Conoscenza e tutela archeologica tra Grand Tour e turismo

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Conoscenza e tutela archeologica tra Grand Tour e turismo
ACCADEMIANAZIONALEDEILINCEI
ADUNANZA GENERALE SOLENNE 21 giugno 2013
FAUSTO ZEVI CONOSCENZA E TUTELA ARCHEOLOGICA
TRA GRAND TOUR E TURISMO
Sono grato alla presidenza dell’Accademia per avermi affidato questo compito, anche se so
bene che, fra i consoci, ci sarebbe stato chi, più preparato e valente di me, avrebbe potuto far
meglio, molto meglio.
Giorni fa, il ministro Bray intervenendo ad un incontro di giovani archeologi, ha assicurato
il suo impegno su alcuni temi importanti: interventi sul codice dei BB CC (di modifiche abbiamo
cominciato a leggere ieri qualcosa sui giornali), riforma del Consiglio Superiore dei Beni Culturali,
mi auguro col ripristino dei Comitati di Settore elettivi; infine ha anche promesso di adoperarsi per
la ratifica della Convenzione della Valletta sul patrimonio archeologico, che immagino poco nota
fuori della cerchia degli addetti ai lavori e di cui io stesso avevo appena sentito parlare. Intitolata
Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico, è stata varata dal Consiglio
d’Europa a Malta nel 1992, approvata in assemblea nel 1995, e via via ratificata, tra il 95 e il 2000,
da ben 28 stati, praticamente tutti gli stati membri, dall’Azerbaigian all’Irlanda, con due sole
eccezioni che diremo. Ma in che consiste questa convenzione? Leggo, dal preambolo:
Gli Stati membri del Consiglio d’Europa
-Ricordando che il patrimonio archeologico è un elemento essenziale per la conoscenza del
passato delle civiltà;
-Riconoscendo che il patrimonio archeologico europeo, testimone della storia antica, è
gravemente minacciato dal moltiplicarsi dei grandi lavori di pianificazione del territorio e dai
rischi naturali, dagli scavi clandestini o privi di carattere scientifico, o dall’insufficiente
informazione del pubblico;
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-Affermando l’importanza di istituire, laddove non esistano ancora, procedure di controllo
amministrativo e scientifico, e la necessità di integrare la protezione dell’archeologia nelle
politiche di pianificazione urbana e rurale, e di sviluppo culturale;
-Sottolineano che la responsabilità della protezione del patrimonio archeologico incombe
non solo allo Stato direttamente interessato, ma anche all’insieme dei paesi europei.
Il documento prosegue con la condanna delle attività di scavo clandestine, e con l’impegno
dei paesi sottoscriventi a fornire reciproco aiuto per stroncare tali illeciti – argomento questo di cui
non abbiamo tempo di occuparci e per cui rinvio al bel libro di Fabio Isman I predatori dell’arte
perduta.
Il testo del documento riprende il preambolo; così l’art. 1 suona:
1. L’obiettivo della presente Convenzione è di proteggere il patrimonio archeologico in
quanto fonte della memoria collettiva europea e strumento di studio storico e scientifico.
E, all’art. 5 (dal titolo: Conservazione integrata del patrimonio archeologico), si legge:
Ogni Parte si impegna:
i)
a cercare di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e della pianificazione,
facendo in modo che degli archeologi partecipino:
- a) alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione,
conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico;
- b) allo svolgimento delle diverse fasi dei programmi di pianificazione;
ii) a garantire una consultazione sistematica tra archeologi, urbanisti e pianificatori del
territorio, al fine di permettere:
- a) la modifica dei progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio
archeologico;
- b) la concessione di tempo e mezzi sufficienti per effettuare uno studio scientifico adeguato
del sito e per la pubblicazione dei risultati;
iii)
a fare in modo che gli studi d’impatto ambientale e le decisioni che ne risultano
tengano debitamente conto dei siti archeologici e del loro contesto.
A prima vista questo testo, così ben scritto, non sembra un testo rivoluzionario, anzi dice
cose che, in apparenza, dovrebbero andare da sé, concetti che starei per dire di buon senso: gli
archeologi, che hanno a compito la tutela delle presenze archeologiche del territorio, dovrebbero
avere parte attiva nella programmazione territoriale. Ma non è così; altrimenti non si spiegherebbe
perché l’Italia abbia avuto tante difficoltà a ratificare la convenzione: perché è proprio l’Italia,
insieme con il Lussemburgo, il solo paese d’Europa che non abbia ancora firmato (e sono passati
vent’anni, c’era ben il tempo di farlo). Ma non è l’Italia il paese che proclama di possedere da solo
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il 40% di tutti i Beni Culturali del pianeta? Per non parlare di quelli archeologici, monumenti e
complessi grandiosi e celeberrimi. E non è anche, l’Italia, il paese divorato dallo scavo clandestino,
con la asportazione illegale di milioni di oggetti, a parte la distruzione irreparabile di elementi di
informazione scientifica perduti per sempre? Come spiegare che tra i firmatari ci sia la Svizzera, da
sempre paradiso protetto del commercio illegale di antichità, e non l’Italia? Eppure, quando ho
scorso il testo della convenzione, ho avuto l’immediata percezione che fosse stata pensata proprio
per l’Italia, come il paese che più di ogni altro avrebbe beneficiato dei suoi contenuti. Vi è dunque
una contraddizione di fondo: l’Italia esalta, di fronte al mondo, la ricchezza dei suoi monumenti e
dei suoi scavi, e rifiuta poi di accettare convenzioni internazionali intese proprio alla salvaguardia di
quei beni, dei suoi beni.
Eppure, in Italia, la questione della tutela dei beni culturali, archeologici in particolare, parte
da molto lontano, ed è stata lungamente analizzata specialmente da S. Settis, in lavori recenti e
recentissimi; e penso soprattutto al fondamentale suo Paesaggio Costituzione Cemento (2010). In
effetti il nostro paese vanta una particolare tradizione in questo campo, con un’attenzione pubblica
ai monumenti antichi e quindi con delle apposite norme al riguardo, che in molti casi risalgono
addirittura al Medio Evo; a Roma, articolate disposizioni papali si susseguono dal primo ‘500 via
via fino al celebre chirografo di Pio VII del 1802, e poi, sotto lo stesso pontefice, dopo le
travagliate vicende dell’età napoleonica, all’editto Pacca, dal nome del Camerlengo che lo
promulgò nel 1819, un editto largamente disatteso nella pratica ma la cui sostanza giuridica ha
fornito basi alla legislazione successiva, anche postunitaria. Ma esisteva un’ampia e approfondita
legislazione in materia anche presso gli altri stati italiani preunitari, che non posso qui analizzare in
dettaglio e per la quale rinvio al classico volume di Andrea Emiliani. Di una legislazione severa si
era dotato il regno di Napoli, soprattutto per parare il pericolo di furti o scavi illegali ad Ercolano
Pompei e Stabia, scavi reali iniziati tutti sotto Carlo III di Borbone; solo più tardi successive
prammatiche allargarono il registro della tutela agli edifici monumentali anche in proprietà privata.
Ma più interessante per noi è il c.d. “patto di famiglia” del 1737, con cui l’ultima dei Medici,
mentre il ducato passava ai Lorena, devolveva al suo popolo le raccolte d’arte medicee. E’ un
periodo di alto prestigio ed influenza della cultura antiquaria toscana, rinnovata nei primi decenni
del secolo dall’insegnamento di Filippo Buonarroti. Ma la scomparsa della dinastia medicea e le
mutate condizioni dello stato facilitavano una diaspora di ingegni che peraltro si sarebbe rivelata
feconda: non a caso, nella Napoli di Carlo III, primo ministro sarà Bernardo Tanucci professore
nell’ateneo di Pisa, giurista e coltissimo uomo di lettere, ma non ignaro anche di “antichità
figurate”, come egli dice, per avere ascoltato in gioventù le lezioni del Buonarroti; per non parlare
di Marcello Venuti, dei Venuti di Cortona, preposto alla Biblioteca reale di Napoli, ma che si
considerava, e a ragione, lo scopritore scientifico di Ercolano. Ma, ancor prima, è a Roma, col papa
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Corsini, Clemente XII, che si avvertono nuove e illuminate forme di interesse nei confronti
dell’antichità. Noi che siamo riuniti in questo palazzo, e ovviamente non solo noi, dobbiamo un
ricordo specialmente grato a questa famiglia di principi, romana da poco tempo rispetto ad altre
romane di più antica data, ma che seppe non solo conservare, ma consegnare intatto allo stato
italiano, un insieme unico che, insieme alla straordinaria biblioteca, conserva tuttora la galleria di
dipinti e le sculture antiche, nonché i magnifici giardini sulle pendici del Gianicolo; e non possiamo
non avvertire qui un consapevole retaggio di quella illuminata cultura dello stato che Firenze aveva
saputo costruire fin da età medicea e che a cavallo tra Otto e Novecento, nel tempo della travagliata
elaborazione della prima legge nazionale di tutela, troverà un riferimento nell’ impegno di cittadini
e intellettuali riuniti attorno al giornale Il Marzocco.
Tornando al Settecento, Firenze si segnala per la rilevante impresa editoriale del Musaeum
Florentinum, in cui ebbe parte il nipote del papa, Neri Corsini: ben 12 volumi usciti tra 1731 e
1763, cui collaborarono antiquari di fama, cito solo, per tutti, Anton Francesco Gori. Intendimento
di quest’ opera monumentale non era solo illustrare al pubblico le raccolte medicee, ma redigerne
un catalogo che costituisse in qualche modo una garanzia contro la dispersione. Gli stati italiani,
compresa, come abbiamo visto, la Toscana, erano merce di conquista o di scambio nelle guerre per
l’egemonia nell’ Europa del tempo, ed era ben giustificato il timore che in questi avvicendamenti
dinastici le città potessero essere spogliate delle loro raccolte d’arte: così in effetti avvenne a Parma,
da cui l’erede di Elisabetta Farnese, Carlo III, portò seco a Napoli le raccolte farnesiane (come è
noto, anni dopo il figlio Ferdinando completò l’operazione trasferendo nella capitale partenopea la
collezione Farnese, fino ad allora conservata nel palazzo romano). Si deve dunque a quel patto di
famiglia, concordato a Vienna, se gli Uffizi costituiscono ancor oggi il maggior museo italiano per
numero di visitatori, e uno tra i primi del mondo. A Roma, la situazione era diversa; a parte le
raccolte papali, non ancora organizzate a Museo, tutte le grandi famiglie della nobiltà, principesca e
cardinalizia, vantavano collezioni d’arte, con pezzi che spesso rivaleggiavano con quelli del
pontefice; migrate in parte all’estero, sono divenute il nucleo costitutivo dei musei di tante capitali
europee. Ma il settecento romano vede il costituirsi di una forma ulteriore di raccolta di antichità,
non a prestigio delle famiglie, ma espressamente pensata nella prospettiva del mercato: il cardinal
Albani, dopo aver venduto la sua prima collezione a Dresda, ne andava costituendo un’altra con gli
stessi fini, finché papa Corsini, sollecitato dal nipote, la acquistò destinandola al popolo di Roma:
essa costituì il primo nucleo dei Musei Capitolini, che perciò, in quanto musei, precedono gli stessi
Musei Vaticani; un catalogo in tre volumi accompagnò il nuovo museo, per qualche tempo
affidato alla direzione di un nobile toscano, il marchese Capponi. Ritroviamo, in questo episodio,
un medesimo retroterra ideologico: a Firenze come a Roma, le raccolte d’arte, e a Roma soprattutto
le antichità, si costituivano in patrimonio pubblico della città (un concetto questo, che altrove
maturerà al fuoco della Rivoluzione: i Francesi fanno partire la costituzione del loro patrimoine
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national da un famoso discorso dell’Abbé Grégoire del 31 Agosto 1794: le respect public entoure
particulièrement les objets nationaux qui, n’étant à personne, sont la propriété de tous… Tous les
monuments de sciences et d’art sont recommandés à la surveillance de tous les bons citoyens”).
L’intervento di papa Corsini,
certo non valse a far cessare lo scavo e il commercio
dell’antico, in cui, verso la fine del secolo, oltre agli italiani avranno parte rilevante anche molti
stranieri, specie inglesi; sotto il piccone di tali spregiudicati imprenditori, il suolo di Roma, insieme
col suburbio, i castelli Romani, Ostia continuavano restituire una inesauribile messe di sculture
antiche, mentre le botteghe dei marmisti e degli abili scultori deputati ai restauri rappresentavano in
qualche modo l’indotto di questa attività tutt’altro che irrilevante della Roma papale. “Il cardinal
Albani, scriveva nel 1764 il Grosley, è al momento le reparateur en chef dell’antichità: i pezzi più
mutilati, più sfigurati e incurabili presso di lui riprendono il fiore dell’età: nova facit omnia”, fa
tutto nuovo, e non a caso, è ora che si sviluppa nelle Accademie più avvertite (per esempio nella
parigina Académie des Inscriptions et Belles Lettres) la polemica contro l’arbitrio dei restauri di
integrazione, che falsavano irreparabilmente la genuinità del monumento, e creavano immagini
fuorvianti, perpetuate e diffuse dalle stampe dei cataloghi, su cui era illegittimo costruire una
qualsiasi ipotesi scientifica; e questo, senza nulla aggiungere alla qualità estetica dell’opera (si
citava il caso paradigmatico del torso del Belvedere, uno dei pezzi più ammirati del Vaticano, che,
dal Rinascimento in poi, nessuno aveva mai osato completare ancorché ridotto a un tronco mutilo; e
sappiamo che i marmi Elgin del Partenone sono rimasti intatti come erano usciti dall’atelier di Fidia
perché Canova sconsigliò di intervenire).
L’avvenimento che rimescolò le carte, imponendo di ripensare in termini diversi metodi e
scopi della ricerca archeologica, fu, nel 1738, la scoperta di Ercolano. La notizia percorse fulminea
l’Europa, in un clima di emozione e di attesa frenetica. Ma lo scavo procedeva lentamente, per
cunicoli; solo più tardi, a Pompei, la diversa natura del materiale vulcanico ne consentirà la
rimozione totale, lasciando così in luce porzioni via via più estese dell’ antica città. Chi non
conosceva i luoghi deprecava, peraltro giustamente, che ad Ercolano lo scavo non si conducesse
all’aperto: nel 1747, l’anno prima dell’apertura degli scavi di Pompei, Scipione Maffei, lucida
mente dell’antiquaria del tempo, scriveva: “o qual gran ventura dei giorni nostri è che si discopra
non uno o altro antico monumento, ma una città! …Desiderabile è soprattutto che si risolvano a
lavorar per di sopra, levando e trasportando quel monte di cenere… in questo modo la spenta città si
farà rinascere e dopo 1700 anni rivedere la luce del sole: con grandissimo beneficio del paese
correrà a Napoli tutta l’Europa erudita… procedendo alla cieca e per cunicoli, molto avverrà di
guastare né si potrà mai vedere fabbrica nobile intera, né saper come e dove si collocassero le tante
statue e gli altri ornamenti… sgombrando e lasciando tutto a suo luogo, la città tutta sarebbe
incomparabil Museo”. Dunque non marmi più o meno mistificati, ma una città antica, con “tutto a
suo luogo”. Era subentrato un concetto nuovo: non l’oggetto, per sé stesso, ma il contesto ai fini
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della comprensione dell’antico e della sua ricostruzione storica; anche delle statue si vuol ora sapere
di più, dove e come si collocassero. Nel 1766 Fr. de Latapie, un naturalista di Bordeaux (cinque
anni fa una fortunata ricognizione presso un nipote a Saint Emilion ha permesso di rintracciare i 14
quaderni delle inedite Ephemerides del suo viaggio in Italia, ora in corso di studio) Latapie dunque
visita Ercolano, Pompei e il Museo Ercolanese, e qui apprende, con disappunto, che gli oggetti
provenienti dall’una e dall’altra città non sono stati tenuti distinti; da naturalista, sa bene
l’importanza del contesto, dell’ambiente; avanza allora una proposta, di approntare, per ciascuno
degli ambienti che mano a mano gli scavi riportavano in luce, una specie di targa, in marmo o in
metallo, da applicare al muro con l’elenco ragionato di tutto ciò che vi era stato trovato: soluzione
curiosa, ma in cui va apprezzata l’ esigenza di conservare memoria e valorizzare il contesto come
indispensabile strumento nella comprensione dell’antico.
Non possiamo, in questa occasione, omettere di citare un personaggio per molti aspetti
centrale, nello sviluppo del pensiero critico al trapasso fra Sette e Ottocento. Quando, nel 1796, le
armate di Bonaparte si apprestavano a varcare le Alpi intenzionate a trasferire in Francia, nella
nuova Repubblica della libertà e delle lettere, i grandi monumenti di un passato rivendicato come
esemplare, Quatremère de Quincy pubblica quello scritto che va sotto il nome di Lettere a Miranda,
ma il cui titolo completo suona Sul pregiudizio
che arrecherebbe alle arti e alle scienze il
trasferimento di monumenti d’arte dall’Italia. E scrive:
“Il vero museo di Roma, quello di cui sto parlando, si compone, certo, di statue, di colossi,
di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di
tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti di ornati (architettonici),
di materiali da costruzione, di arredi, di utensili etc.; ma nondimeno si compone anche dei luoghi,
dei siti, delle montagne, delle cave, delle antiche strade, delle posizioni rispettive delle città antiche,
dei rapporti geografici, delle relazioni di tutti gli oggetti fra di loro, dei ricordi, delle tradizioni
locali, degli usi ancora esistenti, dei confronti e degli accostamenti che non si possono fare se non
nel paese stesso”. (Nell’originale: “Le véritable muséum de Rome, célui dont je parle, se compose,
il est vrai, de statues, de colosses, de temples, d’obélisques, de colonnes triomphales, de thermes, de
cirques, d’amphitheatres, d’arcs de triomphe, de tombeaux, de stucs, de fresques, de bas-reliefs,
d’inscriptions, de fragments d’ornéments, de matériaux de construction, de meubles, d’ustensiles,
etc., mais il ne se compose pas moins des lieux, des sites, des montagnes, des carriéres, des routes
antiques, des positions respectives des villes ruinées, des rapports géographiques, des relations de
tous les objets entre eux, des souvenirs, des traditions locales, des usages encore existants, des
parallèles et des rapprochements qui ne peuvent se faire que dans le pays meme”).
Lo spirito, che avevamo già colto nelle parole di Maffei, si dilata qui ad una scala superiore
che trascende largamente la dimensione puramente archeologica, né si potrebbe esprimere meglio la
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visione di un paesaggio italiano percepito come un universo di relazioni in cui tutto è e si fa storia.
Naturalmente Quatremère, con la sua difesa dello statu quo, non poteva che apparire un reazionario;
le armate francesi vittoriose si comportarono ben diversamente. Ma basilare restava l’idea della
proprietà pubblica di quanto l’antichità aveva tramandato. Un dettaglio significativo: nel 1810, nella
Roma ormai parte dell’impero francese, un colto funzionario, il marchese de Gérando, promuove la
costituzione
di
una
Libera
Accademia
Romana
di
Archeologia
(l’aggettivo
Libera,
significativamente, venne presto abbandonato), di cui si riconosce oggi discendente l’attuale
Pontificia Accademia Romana di Archeologia, che infatti, in quella linea, ha celebrato nel 2010 il
bicentenario della sua fondazione; dopo il ritorno del papa lo statuto venne modificato, ed è
significativo che tra gli altri, sia caduto proprio quell’articolo che più di altri fa riflettere, l’articolo
13, che suonava: “chi commerciasse di antichità o di oggetti d’arte, o per spirito di negozio
contribuisse alla loro esportazione, non può essere membro della nostra Accademia”. Ben diversi,
ovviamente, gli intendimenti dello stato pontificio, dove, rallentato il commercio di sculture antiche
(sarebbe ripreso alla grande nei decenni finali del XIX secolo, stavolta a disdoro dello stato
unitario) si prospettava l’avvio di una nuova, non meno devastante epopea di saccheggio, quella
delle necropoli etrusche.
Dopo l’unità, il problema della tutela dei beni archeologici e artistici si riaffacciò pressante,
sul piano tecnico perché le legislazioni dei vecchi stati presentavano difformità e discrasie, che
andavano unificate e sanate; ma soprattutto, sul piano dei contenuti, i beni culturali erano chiamati
alla funzione di componente base del cemento unitario, un fattore sostanziale dell’ identità
nazionale, in cui si riconoscessero le generazioni della nuova Italia, e costituisse momento
essenziale della loro formazione. Settis ha ricordato in acuta sintesi le tappe della vicenda: l’iter
della nuova legge di tutela si prolunga per decenni con ripetuto impegno di ministri della destra e
della sinistra, con un avvicendarsi di proposte che costituiscono una straordinaria filigrana delle
posizioni ideologiche e degli interessi, anche brutalmente economici, della classe politica del
tempo. Dalla prima proposta, di Cesare Correnti, nel 1871, subito affossata in parlamento, si deve
giungere al 1902 per la promulgazione di una prima legge, che sarà finalmente ripensata e
organicamente rifatta sette anni dopo con la legge Rava del 1909, una vera svolta, quest’ultima, che
costituirà un primo punto fermo nella storia della tutela – ma ben 39 anni dopo l’Unità. Certo non
per caso: la lunghissima vacatio era servita a consentire operazioni senza precedenti; all’inizio del
nuovo secolo, la capitale d’Italia si trovava depauperata di collezioni smembrate e vendute
all’estero, Villa Peretti-Montalto, la celeberrima villa Ludovisi lottizzata (un episodio che tutta
l’intellighenzia europea sentì come una ferita alla coscienza comune); la speculazione edilizia, che
investiva tutte le aree ancora intatte entro e fuori le mura, immetteva sul mercato migliaia di statue e
oggetti antichi da scavi più o meno leciti che andarono a formare una delle più prestigiose
collezioni europee oggi esistenti, quella della Ny Carlsberg Glyptotek a Copenhagen, e poi in
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America, dove, accanto alle collezioni di magnati della finanza e della industria, prendevano
rapidamente consistenza i grandi musei, il Metropolitan di New York, Boston, Filadelfia.
Ci avviciniamo ai nostri tempi. La legislazione successiva del 1939, superata ora dal nuovo
codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che è del 2004 (e che ha recuperato la nozione di
paesaggio come bene culturale) va sotto il nome di leggi Bottai che, per l’archeologia, non
innovavano sostanzialmente rispetto alla legge del 1909; gli strumenti della tutela restavano (e, con
varianti, restano ancor oggi) legati a provvedimenti di vincolo puntuali, che richiedevano procedure
macchinose e spesso facile oggetto di contestazione. Mancava del tutto, nelle leggi del 1939, il
riconoscimento alla archeologia di una funzione propositiva nella determinazione dell’assetto del
territorio, del suo diritto-dovere di difendere, per dirla con Quatremère de Quincy, non solo le
colonne e gli archi trionfali, ma anche i luoghi, le montagne, le relazioni reciproche nel quadro del
paesaggio della storia. Oggi, le leggi vigenti in materia di pianificazione urbanistico-territoriale
(materia resa più articolata e complessa dalla divisione delle competenze tra stato e Regioni e enti
locali), hanno accettato la presenza degli archeologi in sede di discussione di piani in corso di
adozione, in cui però, nel migliore dei casi (e, come si vede, in uno spirito ben diverso da quello
della Convenzione della Valletta) quel che si può ottenere, in una lotta impari con le altre
competenze e i poteri pubblici, è che le grandi opere infrastrutturali destinate ad impattare sul
territorio in modo irreversibile, siano precedute da un’analisi archeologica estesa (c.d. “archeologia
preventiva”): misura importante, che però quasi mai ha la forza di determinare modifiche di
progetto che consentano il salvataggio dei manufatti rinvenuti. Ma l ’archeologia preventiva
impegna le strutture delle soprintendenze archeologiche in un’attività soverchiante, spesso protratta
sul filo degli anni (pensate solo quale sia stato l’impegno per seguire le autostrade o le linee
ferroviarie ad alta velocità), che la Direzione Generale per la Archeologia del Ministero per i BBCC
calcola oggi oltrepassi il 90% della sua attività complessiva: come risultato, migliaia e migliaia di
casse di materiali, prodotto degli scavi, vengono accumulate in depositi sconfinati, talvolta costruiti
appositamente, in attesa di uno studio che non verrà mai perché la quantità è soverchiante e non
potrebbe mai gravare sulle spalle dei pochi funzionari tecnici (e qui potrebbero venire in aiuto, se lo
si volesse, le Università e gli Istituti archeologici stranieri accreditati sul nostro territorio), in un
Ministero sempre più burocratizzato e sempre più gracile di risorse, e sottoposto ad un pesante
stress istituzionale che giunge a provocazioni mortificanti.
Ma l’ora è avanzata, e mi fermo qui. Per concludere questo discorso avevo preparato,
come consiglia la retorica, qualche frase di moderato ottimismo, ma sono rimasto senza parole nel
leggere ieri su La Repubblica (articolo di Fr. Erbani, 20 Giugno 2013) di una normativa ministeriale
che impone ai funzionari che abbiano una responsabilità di musei o di aree archeologiche, la
rotazione triennale del posto di lavoro. Ora, tutti sanno che per portare a compimento un progetto di
un qualche respiro tre anni sono del tutto insufficienti: spostare i funzionari dopo tre anni significa
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farne dei perpetui incompetenti; ma non è neppure questo il problema. Quello che indigna è lo
spirito della disposizione, presentata come una norma anticorruzione, nella presunzione che una
permanenza più che triennale nello stessa sede consolidi posizioni di potere rendendo
potenzialmente i funzionari protagonisti “di episodi corruttivi” (testuale). Abbiamo ancora, ma per
poco (sono tutti over 55 o più), la fortuna di avere un apparato di funzionari, archeologi e non solo,
motivati e capaci, un valore di cui sembra che il Ministero non sia in grado di rendersi conto, nuovo
Saturno che divora i suoi figli migliori - e cito al riguardo il quadro di Goya con questo soggetto
che, non a caso, Settis ha scelto a copertina del suo libro Italia s.p.A. Ebbene, è possibile che del
provvedimento non si faccia nulla; del resto, è già per sé ben curiosa l’idea che basti cambiar di
sedia ogni tre anni per fortificare una carne debole, e mondare dal peccato un’indole incline a
cedere alle tentazioni; e ancor più strano che si cerchino i potenziali corrotti non fra i dirigenti, cioè
coloro che hanno istituzionalmente capacità di spesa, ma fra quelli che costituiscono i quadri
intermedi e capacità di spesa non hanno; dunque si può sperare si tratti di un atto pro forma, senza
applicazioni reali. Ma, comunque finisca, al cospetto di un’opinione pubblica, raramente ben
disposta verso i poteri dello stato e sempre affamata di scandali, si sarà ottenuto il risultato di
offendere i funzionari, archeologi e non, e di delegittimare la loro azione come quella di potenziali
corrotti. Le cose non avvengono per caso: spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che il
documento della Valletta, che da 21 anni attende invano l’assenso del nostro paese, dovrà aspettare
ancora.
Fausto Zevi
P.S. Preciso doverosamente che l’indignazione per la predetta circolare ministeriale si è
tramutata, nei giorni immediatamente successivi al mio discorso linceo, in una lettera al Ministro
Bray, firmata da centinaia di qualificati archeologi, italiani e stranieri, comprese tutte le maggiori
personalità del settore; e che, in conseguenza, il Ministro ha disposto, con una sua nota, la
sospensione delle prescrtizioni contenute nella circolare.
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