I balilla di Corso Parigi

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I balilla di Corso Parigi
I balilla di Corso Parigi
Un aratro di legno e un uomo tra le stelle
Un acquazzone aveva allagato la spiaggia delle uova dei Balzi
Rossi, ai piedi di Grimaldi, e così le baiette vicine, con quei bassi
fondali trapuntati di ricci, chissà per quale miracolo ancora libere e
non in concessione. Tra quegli scogli, mentre i pochi ombrelloni si
rincappucciavano come fiori appassiti, un vecchio stava raccattando
e riordinando le sue cose. Si apprestava a guadagnare la terraferma
per tornare nell’antica locanda della costa, nascosta dai limoni e dagli ulivi, e lo tormentava il pensiero che quella potesse essere la sua
ultima estate.
Era indispensabile spegnere le luci a poppa e a prua in vista di
un ritorno all’ombra della Mole, congedo che si portava appresso,
con l’amarezza di tanti sogni rimasti sogni, il rimpianto di non essere riuscito a realizzare un suo vecchio progetto.
Le spie impietose del declino fisico non si erano fatte annunciare
e il capitolo salute era penoso come quello di tutti i vecchi. L’ultima
cartella clinica, bontà sua, prendeva le mosse solo dall’inizio del terzo millennio della cristianità ed esordiva con la registrazione dei
postumi di un ictus cerebrale che il medico curante aveva considerato un salutare campanello d’allarme. L’insulto aveva avuto il pregio
di rendere nota la presenza di altre patologie: il cuore, che secondo
i membri della confraternita non sarebbe invecchiato mai, si era invece imposto all’attenzione, proprio per l’età, a causa di una fibrillazione atriale che aveva comportato l’indispensabilità della cardioversione elettrica: una terapia che quando si è allegri può ricordare
il braccio della morte di Sing Sing.
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All’ospedale di Torino, l’ultimo tagliando era servito per impiantare una protesi nel ginocchio destro affetto da gonartrosi con emartri
recidivanti. In parole povere, inutilizzabile e da scaraventare in un
cassonetto della raccolta differenziata. L’eventualità di un rigetto
della protesi era stato con pietosa premura escluso dal direttore
della clinica universitaria dell’Ospedale Mauriziano e lui, come uno
struzzo, aveva scelto di cancellare ogni dubbio in proposito. Il bilancio, comunque, si presentava in rosso e solo in parte giustificato dall’accatastarsi di tante primavere. Da tempo aveva superato l’età canonica degli ultimi beati cardinali che avevano preso posto in Conclave per eleggere il loro Pastore.
Il progetto segreto e ambizioso, mai confessato, era quello di
scrivere un libro, ma per capire se il suo disegno era un ulteriore
segno della vecchiaia aveva deciso di sottoporre il suo sogno al giudizio di Lice, l’amico suo più fidato, con il quale da tempo i patti
erano chiari: chi dei due avesse resistito alle ultime intemperie era
impegnato a recitare il «de profundis» nel Tempio della Cremazione, prima che la bara dell’altro fosse ingoiata dall’anticamera dell’inferno.
Gli enormi ballatoi con le ringhiere, dove erano nati, oggetto costante della loro nostalgia, erano soltanto più un ricordo. L’alveare,
con oltre cento inquilini, era stato ripulito e rimesso in ordine e
molte di quelle topaie, accorpate, erano diventate alloggi con i bagni e la grande novità erano gli ascensori, uno per scala, e il citofono. Nell’angolo estremo del cortile era rimasto, come un cimelio, il
vecchio cesso in comune, forse era ancora alla turca, utilizzato dal
personale e dai clienti dei due negozi adiacenti. Sulla porta una discreta targhetta: toilette. Era la rivincita di madama Saletta.
Gli anni e le malattie avevano falciato le spighe senza grano di
quanti erano tornati svuotati da quei maledetti campi di concentramento. Non c’era quasi più nessuno dei balilla d’allora.
Lice, di fronte al manifestarsi di quell’insano proposito, maledettamente vero, non se l’era sentita di rispondere a tamburo battente.
Aveva preso a torciarsi il suo fedele trinciato, ripetendo un gesto
abituale che lo accompagnava quando si apprestava a dire cose che
anche lui, da tempo, non reputava più importanti, ma che potevano
ancora apparire tali: un atteggiamento che ricordava un rituale consumato per anni prima di prendere la parola nelle riunioni della
vecchia sezione del Pci, dove ognuno aveva il diritto-dovere di in18
tervenire senza l’impegno di dover dire cose fondamentali. A volte
la discussione appariva come la recita di un rosario, tanto era il rispetto per la liturgia che accompagnava quelle manifestazioni assembleari.
Anche se sembravano fuori del tempo, morte e seppellite, non
era possibile dimenticare che in quelle sezioni gli operai e i braccianti avevano imparato a leggere, a scrivere e a parlare, e a tenere
il berretto in testa davanti al padrone.
La risposta di Lice era stata, come sempre, onesta e sincera:
«...dovrai stare attento a non farla fuori dal vaso e a non tracimare
quando ti toccherà misurarti con i temi di cui abbiamo capito molto
poco, per non dire quasi niente. Abbiamo creduto di conoscere il costo del Grande Balzo e della ‘rivoluzione culturale’, con quei libretti
rossi branditi dalle guardie rosse contro l’ala riformista del partito
cinese, ma cosa sappiamo degli ultimi cinesi? Non ti perderai d’animo se sarai capace di pensare ai tuoi colleghi, meno bacucchi di
noi, obbligati a spiegare come è avvenuto, dopo l’ingresso sulla scena
cinese di Deng Xiaoping, il superamento dell’egualitarismo maoista.
«La notte che ho sognato di essere a colloquio, durante le Olimpiadi di Pechino, con il presidente Hu Jintao, non sapendo come
chiamarlo, se compagno o no, ho finito con l’interpellarlo come monsù
Hu e nel sogno ho supposto che lui immaginasse il mio imbarazzo».
Lice era convinto che Xiaoping avesse escogitato il progetto diabolico di fare difendere il comunismo in Cina dal suo peggior nemico: il capitalismo. E il capitalismo, secondo Lice, sull’altare del
profitto, aveva abboccato e risposto solerte alle aspettative: tutti o
quasi in difesa di quello «scherzo cinese».
«Le analisi e le previsioni di tanti economisti, innamorati del libero mercato, hanno sbattuto il muso contro una realtà che li ha lasciati in mutande, consentendo a chiunque, anche a te, di teorizzare
su qualsiasi cazzata.
«Le nostre storie, per tornare a noi, non sono storie particolari,
renditene conto, anche se, come tutte le vicende dei poveri, è possibile che a volte possano apparire inverosimili. Essere stati o essere
ancora comunisti non dovrà diventare motivo di vanto anche per
evitare che si possa confondere l’orgoglio con la presunzione. Il rischio, nella migliore delle ipotesi, sarà quello di poter essere guardati come quel povero giapponese a cui non avevano detto che la
guerra era finita.
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«Non dovrai biasimare i compagni che hanno creduto di correre
coi tempi, identificando nelle nuove gabbane dei vecchi dirigenti la
continuità di quell’altra storia, sono brava gente come noi, che continueranno, non so per quanto, ad accettare il ruolo degli attivisti e
dei volontari e non smetteranno di friggere le salsicce alle feste dell’Unità.
«Dovrai invece non dimenticare le cose che i vecchi ci hanno raccontato quando eravamo balilla e ci ripetevano, ce ne siamo accorti
tardi che ci stavano prendendo in giro, che eravamo le pupille del regime».
Lice, che si esprimeva sempre in dialetto, riuscendo a tradurre
con una sconcertante disinvoltura liberismo e globalizzazione, cosmonautica e taylorismo, aveva per l’occasione parlato in lingua, con alcune modulazioni che avevano sfiorato il birignao, tutto d’un fiato,
rinunciando all’unica domanda che forse più gli premeva porre:
vale ancora la pena?
Dopo quella ripugnante recita in italiano i due si erano guardati
ed erano scoppiati a ridere.
Nati a distanza di poche settimane, al riparo degli stessi tetti, nel
periodo della marcia su Roma, in una delle tante case di ringhiera
della periferia, lui con i genitori pugliesi e Lice figlio di piemontesi
delle Langhe, non ricordavano di essere mai stati sfiorati da conati
di razzismo, malgrado la gramigna avesse trovato spazio anche tra
l’erba comune di quei ballatoi.
Vecchi com’erano, con i giorni contati come il profumo dei fiori
recisi, si stavano rendendo conto di dover ripercorrere, e in fretta, i
momenti più intensi della loro vita e riproporre anche le ore tristi
della loro esistenza di militanti, quando a stento erano riusciti a
scrollarsi di dosso i calcinacci del muro di Berlino, e con uguale
tormento avevano vissuto i giorni della Bolognina e il colpo di Stato
che aveva posto fine all’Unione Sovietica.
Lice quando scherzava sugli «ex» diceva: «Ci dovrebbero ringraziare, se non ci fossimo noi sulla barricata, chi darebbe loro credito
quando sbraitano che non sono più comunisti...».
Lice non si era fatto incantare dalle lacrime di Occhetto e aveva
voluto troncare in modo definitivo, mentre lui, un paio di anni dopo, era ancora tornato a Rimini come «invitato», in occasione del
ventesimo congresso e del funerale del vecchio Partito.
Nell’ultima riunione, quando il giovane Fassino stava conteg20
giando il voto dei delegati, prima ancora dell’ite missa est, si era appartato in una sala attigua con quelli della minoranza che avevano
votato contro lo scioglimento del Pci: sul palco Cossutta, Garavini e
la Ersilia Salvato e in platea Bertinotti e Libertini, e tanti altri che
non conosceva. Dopo quell’ultima sepoltura, che all’apparenza nessuno aveva vissuto con letizia, lui e Lice erano rimasti senza collare
e quando qualcuno li interpellava per saperne di più, loro rispondevano: «Abbiamo già avuto...».
«Se devi morire annegato – gli aveva insegnato il nonno langhetto – è meglio scegliere il proprio funerale in fondo al mare e non
crepare nelle acque di un misero fiume: ripescheranno la tua carcassa e la copriranno con un lenzuolo. Amen».
Lice era convinto che quelle parole racchiudessero un grande significato, ma lui non l’aveva mai scoperto.
Il loro piccolo mondo, già così scosso, era stato coinvolto, all’inizio degli anni ottanta, da una buriana che aveva investito alcuni dirigenti dei partiti che sedevano sugli scranni della Giunta Rossa. Si
era scoperto che alcuni castorini avevano masticato in proprio ed
era venuto a galla un intricato meccanismo che consentiva un finanziamento dei vari partiti di governo.
Ricordavano le pagine più travagliate del loro diario, la «questione morale» e la «diversità del Pci», rivendicate con forza da Enrico
Berlinguer, la preveggente locuzione di «mani pulite». Contro Berlinguer, che si apprestava ad abbandonare la «solidarietà» per ritornare all’opposizione, si stavano muovendo alcuni grossi nomi della
nomenclatura. In quel tempo un elettore su tre votava per il Pci.
In città, mentre si stava tentando di nascondere nei cassonetti
dell’antica piazza delle Erbe l’immondizia del Palazzo Comunale,
era calato uno dei proconsoli di Bettino Craxi, Giuliano Amato, con
l’incarico di commissariare il partito socialista torinese e porre sotto
accusa il sindaco rosso, reo di aver ritenuto corretto risolvere la questione delle tangenti in Procura invece che in corso Palestro, sede
del Psi. Era venuta a galla una nuova teorizzazione e qualche dirigente di rango nazionale, forse per compiacere i socialisti, si era
sporto in modo eccessivo e aveva considerato il sindaco rosso di Torino un «cretino moralista».
A lui il presidente del Collegio Costruttori aveva fornito notizie di
prima mano sull’attività immobiliare del Pci torinese. Un panorama
mortificante, foriero di un declino e forse di uno sfascio.
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Irene, la compagna di Lice, dopo un lungo periodo di «precariato», si era fatta sposare. Era una cadorina di Agordo e i suoi genitori
erano emigrati in Piemonte alla fine della Grande Guerra, inseguiti
dalla pellagra, dalla miseria e dal dolore di dover abbandonare i
propri affetti e le proprie cose. Irene suonava per diletto un vecchio
violino del padre, sbranando sino alle lacrime qualsiasi cantata, ma
per Lice era un vanto veder balzellare l’archetto sull’aria di qualche
vivace ciarda, quando in casa ospitava gli amici della fabbrica o
della sua sezione. L’amicizia e una dichiarata e palese incompetenza
collettiva avevano sempre impedito agli amici di esprimere un giudizio musicale su quelle ballate ungheresi. Quel vecchio violino nelle
mani di Irene era diventato uno strumento di tortura.
Per tornare al libro, ormai l’ossessionante obiettivo della loro vita, Lice considerava indispensabile staccarsi la pelle di dosso e riproporre le domande che non avevano ancora trovato una risposta
e che più angustiavano i vecchi compagni.
In quella parte del mondo, a cui milioni di donne e uomini avevano guardato come alla terra promessa, cosa era successo in quell’agosto del ’91?
Era soltanto un colpo di Stato o quei carri armati nella Piazza
Rossa erano il segno di un drammatico fallimento?
Era stata quella collettivizzazione forzata a spaccare la schiena dei
mugichi o quella fatica, per un popolo così fragile e primitivo, la si
doveva considerare improponibile? E l’aratro di legno e quell’uomo
per primo tra le stelle conservavano ancora un loro valore?
Alcune di quelle domande erano di una semplicità disarmante,
quasi infantile, ma Lice era sicuro che erano gli interrogativi di
quanti avevano custodito le stesse aspirazioni, gli uguali ideali.
Se Stalin fosse stato buono e docile come un santo avrebbe potuto
salvare quel sistema? L’esito sarebbe stato uguale se Lenin fosse nato e vissuto in Germania? Se avessero dato ascolto al «testamento» di
Lenin la Storia sarebbe stata la stessa? All’appello del Manifesto di
Marx il capitalismo si era contrapposto con uno slogan né scritto e
tanto meno urlato: «Padroni di tutto il mondo uniamoci...» e i padroni si erano uniti e sin dai primi giorni della Rivoluzione d’Ottobre non avevano badato ai costi della loro controffensiva pur di
sconfiggere lo «spettro» del comunismo.
La possibilità di continuare a sfruttare i propri simili, donne e
uomini, non doveva e non poteva estinguersi.
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Tutte le componenti dell’anticomunismo, nessuna esclusa, nell’arco del secolo concederanno una sola tregua ai comunisti e sarà
quando consentiranno a venti milioni di russi di farsi scannare in
difesa della libertà nel mondo, minacciata dai nazisti e dal fascismo.
Le donne e gli uomini di quel paese scriveranno le pagine più eroiche e dolorose dell’assedio di Stalingrado, strada per strada, casa
per casa.
Tutti mobilitati sul fronte dell’anticomunismo e grazie ai tre pastorelli di Fatima, la più profetica delle apparizioni moderne, il
mondo apprenderà dalla «Signora» quali saranno le drammatiche
conseguenze della rivoluzione russa dei soviet. Della futura tragedia
dell’Olocausto non una parola, ma la colpa non la si doveva addossare ai poveri pastorelli.
Il certificato di morte del Pci
Perché, si chiedeva Lice, gli storici non proponevano un corretto
confronto tra il «socialismo reale» e quelle forme di capitalismo che
avevano seppellito la libertà in mezzo mondo e non solo in Germania e in Italia? Quell’umanità con l’anelito di diventare padrona del
proprio destino aveva fallito, ma quel suo primo esperimento, nell’isolamento più assoluto, aveva alle spalle poco più di mezzo secolo.
Gli altri, i padroni di sempre, erano secoli che imponevano alla povera gente le loro regole accompagnate dai suggerimenti della Chiesa e insegnavano ad accettare con rassegnazione un destino di lutti
e di sofferenze, di guerre e di carestie.
Perché il partito comunista italiano aveva avuto tanta fretta a mutare il nome e perdere per strada i propri simboli?
I socialisti, pur tra tanto travaglio, non avevano ammainato le loro bandiere e i democristiani non avevano cancellato la croce dai loro vessilli e non si vergognavano di essere ancora cattolici, e il loro
partito non lo davano per morto e defunto.
Il cristianesimo, malgrado le tante traversie, perché resisteva e
imponeva al mondo la sua validità?
Perché tanta fretta per certificare l’atto di morte del comunismo?
Era mortificante pensare, ma appariva legittimo il sospetto, che gli
«ex» comunisti fossero i più impauriti e ossessionati.
Uno dei fondatori del Gruppo ’63, Edoardo Sanguineti, invano
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