Conoscenza e tutela archeologica tra Grand Tour e turismo
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Conoscenza e tutela archeologica tra Grand Tour e turismo
ACCADEMIANAZIONALEDEILINCEI ADUNANZA GENERALE SOLENNE 21 giugno 2013 FAUSTO ZEVI CONOSCENZA E TUTELA ARCHEOLOGICA TRA GRAND TOUR E TURISMO Sono grato alla presidenza dell’Accademia per avermi affidato questo compito, anche se so bene che, fra i consoci, ci sarebbe stato chi, più preparato e valente di me, avrebbe potuto far meglio, molto meglio. Giorni fa, il ministro Bray intervenendo ad un incontro di giovani archeologi, ha assicurato il suo impegno su alcuni temi importanti: interventi sul codice dei BB CC (di modifiche abbiamo cominciato a leggere ieri qualcosa sui giornali), riforma del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, mi auguro col ripristino dei Comitati di Settore elettivi; infine ha anche promesso di adoperarsi per la ratifica della Convenzione della Valletta sul patrimonio archeologico, che immagino poco nota fuori della cerchia degli addetti ai lavori e di cui io stesso avevo appena sentito parlare. Intitolata Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico, è stata varata dal Consiglio d’Europa a Malta nel 1992, approvata in assemblea nel 1995, e via via ratificata, tra il 95 e il 2000, da ben 28 stati, praticamente tutti gli stati membri, dall’Azerbaigian all’Irlanda, con due sole eccezioni che diremo. Ma in che consiste questa convenzione? Leggo, dal preambolo: Gli Stati membri del Consiglio d’Europa -Ricordando che il patrimonio archeologico è un elemento essenziale per la conoscenza del passato delle civiltà; -Riconoscendo che il patrimonio archeologico europeo, testimone della storia antica, è gravemente minacciato dal moltiplicarsi dei grandi lavori di pianificazione del territorio e dai rischi naturali, dagli scavi clandestini o privi di carattere scientifico, o dall’insufficiente informazione del pubblico; 1 -Affermando l’importanza di istituire, laddove non esistano ancora, procedure di controllo amministrativo e scientifico, e la necessità di integrare la protezione dell’archeologia nelle politiche di pianificazione urbana e rurale, e di sviluppo culturale; -Sottolineano che la responsabilità della protezione del patrimonio archeologico incombe non solo allo Stato direttamente interessato, ma anche all’insieme dei paesi europei. Il documento prosegue con la condanna delle attività di scavo clandestine, e con l’impegno dei paesi sottoscriventi a fornire reciproco aiuto per stroncare tali illeciti – argomento questo di cui non abbiamo tempo di occuparci e per cui rinvio al bel libro di Fabio Isman I predatori dell’arte perduta. Il testo del documento riprende il preambolo; così l’art. 1 suona: 1. L’obiettivo della presente Convenzione è di proteggere il patrimonio archeologico in quanto fonte della memoria collettiva europea e strumento di studio storico e scientifico. E, all’art. 5 (dal titolo: Conservazione integrata del patrimonio archeologico), si legge: Ogni Parte si impegna: i) a cercare di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e della pianificazione, facendo in modo che degli archeologi partecipino: - a) alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione, conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico; - b) allo svolgimento delle diverse fasi dei programmi di pianificazione; ii) a garantire una consultazione sistematica tra archeologi, urbanisti e pianificatori del territorio, al fine di permettere: - a) la modifica dei progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio archeologico; - b) la concessione di tempo e mezzi sufficienti per effettuare uno studio scientifico adeguato del sito e per la pubblicazione dei risultati; iii) a fare in modo che gli studi d’impatto ambientale e le decisioni che ne risultano tengano debitamente conto dei siti archeologici e del loro contesto. A prima vista questo testo, così ben scritto, non sembra un testo rivoluzionario, anzi dice cose che, in apparenza, dovrebbero andare da sé, concetti che starei per dire di buon senso: gli archeologi, che hanno a compito la tutela delle presenze archeologiche del territorio, dovrebbero avere parte attiva nella programmazione territoriale. Ma non è così; altrimenti non si spiegherebbe perché l’Italia abbia avuto tante difficoltà a ratificare la convenzione: perché è proprio l’Italia, insieme con il Lussemburgo, il solo paese d’Europa che non abbia ancora firmato (e sono passati vent’anni, c’era ben il tempo di farlo). Ma non è l’Italia il paese che proclama di possedere da solo 2 il 40% di tutti i Beni Culturali del pianeta? Per non parlare di quelli archeologici, monumenti e complessi grandiosi e celeberrimi. E non è anche, l’Italia, il paese divorato dallo scavo clandestino, con la asportazione illegale di milioni di oggetti, a parte la distruzione irreparabile di elementi di informazione scientifica perduti per sempre? Come spiegare che tra i firmatari ci sia la Svizzera, da sempre paradiso protetto del commercio illegale di antichità, e non l’Italia? Eppure, quando ho scorso il testo della convenzione, ho avuto l’immediata percezione che fosse stata pensata proprio per l’Italia, come il paese che più di ogni altro avrebbe beneficiato dei suoi contenuti. Vi è dunque una contraddizione di fondo: l’Italia esalta, di fronte al mondo, la ricchezza dei suoi monumenti e dei suoi scavi, e rifiuta poi di accettare convenzioni internazionali intese proprio alla salvaguardia di quei beni, dei suoi beni. Eppure, in Italia, la questione della tutela dei beni culturali, archeologici in particolare, parte da molto lontano, ed è stata lungamente analizzata specialmente da S. Settis, in lavori recenti e recentissimi; e penso soprattutto al fondamentale suo Paesaggio Costituzione Cemento (2010). In effetti il nostro paese vanta una particolare tradizione in questo campo, con un’attenzione pubblica ai monumenti antichi e quindi con delle apposite norme al riguardo, che in molti casi risalgono addirittura al Medio Evo; a Roma, articolate disposizioni papali si susseguono dal primo ‘500 via via fino al celebre chirografo di Pio VII del 1802, e poi, sotto lo stesso pontefice, dopo le travagliate vicende dell’età napoleonica, all’editto Pacca, dal nome del Camerlengo che lo promulgò nel 1819, un editto largamente disatteso nella pratica ma la cui sostanza giuridica ha fornito basi alla legislazione successiva, anche postunitaria. Ma esisteva un’ampia e approfondita legislazione in materia anche presso gli altri stati italiani preunitari, che non posso qui analizzare in dettaglio e per la quale rinvio al classico volume di Andrea Emiliani. Di una legislazione severa si era dotato il regno di Napoli, soprattutto per parare il pericolo di furti o scavi illegali ad Ercolano Pompei e Stabia, scavi reali iniziati tutti sotto Carlo III di Borbone; solo più tardi successive prammatiche allargarono il registro della tutela agli edifici monumentali anche in proprietà privata. Ma più interessante per noi è il c.d. “patto di famiglia” del 1737, con cui l’ultima dei Medici, mentre il ducato passava ai Lorena, devolveva al suo popolo le raccolte d’arte medicee. E’ un periodo di alto prestigio ed influenza della cultura antiquaria toscana, rinnovata nei primi decenni del secolo dall’insegnamento di Filippo Buonarroti. Ma la scomparsa della dinastia medicea e le mutate condizioni dello stato facilitavano una diaspora di ingegni che peraltro si sarebbe rivelata feconda: non a caso, nella Napoli di Carlo III, primo ministro sarà Bernardo Tanucci professore nell’ateneo di Pisa, giurista e coltissimo uomo di lettere, ma non ignaro anche di “antichità figurate”, come egli dice, per avere ascoltato in gioventù le lezioni del Buonarroti; per non parlare di Marcello Venuti, dei Venuti di Cortona, preposto alla Biblioteca reale di Napoli, ma che si considerava, e a ragione, lo scopritore scientifico di Ercolano. Ma, ancor prima, è a Roma, col papa 3 Corsini, Clemente XII, che si avvertono nuove e illuminate forme di interesse nei confronti dell’antichità. Noi che siamo riuniti in questo palazzo, e ovviamente non solo noi, dobbiamo un ricordo specialmente grato a questa famiglia di principi, romana da poco tempo rispetto ad altre romane di più antica data, ma che seppe non solo conservare, ma consegnare intatto allo stato italiano, un insieme unico che, insieme alla straordinaria biblioteca, conserva tuttora la galleria di dipinti e le sculture antiche, nonché i magnifici giardini sulle pendici del Gianicolo; e non possiamo non avvertire qui un consapevole retaggio di quella illuminata cultura dello stato che Firenze aveva saputo costruire fin da età medicea e che a cavallo tra Otto e Novecento, nel tempo della travagliata elaborazione della prima legge nazionale di tutela, troverà un riferimento nell’ impegno di cittadini e intellettuali riuniti attorno al giornale Il Marzocco. Tornando al Settecento, Firenze si segnala per la rilevante impresa editoriale del Musaeum Florentinum, in cui ebbe parte il nipote del papa, Neri Corsini: ben 12 volumi usciti tra 1731 e 1763, cui collaborarono antiquari di fama, cito solo, per tutti, Anton Francesco Gori. Intendimento di quest’ opera monumentale non era solo illustrare al pubblico le raccolte medicee, ma redigerne un catalogo che costituisse in qualche modo una garanzia contro la dispersione. Gli stati italiani, compresa, come abbiamo visto, la Toscana, erano merce di conquista o di scambio nelle guerre per l’egemonia nell’ Europa del tempo, ed era ben giustificato il timore che in questi avvicendamenti dinastici le città potessero essere spogliate delle loro raccolte d’arte: così in effetti avvenne a Parma, da cui l’erede di Elisabetta Farnese, Carlo III, portò seco a Napoli le raccolte farnesiane (come è noto, anni dopo il figlio Ferdinando completò l’operazione trasferendo nella capitale partenopea la collezione Farnese, fino ad allora conservata nel palazzo romano). Si deve dunque a quel patto di famiglia, concordato a Vienna, se gli Uffizi costituiscono ancor oggi il maggior museo italiano per numero di visitatori, e uno tra i primi del mondo. A Roma, la situazione era diversa; a parte le raccolte papali, non ancora organizzate a Museo, tutte le grandi famiglie della nobiltà, principesca e cardinalizia, vantavano collezioni d’arte, con pezzi che spesso rivaleggiavano con quelli del pontefice; migrate in parte all’estero, sono divenute il nucleo costitutivo dei musei di tante capitali europee. Ma il settecento romano vede il costituirsi di una forma ulteriore di raccolta di antichità, non a prestigio delle famiglie, ma espressamente pensata nella prospettiva del mercato: il cardinal Albani, dopo aver venduto la sua prima collezione a Dresda, ne andava costituendo un’altra con gli stessi fini, finché papa Corsini, sollecitato dal nipote, la acquistò destinandola al popolo di Roma: essa costituì il primo nucleo dei Musei Capitolini, che perciò, in quanto musei, precedono gli stessi Musei Vaticani; un catalogo in tre volumi accompagnò il nuovo museo, per qualche tempo affidato alla direzione di un nobile toscano, il marchese Capponi. Ritroviamo, in questo episodio, un medesimo retroterra ideologico: a Firenze come a Roma, le raccolte d’arte, e a Roma soprattutto le antichità, si costituivano in patrimonio pubblico della città (un concetto questo, che altrove maturerà al fuoco della Rivoluzione: i Francesi fanno partire la costituzione del loro patrimoine 4 national da un famoso discorso dell’Abbé Grégoire del 31 Agosto 1794: le respect public entoure particulièrement les objets nationaux qui, n’étant à personne, sont la propriété de tous… Tous les monuments de sciences et d’art sont recommandés à la surveillance de tous les bons citoyens”). L’intervento di papa Corsini, certo non valse a far cessare lo scavo e il commercio dell’antico, in cui, verso la fine del secolo, oltre agli italiani avranno parte rilevante anche molti stranieri, specie inglesi; sotto il piccone di tali spregiudicati imprenditori, il suolo di Roma, insieme col suburbio, i castelli Romani, Ostia continuavano restituire una inesauribile messe di sculture antiche, mentre le botteghe dei marmisti e degli abili scultori deputati ai restauri rappresentavano in qualche modo l’indotto di questa attività tutt’altro che irrilevante della Roma papale. “Il cardinal Albani, scriveva nel 1764 il Grosley, è al momento le reparateur en chef dell’antichità: i pezzi più mutilati, più sfigurati e incurabili presso di lui riprendono il fiore dell’età: nova facit omnia”, fa tutto nuovo, e non a caso, è ora che si sviluppa nelle Accademie più avvertite (per esempio nella parigina Académie des Inscriptions et Belles Lettres) la polemica contro l’arbitrio dei restauri di integrazione, che falsavano irreparabilmente la genuinità del monumento, e creavano immagini fuorvianti, perpetuate e diffuse dalle stampe dei cataloghi, su cui era illegittimo costruire una qualsiasi ipotesi scientifica; e questo, senza nulla aggiungere alla qualità estetica dell’opera (si citava il caso paradigmatico del torso del Belvedere, uno dei pezzi più ammirati del Vaticano, che, dal Rinascimento in poi, nessuno aveva mai osato completare ancorché ridotto a un tronco mutilo; e sappiamo che i marmi Elgin del Partenone sono rimasti intatti come erano usciti dall’atelier di Fidia perché Canova sconsigliò di intervenire). L’avvenimento che rimescolò le carte, imponendo di ripensare in termini diversi metodi e scopi della ricerca archeologica, fu, nel 1738, la scoperta di Ercolano. La notizia percorse fulminea l’Europa, in un clima di emozione e di attesa frenetica. Ma lo scavo procedeva lentamente, per cunicoli; solo più tardi, a Pompei, la diversa natura del materiale vulcanico ne consentirà la rimozione totale, lasciando così in luce porzioni via via più estese dell’ antica città. Chi non conosceva i luoghi deprecava, peraltro giustamente, che ad Ercolano lo scavo non si conducesse all’aperto: nel 1747, l’anno prima dell’apertura degli scavi di Pompei, Scipione Maffei, lucida mente dell’antiquaria del tempo, scriveva: “o qual gran ventura dei giorni nostri è che si discopra non uno o altro antico monumento, ma una città! …Desiderabile è soprattutto che si risolvano a lavorar per di sopra, levando e trasportando quel monte di cenere… in questo modo la spenta città si farà rinascere e dopo 1700 anni rivedere la luce del sole: con grandissimo beneficio del paese correrà a Napoli tutta l’Europa erudita… procedendo alla cieca e per cunicoli, molto avverrà di guastare né si potrà mai vedere fabbrica nobile intera, né saper come e dove si collocassero le tante statue e gli altri ornamenti… sgombrando e lasciando tutto a suo luogo, la città tutta sarebbe incomparabil Museo”. Dunque non marmi più o meno mistificati, ma una città antica, con “tutto a suo luogo”. Era subentrato un concetto nuovo: non l’oggetto, per sé stesso, ma il contesto ai fini 5 della comprensione dell’antico e della sua ricostruzione storica; anche delle statue si vuol ora sapere di più, dove e come si collocassero. Nel 1766 Fr. de Latapie, un naturalista di Bordeaux (cinque anni fa una fortunata ricognizione presso un nipote a Saint Emilion ha permesso di rintracciare i 14 quaderni delle inedite Ephemerides del suo viaggio in Italia, ora in corso di studio) Latapie dunque visita Ercolano, Pompei e il Museo Ercolanese, e qui apprende, con disappunto, che gli oggetti provenienti dall’una e dall’altra città non sono stati tenuti distinti; da naturalista, sa bene l’importanza del contesto, dell’ambiente; avanza allora una proposta, di approntare, per ciascuno degli ambienti che mano a mano gli scavi riportavano in luce, una specie di targa, in marmo o in metallo, da applicare al muro con l’elenco ragionato di tutto ciò che vi era stato trovato: soluzione curiosa, ma in cui va apprezzata l’ esigenza di conservare memoria e valorizzare il contesto come indispensabile strumento nella comprensione dell’antico. Non possiamo, in questa occasione, omettere di citare un personaggio per molti aspetti centrale, nello sviluppo del pensiero critico al trapasso fra Sette e Ottocento. Quando, nel 1796, le armate di Bonaparte si apprestavano a varcare le Alpi intenzionate a trasferire in Francia, nella nuova Repubblica della libertà e delle lettere, i grandi monumenti di un passato rivendicato come esemplare, Quatremère de Quincy pubblica quello scritto che va sotto il nome di Lettere a Miranda, ma il cui titolo completo suona Sul pregiudizio che arrecherebbe alle arti e alle scienze il trasferimento di monumenti d’arte dall’Italia. E scrive: “Il vero museo di Roma, quello di cui sto parlando, si compone, certo, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti di ornati (architettonici), di materiali da costruzione, di arredi, di utensili etc.; ma nondimeno si compone anche dei luoghi, dei siti, delle montagne, delle cave, delle antiche strade, delle posizioni rispettive delle città antiche, dei rapporti geografici, delle relazioni di tutti gli oggetti fra di loro, dei ricordi, delle tradizioni locali, degli usi ancora esistenti, dei confronti e degli accostamenti che non si possono fare se non nel paese stesso”. (Nell’originale: “Le véritable muséum de Rome, célui dont je parle, se compose, il est vrai, de statues, de colosses, de temples, d’obélisques, de colonnes triomphales, de thermes, de cirques, d’amphitheatres, d’arcs de triomphe, de tombeaux, de stucs, de fresques, de bas-reliefs, d’inscriptions, de fragments d’ornéments, de matériaux de construction, de meubles, d’ustensiles, etc., mais il ne se compose pas moins des lieux, des sites, des montagnes, des carriéres, des routes antiques, des positions respectives des villes ruinées, des rapports géographiques, des relations de tous les objets entre eux, des souvenirs, des traditions locales, des usages encore existants, des parallèles et des rapprochements qui ne peuvent se faire que dans le pays meme”). Lo spirito, che avevamo già colto nelle parole di Maffei, si dilata qui ad una scala superiore che trascende largamente la dimensione puramente archeologica, né si potrebbe esprimere meglio la 6 visione di un paesaggio italiano percepito come un universo di relazioni in cui tutto è e si fa storia. Naturalmente Quatremère, con la sua difesa dello statu quo, non poteva che apparire un reazionario; le armate francesi vittoriose si comportarono ben diversamente. Ma basilare restava l’idea della proprietà pubblica di quanto l’antichità aveva tramandato. Un dettaglio significativo: nel 1810, nella Roma ormai parte dell’impero francese, un colto funzionario, il marchese de Gérando, promuove la costituzione di una Libera Accademia Romana di Archeologia (l’aggettivo Libera, significativamente, venne presto abbandonato), di cui si riconosce oggi discendente l’attuale Pontificia Accademia Romana di Archeologia, che infatti, in quella linea, ha celebrato nel 2010 il bicentenario della sua fondazione; dopo il ritorno del papa lo statuto venne modificato, ed è significativo che tra gli altri, sia caduto proprio quell’articolo che più di altri fa riflettere, l’articolo 13, che suonava: “chi commerciasse di antichità o di oggetti d’arte, o per spirito di negozio contribuisse alla loro esportazione, non può essere membro della nostra Accademia”. Ben diversi, ovviamente, gli intendimenti dello stato pontificio, dove, rallentato il commercio di sculture antiche (sarebbe ripreso alla grande nei decenni finali del XIX secolo, stavolta a disdoro dello stato unitario) si prospettava l’avvio di una nuova, non meno devastante epopea di saccheggio, quella delle necropoli etrusche. Dopo l’unità, il problema della tutela dei beni archeologici e artistici si riaffacciò pressante, sul piano tecnico perché le legislazioni dei vecchi stati presentavano difformità e discrasie, che andavano unificate e sanate; ma soprattutto, sul piano dei contenuti, i beni culturali erano chiamati alla funzione di componente base del cemento unitario, un fattore sostanziale dell’ identità nazionale, in cui si riconoscessero le generazioni della nuova Italia, e costituisse momento essenziale della loro formazione. Settis ha ricordato in acuta sintesi le tappe della vicenda: l’iter della nuova legge di tutela si prolunga per decenni con ripetuto impegno di ministri della destra e della sinistra, con un avvicendarsi di proposte che costituiscono una straordinaria filigrana delle posizioni ideologiche e degli interessi, anche brutalmente economici, della classe politica del tempo. Dalla prima proposta, di Cesare Correnti, nel 1871, subito affossata in parlamento, si deve giungere al 1902 per la promulgazione di una prima legge, che sarà finalmente ripensata e organicamente rifatta sette anni dopo con la legge Rava del 1909, una vera svolta, quest’ultima, che costituirà un primo punto fermo nella storia della tutela – ma ben 39 anni dopo l’Unità. Certo non per caso: la lunghissima vacatio era servita a consentire operazioni senza precedenti; all’inizio del nuovo secolo, la capitale d’Italia si trovava depauperata di collezioni smembrate e vendute all’estero, Villa Peretti-Montalto, la celeberrima villa Ludovisi lottizzata (un episodio che tutta l’intellighenzia europea sentì come una ferita alla coscienza comune); la speculazione edilizia, che investiva tutte le aree ancora intatte entro e fuori le mura, immetteva sul mercato migliaia di statue e oggetti antichi da scavi più o meno leciti che andarono a formare una delle più prestigiose collezioni europee oggi esistenti, quella della Ny Carlsberg Glyptotek a Copenhagen, e poi in 7 America, dove, accanto alle collezioni di magnati della finanza e della industria, prendevano rapidamente consistenza i grandi musei, il Metropolitan di New York, Boston, Filadelfia. Ci avviciniamo ai nostri tempi. La legislazione successiva del 1939, superata ora dal nuovo codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che è del 2004 (e che ha recuperato la nozione di paesaggio come bene culturale) va sotto il nome di leggi Bottai che, per l’archeologia, non innovavano sostanzialmente rispetto alla legge del 1909; gli strumenti della tutela restavano (e, con varianti, restano ancor oggi) legati a provvedimenti di vincolo puntuali, che richiedevano procedure macchinose e spesso facile oggetto di contestazione. Mancava del tutto, nelle leggi del 1939, il riconoscimento alla archeologia di una funzione propositiva nella determinazione dell’assetto del territorio, del suo diritto-dovere di difendere, per dirla con Quatremère de Quincy, non solo le colonne e gli archi trionfali, ma anche i luoghi, le montagne, le relazioni reciproche nel quadro del paesaggio della storia. Oggi, le leggi vigenti in materia di pianificazione urbanistico-territoriale (materia resa più articolata e complessa dalla divisione delle competenze tra stato e Regioni e enti locali), hanno accettato la presenza degli archeologi in sede di discussione di piani in corso di adozione, in cui però, nel migliore dei casi (e, come si vede, in uno spirito ben diverso da quello della Convenzione della Valletta) quel che si può ottenere, in una lotta impari con le altre competenze e i poteri pubblici, è che le grandi opere infrastrutturali destinate ad impattare sul territorio in modo irreversibile, siano precedute da un’analisi archeologica estesa (c.d. “archeologia preventiva”): misura importante, che però quasi mai ha la forza di determinare modifiche di progetto che consentano il salvataggio dei manufatti rinvenuti. Ma l ’archeologia preventiva impegna le strutture delle soprintendenze archeologiche in un’attività soverchiante, spesso protratta sul filo degli anni (pensate solo quale sia stato l’impegno per seguire le autostrade o le linee ferroviarie ad alta velocità), che la Direzione Generale per la Archeologia del Ministero per i BBCC calcola oggi oltrepassi il 90% della sua attività complessiva: come risultato, migliaia e migliaia di casse di materiali, prodotto degli scavi, vengono accumulate in depositi sconfinati, talvolta costruiti appositamente, in attesa di uno studio che non verrà mai perché la quantità è soverchiante e non potrebbe mai gravare sulle spalle dei pochi funzionari tecnici (e qui potrebbero venire in aiuto, se lo si volesse, le Università e gli Istituti archeologici stranieri accreditati sul nostro territorio), in un Ministero sempre più burocratizzato e sempre più gracile di risorse, e sottoposto ad un pesante stress istituzionale che giunge a provocazioni mortificanti. Ma l’ora è avanzata, e mi fermo qui. Per concludere questo discorso avevo preparato, come consiglia la retorica, qualche frase di moderato ottimismo, ma sono rimasto senza parole nel leggere ieri su La Repubblica (articolo di Fr. Erbani, 20 Giugno 2013) di una normativa ministeriale che impone ai funzionari che abbiano una responsabilità di musei o di aree archeologiche, la rotazione triennale del posto di lavoro. Ora, tutti sanno che per portare a compimento un progetto di un qualche respiro tre anni sono del tutto insufficienti: spostare i funzionari dopo tre anni significa 8 farne dei perpetui incompetenti; ma non è neppure questo il problema. Quello che indigna è lo spirito della disposizione, presentata come una norma anticorruzione, nella presunzione che una permanenza più che triennale nello stessa sede consolidi posizioni di potere rendendo potenzialmente i funzionari protagonisti “di episodi corruttivi” (testuale). Abbiamo ancora, ma per poco (sono tutti over 55 o più), la fortuna di avere un apparato di funzionari, archeologi e non solo, motivati e capaci, un valore di cui sembra che il Ministero non sia in grado di rendersi conto, nuovo Saturno che divora i suoi figli migliori - e cito al riguardo il quadro di Goya con questo soggetto che, non a caso, Settis ha scelto a copertina del suo libro Italia s.p.A. Ebbene, è possibile che del provvedimento non si faccia nulla; del resto, è già per sé ben curiosa l’idea che basti cambiar di sedia ogni tre anni per fortificare una carne debole, e mondare dal peccato un’indole incline a cedere alle tentazioni; e ancor più strano che si cerchino i potenziali corrotti non fra i dirigenti, cioè coloro che hanno istituzionalmente capacità di spesa, ma fra quelli che costituiscono i quadri intermedi e capacità di spesa non hanno; dunque si può sperare si tratti di un atto pro forma, senza applicazioni reali. Ma, comunque finisca, al cospetto di un’opinione pubblica, raramente ben disposta verso i poteri dello stato e sempre affamata di scandali, si sarà ottenuto il risultato di offendere i funzionari, archeologi e non, e di delegittimare la loro azione come quella di potenziali corrotti. Le cose non avvengono per caso: spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che il documento della Valletta, che da 21 anni attende invano l’assenso del nostro paese, dovrà aspettare ancora. Fausto Zevi P.S. Preciso doverosamente che l’indignazione per la predetta circolare ministeriale si è tramutata, nei giorni immediatamente successivi al mio discorso linceo, in una lettera al Ministro Bray, firmata da centinaia di qualificati archeologi, italiani e stranieri, comprese tutte le maggiori personalità del settore; e che, in conseguenza, il Ministro ha disposto, con una sua nota, la sospensione delle prescrtizioni contenute nella circolare. 9