambiente esterno, facendo così da ponte aiutando il minore ad inserirsi nel contesto extrafamiliare rafforzandone gli scambi; d. lettura multifocale della realtà dovuta alla molteplicità degli attori, delle scene e dei copioni; e. lavoro di équipe. Momento indispensabile di confronto e scambio di idee, cosicché si distinguono figure professionali che lavorano a stretto contatto con il nucleo familiare ed altre che collaborano a lato con funzioni di consulenza e verifica sull’andamento del progetto. 28 Capitolo 3 L’APPROCCIO NARRATIVO Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo. (P. Ricoeur) I modelli e le teorie che si sono sviluppate nell’ambito delle epistemologie costruttiviste, interazioniste ed ermeneutiche contano, tra i più significativi sviluppi della loro evoluzione, un paradigma che trova nella narrazione il concetto chiave per lo sviluppo di modelli esplicativi e metodologie applicative nell’ambito della psicologia clinica e sociale, nel campo d’intervento psico-sociale e delle organizzazioni. Nell’ambito del servizio socio-educativo può risultare interessante l’applicazione dell’approccio narrativo come chiave teorica di riferimento, in particolare per le dimensioni formative e di lavoro di gruppo. Perciò, in questa sezione del testo presentiamo alcune idee di fondo relative all’approccio o paradigma narrativo inteso non già nelle sue applicazioni metodologiche e tecniche, quanto nei suoi riferimenti teorici che si possono accordare, nelle sezioni seguenti del testo, alle elaborazioni presentate nei capitoli successivi. 29 Con gli anni ’70, all’interno del sempre più variegato arcipelago delle scienze sociali, si assiste ad un progressivo mutamento nei paradigmi di riferimento: i grandi pensieri di tipo strutturalista e vetero-positivista iniziano a fare spazio ad una rivalutazione dei modelli ermeneutici. Con ciò l’attenzione alla singolarità, alle relazioni, al contesto culturale spinge verso nuove direzioni (di cui il discorso che si prova a fare in questo testo vuole essere un’ulteriore testimonianza) fino a giungere all’utilizzo della metafora narrativa come chiave euristica e poi metodologica. “La rivalutazione della nozione di significato in psicologia ha permesso alla prospettiva narrativa di acquistare una posizione rilevante, sia come metafora scientifica, sia come metodo d’indagine”1. Il paradigma narrativo propone una visione dell’uomo che si basa sull’idea di un pensiero narrativo ovvero sulla metafora che intende le costruzioni, le significazioni, le argomentazioni che caratterizzano il nostro pensiero come altrettante forme di narrazione. Viene postulata come attività fondamentale dell’uomo la ricerca del significato e viene proposto che questa ricerca, intesa come costruzione, ricalchi le forme di una narrazione che parte dall’esigenza di “interpretare il mondo e di attribuire significati plausibili che ci aiutino a fare delle previsioni”2. Il pensiero narrativo, contrapposto al pensiero paradigmatico, viene inteso come referente della verità narrativa, contrapposta alla verità storica; una ve1 L. Bianchera, B. Vezzani, (a cura di), I sentieri della qualità, Unipress, Padova, 2000, p. 239. 2 A. Smorti, Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze, 1994. 30 rità, quella narrativa, che si alimenta di dimensioni delle soggettività in funzione del principio di verosimiglianza e prendendo le distanze dalle idee di generalizzabilità e oggettività. La matrice culturale e la ricerca del significato vengono assunte come elementi fondamentali dell’agire umano: “Ciò che io sostengo è che la cultura, e la ricerca del significato all’interno della cultura, sono le vere cause dell’agire dell’uomo”3. Con queste parole, Bruner, nel fondamentale testo “La ricerca del significato”, stabilisce il legame tra la prospettiva culturale, anch’essa generatrice di nuovi modelli teorici, e la prospettiva narrativa: le narrazioni sono in ogni caso da intendere e da comprendere all’interno della cultura di riferimento o, in termini ermeneutici, dell’orizzonte storico. Il materiale stesso con cui vengono costruite le storie è un materiale culturale, vale a dire proveniente dalla cultura dentro cui la storia nasce: “Gli individui estraggono dalla tradizione culturale le informazioni necessarie per dare significato a sé, al proprio mondo e alle proprie e altrui azioni. Attraverso le interazioni sociali gli uomini recuperano le informazioni che “emergono” prima, durante e dopo il compiersi dell’azione, nel contesto culturale cui appartengono”4. Il vertice narrativo prende velocemente piede ed inizia ad essere utilizzato in campi diversi quali la psicoanalisi, la psicologia clinica, il campo psico-sociale delle or3 J. Bruner, La ricerca del significato, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 35. 4 L. Bianchera, B. Vezzani, Op. Cit., p. 239. 31 ganizzazioni e il lavoro educativo. Vengono così articolati risvolti teorici e metodologie che sempre più variamente si rifanno all’approccio narrativo. La cosa per noi rilevante in questa sede è riconoscere la possibilità che il luogo narrativo ci permette. Nel lavoro educativo, la costruzione dei significati circa i vissuti e le azioni degli educatori e dei ragazzi, e la possibilità di un loro confronto all’interno del gruppo di lavoro, o durante le sedute di supervisione o, ancora, nei percorsi di formazione degli operatori, trovano spazio e forma abitando le narrazioni: storie e racconti sono quelli che gli educatori producono ricercando o ricostruendo i significati del loro agire quotidiano, e solo considerando il carattere narrativo di questi pensieri si potrà entrare in una relazione finalizzata al cambiamento e all’apprendimento. I soggetti del lavoro educativo, operatori e ragazzi, sono allora visti come narratori sociali e il rapporto tra e con essi diventa il luogo narrativo dove i ruoli di narratore e uditore sono necessari l’uno all’altro per la creazione del racconto: “Il parlante non è tanto autore, quanto semmai co-autore della narrazione, insieme a lui giocano sulla scena altri personaggi, gli “io” ed i “sé”, elementi consci ed inconsci, istanze contrastanti e tuttavia sempre proprie, principi impliciti, più o meno consapevolmente presi a prestito dalla cultura, dal sistema linguistico o altro”5. 5 S. Failli, Verso la narrazione come spazio dialogico, in L. Bianchera, G. Cavicchioli (a cura di), “L’approccio narrativo. Teoria ed applicazioni nell’intervento sociale”, Unipress, Padova, 1998, p. 97. 32 Può essere utile ricordare alcune delle caratteristiche fondamentali del pensiero narrativo poiché, come si vedrà affrontando i racconti, appunto, degli educatori contenuti in questo testo, è proprio tramite la forma narrativa, o, meglio, le forme narrative che essi costruiscono la serie di significati che, da una parte, danno senso al loro agire quotidiano a contatto con ragazzi in disagio, dall’altra permettono di gestire il variegato e complesso vissuto dell’educatore domiciliare. Il paradigma narrativo è un approccio teorico e applicativo che si basa su di una concezione particolare della mente umana, per la quale i processi di pensiero sono strutturati essenzialmente secondo modalità narrative, ovvero seguono e si basano su alcune caratteristiche peculiari che possono essere assimilate a quelle del racconto, dove il linguaggio costituisce la dimensione sostanziale: “Frequentemente il pensiero viene inteso come retto da regole di ordine logico ed è considerato distaccato dal discorso che risponde invece a regole di comunicazione. In altre parole il pensiero sarebbe frutto di un processo autonomo che trova solo in un secondo tempo una pubblicità attraverso le parole che gli vengono fatte corrispondere (…). Ora, invece, noi abbiamo provato a sostenere che i due processi sono frutto di un’unica “propensione narrativa”, comune ai due; che non c’è una logica se non collegata da un flusso retorico; che il pensiero presenta già “in nuce” una sua strutturazione 33 sequenziale”6. Viene così inteso il pensiero narrativo, come strutturato in una successione organizzata, un racconto, un discorso con se stessi o con gli altri dove la struttura comunicativa, discorsiva e retorica coesistono e sono sostanziate dal colloquio costante con noi stessi strutturato attraverso il linguaggio. L’importanza della retorica, come dimensione fondante il pensiero viene ribadita: “Pensiero e Retorica coesistono e si intrecciano nel costituire ciò che è il pensabile per ognuno di noi, la Retorica non è qualcosa di esterno al pensiero ma il suo elemento costituente nel processo narrativo”7. Rom Harrè8, analizzando il problema dell’unità della mente, sostiene che “questa unità è più simile a quella di una storia che a quella di una cosa. Possiamo comprendere meglio i pensieri se non li consideriamo come delle proprietà successive o coesistenti del sé, sostanza mentale permanente, ma come dei momenti di una narrazione il cui autore è il soggetto stesso. (…) ‘Io’ non si riferisce ad una misteriosa ‘coscienza’ dell’essere, ma all’impronta degli episodi ripresi nelle narrazioni mentali del soggetto parlante. Pensare consapevolmente significa raccontarsi delle storie”9. Seguendo l’analisi proposta da Feldman, Bruner, Kal- 6 R. Dal Bianco, Riflessioni sul narrare, in L. Bianchera, G. Cavicchioli (a cura di), “L’approccio narrativo. Teoria e applicazioni nell’intervento sociale”, Unipress, Padova, 1998, p. 19. 7 Ibidem, p. 20. 8 R. Harrè, Grammatica e lessico, vettori delle rappresentazioni sociali, in D. Jodelet (a cura di), tr. it. “Le rappresentazioni sociali”, Liguori, Napoli, 1992. 9 Ibidem, p. 155. 34 mar e Renderer10 è possibile rintracciare anche uno sviluppo di questa modalità narrativa del pensiero, ovvero differenti e peculiari modalità e procedure interpretative che servono per la costruzione soggettiva del mondo. Questi Autori ritengono che “la costruzione narrativa dipende sia da operazioni cognitive interne sia da forme culturalmente canoniche che ’esistono’ nella ’cassetta degli arnesi’ di una cultura”11 ed hanno dimostrato che con l’avanzare dell’età si assiste ad un cambiamento nell’interpretazione della realtà: i bambini utilizzano resoconti organizzati in base a categorie corrispondenti alle funzioni della trama, che deve avere come minimo un protagonista che compie delle azioni. Gli adolescenti adottano un sistema interpretativo che si organizza attorno alle complicazioni, con interpretazioni fatalistiche e dominate dal tempo lineare degli eventi. Le interpretazioni degli adulti, invece: “Tendono a scomporre la storia in qualcosa di molto simile alla ben conosciuta pentade di Burke. C’è un attore, un’azione, uno scopo (o intenzione), una scena e uno strumento (o intervento)”12. Uno squilibrio tra questi elementi rappresenta l’origine di un problema mettendo in moto l’attività narrativa secondo la forma del dramma. Smorti13 ripropone la ormai classica elaborazione di Bruner delle proprietà principali delle narrazioni: 10 C. Feldman, J. Bruner, D. Kalmar, B. Renderer, Trame, complicazioni e drammi, in A. Smorti, “Il Sé come testo”, Giunti, Firenze, 1997. 11 Ibidem, p. 103. 12 Ibidem, p. 113. 13 A. Smorti, op. cit., 1994, pp. 78-80. 35 - sequenzialità, l’esistenza di una disposizione temporale degli eventi e la loro relativa durata; - particolarità e concretezza, la narrazione tratta di avvenimenti concreti delle persone; - intenzionalità, riguardando eventi umani, la narrazione prende in esame soggetti che possiedono determinati stati mentali; - opacità referenziale, nella narrazione il rapporto tra senso e referenza non è univoco e legato non alla realtà esterna ma alla rappresentazione in quanto tale; - componibilità ermeneutica, gli elementi sono compresi solo nel rapporto con il contesto che li contiene, in una interdipendenza parte-tutto o circolo ermeneutico, che rende inadeguato qualsiasi tentativo di analisi basato sulla causalità logica e lineare; - violazione della canonicità, la narrazione è innescata, come ricerca del significato, dalla rottura dell’andamento canonico o normale degli eventi, avendo così il compito di recuperare l’equilibrio del consueto sia sul piano cognitivo che su quello emotivo-affettivo; - composizione pentadica, la presenza dei cinque elementi indicati da Burke: attore, azione, scopo, scena, strumento, il cui disequilibrio a causa di un evento precipitante innesca l’attività narrativa; - incertezza, la narrazione si svolge ad un livello di realtà incerto, in un linguaggio che esprime la possibilità, ciò che potrebbe o dovrebbe accadere; 36 - appartenenza ad un genere, la narrazione può essere inserita in un genere o tipo, con un modo di raccontare che ha a che fare anche con i modelli mentali dei narratori. Data questa visione del pensiero umano come pensiero narrativo, le discipline psicologiche e le loro applicazioni nel campo sociale ed educativo, si trovano a dover elaborare strumenti adeguati per poter leggere ed ascoltare questo pensiero. A ben guardare, l’utilizzo della metafora narrativa e dell’approccio costruttivista per indagare e spiegare i contenuti dello psichismo umano non sono cose recentissime. Già Freud, nel 1937, in un brano riportato da Corrao ricorda che: “Le formazioni deliranti del malato mi sembrano l’equivalente delle costruzioni che noi edifichiamo durante i trattamenti analitici, cioè tentativi di spiegazione e di guarigione.”14 Sembra di poter individuare una funzione particolarmente importante per l’attività narrativa: attraverso le narrazioni i soggetti ri-costruiscono il significato e ciò permette loro di ristabilire il senso di controllo sulle situazioni che vivono e di ripararsi dagli stati emotivi spiacevoli di ansia e timore. Bruner sottolinea questo aspetto quando parla di violazione della canonicità, intendendo che la narrazione 14 È un brano di S. Freud citato da F. Corrao, Trasformazioni narrative, in N. Ammaniti, D. Stern, (a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Bari, 1991, p. 48. 37 sopraggiunge quando, venendo violati i canoni della normalità, o assistendo alla rottura dei copioni, secondo altri autori come R.C. Schank, gli individui sentono il bisogno di recuperare il significato degli eventi che vivono, e per fare ciò costruiscono storie o resoconti: “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico”15. Anche Smorti riprende questo punto: “le narrazioni comportano il resoconto di eventi che contraddicono le nostre aspettative, permettendo così all’organismo di reagire agli stimoli che violano questi schemi. Per questi eventi “devianti” le narrazioni costruiscono una cornice nella quale essi vengono ordinati, resi comprensibili, ricordabili e comunicabili”16. La possibilità di ricostruire narrativamente gli eventi corrisponde alla configurazione di significati possibili che siano in linea con l’identità dell’attore e con la cultura in cui egli vive. È infatti il sistema culturale che fornisce agli individui un serbatoio di significati condivisi da cui attingere e a cui aggiungere continuamente. “Quanto più le situazioni appaiono incomprensibili, tanto più gli attori hanno bisogno di trovare spiegazioni plausibili e socialmente condivise. Di solito essi cercano di dare un senso alle esperienze disorientanti assimilandole ad analoghe sperimentate 15 J. Bruner, La ricerca del significato, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 59. 16 A. Smorti, op. cit.,1994, p. 82. 38 in precedenza, come facevano i vittoriani quando tentavano di esorcizzare l’amore pensando a esso come a una ubriacatura, o come a una malattia che provocasse deliri e febbre alta ma avesse un esito per lo più benigno”17. È quindi la “violazione della canonicità” ovvero la “rottura dei copioni”, cioè il configurarsi della situazione in una modalità inaspettata, non voluta e quindi sorprendente o addirittura angosciante, ad innescare il flusso narrativo teso a ristabilire il senso di controllo sugli eventi. “È l’eccezione, la deviazione, l’interferenza, l’anormalità che stimola la nostra curiosità e sembra esigere una spiegazione. E spesso attribuiamo ad una qualsiasi ‘causa’ ogni avvenimento che caratterizza la situazione nuova, o non anticipata o alterata. (…) Ci sentiamo sfidati a trovare una spiegazione quando vediamo una cosa o una persona che non corrisponde alle nostre rappresentazioni… una società senza cartelloni pubblicitari, una persona che non saluta il suo vicino, un medico senza medicine (uno psicoanalista)…”18. Nel lavoro educativo, l’eccezionalità, la rottura di copioni o di schemi di azione e pensiero, la violazione della canonicità, sembrano essere all’ordine del giorno. La condizione di disagio che i ragazzi seguiti dagli educatori domiciliari vivono, porta ad un possibile aumento di momenti e situazioni in cui appare necessario e ine17 G. Mantovani, Comunicazione e identità, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 86. 18 S. Moscovici cit. da M. Hewstone, Rappresentazioni sociali e causalità, in D. Jodelet (a cura di), op. cit., p. 287. 39 vitabile mettere in opera quella ricostruzione di significati, quella ri-significazione del mondo e di sé che abbiamo visto essere la principale operazione mentale retrostante ogni produzione narrativa. Quando poi l’educatore si trova a confrontare il proprio vissuto e la propria azione con un supervisore o con i colleghi, all’interno del gruppo di lavoro, ecco che il materiale narrativo circa la propria esperienza assume anche la forma di una possibilità di confronto e dialogo. Si scopriranno allora, come in questo testo, diverse narrazioni, diversi generi narrativi, potremmo dire, che insieme determinano la cultura dl gruppo di lavoro degli educatori domiciliari. La narrazione quale apertura di uno spazio dialogico e d’interazione sociale Il percorso formativo realizzato si inscrive dopo un periodo di osservazione e di conoscenza del gruppo di lavoro degli educatori di Assistenza Domiciliare Educativa ai minori, che prestano il loro servizio presso la cooperativa Alce Nero di Mantova. L’intento formativo è volto alla creazione di uno “spazio ad hoc” e di momenti di confronto, in cui gli educatori possano riflettere ed interrogarsi sulla loro esperienza lavorativa; pertanto l’utilizzo dello strumento narrativo vuole agevolare un processo di consapevolezza e di comunicazione, riguardo al proprio modo di essere educatori, di fare esperienza e di sperimentare relazioni all’interno del contesto lavorativo e professionale degli educatori ADE. 40 L’idea del progetto di lavoro condotto trova giustificazione in un’equivalenza esemplificativa che associa la formazione culturale e professionale, nell’ambito socioeducativo, ad un’azione di apprendimento. Si tratta di apprendere uno stile e una cultura professionale e lavorativa, calandosi nell’esperienza diretta e valorizzandone i contesti e le situazioni operative. In questo senso l’apprendimento si realizza nel momento in cui il sapere teorico diventa uno strumento per leggere ed interpretare cosa succede nella realtà in cui si è inseriti; tale lettura dell’esperienza permette la costruzione di una rappresentazione sociale della realtà e dei suoi significati che vengono continuamente negoziati e non solo espressi, affinché ci sia la costruzione di un senso comune e condiviso attorno agli eventi. In tal modo il percorso intrapreso ha avuto il suo incipit dalla necessità di articolare una “formazione a pensare, per comprendere la specificità delle vicende organizzative in modo sistemico e razionale, ma anche autonomo e perciò creativo ed interpretante”19. Si tratta di un percorso volto ad una formazione ad interrogarsi e a confrontarsi per costruire un senso in modo interattivo, scontrandosi con una pluralità di prospettive e di “mondi possibili”. I presupposti teorici, già citati nelle precedenti sezioni del testo, sottolineano proprio come la storia e la narrazione costituisca uno schema interpretativo, per mezzo del quale le azioni e gli eventi vengono compresi e ac19 C. Kaneklin, G. Scaratti (a cura di), Formazione e Narrazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998. 41 quisiscono un significato simbolico che può essere condiviso e trasmesso. Attraverso la narrazione i contenuti delle proprie esperienze, intesi come “percezione di qualcosa”, fantasie, sentimenti e valori diventano oggettivabili, comunicabili e dunque pensabili. Quindi la costruzione di storie vuole permettere non solo un recupero di vissuti personali, bensì, parallelamente, una loro ristrutturazione esterna rispetto agli eventi, agli attori ed alla scena, al contesto in cui sono collocati ed anche una ridefinizione ed una rielaborazione interna finalizzata alla costruzione di un “senso” rispetto ai medesimi. Inoltre la storia influenza il pensiero rispetto ai contenuti scritti o raccontati ed anche i sentimenti, in altre parole le modalità affettive con cui gli stessi fatti vengono rivissuti e, non da ultimo, la costruzione della rappresentazione della realtà sociale. La costruzione di storie e dunque la narrazione della propria esperienza stimolano il cambiamento. Infatti la storia va oltre ciò che accade in quanto implica ciò che potrebbe o dovrebbe accadere in rapporto alle coordinate spazio-temporali fissate. In questo senso la storia apre a nuovi modelli e comprensioni in cui diventa possibile “dar voce e parola” alle situazioni, agli eventi secondo una temporalità, una spazialità ed una veridicità che è insita nella soggettività di chi parla e ascolta20. La possibilità di raccontare è, pertanto, strettamente collegata alla necessità di dare un ordine che consiste in quel che Musil sostiene nel poter dire “Dopo che fu 20 C.G. Cortese, L’organizzazione si racconta - cap. “Le storie organizzative”, Guerrini e Associati, Milano, 1999. 42 successo questo, accadde quest’altro”. Dare un ordine significa dare senso e voce alle cose, creare coerenza e comprensibilità rispetto alla propria esistenza. “Come uno dei pensieri apparentemente distaccati e astratti che così spesso nella sua vita acquistavano un valore immediato, gli venne in mente che la legge di questa vita cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: – Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro. – Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita, infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: “allorché”, “prima che” e “dopo che”! Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori.”21 Proprio in funzione di questa soggettività rispetto ad una mente che articola i significati attorno agli eventi in una storia da raccontare, bisogna tener presente che le modalità narrative sono plurime. Lo stesso testo narrativo viene influenzato dall’interazione tra narratore ed ascoltatore. Infatti quest’ultimo è impegnato non in un compito passivo, ma in un’opera di costruzione e ricostruzione narrativa rispetto a quanto ascoltato secondo i propri schemi interpretativi della realtà. Questo determina senz’altro un cambiamento nel testo di inizio proponendo prospettive differenti di organizzazione 21 R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957. 43 dei significati rispetto all’esperienza operativa e diretta di ciascun educatore. Il lavoro con gli educatori si è articolato in una serie di incontri periodici in cui, grazie all’ausilio di alcuni strumenti e stimoli (visivi e narrativi), facilitatori rispetto alla discussione di gruppo, il gruppo stesso si è visto impegnato nella tessitura delle maglie di un “contenitore”. Infatti l’incontro viene contestualizzato in uno spazio e in un tempo, nei quali risuona l’eco delle risposte emotive, delle difficoltà, della pesantezza e della sollecitudine della propria esperienza lavorativa. Prima ancora di creare storie di operatori ed utenti si è articolata la storia di questi educatori che, rispondendo ad un appuntamento formativo, con i loro atteggiamenti, i loro silenzi, la loro presenza si sono appropinquati a raccontare un po’ di sé e delle loro giornate. In questo percorso, quindi, il Gruppo è divenuto cornice e contenitore da sé, capace di assorbire i differenti vissuti di ognuno, costruendo un significato rispetto all’esperienza incontrata. Gli attori sulla scena sono stati, da una parte, la mancanza di fiducia, la ricerca di un equilibrio seppur risultante sempre precario e il bisogno di un sostegno e di uno sfogo, e, dall’altra parte, la paura e la perplessità rispetto ad un sentirsi attori protagonisti delle proprie storie e alla possibilità di “perdersi” e di “disperdersi” nell’incapacità di gestire i propri vissuti, una volta riaffiorati e galleggianti nelle parole dei propri racconti. Questi elementi lasciano trasparire il fatto che il Gruppo diventa allora “… il luogo della distanza e 44 della prossimità, del possesso e della perdita, della fedeltà e del tradimento, come luogo segreto dove si ha da fare i conti con l’altro, che, se lo si vuole realmente rispettare nella sua alterità e se ci si propone di cogliere il senso che vogliamo egli rappresenti per noi, quando entra in scena ha un aspetto terribile, inquietante, insopportabile”22. Infatti gli elementi sopracitati lasciano intravedere come l’Altro (e quindi una parte del gruppo rispetto al Tutto e ad ogni singolo altro) sia una presenza che spalanca le porte dell’insicurezza. L’Altro è prima di tutto una Distanza rispetto a ciò che non siamo. L’Altro è chi ci interroga e ci interpella con la sua presenza. La narratività di questo percorso ha come pilastri d’appoggio un sentirsi “Ospiti” nel momento in cui si parla di sé; un sentirsi “Ospitati” nel momento della condivisione e un sentirsi “Ospitanti” quando si accoglie l’altro. La storia di ciascuno, quindi, si è delineata in rapporto ad un sentimento di fiducia che ha permesso di “lasciarsi giocare” e quindi “scoprire” in una condizione di provvisorietà. La raccolta delle immagini, il resoconto, la verbalizzazione degli aspetti significativi dello stimolo presentato ha permesso di raccogliere tante piccole narrazioni, in cui ciascun educatore ha raccontato degli aspetti del proprio Sé lavorativo. Piccoli frammenti di storie che sono stati condivisi in gruppo, permettendo di liberare una parte della propria storia, costituitasi attorno all’essere in relazione con un minore ed una famiglia, in22 B. Vezzani, Gruppi e qualità, Unipress, Padova, 1998. 45 crociandosi con le loro credenze, i loro valori e creando ulteriori dinamiche semantiche e simboliche rispetto alla visione del proprio mondo. Il confronto spesso porta a discutere e rilancia la possibilità di una consapevolezza di aspetti latenti che cominciano ad esistere nel momento in cui sono verbalizzati, non solo enunciati, ma posti sotto un confronto e un vaglio critico. La discussione in gruppo su tali aspetti ha permesso alla persona di esporsi e di chiarirsi, nonché di argomentarsi, cercando un nome alle proprie caratteristiche, ai propri Sé. In tal modo i racconti rilevano come la problematicità di definire se stessi, la propria operatività, il proprio essere educatori sia proprio collegata all’assunzione di ruoli molteplici, a seconda della scena calata nel contesto relazionale in cui si agisce. Questa provvisorietà di definizione rispetto a se stessi favorisce la nascita di una pluralità di volti che emergono dai vari contesti e che sono tutti componenti la personalità di ognuno. Forse si può rischiare di chiamarli maschere e riprendere le parole di Goffman23 a riguardo di una vita quotidiana, in cui le persone recitano come su di un palcoscenico e a seconda della scena riportata ciascuno sceglie la propria parte, il “soggetto” che calza meglio. Infatti ci si può sentire intrisi di finzione: gli educatori nel loro lavoro spesso si sentono “finti”, in altre 23 E. Goffmann, The presentation of Self in Everyday Life, New York, Garden City, Doubleday 1959 (tr. it. di Ciacci Margherita, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969). 46 parole sono come degli attori che popolano un contesto così poco strutturato nelle sue coordinate spazio-temporali, così imprevedibile nella rete relazionale e sociale in cui ci si muove. Le dinamiche d’azione in cui l’educatore si aggira fan sì che esso si senta così “diverso” da come si è sempre abitudinalmente sentito e si trovi a comportarsi in maniera, egli dice, “così innaturale” e poco consona ad uno stile comportamentale ed emotivo, intessuto fino a quel momento. Queste tematiche offrono motivo di discussione inesauribile attorno al concetto di ruolo assunto e a quanto l’idea di cosa si fa e di come si agisce in un contesto relazionale incida sull’idea di sé e sul concetto di identità. Chi sono io? Chi è l’educatore? È forse l’immagine o l’idea che nasce dal doversi mostrare agli altri offrendo un rendiconto di chi si è e di cosa si fa? O forse la rappresentazione di Sé, il proprio “Io Sono” è creato non dalle azioni, ma da un’autonarrazione sulle medesime? E se così è, allora, l’Io si definisce in base a quanto racconta di aver fatto in certi scenari, in un certo modo e per determinate ragioni. Dunque un altro elemento diventa importante e cioè la narrazione di una realtà in cui l’Io si relaziona sempre con un Altro da sé che gli rimanda una propria “fotografia” della realtà che può colludere con la propria o con la quale si può essere disponibili a negoziare. 47 Io e l’Altro: Attori sulla scena educativa Il lavoro educativo e del “prendersi cura” è strettamente delineato da un’intersezione di rapporti interpersonali di incontro e scontro nel quale i due interlocutori comunicano esponendo delle parti di Sé e del proprio mondo esperienziale. Il saper fare e il saper essere s’inscrivono in una dinamica relazionale in cui le categorie di utente, da una parte, ed operatore/educatore, dall’altra, appartengono ad una logica deterministica e lineare e pertanto devono essere annullate; in questo modo i soggetti divengono protagonisti vivi con delle storie da raccontare ed ascoltare. L’incontro di queste storie fa emergere un senso condiviso attorno alle situazioni, alle esperienze e alle azioni dettandone la comprensione. Il senso è creato non da una realtà esterna che viene modellata inducendo una volontà di cambiare contesti e persone, bensì dal trovare un significato dentro la medesima realtà di vita nella quale i soggetti interagenti fanno parte. Per questo è importante accettare di entrare e stare a contatto con le storie altrui, riconoscendosi parte di una storia condivisa, accettando di cambiare le proprie prospettive e riconoscendo i propri limiti. La realtà assume dei mutamenti nel momento in cui la si può guardare secondo prospettive differenti, magari assumendo i punti di riferimento e “gli occhi” di un Altro che ci sta a fianco e che costruirà i propri significati e le proprie rappresentazioni del mondo in modo differente dal nostro e sarà portatore di una storia diversa appartenente ad altri contesti ancora da esplorare. 48 L’incontro con quest’Altro induce senz’altro dei cambiamenti nella propria persona e la narrazione che ciascuno può costruire è duplice: l’una relativa la propria storia personale e l’altra prodotta dalla trasformazione di sè, includente le dinamiche relazionali, i sentimenti, le pluralità di prospettive. Questa seconda narrazione presuppone un passaggio simbolico. Infatti si parte da sé stessi e dal proprio mondo individualistico ed introspettivo per allontanarvisi in un secondo momento, decentrandosi. L’agire riceve significato nel contesto e nelle relazioni, in uno spazio di incontro in cui apprendere delle parti nuove di sé che si ridefiniscono nei gesti, nelle conversazioni e negli scambi con l’Altro in un incrocio di storie e in un interscambio di somiglianze e di diversità. Infatti l’ascolto dell’Altro richiede un lavoro su di sé, riguardo le proprie inquietudini e i propri desideri, le proprie contraddizioni e insoddisfazioni. In questo senso dunque la possibilità di creare una dimensione narrativa ovvero un’attitudine mentale prima che uno spazio fisico e una tecnica di lavoro, rappresenta soprattutto per l’educatore la possibilità di riflettere e di ripescare dalla memoria delle situazioni, degli eventi che vengono rielaborati e attorno ai quali vengono negoziati dei nuovi significati in relazione al contesto. I ricordi associati tra di loro danno luogo a delle rappresentazioni del mondo in cui eventi, fatti e persone ricevono una collocazione in uno spazio e in un tempo, intessendo una trama di significati, in cui i fatti sono concatenati in un rapporto di verosimiglianza e non di 49 verità, in cui il soggetto accetta quanto accade ricercando delle connessioni e delle coerenze per lui plausibili. Il paradosso nelle narrazioni raccolte24 Le conversazioni che si intessono tra i membri di questo gruppo, oltre che essere costituite da metafore e immagini traslate, che segnano il passaggio da un piano linguistico – verbale a quello immaginativo – creativo, sono ricche di quelle affermazioni antinomiche che insieme sono incompatibili che definiscono i paradossi. Inoltre la spinta di ciascun educatore è quella di risolvere questi paradossi, in quanto violano i canoni logici del ragionamento e smantellano quell’ordine mentale precostituito che ognuno di noi applica alla sua condotta quotidiana. I paradossi, infatti, intaccano non l’ontologia dei fatti, delle persone, degli oggetti in questione, bensì l’organizzazione dei significati attorno ad essi. Tuttavia sono proprio queste contraddizioni che costringono gli individui ad essere sempre in moto e alla ricerca di un senso e dunque che li rendono consapevoli del fatto che non esiste un’unica e sola prospettiva, ma una pluralità di “lenti” con cui è possibile guardare alla propria realtà di vita. 24 Riferimento alla trattazione sul paradosso in L.Bianchera, B.Vezzani (a cura di), “I sentieri della qualità”, sezione Glossario e cap.1 “In gioco con il linguaggio”, Unipress, Padova, 2000. 50 Si tratta di individuare allora qual è il punto di vista, consapevoli di una scelta relativistica in cui si pone l’attenzione su una parte rispetto al tutto; in questo modo non si costruisce una rete di categorie e concetti antinomici, in contraddizione e non ci si imbatte dunque in quella che è la conseguenza immediata del tentativo di risolvere il paradosso, imponendo i nostri canoni logici. Invece viene richiesto di “starci” e di “giocare” all’interno di una maglia in cui i concetti e i significati sono presenti simultaneamente e sono in una relazione dialogica, in cui a volte possono collocarsi agli antipodi. Si tratta dunque di una polifonia di voci e di significati che vanno negoziati e non assolutizzati, affinché ci possano essere le basi di una condivisione a livello sociale25. Gli esempi di paradossi costruiti all’interno della discussione di gruppo hanno permesso proprio di esplicitare le considerazioni sopracitate. Infatti gli educatori sono arrivati alla conclusione che è meglio cercare di uscire e di sospendere di capire con l’uso della razionalità, la realtà narrativa dell’Altro. Il principio di non contraddizione li ha posti dinanzi a dilemmi forse irrisolvibili, in cui gli stessi educatori si sono trovati in difficoltà nell’intento di contenere la propria condotta entro le categorie del “Ho fatto bene” / “Ho agito male”; “È giusto” / “È sbagliato”. 25 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione - cap. “Materiale paradossale”, Edizioni di Comunità, Torino, 2000. 51 Probabilmente questi non sono altro che tentativi di difesa e di rassicurazione che permettono di inquadrare solo la propria realtà, ma non quella dell’Altro. Inoltre sono presenti vissuti emotivi differenti e incompatibili negli educatori come la paura di agire, l’insicurezza, il desiderio di scappare e tornare indietro da una parte e dall’altra la spinta a rischiare, a mettersi in gioco, la sicurezza: questi sono tutti elementi coesistenti, in relazione ai quali gli educatori si trovano a fronteggiare quotidianamente. Spesso il lavoro educativo, soprattutto in particolari situazioni familiari a rischio, impone la convivenza con stati emotivi ambivalenti, quali la sensazione di impotenza e l’impossibilità di azione e di risoluzione da un lato e il forte desiderio di agire, avvertendo la necessità di intervento immediato, dall’altro. Si tratta nuovamente di imparare a “stare” in campo accettando questa immobilità e questa dinamicità come protagoniste che si muovono sulla stessa scena, ognuna con una propria parte. Inoltre non è da trascurare il fatto che si delinei il possibile rischio, insito nel lavoro educativo, di diventare “prigionieri dell’incredibile”: si tratta di questa interconnessione di punti di vista, escludentesi reciprocamente, che fronteggia con l’incapacità di accettarne un dinamico continuum e rende l’educatore prigioniero di una situazione che non è spiegabile verbalmente. In questo senso spesso l’educatore è protagonista di una profonda crisi d’identità, in cui non si riconosce e anzi si definisce “finto”, inadeguato, professionalmente debole. La comprensione di atteggiamenti ambivalenti del minore non può risolversi nel tentativo di destrutturare le 52 situazioni, scindendone i tempi e luoghi dell’azione o drammatizzandone le scene, ma nella capacità di abbandonare momentaneamente una parte di Sé e di decentrarsi al fine di incontrare l’Altro, fondendosi nella costellazione di quei significati, con cui l’Altro stesso ha costruito la sua esperienza nel mondo e, allo stesso modo, rendendosi capace, al momento opportuno, di prenderne le distanze. Il fatto di perdere un po’ di Sé per incontrare l’Altro e comunicare sottolinea un’intrinseca disponibilità al cambiamento, escludendo la tendenza ad irrigidirsi su opinioni già predefinite e confermando, invece, una tendenza alla negoziazione e condivisione di un punto di comunanza. Il lavoro degli educatori è stato definito dagli stessi come un viaggio di vita in cui è possibile tracciare una mappa di percorso che rifletterà il contesto e la cornice in cui azioni, messaggi, eventi, protagonisti trovano un valore e un significato. La metafora del viaggio racchiude in sé le caratteristiche di un mistero, di un enigma proprie del fatto che la professione dell’educatore è in costante divenire. Tale evoluzione continua è anche il segno di una precarietà e di una costrizione alla mancanza di totale controllo sulle situazioni e di una loro prevedibilità. Analisi trasversale delle storie: il punto di vista collettivo La raccolta delle storie ha preso le sue mosse dall’intento di osservare anche il tipo di storia e di trama che 53 ciascun educatore ha costruito. Il passo successivo si è articolato in un confronto tra le narrazioni al fine di delineare un quadro globale nel quale esprimere quelle possibili rappresentazioni comuni, mediate da un consenso collettivo, che gli educatori hanno costruito relativamente a particolari momenti della loro storia professionale passata, presente e futura. In questo modo si attua un passaggio da un piano di considerazione individuale degli elementi ad un piano collettivo, di gruppo che si costruisce in relazione a quei significati che ciascun educatore negozia all’interno del gruppo. In tal senso l’immagine dell’educatore che emerge deriva dalla rappresentazione di ogni singolo, in relazione all’organizzazione di cui fa parte. Inoltre ciascuno offre i resoconti rispetto alle proprie azioni e alla propria cultura. Il fatto di considerarli insieme, come piccoli tasselli di un puzzle, è finalizzato a costruire un’immagine non di una cultura individuale del fare/essere educatori, ma di uno stile, di una struttura lavorativa omogenea che trova i suoi confini e definizioni in relazione agli scenari contestuali di significato dell’organizzazione stessa. Quindi è possibile fare un passo avanti e pensare all’organizzazione non solo in riferimento ad un gruppo sociale, o a persone, bensì in relazione ad attività, cioè a “reti di azione collettive” (Czarniawska-Joerges) che vengono costruite nel momento in cui si attribuisce ad esse un significato. Tale nucleo semantico nasce proprio all’interno delle conversazioni tra le persone, quindi in una pluralità di voci e di punti di 54 vista soggettivi continuamente negoziati e discussi26. Da questo punto di vista ciascuna rete d’azione è sempre situata in un campo organizzativo, ovvero in un determinato contesto; in questo senso “il fare” dell’educatore trova i suoi nessi semantici in relazione ad un ambito preciso che è quello educativo-domiciliare. Inoltre interviene un’ulteriore variabile definitoria che indirizza la tipologia di costruzione dei significati che è l’ambito della cooperativa che gestisce il servizio educativo-domiciliare. Allora accade che le reti d’azione si complicano e incorporano una cultura e uno stile dinamico che è proprio e particolare di quei contesti interattivi e dei vari scenari in cui l’educatore interagisce e delle relazioni che intesse, che inevitabilmente si influenzano a vicenda. Ecco dunque che la rappresentazione dell’educatore del proprio mondo lavorativo conterrà proprio questi confini e dipenderà dalla sua capacità di integrazione degli elementi diversificanti degli scenari accanto all’assunzione di quelli che invece sono costruiti come linee comuni, principi condivisi. La valenza delle narrazioni Le parole che popolano i racconti degli educatori ci permettono di riflettere sui contenuti di questi testi, rilevandone la complessità dell’agire educativo e dell’intes26 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione - cap. “Drammi e autobiografie nel contesto organizzativo”- p. 60, Edizioni di Comunità, Torino, 2000. 55 sere relazioni, difficili o a volte impossibili, in quanto le persone sono intrise di eccessiva sofferenza, di solitudine, di insoddisfacente consapevolezza del proprio stato di disagio e, non meno importante, il fatto che altrettanto complicato è il mettersi in gioco per provare a credere nello stesso intervento educativo. Oltre a questi aspetti semantici e di organizzazione “grammaticale” delle proprie visioni dell’esperienza educativa, le stesse narrazioni contengono in sé una serie di valori che qui sotto sono elencati secondo opportune dimensioni di significato27. 1. STORIE COME ELEMENTI DI CULTURA ORGANIZZATIVA: le storie divengono espressione di un sistema condiviso di credenze, principi e valori comprendente regole e soluzioni create dall’interazione sociale delle persone. In questo senso le narrazioni trasmettono delle norme di condotta interpersonale oltre che un insieme di simboli condivisi, di miti, di ideologie e di valori. 2. STORIE COME ESPRESSIONE DI DESIDERI E DI VISSUTI INCONSAPEVOLI: si tratta di un’esplicitazione, attraverso una dimensione simbolica e metaforica, di quegli aspetti personali che altrimenti non emergerebbero. La narrazione in questo caso offre uno “spazio poetico” in cui la fantasia 27 L’analisi proposta rispetto alla valenza delle storie si è articolata gra- zie all’approfondimento e all’applicazione dello studio condotto da Claudio G. Cortese in merito all’argomento, ben delineato nel testo di Claudio G. Cortese “L’organizzazione si racconta”, cap. 2 - Le storie organizzative, Guerrini e Associati, Milano, 1999. 56 prevale sulla realtà. In questo caso è interessante notare come si delinea una mappa affettiva ed emotiva, che si esprime proprio attraverso un’attenta analisi testuale dei contenuti e sul piano linguistico e formale con l’uso di figure retoriche, similitudini, metafore… Si possono distinguere dunque quattro tipi di bisogni espressi nelle narrazioni: • Utilizzo della creatività, immaginazione e fantasia in un contesto che normalmente inibisce queste qualità. • Manifestazione dell’affettività, delle emozioni e dei sentimenti che possono essere talvolta negati, repressi e rimossi. • Espressione di desideri che non si avrebbe il coraggio di esternare. • Umanizzazione delle relazioni interpersonali e una ricerca di contatto. 3. LE STORIE COME ESPRESSIONE DI CONFLITTI: le narrazioni, in genere, fanno riferimento a un caso-problema significativo con situazioni complicate ed ingarbugliate che s’intrecciano nella trama assieme ai relativi tentativi di risoluzione. 4. LE STORIE PERMETTONO DI ORGANIZZARE L’ESPERIENZA offrendo la possibilità di rielaborarla, creando un senso e un ordine attorno agli eventi e ai ricordi. Inoltre il recupero e l’espressione dei vissuti personali, la rielaborazione dell’esperienza e il sostegno ad un apprendimento dalla stessa stimola nell’individuo la possibilità di un cambiamento. I racconti offrono ciò che accade ed 57 è accaduto per implicare ciò che potrebbe accadere. In questo modo si strutturano desideri, aspirazioni proiettati in un futuro che influenzano la rappresentazione della realtà e del contesto in cui si è inseriti. La riflessione sulla valenza dei racconti degli educatori si articola secondo quella necessità di occuparsi delle “storie” perché diventano una lente ed una chiave di lettura e di comprensione rispetto a “porzioni di mondo” complesse, quale è la sfera lavorativa soprattutto in ambito socioeducativo, dove la “coniugazione della realtà al congiuntivo”28 permette una maggiore comprensione, senza che i vissuti della propria esperienza vengano imbrigliati in categorie di senso troppo ristrette, riducendone la prospettiva entro confini limitati e troppo “logici” per essere contenenti una realtà a volte “incredibile” e rasente l’inspiegabile. La pluralità di mondi possibili e quindi di ulteriori chiavi di lettura diventa comunque un tentativo di cogliere ed attribuire significato agli eventi e all’esperienza vissuta, pur consapevoli di aver costruito una possibile rappresentazione della realtà, comunque limitata rispetto all’organizzazione e strutturazione che si articola nelle nostre storie29. In fondo questa limita- 28 J. Bruner, Actual minds, possible worlds, Harvard University Press, Cambridge - London, 1986 (tr. it. La mente a più dimensioni, Laterza, Bari, 1988). 29 N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari, 1988. 58 tezza, rispetto ad un mondo imprendibile nella sua globalità e complessità, è in relazione comunque alla necessità di dover colmare un vuoto, attribuendo un senso e costruendo rappresentazioni di “porzioni di mondo” che diventano in questo modo accessibili, in una qualche forma. In fondo, come già il noto Wittgenstein aveva sottolineato, i limiti rispetto a ciò che posso esprimere con il mio linguaggio sono un po’ i confini del mio stesso mondo. 59 Capitolo 4 LE RIFLESSIONI DEGLI EDUCATORI Premessa È particolarmente stimolante, come coordinatrice dell’Area Educativa Domiciliare, presentare questo capitolo perché lascia trasparire tra le righe quella che oserei definire “ l’anima professionale” di alcuni Educatori della Cooperativa Sociale Alce Nero. È un lavoro a più mani, organizzato in schede, caratterizzato da stili diversi che lasciano libera espressione ad alcuni operatori, portavoce di riflessioni su problematiche professionali condivise e ritenute di interesse generale. Accennerò in modo essenziale alle varie parti per non influenzare i lettori, padroni di scegliere le proprie chiavi di lettura. La prima scheda tratta dell’importanza del nostro gruppo, del significato della sua esistenza, del segno che lascia in Cooperativa e sul territorio, dell’incidenza del suo impegno per garantire alla Comunità interventi educativi di qualità. La seconda scheda è un approccio poetico alle implicanze valoriali inerenti l’identità professionale dell’educatore. La terza scheda indica una proposta molto particolare 61 e personalizzabile d’approccio ad un tema di notevole spessore quale la motivazione al lavoro educativo. La quarta scheda sottolinea la complessità della professione domiciliare educativa, evidenziandone gli aspetti problematici accanto a quelli gratificanti per gli operatori. La quinta scheda presenta uno spaccato del quadro sociale entro il quale l’educatore domiciliare, membro di una Cooperativa Sociale, tenta di ritagliarsi la propria collocazione professionale, di muoversi nel sistema nelle vesti di “Ambasciatore” di valori, d’informazioni e di mediatore di processi relazionali tra le parti. In riferimento al tesoro nascosto dell’ultima scheda preferirei limitarmi ad invitare gentilmente i lettori ad una personale scoperta. 62 PRIMA SCHEDA L’ importanza del gruppo degli educatori domiciliari della Cooperativa Alce Nero nell’ottica del lavoro educativo di qualità L’importanza del gruppo si esprime principalmente nel permettere ad ogni educatore che ne è membro, di sperimentare un “ senso d’appartenenza” al sistema sociale nonostante la mancanza di setting operativi specifici e la non sempre facile ed immediata collocazione professionale nella realtà lavorativa. L’esistenza di tale gruppo costituisce una possibilità d’incontro degli educatori in Cooperativa, per confrontarsi costantemente, per approfondire la reciproca conoscenza, per trovare sollievo al carico di “solitudine” dovuto ad un’operatività frenetica e spesso vincolata all’emergenza. Ritrovarsi almeno una volta al mese con colleghi che svolgono mansioni simili alle proprie, ci aiuta a sdrammatizzare la complessità dello scenario su cui siamo chiamati ad intervenire, ad evitare di perdere la dimensione del senso di ciò che facciamo e a mantenere salda la consapevolezza delle nostre azioni. La partecipazione al gruppo assume un significato formativo che è volto alla valorizzazione e al potenziamento delle varie risorse umane, alla creazione di cultura di gruppo e alla tutela della qualità del lavoro educativo. 63 Nel gruppo riflettiamo sulla direzione da conferire al futuro professionale attraverso intenzioni ed aspirazioni comuni, sulla nostra specificità e peculiarità nel settore sociale e nell’ambiente nel quale operiamo. Siamo tenuti ad una forte assunzione di responsabilità nel gruppo in quanto siamo chiamati a leggere svariati bisogni, al fine di favorire l’espressione di sinergie utili alla Cooperativa e al territorio dove esplichiamo gli interventi educativi. Per il tratto di percorso che ci compete ci possiamo identificare come “portatori di differenze nell’ambiente”, per le fatiche che ci dedichiamo e per i valori del gruppo che vi proiettiamo. Ci addentriamo nella ricerca di “senso” tra il nostro gruppo e la cultura, le tradizioni della comunità con cui siamo in contatto. Cerchiamo di procedere mantenendo le nostre consapevolezze per esprimere la nostra individualità, ma sempre nel rispetto delle figure professionali e dei diversi portatori d’interesse che incontriamo nel Sistema Sociale che ci si presenta in continuità tra una sorta di equilibri sottili tipici della rete. È il tentativo di comunicare all’esterno la nostra “scelta a cooperare”, per non chiuderci nelle nostre pratiche in modo ripetitivo, ma per rivedere i nostri pregiudizi ed essere più critici verso noi stessi. È il nostro contributo alla condivisione di direzioni ed obiettivi di lavoro di comunità , con lo scopo di essere più sensibili rispetto alle esigenze del territorio. L’impegno del gruppo è sintesi di voci diverse della Cooperativa che per mantenersi vive necessitano di 64 essere costantemente ascoltate e considerate, dato che le persone tendono al benessere e alla gratificazione nell’ambiente di lavoro. È doveroso garantire attenzione e cura a tale richiesta nell’ottica della salvaguardia della qualità del lavoro educativo nel quale gli orizzonti non possono essere raggiunti definitivamente, ma ad ogni nuovo passo traslano verso rinnovate condivisioni e mediazioni d’interessi sociali. 65 SECONDA SCHEDA Identità professionale - lavorare sulle nuvole PAROLE CHIAVE RICERCA CREATIVITÀ INCERTEZZA ELABORARE AZIONI-PROGETTARE COMPLESSITÀ RISPOSTE DIFFERENZIATE ELASTICITÀ INTENSITÀ EMOTIVA BAGAGLIO VALORIALE Filastrocca Introduzione Questo è uno dei tanti approdi possibili nel grande mare della nostra esperienza lavorativa. Oggi le nuvole possono essere scure, ma domani possono sembrarci candide e luminose. 66 Come in una filastrocca Che ti scappa dalla bocca Io mi sento sgangherata Con la voce un po’ stonata. Se ci metti fantasia Gioco, estro e cortesia Può sembrarti una certezza Anche un mare di incertezza. Se la via tu vuoi tracciare Per non perderti nel mare Scrivi le tue indicazioni Non scordarti le emozioni. Se in un punto vuoi arrivare Anche indietro puoi tornare Un po’ indietro un po’ avanti Fra grandi nani e piccoli giganti. Non scordarti la tua stella Che ti è amica e sorella E se non arrivi mai Da quel punto ripartirai. 67 TERZA SCHEDA La motivazione al lavoro educativo domiciliare PAROLE CHIAVE INTORNO ALLA MOTIVAZIONE DELL’EDUCATORE MOTIVAZIONE TEMPO DI LAVORO ASPETTATIVE CONTENUTI DEL RUOLO AZIONE SOCIALE VALORI BURN OUT TEMPO DI VITA INVESTIMENTO EMOTIVO SAPER ESSERE COMPETENZA (SAPER FARE) PRINCIPI E CONOSCENZE => STILE RELAZIONALE Il motivone È una chiave un po’ insolita, ma non intende sminuire l’importanza dell’argomento. Sposta solo l’attenzione da parole cariche e ridondanti alla quotidianità più concreta e semplice, ma che non deve sfuggire alla riflessione Ogni casella ti indica una traccia… Seguendo la tua esperienza cerca di trovare alcune risposte. Divertiti poi a spostare le caselle seguendo la tua logica… Riparti e rimotivati! 68 Contenuti del ruolo Saper essere Formazione + motivazione Identificazione e separatezza Attori e testimoni di un percorso Competenza Azione sociale Costruire risposte e aspettative Motivazioni Burn Out Tempo di vita Soggetto seguito Tempo di lavoro Educatore Saper fare Strumenti Conoscenze Formazione in itinere Attori e testimoni di un percorso Non bastano da soli a sorreggere la professionalità Stile relazionale 69 QUARTA SCHEDA Imprenditorialità e carichi di responsabilità. Aspetti lavorativi stimolanti e fatiche psicologiche nell’educativa domiciliare L’educatore domiciliare nella propria realtà lavorativa si trova a vivere quotidianamente situazioni ad alto contenuto emotivo. Innanzitutto l’inserimento nel nucleo familiare, che lo pone privo di difese di fronte alla duplice possibilità dell’accettazione o del rifiuto; l’eventualità di vivere un rapporto difficile con l’utenza e le rispettive famiglie, tanto da dover negoziare le scelte prese per il minore, poiché spesso contrarie alle linee educative dei genitori; situazioni aggravate dalla presenza di problematiche psichiatriche, che richiedono all’educatore un sovraccarico di mansioni e ruoli, per la necessità di effettuare un intervento di contenimento non solo verso il minore, ma anche verso l’intero nucleo familiare, che va sostenuto. Si può perciò affermare che tale professione si caratterizza per una forte componente psicologica, che si manifesta in una duplicità di aspetti, gli uni problematici, gli altri costruttivi. Tra i primi spicca il senso di solitudine, provato sul campo dall’educatore ogni qualvolta cerca di costruire dei legami con il minore, o con il suo nucleo familiare, da solo, senza poter con70 tare sull’apporto di tecnici esterni alla famiglia, ma coadiuvanti i casi. È forte il senso di debolezza dell’educatore nel momento in cui, privo di un sostegno efficace, si trova a dover superare situazioni di emergenza. Tale aspetto si mostra però anche in positivo nel senso di autonomia che l’educatore vive nella libera scelta della propria metodologia educativa, individualizzata sul minore, generata dall’intimo rapporto che con lui si è costruito. L’autonomia, come senso di libertà ed imprenditorialità è un aspetto fondamentale di tale professione, poiché permette all’educatore di sostenere con maggior slancio la multiproblematicità dei casi da seguire, di superare la difficoltà di doversi muovere a tentoni senza avere riscontri immediati e l’insicurezza per la mancanza di setting lavorativo, data l’impossibilità di definire le linee precise del suo agire, il contesto e le dinamiche relazionali. Tale slancio si manifesta nell’educatore come motivazione a proseguire nella propria attività, ancorandosi ad una realtà ricca di sentimento, di passione e di espansione relazionale. 71 QUINTA SCHEDA La collocazione professionale dell’Educatore domiciliare, membro di una cooperativa sociale e mediatore-filtro tra i Servizi, le famiglie e il territorio Nel contesto quotidiano non è facile “collocarsi professionalmente” per un operatore sociale come l’Educatore domiciliare per di più membro di una cooperativa sociale. La scelta di far parte di una cooperativa sociale porta ad evidenziare una motivazione personale cooperativistica che incide sull’operatività e che si proietta sulla territorialità. Il fatto di recarsi a domicilio dell’utente e non viceversa consente di operare nell’ ambiente in cui il soggetto esplicita i suoi bisogni ed instaura in maniera privilegiata le sue relazioni affettive, con la possibilità di osservare costantemente le dinamiche relazionali dei vari quadri familiari, senza però disporre di una fissa “collocazione professionale” in un proprio setting operativo. Nella sua metaforica “corsa automobilistica” dalla cooperativa d’appartenenza, ai referenti degli Enti di competenza dei propri casi, alle famiglie seguite, l’Educatore si fa “Ambasciatore” nel senso di portatore e divulgatore di valori personali e cooperativistici, ossia non si limita ad essere soltanto tramite d’informazioni 72 o facilitatore di processi comunicativi, ma diviene promotore di un’ “immagine lavorativa specifica” che è destinata a spaziare dalla territorialità circostante come espressione di sé, della cooperativa e di un impegno qualitativo univoco. Nella sua attività di mediazione l’Educatore può sbloccare realtà multiproblematiche, proprio perché vede i casi nella loro vera luce senza correre il rischio di limitarsi ad incasellarli e protocollarli. Ha l’opportunità di valorizzare ciò che già c’è, ma che non è ancora emerso e può concorrere alla costruzione di ciò che non c’è, ma che potrebbe essere utile. Naturalmente l’Ambasciatore ha bisogno di trovare sinergie rispondenti al suo operato, occorre “terreno fertile” e questo può accadere più di quanto si creda sul nostro territorio, anche quando le mediazioni sembrano inizialmente “assurde”, indesiderabili, ma si rivelano alla fine importanti. Tuttavia è bene ricordare l’esistenza di “confini” da rispettare, altrimenti si corre il rischio di non mediare ma di strafare, investendo troppo e male, invischiandosi e perdendo lucidità intorno alla chiarezza di ruoli e di competenze professionali. Ci troviamo infatti a “cavallo” di vari Servizi, immischiati in situazioni intrecciate, sempre impegnati a mediare tempi, orari, spazi, con i nostri interlocutori. È fondamentale soffermarsi a riflettere in tal senso, per non lasciarsi fuorviare da un puro discorso di manovalanza e per non farsi sfuggire la possibile creazione di legami lavorativi carichi di valenza simbolica e innescatori di occasioni formative. 73 È per questo che nell’attività di mediazione è essenziale il senso dell’”ascolto”: concedere e condividere spazi, stare in silenzio, accogliere e restituire. Si assume un atteggiamento esplorativo rispetto alla realtà circostante fino ad osservare le evidenze come cose che tendono a ripetersi. Il lavoro di mediazione acquista così un sapore di sfida dato che ci si trova ad operare in situazioni compromesse e nelle quali si è spesso obbligati a procedere attraverso i limiti incontrati, contenendo e gestendo le dissimetrie. 74 SESTA SCHEDA Il tesoro nascosto Giovedì 15 novembre 2001. Giornata di abbracci, di occhi lucidi e di voci tremolanti. Giornata di volti e sguardi che si serberanno per sempre nel cuore. Oggi è stato l’ultimo giorno in cui ho incontrato Giovanna, il giorno in cui si chiude un “faldone” e lo si pone con cura nella “Biblioteca dei ricordi”. Questa è una di quelle giornate in cui ti ritrovi a sfogliare lentamente il libro della vita, per assaporarne quiete e tempeste, gustandone i sorrisi e ponderandone gli insuccessi. Come in album di fotografie, fotogramma dopo fotogramma, mi scorrono davanti agli occhi tutti i vissuti con Giovanna, ma ciò che riaffiora con maggior assiduità sono gli abbracci avvolgenti, le confidenze sommesse, le lacrime affidate, gli sguardi complici; un oceano di sentimenti che come le onde s’infrange sul litorale, consegnando nuovi riflessi e sembianze alla battigia. Così mi sento: come la costa che pur nella sua attività di contenimento si lascia ogni giorno lentamente modellare e trasformare da questo mare che nei suoi abissi di disagio nasconde tesori preziosi che attendono da sempre di essere depositati sulla spiaggia. 75 Difficile diventa allora celare l’intreccio delicato ma intimo e forte che mi lega al minore, intreccio che mi restituisce il significato più vero e profondo di professionalità, svelando dietro l’asettica denominazione di “utente” un volto, una voce, un nome che non è più uguale a centomila altri nomi ma che diventa “unico al mondo”. E ogni volta, alla fine, mi trovo con meraviglia a scoprirmi più feconda, grazie a quel nuovo seme d’amore, posato nel terreno del mio cuore da questi piccoli; così che in questa “reciprocità del donarsi” i legami creati, i sentimenti vissuti, diventano quel tesoro nascosto ma prezioso che nonostante le sofferenze e gli insuccessi, mi fa amare questo lavoro e mi dà la forza per risceglierlo ogni giorno. 76 Capitolo 5 PROPOSTE PER UN SERVIZIO DI QUALITÀ27 Premessa Il servizio di Assistenza Domiciliare Educativa per Minori (d’ora in poi ADM) è una forma di intervento sociale estremamente aperta e flessibile che non presenta un setting definito, ma che fonda la propria struttura nella relazione tra i soggetti coinvolti: operatori sociali (assistente sociale, figure professionali specialistiche, educatore), minori, famiglia allargata... La caratteristica della flessibilità, tuttavia, porta con sé una certa ambiguità e indefinizione che rendono il lavoro dell’educatore domiciliare particolarmente impegnativo e arduo; peraltro duttilità, flessibilità e indefinizione sono insite in un lavoro che deve rispondere ai rapidi mutamenti evolutivi e sociali con sempre nuove strategie di intervento. Il presente capitolo intende fare sintesi delle esperienze che la cooperativa Alce Nero ha compiuto in questi 27 Il presente capitolo è frutto oltre che dell’esperienza della cooperativa Alce Nero di Mantova anche delle riflessioni del Consorzio Sol.Co. Bergamo e della cooperativa Archè di Castelgoffredo che ringraziamo per il contributo offerto. 77 ultimi quindici anni di gestione di servizi ADM nella provincia di Mantova sottolineando alcune importanti caratteristiche che riteniamo irrinunciabili. Queste riflessioni sono anche frutto del confronto con le cooperative del settore So.F.I.A. Sol.Co. Famiglia Infanzia e Adolescenza del consorzio Sol.Co. Mantova, con il consorzio Sol.Co. Bergamo e con i contributi della letteratura specialistica28. Di fronte ad una ampia gamma di difficoltà e bisogni dei minori che esulano dal contesto di un normale cammino di crescita vi è la necessità di attivare supporti che da una parte abbiano la caratteristica della stabilità e continuità e dall’altra siano capaci di flessibilità. L’ADM sembra poter rispondere a queste caratteristiche: essa affronta il problema senza allontanare i minori dal loro contesto familiare; costruisce un progetto individualizzato e non standard; adatta tempi e programmi sulla base degli effettivi tempi di crescita e delle nuove situazioni che si presentano. Il termine “domiciliare” obbliga a considerare l’intervento con i destinatari in un’ottica particolare: è infatti l’operatore sociale che si reca al domicilio dell’utente e non viceversa. La scelta di questo particolare tipo di approccio nasce dal presupposto che il bisogno che il soggetto esprime rappresenta solo il sintomo di una situazione problematica che coinvol- 28 Indichiamo in nota la bibliografia essenziale. Regione Lombardia - Ufficio Minori, Il servizio di Assistenza Domiciliare ai minori ed alle loro famiglie, Milano, 1990; De Polis, Sandra, Doriani, Massimo, Assistenza domiciliare psicoeducativa ai minori, Bologna, 1990, voll. 2. 78 ge anche gli altri componenti della famiglia, nucleare e allargata. In questa prospettiva risulta quindi più opportuno intervenire proprio nei luoghi in cui il soggetto vive. L’operatore che si reca a domicilio avrà così la possibilità di osservare le dinamiche relazionali agite nel contesto familiare, di attivare le risorse e le potenzialità che i diversi soggetti coinvolti esprimono, di sostenere i soggetti più deboli favorendone lo sviluppo e la relazione. Destinatari dell’intervento e criteri per la selezione I destinatari dell’intervento ADM sono i minori e le famiglie a rischio di emarginazione. In particolare si ritiene che l’ADM possa essere utilizzata sulla fascia dei ragazzi tra i 4 e i 18 anni all’interno di nuclei famigliari che presentano situazioni conflittuali temporanee. In quanto la funzione dell’ADM è quella di concorrere a rendere progressivamente autosufficiente il nucleo famigliare e a ridurre il disagio del minore, si ritiene il servizio non adatto alle situazioni di disagio cronico. L’erogazione dell’intervento di ADM soggiace a criteri di selezione previsti di volta in volta dai regolamenti comunali o dalla carta dei servizi adottata oltre che alle valutazioni degli uffici competenti. Schematicamente le aree di disagio nelle quali è possibile intervenire in modo efficace con il servizio ADM sono individuabili in: • Difficoltà di relazione del minore con adulti e 79 coetanei quali ad esempio i problemi di rapporto all’interno della famiglia, con gli insegnanti, con i compagni. Si tratta di difficoltà che si esprimono con agiti di aggressività, con tendenza all’isolamento, con comportamenti trasgressivi. • Famiglie con minori nelle quali gli adulti hanno difficoltà ad esercitare il proprio ruolo genitoriale. • Situazioni famigliari con provvedimenti penali a carico del minore, come previsto dal D.P.R. 448/88. • Difficoltà del minore a conseguire risultati positivi nell’ambito del linguaggio, dell’apprendimento, dello sviluppo di interessi. • Famiglie monoparentali: per mancanza fisica (nuclei orfanili, carcerazioni, ospedalizzazione) psicologica (disagio psichico) di uno dei due genitori e nelle quali intercorrano per i minori condizioni di disagio educativo ed esistenziale. • Famiglie in condizioni di disagio sociale tale da implicare per il minore grave rischio di emarginazione o di devianza sociale. • Difficoltà del minore a raggiungere una vera autonomia non solo dal punto di vista puramente fisico ma più in particolare dal punto di vista affettivo ed emotivo, incapaci di una adeguata indipendenza e sicurezza di sé. • Presenza di handicap sensoriale, fisico e/o psichico. 80 Soggetto attivo e partecipe dell’intervento è la famiglia e non il solo minore in quanto la soluzione del problema non può essere proposta dall’esterno con un intervento a senso unico, ma si colloca in una prospettiva di cambiamento interno. Dunque un alto grado di coinvolgimento è una delle condizioni esplicite rivolte alla famiglia per l’avvio dell’intervento. Il Servizio di Assistenza Domiciliare educativa ai Minori: funzioni e caratteristiche operative Il servizio di Assistenza Domiciliare Minori è gestito da operatori qualificati, anche con diverse competenze professionali, che operano nel domicilio di un minore in difficoltà, curando parallelamente un programma di recupero e rafforzamento del nucleo genitoriale. La famiglia non è solo lo “spazio” in cui viene prestato sostegno al minore, ma anche un destinatario di quest’intervento. È indispensabile che la famiglia conosca il progetto di lavoro, che dia il consenso e, appena possibile, che sia fatta partecipe delle verifiche del servizio. Si tratta di un’esperienza d’aiuto e stimolo delle risorse potenziali presenti, lavorando “con” la famiglia, non semplicemente “su” la famiglia. Essendo peraltro, la famiglia un ambito estremamente complesso, dinamico e variabile, l’evoluzione del nucleo familiare e l’auspicato cambiamento della situazione di partenza è necessario che siano realizzate elaborando progetti mirati sulla singola situazione (evitando quindi interventi generalizzati), ed in grado 81 di modificarsi, nei contenuti e nei tempi, qualora si modifichino le condizioni entro cui la stessa situazione si realizza. Questa predisposizione dell’intervento domiciliare a modellarsi, porta in sé il rispetto dei ritmi, dei rituali e dei valori morali e culturali del nucleo familiare. Fare attenzione a questi aspetti esige che il percorso storico del gruppo familiare che si segue, sia tenuto in considerazione anche in ragione delle proprie radici antiche ed estese. INTEGRAZIONE SOCIALE E ORIENTAMENTO AL TERRITORIO Caratteristica fondamentale del servizio è attivare un Progetto Personalizzato orientato all’intero nucleo familiare che preveda anche un supporto psicosociale. Uno degli elementi strategici del servizio, infatti, è l’orientamento al territorio, sia per la fase di progettazione sia per quella di attuazione dell’intervento, nell’ottica di integrare il minore nella comunità di appartenenza in modo da far fronte ad esigenze non pienamente soddisfatte dal solo intervento domiciliare. Le famiglie a cui si rivolge il servizio di ADM vivono solitamente una situazione di problematicità e sofferenza complessa, spesso determinata da una povertà economica, strutturale oltre che culturale. Tale condizione si può tradurre in uno stato di isolamento sociale e nella mancanza di punti di riferimento adeguati per i minori. Anche su questo motivo si fonda l’esigenza, di aprirsi all’esterno trovando nel territorio locale contesti rispondenti al bisogno di integrazione e di vita di gruppo a cui “agganciare” i minori e ai quali possano 82 continuare a restare legati anche dopo la conclusione dell’intervento di ADM. L’intraprendere azioni di pensiero, progettazione e gestione con il contributo di attori diversi del territorio è parte fondante e qualificante dell’ADM, proprio perché attraverso questo processo si realizzano l’ampliamento e il potenziamento necessari per la partecipazione sociale ai diversi bisogni del minore. In questo senso, nelle progettazioni individualizzate, è fondamentale rivolgere un’attenzione specifica a momenti e attività in collaborazione diretta con le agenzie educative e i servizi del territorio quali le Parrocchie, le Associazioni, e i servizi presenti sul territorio (CAG, Ludoteche, CRD, Informagiovani, Spazi famiglia, Banche del tempo, Biblioteche, …). TEMPI E CAMPI DELL’INTERVENTO Tenuto conto della complessità e delle problematiche dei nuclei familiari interessati al servizio e dell’esperienza nella gestione di servizi ADM, si ritiene che ogni singolo intervento sia programmato con una dotazione oraria a disposizione dell’educatore che va da un minimo di 4 ore ad un massimo di 10 ore settimanali di presenza dell’operatore in famiglia. È inoltre indispensabile che sia prevista anche una dotazione oraria da destinarsi alla programmazione, alla verifica e agli incontri con i soggetti della rete dei servizi. I campi di realizzazione di questo intervento risultano essere diversi a seconda della domanda e del bisogno. Tenendo conto che uno dei principali elementi strategici dell’ADM è la flessibilità, intesa non solo nei con83 fronti della multiproblematicità, ma anche come capacità di un servizio di rispondere ed adattarsi ad esigenze diverse, l’assistenza domiciliare può quindi essere impiegata in modo mirato come: • intervento preventivo che, se attivato in situazioni di rischio non grave può bloccare la trasformazione del disagio prima che diventi cronico o si trasformi in patologia sociale; • sostegno al reinserimento del minore in famiglia, dopo un periodo di distacco. Questo sostegno ha finalità diverse in base alla durata e al motivo dell’allontanamento, alla quantità e qualità dei rapporti esistenti in precedenza e che si sono mantenuti durante quel periodo di lontananza. L’intervento, in questo caso, risulta molto delicato in quanto sia il minore sia la famiglia vivono un’esperienza di riadattamento reciproco che può incontrare vecchie o nuove difficoltà, in parte imprevedibili. Aspetto centrale di questo sostegno è promuovere la riattivazione di spazi di vita in comune fra genitori e figli in parte affievoliti dall’allontanamento; • progetto ponte inteso come intervento attivato durante un periodo di attesa da parte del minore prima dell’allontanamento temporaneo dal nucleo familiare a causa ad esempio di un provvedimento di affido. Lo stesso può essere realizzato anche nei confronti, ad esempio, di una madre che deve accudire il proprio figlio e al contempo provvedere al mantenimento di entrambi; • intervento nella crisi attivato in tempi brevissimi 84 a causa di un’urgenza (es. malattia o morte di un genitore), si tratta evidentemente di un intervento domiciliare di “pronto intervento” che in certi casi risulta fondamentale in quanto consente la permanenza del minore nel proprio ambiente. LE FUNZIONI Nell’ambito del servizio ADM le modalità di intervento sono realizzate all’interno di specifiche funzioni, che nel caso possono essere così indicate: funzione di accompagnamento, di sostegno, di contenimento, di integrazione, di mediazione e di controllo. Le articoliamo brevemente: • Funzione di accompagnamento: Consiste nella condivisione da parte dell’educatore di percorsi di vita quotidiana del nucleo familiare e del minore, affiancandolo nel “fare”, nel “pensare” e nell’attribuire dei significati. È pertanto una funzione che si fonda su un contatto esplicito con la situazione svantaggiata e prende in considerazione compiti di accudimento e di ascolto (ricoprendo carenze passate e/o presenti). A partire da bisogni espliciti (ad esempio: l’aiuto scolastico) riconosciuti anche dalla famiglia, cerca di elaborare bisogni impliciti più nascosti e profondi. Nel servizio ADM, quindi, con la funzione di accompagnamento si cercherà di costruire con il nucleo familiare e con il minore un rapporto significativo, in grado di valorizzare le risorse positive, aiutando a sviluppare competenze sociali nell’affrontare compiti evolutivi. La funzione di 85 accompagnamento è, però, possibile se si opera anche sul contesto di riferimento, cercando di valorizzare e consolidare le reti individuali e di sostegno sociale attorno alla famiglia coinvolta nel servizio e quindi animando le risorse del territorio cercando di incidere sul rapporto tra la famiglia e il minore coinvolto e i diversi ambiti di socializzazione, attuando su entrambi interventi volti alla reciproca accettazione. • Funzione di sostegno: è la funzione tipica di quei servizi che sviluppano attività di socializzazione e sostegno psicosociale. È grazie all’aiuto e alla consulenza individuale, alla promozione di attività formative che si riesce a garantire per le persone coinvolte l’esercizio di tale funzione. • Funzione di contenimento: questa specifica funzione è rappresentata da tutte le attività o azioni che l’educatore mette in atto nel proprio lavoro a domicilio. Esso infatti, grazie alla relazione che instaura con il minore e la famiglia, permette loro l’esperienza di essere contenuti. In un certo senso è come offrire al nucleo familiare l’esperienza di avere delle “cornici” (contenitori, setting) sufficientemente solide, ma anche sufficientemente elastiche che permettano la definizione della relazione e al tempo stesso il suo mutamento. La capacità di fungere da contenitore da parte dell’educatore permette al minore disorientato, confuso, disorganizzato, di trovare con il tempo un maggior stato di definizione, di forma, grazie al fatto di aver ricevuto un 86 contenimento fisico, verbale, emotivo e mentale. Tale complessità di funzione rappresenta uno degli elementi essenziali in ogni rapporto educativo che pone attenzione all’altro e ai suoi specifici percorsi evolutivi. • Funzione di integrazione: con questa funzione si intende l’attività volta ad interpretare ruoli e funzioni assenti o insufficienti nella famiglia, con particolare riguardo alla dimensione educativa e scolastica, ma senza poter escludere il considerare le carenze affettivo-emotive, pure presenti. L’educatore nello svolgere questa funzione opera non come sostituto delle figure genitoriali che sono i riferimenti principali per il minore, ma come fonte di stimoli e opportunità ancora sconosciute o poco utilizzate dal minore a causa spesso dei problemi (economici, strutturali, organizzativi) in cui si trova il proprio nucleo di appartenenza. • Funzione di mediazione: l’esercitare questa funzione da parte dell’educatore richiede una grande capacità di analisi della situazione “a distanza” pur essendo dentro il nucleo ed una buona capacità di posizionarsi correttamente e coerentemente rispetto al proprio ruolo professionale e agli obiettivi previsti per l’intervento. Mediare richiede in una certa misura il “mettersi in mezzo”, alle dinamiche relazionali che caratterizzano la comunicazione e conseguentemente le azioni del minore nei confronti dei familiari, pur mantenendo una “distanza sufficiente”. Questa funzione estremamente delicata 87 consente spesso al minore di esprimere bisogni e fare richieste al genitore in quanto si sente supportato da una presenza esterna a lui vicino. L’educatore svolge questa funzione anche nei confronti del territorio, nel momento in cui diventa portatore delle esigenze del minore o ricettore delle opportunità che il territorio può offrire. • Funzione di controllo: consiste nell’esercitare adeguate forme di controllo finalizzate alla tutela del benessere fisico e mentale del minore, per i casi sociali seguiti e in particolar modo per i casi decretati dal Tribunale dei Minorenni. È la funzione attraverso la quale l’educatore opera per garantire al soggetto in carico il rispetto dei fondamentali diritti alla cura, all’assistenza, all’ascolto, alla comprensione e soprattutto al riconoscimento della dignità di persona in età evolutiva. LE ATTIVITÀ In riferimento alle finalità e agli obiettivi individuati riteniamo che le attività svolte per il Servizio A.D.M. si debbano orientare sia verso l’interno della famiglia sia verso l’esterno. Nel primo caso l’agire in famiglia favorisce il sorgere di condizioni che consentono la promozione dell’agio nei comportamenti e nelle relazioni di uno o più membri del nucleo familiare. Nel secondo caso l’agire nel territorio favorisce l’inserimento e la connessione nella comunità locale e nelle organizzazioni-risorse del territorio stesso (scuola, associazioni, Parrocchie, Centri di aggregazione, società sportive…). 88 Considerate queste due direzioni dell’agire educativo, le principali attività riteniamo debbano essere le seguenti: • attività educative, finalizzate a realizzare un programma educativo sul minore e a sostenere la famiglia nel rapporto con il proprio figlio e nello svolgimento delle proprie funzioni genitoriali. • gestione della quotidianità, limitatamente alla cura e al riordino di spazi vissuti dal minore, accompagnamento per le spese e/o piccoli rifornimenti, preparazione pasti e tutto ciò che può andare verso l’acquisizione di una maggiore autonomia del minore e del suo nucleo; • cura alla persona, intesa, dove necessario e senza essere sostitutivo alla famiglia, come attenzione ed accompagnamento a visite mediche o prenotazioni specialistiche, cura dell’igiene, aiuto al minore nel vestirsi e alimentarsi; consigli per il disbrigo di pratiche burocratiche e commissioni; informazioni sui servizi socio-assistenziali, educativi, culturali e ricreativi, aiuto nella gestione delle relazioni con i vicini di casa e/o conoscenti. • attività ludiche-ricreative, sono rappresentate da tutti quei momenti di gioco, di festa, di gita che possono essere sia con il singolo minore sia in collaborazione con le agenzie e i servizi del territorio. • sostegno didattico, si riferisce allo svolgimento dei compiti, a livello e all’aiuto nell’assunzione di responsabilità relative all’esperienza scolastica. Per 89 questo si intende lo svolgimento dei compiti con il minore, cercando di favorire, oltre che la cura del risultato, anche la cura del processo adottato, intendendo con ciò la ricerca di un metodo di lavoro, la possibilità di operare scelte funzionali al compito, il rispetto dei tempi di lavoro, l’utilizzazione di strumenti adeguati per l’esecuzione corretta dei compiti e quant’altro possa essere ritenuto necessario per lo svolgimento degli stessi. • affiancamento nei percorsi terapeutici, da intendersi non soltanto come disponibilità ad accompagnare fisicamente il minore dagli specialisti coinvolti nel progetto educativo, ma anche come ricerca di collaborazione e di scambio professionale con le altre figure operative, nell’ottica del lavoro d’équipe utile a canalizzare al meglio le sinergie di competenze attivate per il buon esito dell’intervento. FASI ATTUATIVE In maniera schematica riteniamo opportuno offrire una sequenza delle fasi che è opportuno vengano seguite per l’attivazione di un servizio di ADM. È necessario, peraltro, predisporre un piano metodologico il più possibile condiviso con tutte le parti coinvolte per poter riconoscere e definire precisi compiti a ciascun attore, in funzione di una loro integrazione. Di seguito presentiamo la nostra proposta di strutturazione del piano metodologico attraverso la scomposizione dell’intervento secondo fasi di lavoro specifiche. 90 ITER ATTUATIVO DEL SERVIZIO 1. Segnalazione, selezione e presa in carico 2. Presentazione dell’intervento alla famiglia e richiesta di servizio ADM 3. Presentazione dell’educatore alla famiglia, primo programma di intervento 4. Avvio del servizio domiciliare 5. Stesura del progetto individualizzato 6. Verifica e riorientamento progettuale 7. Chiusura dell’intervento Segnalazione, selezione e presa in carico: questa fase rappresenta il primo lavoro di screening sui casi, già noti al Servizio Sociale o segnalati dalla scuola, dalla famiglia stessa, dagli operatori del territorio o da altri a conoscenza di situazioni problematiche, per individuare quelli che per caratteristica del disagio e della domanda esplicita, per disponibilità a farsi coinvolgere in un progetto che vede l’inserimento di una figura estranea nel nucleo, per esigenze del/dei minore/i, appaiono adatti a essere seguiti con l’ADM. La selezione degli utenti è una fase importante del processo. Una selezione accurata permette di aderire alle finalità e agli obiettivi previsti dal progetto senza creare ambiguità rispetto ai risultati attesi. La presentazione dell’intervento: viene presentata ai genitori del minore l’ipotesi di un intervento di ADM, 91 proponendo l’intervento con chiarezza e semplicità. Se la proposta viene accolta e quindi c’è convergenza intorno all’ipotesi di progetto, il coordinatore della cooperativa (in caso di appalto), in accordo con l’assistente sociale, provvedono all’individuazione dell’educatore a cui affidare l’intervento. La presentazione dell’educatore e della prima ipotesi di intervento: in questa fase inizia un processo di conoscenza reciproca tra Educatore e staff dei Servizi Sociali, oltre che tra educatore, minore e famiglia. La conoscenza dell’educatore, da parte dei genitori, avviene in presenza dell’assistente sociale preferibilmente presso la sede dei Servizi Sociali. La conoscenza del minore avviene dopo quella dei genitori e preferibilmente presso il loro domicilio. L’Assistente Sociale accompagna l’Educatore al domicilio per conoscere il minore nel suo spazio naturale, spazio dove si realizzerà buona parte dell’intervento educativo. Contemporaneamente viene presentato il primo programma di intervento con l’indicazione della data di avvio, l’orario di presenza dell’educatore concordato con la famiglia in relazione agli impegni scolastici e non del minore e le attività proposte. L’avvio del servizio domiciliare: dal momento in cui educatore e minore si incontrano per la prima volta, inizia un percorso di osservazione partecipante che vede impegnato l’educatore nel cogliere le caratteristiche, le potenzialità e le difficoltà del minore e del suo nucleo di appartenenza. Questo allo scopo di entrare in 92 possesso di tutti gli elementi necessari alla definizione del progetto educativo individualizzato, che l’educatore presenterà al termine di questo primo periodo. In questa fase iniziale di lavoro è fondamentale la costruzione da parte dell’educatore delle premesse per la definizione di un rapporto di fiducia con il minore e con la famiglia: solo a partire da questa “apertura di credito” sarà possibile trasformare il domicilio in un setting pedagogico. Stesura del progetto individualizzato: l’educatore, nel momento in cui entra in contatto con il nucleo familiare all’inizio dell’intervento, assume sia il ruolo dell’operatore sia quello del ricercatore, di chi, cioè, osserva la situazione formulando ipotesi sul significato delle condizioni di vita e delle dinamiche osservate. Per questo motivo, tra le tante modalità di osservazione (naturale, occasionale, sistematica o sperimentale), la più idonea all’intervento di ADM è l’osservazione partecipante che permette all’educatore di operare quel conferimento di senso nei confronti di ciò che osserva proprio mediante la partecipazione in prima persona allo svolgimento stesso dell’azione. Solo chi partecipa in prima persona ad un evento, infatti, può cogliere se il senso che egli dà all’evento è lo stesso che gli danno tutti gli altri partecipanti. I dati dei quali l’educatore viene in possesso in questo modo, possono diventare così il punto di partenza per andare oltre ciò che è visibile, per fare ipotesi sulle intenzioni che muovono le persone nelle azioni educative. A partire da queste è possibile per l’educatore stabilire una mappatura delle 93 difficoltà socioeducative del nucleo familiare nei confronti del minore e, quindi, una serie di obiettivi per superare tali difficoltà. L’educatore, infatti, non è solo un soggetto chiamato ad accogliere la “cultura altra” di cui è portatore il nucleo familiare, ma è anche un elemento di dissonanza, che porta all’interno della famiglia una serie di valori educativi. Sulla base delle osservazioni è possibile formulare ipotesi di interpretazione delle intenzioni profonde che hanno mosso i soggetti protagonisti dell’azione stessa. L’educatore stabilisce quindi gli obiettivi del proprio intervento di ADM per aiutare il minore e il suo nucleo familiare ad acquisire un certo grado di autonomia nei diversi ambiti di vita che li coinvolgono. La caratteristica principale di tali obiettivi è la flessibilità, in quanto, essendo le ipotesi in continua e costante verifica, anche gli obiettivi su di esse costruiti, è importante che siano periodicamente modulati sia rispetto ai cambiamenti all’interno della famiglia, sia rispetto alle verifiche delle ipotesi stesse. Le attività sono scelte in concordanza agli obiettivi, con l’attenzione alla verifica costante che permette all’équipe educativa di valutare in itinere l’efficacia delle attività stesse. In sede di progettazione, infatti, assieme agli obiettivi, l’équipe educativa stabilisce anche gli indicatori di verifica specifici che permettono di valutare il raggiungimento o meno degli stessi attraverso la loro declinazione nelle attività. L’intervento dell’educatore è mirato, ovviamente, a supportare la famiglia nell’ambito educativo, ma la multiproblematicità con cui, in alcuni casi, è possibile 94 entrare in relazione, chiede all’educatore di mettere in campo delle professionalità che integrino il lavoro strettamente pedagogico. In fase di osservazione, quindi, l’educatore può raccogliere dati preziosi anche in ordine alla possibilità di attivare l’intervento di altre figure professionali (psicologo/supervisore, psicoterapeuta, neuropsichiatra, logopedista, psicomotricista,…) appartenenti all’ASL o a Centri specializzati quali, tra gli altri il “Centro Servizi Scuola & Famiglia” della cooperativa Alce Nero. La verifica e il riorientamento progettuale: questa fase del lavoro educativo è di fondamentale importanza in quanto consente all’educatore di modulare l’intervento sui bisogni in continuo divenire della famiglia, di valutare i segnali di cambiamento della situazione, sia in termini di acquisizione di maggiore autonomia, sia di possibili regressioni o involuzioni. Le verifiche mirano all’analisi periodica della condizione personale e familiare degli individui seguiti, alla rispondenza delle finalità, degli obiettivi, dei contenuti del progetto, alla considerazione delle loro posizioni ed atteggiamenti nei riguardi dell’operatore domiciliare (avvenuta o mancata evoluzione del rapporto educativo), al monitoraggio dei percorsi attivati e all’aggiornamento delle strategie di intervento, alla condivisione e costruzione di significato con gli interlocutori privilegiati. La chiusura dell’intervento a domicilio: la chiusura di un intervento è un momento delicato del servizio. La decisione di essa spetta al gestore del servizio che decide 95 sulla base del percorso educativo intrapreso, del progetto individualizzato, delle valutazioni dell’équipe educativa. L’opzione di chiudere un intervento di ADM può scaturire da molteplici fattori, alcuni dei quali possono anche sfuggire al lavoro di prefigurazione che si realizza in sede di progettazione (raggiungimento degli obiettivi, rifiuto della famiglia a continuare, la resistenza agli obiettivi previsti). Nei casi in cui si determina una chiusura dell’intervento si rileva la necessità di: • accompagnare al distacco definitivo tramite azioni che consentano al minore e alla famiglia di rivisitare il percorso fatto insieme rivalutando i contenuti ed il significato del percorso sperimentato. • valutare la possibilità di orientare la famiglia verso altre forme di intervento che rispondano ai bisogni ancora non soddisfatti della famiglia. • Coinvolgere gli altri servizi od agenzie educative che hanno collaborato alla realizzazione dell’intervento e che hanno avuto una parte attiva insieme all’educatore. STRUMENTI DI LAVORO Lo strumento di lavoro privilegiato per l’educatore professionale è rappresentato certamente dalla “relazione educativa” che si viene ad instaurare nel corso dell’interazione tra le parti interessate. La relazione intesa come strumento non deve però essere interpretata come libera gestione del proprio agire azioni educative nei confronti del minore e della famiglia, ma come capacità di confrontarsi con un altro mondo portatore di 96 una storia ed una cultura sconosciuta ed unica. Il rischio di soggettività che connota il rapporto che si instaura da parte dell’educatore con la famiglia viene completato con un aspetto di “oggettività”, di descrizione degli eventi, di fotografia della realtà a cui è richiamato l’educatore nel momento in cui deve documentare l’andamento dell’intervento. Strumenti concreti ad uso degli operatori coinvolti nel servizio sono infatti: La scheda di segnalazione: è uno strumento ad uso dell’assistente sociale che lo utilizza per annotare i primi dati di tutti i minori e i nuclei familiari per i quali, per conoscenza da parte dell’assistente sociale stesso o per esplicita richiesta d’aiuto della famiglia o per segnalazione da parte di un’agenzia del territorio (ad esempio la scuola), è ipotizzabile un intervento di ADM. La relazione sul nucleo: è lo strumento che compila l’educatore sulla base delle informazioni riportate nel primo colloquio con i Servizi e che riprendono i contenuti presenti nella scheda di segnalazione. Tale relazione sul nucleo sarà la base di partenza per la definizione del progetto educativo individualizzato che redigerà l’educatore entro i primi due mesi dall’inizio dell’intervento. La griglia di osservazione: è uno strumento concreto che facilita l’educatore nella fase dell’osservazione partecipante, periodo in cui vengono rilevati i dati sulla 97 base dei quali ipotizzare un progetto di intervento che comprenda azioni educative. La griglia viene integrata con gli elementi che l’educatore raccoglie dai periodici colloqui con la famiglia e che consentono di costruire una rappresentazione delle necessità, aspettative e risorse del nucleo familiare. Il diario personale: giornalmente o settimanalmente in base alle esigenze dell’educatore e della situazione specifica, nel raccontare la giornata, l’educatore scrive le attività svolte e l’osservazione del contesto, con la possibilità di aggiungere un commento circa gli eventi osservati sul campo. La scheda di rilevazione delle riunioni di équipe: viene utilizzata quando si effettuano incontri di équipe e registra i partecipanti, i contenuti e gli accordi presi durante gli incontri. Schede di verifica dell’intervento domiciliare: utilizzata quando si effettuano verifiche semestrali o finali dell’intervento come previste dal progetto, utilizzando gli indicatori di verifica rilevati nel progetto. 98 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AMMANITI N., STERN D.N., Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Bari, 1991. BIANCHERA L., CAVICCHIOLI G. (a cura di), L’approccio Narrativo teoria e applicazioni nell’intervento sociale, Unipress, Padova, 1998. BIANCHERA L., VEZZANI B. (a cura di) I sentieri della qualità. Soggettività e organizzazione nella cooperazione sociale, Unipress, Padova, 2000. BRUNER J., La mente a più dimensioni, tr. It. Laterza, Bari, 1988. BRUNER J., La ricerca del significato, tr. It. Bollati Boringhieri, Torino, 1992. CASTELLI C., CODINI G., TOMMASI R. (a cura di), Assistenza domiciliare a persone con aids: un problema aperto, Franco Angeli, Milano, 1992. CIGOLI V., Il corpo familiare, Franco Angeli, Milano, 1992. CIGOLI V. (a cura di), Tossicomania. 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