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19-25 maGGio 2014
liBia - 19 maGGio 2014
La sterzata dei militari: sciolto il parlamento libico
Il governo ha disposto la sospensione temporanea del Congresso Nazionale
Generale sfiduciando il nuovo premier Ahmed Maetiq. Anche le forze speciali
libiche si alleano al generale Khalifa Haftar
Si fanno sempre più foschi i contorni della crisi libica. Ieri sera, al termine di una riunione
di gabinetto convocata d’urgenza, il governo ha disposto la sospensione temporanea di ogni
attività del Congresso Nazionale Generale (il parlamento libico) sino a quando non si svolgeranno nuove elezioni. In una lettera inviata ai membri del Congresso, l’esecutivo ha posto
i dieci punti dell’ennesima road map di transizione che dovrà guiderà il Paese al voto per il
rinnovo del parlamento. In un solo colpo vengono così indette elezioni anticipate, che dovranno tenersi non oltre il 15 agosto, e soprattutto viene messo alla porta il nuovo premier
Ahmed Maetiq, che il 5 maggio era stato nominato primo ministro grazie ai voti dei deputati
appartenenti al Partito Giustizia e Costruzione, ala libica dei Fratelli Musulmani, al termine
di una votazione che molti avevano definito irregolare.
Oltre alla fugace uscita di scena di Maetig, è stato anche stabilito che al Congresso verrà
concesso solo il tempo necessario per approvare il bilancio del 2014. L’ufficio di gabinetto
ha inoltre rimandato a sé ogni decisione che vorrà essere assunta dal comandante in capo
delle forze armate libiche, Nuri Abu Sahmain, e dal capo di stato maggiore, Abdussalam Jadallah Obeidi.
E così il premier dimissionario Abdullah Al Thinni ha deciso di non opporre resistenza al
generale Khalifa Haftar, che il 16 maggio con le sue truppe del Libyan National Army aveva
accerchiato il parlamento di Tripoli e sferrato una serie di attacchi a Bengasi contro non
meglio specificati “gruppi di terroristi islamici”.
Non è ancora chiaro quale sia il ruolo di Al Thinni. Le cose certe, al momento, però sono
due. Da ben prima di annunciare la volontà di dimettersi era entrato in contrasto con buona
parte del Congresso, in particolare con il suo ramo islamista, retroscena che spiegherebbe
la decisione del governo di sbarazzarsi così velocemente del nuovo premier Maetiq.
Inoltre, ed è questo l’aspetto più rilevante, con questa comunicazione Al Thinni di fatto
mette nelle mani di Khalifa Haftar il destino della Libia, il quale sempre ieri sera ha ottenuto
l’appoggio di un altro pezzo dell’esercito regolare, le forze speciali di libiche guidate Wanis
Bukhamada (nella foto). Questi, stando a quanto riferito da Ansa, avrebbe già messo a sua disposizione aerei, elicotteri e pezzi d’artiglieria pesante, che vanno ad aggiungersi alle basi aeree
di Tobruk e Benina (a Bengasi) che nella notte erano passate sotto il comando di Haftar.
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Le reazioni dall’estero
La crisi libica ha innescato una serie di reazioni a catena in tutto il Mediterraneo. La CNN
ha riferito che l’esercito americano ha portato a otto il numero di aerei da trasporto militari
V-22 Osprey che si trovano nella base militare di Sigonella, in Sicilia, qualora fosse necessario
evacuare lo staff dell’ambasciata americana a Tripoli. Ieri il governo saudita ha chiuso la
sua ambasciata nella capitale. La stessa decisione era stata già presa dall’Algeria, che ha anche imposto maggiori controlli lungo il confine con la Libia, e dagli Emirati Arabi. A risentire del caos è inevitabilmente anche il settore energetico. La compagnia di Stato algerina
Sonatrach e il colosso francese Total hanno infatti già disposto il rientro di buona parte del
proprio personale operativo in diversi siti libici.
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niGeria - 20 maGGio 2014
Boko Haram alza il tiro, oltre 100 morti a Jos
Con oltre 1.500 morti da inizio anno e dopo l’episodio delle studentesse rapite,
il terrorismo in Nigeria avanza. USA ed Europa meditano una risposta adeguata
Cresce di ora in ora il numero delle vittime per l’esplosione di due autobombe nella città
di Jos, nello Stato di Plateau, nella parte centrale della Nigeria. A riferirlo è l’agenzia nazionale per la gestione delle crisi (Nema), che teme un bilancio ancora peggiore dei 118 decessi
inizialmente stimati.
Nel mirino dei terroristi stavolta c’erano una stazione dei taxi e il Terminus market. Anche
se una rivendicazione per il momento non è arrivata, le indagini addebitano la responsabilità
a Boko Haram, il pericoloso gruppo islamista che, in particolare dal 2009, semina il panico
nel nord del Paese ed è stato protagonista lo scorso aprile dello spettacolare rapimento di
oltre duecento studentesse cristiane (poi da loro convertite all’Islam).
Dall’inizio dell’anno, sono già morte oltre 1.500 persone in attacchi di Boko Haram e il
gruppo sta intensificando le operazioni terroristiche giorno dopo giorno. Il mese scorso,
oltre cento persone sono state uccise in due attentati gemelli nella capitale Abuja, mentre
un attentatore suicida domenica ha colpito a Kano, uccidendo cinque persone.
Ieri, invece, a scatenare il panico tra la popolazione sono state due esplosioni a tempo, a
distanza di venti minuti, pensate per provocare il maggior numero di vittime civili possibile.
“Ci vogliono tutti morti” è stato il tweet più condiviso sui social network in queste ore, opera
di una fotografa nigeriana, che testimonia il clima di terrore che regna in queste ultime settimane in Nigeria, duramente colpita da Boko Haram.
Una tecnica, quella delle esplosioni a tempo con l’utilizzo di camion bomba, che è tristemente nota e che abbiamo già visto utilizzata in Afghanistan e Iraq. Lo stile è quello di Al
Qaeda, anche se il marchio della jihad internazionale non va confuso con questo gruppo
terroristico, che invece è di matrice locale e affonda le radici della propria esistenza nella
estrema povertà in cui versa il nord del Paese, islamista e arretrato, dove manca l’economia
del petrolio, gestita invece nel sud cristiano e nella costa tra Lagos e soprattutto Port Harcourt, nel Delta del Niger.
Il salto di qualità di Boko Haram
In ogni caso, l’episodio di Jos certifica il salto di qualità dei terroristi, che hanno iniziato
la loro attività con azioni mordi e fuggi ed esplosivi artigianali lanciati dalle moto in corsa e
sono arrivati sin qui. Segno che la sfida al governo del presidente Goodluck Jonathan è in
pieno svolgimento e che Boko Haram intende allungare la scia di sangue da qui al 2015,
quando sono previste le elezioni presidenziali. Ma segno anche che il gruppo potrebbe essere stato infiltrato da nuovi strateghi, magari stranieri, che intendono coordinare e spettacolarizzare le azioni stragiste.
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A guidare il gruppo, oggi è il teologo Abubakar Shekau, che ha ereditato la leadership
dal defunto Mohammed Yusuf e dai primi guerriglieri islamisti che operavano in Nigeria
già dal 2002. Shekau è descritto come un fanatico sanguinario e tutto fa pensare che la sua
guerra contro il governo e i cristiani non finisca qui. A dare fiducia al leader di Boko Haram
sono poi l’impotenza dello Stato, che si è dimostrato inerme sinora, e le condizioni sul campo, che di fatto impediscono a Jonathan di stanare i terroristi.
Lo Stato del Borno, in particolare, quartier generale di Boko Haram (nome che significa
“la cultura occidentale è peccato”), consente al gruppo di spadroneggiare, grazie soprattutto
alla morfologia del territorio: la Foresta di Sambisa, un’area di ben 60mila chilometri quadrati nel nordest, è impenetrabile alle forze dell’ordine e qui verosimilmente sono nascosti
sia i guerriglieri sia le studentesse rapite. Sinora, i militari si sono rifiutati di inoltrarsi nella
foresta per stanare i terroristi, asserendo che il governo non li arma a sufficienza per sconfiggere i jihadisti.
La popolazione insorge, l’Europa valuta l’intervento
Questo potrebbe spingere la popolazione a farsi giustizia da sé e innescare i meccanismi
di una guerra civile dai risvolti imprevedibili. In questi giorni, le cronache riportano di centinaia di uomini - per lo più cacciatori armati di fucili, spade, pugnali, archi e frecce avvelenate - che si stanno radunando intorno alla città di Maiduguri. Padri e fratelli delle
studentesse rapite, ma anche persone normali che non ne possono più di vivere sotto la minaccia incombente del più retrogrado terrorismo islamico che l’Africa conosca.
Jos stessa, capitale dello Stato di Plateau, già in passato è stata protagonista di violenti scontri tra pastori cristiani e musulmani. “Subito dopo l’attentato alcuni ragazzi cristiani hanno
messo in piedi dei checkpoint, ma le autorità religiose stanno mediando per evitare altra
violenza”, ha raccontato all’ANSA Lionello Fani, un italiano della Onlus Apurima che da
anni vive in Nigeria.
In questo clima, per evitare una destabilizzazione maggiore, la Francia – attivissima negli
scenari di crisi africani – ha organizzato un summit a Parigi lo scorso 17 maggio, dove il presidente Francois Hollande ha ospitato il presidente della Nigeria e i capi di stato di Ciad,
Camerun, Niger e Benin, insieme a rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione
Europea.
È stato deciso un piano d’azione regionale per combattere efficacemente la setta islamica
- “Siamo qui per dichiarare guerra a Boko Haram” ha riferito il presidente del Camerun Paul
Biya - anche perché l’intelligence francese teme che i contatti tra Boko Haram e AQIM (Al
Qaeda nel Magherb Islamico, già protagonista della guerra in Mali) si siano intensificati.
Per il momento, il piano d’azione prevede solo il coordinamento dei servizi segreti, lo
scambio di informazioni, una regia unitaria per lotta al gruppo islamista e la sorveglianza
delle frontiere. Ma non si è parlato dello schieramento di truppe francesi: “non ce n’è bisogno” ha dichiarato Hollande, concordemente con il presidente Jonathan. Al quale, se è
vero il motto del nomen omen, non resta che augurare “Goodluck”.
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tHailandia - 21 maGGio 2014
La storia si ripete: ennesimo colpo di stato
in Thailandia
In un discorso televisivo alla nazione il generale Prayuth Chan-ocha annuncia
il golpe dei militari, il 12esimo dal 1932. Le immagini da Bangkok
Alla fine l’annuncio è arrivato con un intervento in diretta televisiva poche ora fa del generale Prayuth Chan-ocha: l’esercito ha preso il controllo del governo nel tentativo di ristabilire l’ordine in Thailandia. Gli accampamenti dei manifestanti pro e anti governativi sono
stati smantellati subito dopo l’annuncio. I politici di maggioranza e opposizione che partecipavano a una riunione convocata dallo stesso Chan-ocha per discutere una soluzione politica alla crisi sono stati presi in custodia dai militari, compresi i quattro ministri inviati dal
governo ad interim, mentre non si hanno notizie su dove si trovi il primo ministro Niwattumrong Boonsongpaisan.
Il colpo di Stato è arrivato a poco meno di due giorni dall’imposizione della legge marziale. In quell’occasione Chan-ocha aveva giurato pubblicamente che i militari intendevano
solo garantire l’ordine pubblico e che non si trattava pertanto di un golpe. Molte cancellerie
occidentali, e non solo, avevano espresso profonda preoccupazione per l’intervento dei militari, certamente non nuovi a colpi di Stato nel Paese. “Ci auguriamo che i militari tengano
fede alla parola dato”, aveva dichiarato in un comunicato la portavoce del Dipartimento di
Stato americano, Jen Psaki. Si attende adesso la reazione di Washington ed è molto probabile
che si tradurrà in sanzioni economiche alla Thailandia e nella sospensione deli aiuti militari.
Assunto il potere, l’esercito ha ordinato la sospensione della Costituzione e l’entrata in vigore
del coprifuoco dalle 10 di sera fino alle 5 del mattino. Ogni trasmissione radiotelevisiva è stata
interrotta, sono autorizzati solo i comunicati diramati dalla commissione incaricata dall’esercito di governare il Paese. “Tutte le radio e stazioni televisive, satellitari e via cavo, devono interrompere la normale programmazione e diffondere solo contenuti militari fino a nuovo
ordine”, ha annunciato in televisione il vice del portavoce dei militari, Winthai Suvaree.
In queste ore la popolazione si affida ai social network per ricevere e mandare aggiornamenti sulla situazione e su Twitter è stato annunciato l’oscuramento della rete locale di
BBC, CNN e Al-Jazeera, mentre l’ambasciata americana a Bangkok è ricorsa a Facebook per
diffondere l’allerta ai propri connazionali. Nonostante per le strade non si vedano processioni di mezzi militari e di truppe, l’annuncio ha causato panico nella capitale e problemi
al sistema di trasporto pubblico, con lunghe code verso l’aeroporto. Si tratta del colpo di
Stato numero 12 dal 1932, a cui andrebbero aggiunti altri 7 tentativi andati a vuoto negli ultimi anni.
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siria - 22 maGGio 2014
I lealisti riprendono la prigione di Aleppo
Le truppe governative mettono fine all’assedio della prigione, da dove per
un anno i ribelli hanno cercato di liberare oltre 4mila detenuti. Intanto Mosca
annuncia che bloccherà in sede ONU la risoluzione della Francia
sulla crisi siriana
Il conflitto in Siria prosegue sul doppio livello del scontro militare e della diplomazia. Poche ore fa le truppe di Assad sono riuscite a mettere fine all’assedio della prigione di Aleppo
da parte dei ribelli che da oltre un anno cercavano di espugnarla per liberare oltre 4mila
detenuti. La situazione rimane incandescente a sud, soprattutto ai piedi del Golan, dove si
stima operino 60 gruppi di ribelli che, contrariamente a quanto succede nelle aree settentrionali, portano avanti azioni congiunte. Sono circa 2mila i miliziani di Jabhat Al Nusra che
operano tra la pianura di Hauran e Deraa e il confine con la Giordania.
Secondo alcuni resoconti locali, la popolarità del gruppo legato ad Al Qaeda sta crescendo,
grazie soprattutto a un’azione di reclutamento con salari elevati e rifornimenti di generi di
prima necessità alle famiglie, seguendo le orme di una politica inaugurata negli anni Ottanta
da Hezbollah nel sud del Libano. La sorte della Siria potrebbe essere determinata da quello
che succederà nelle aree meridionali; il regime sembra esserne consapevole e sta muovendo
in forze dalla parte settentrionale, dove la situazione si è stabilizzata a suo favore, verso sud.
Sarà questo, forse, il terreno di scontro decisivo.
Intanto arrivano novità dalle Nazioni Unite. L’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite,
Vitaly Churkin, ha dichiarato alla stampa che bloccherà qualunque iniziativa mirata a portare la questione siriana di fronte al Tribunale Penale Internazionale. Il riferimento è alla
proposta della Francia di mettere al voto una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per deferire la crisi al tribunale, in modo che esso possa investigare su crimini di guerra e contro
l’umanità perpetrati dalle parti in conflitto.
Ma la Russia ha già posto tre veti in passato su altrettante risoluzioni e non ha problemi a
continuare su questa strada. Churkin al proposito è stato chiaro: ”la bozza presentata dalla
Francia avrà effetti dannosi sui nostri sforzi congiunti per cercare di risolvere la crisi in Siria
politicamente”. Secca e immediata la replica del collega francese Gerard Araud: “Non può
argomentare contro la risoluzione dicendo che rovinerà il processo politico, perché non
esiste un processo politico”.
La fase negoziale è in effetti entrata in una fase di stallo, dopo che anche l’inviato speciale
di Lega Araba e Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha alzato bandiera bianca e dato le dimissioni dall’incarico che lascerà a fine mese, mentre il numero delle vittime continua a salire
avendo raggiunto, secondo gli ultimi aggiornamenti dell’Osservatorio siriano per i diritti
umani, oltre 164mila morti. Le cancellerie occidentali hanno raddoppiato l’attività di lobbyng nell’ultima settimana, ottenendo il supporto alla bozza di risoluzione da parte di una
cinquantina di Stati, anche se il sistema dei veti all’interno del Consiglio di Sicurezza è in
grado di bloccare qualunque maggioranza.
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eGitto - 23 maGGio 2014
Ucciso il leader dei terroristi del Sinai
Shadi el-Menei, capo del gruppo islamista Ansar al-Beit Maqdis, è stato
eliminato nella notte. Dalla destituzione dell’ex presidente Morsi i suoi miliziani
hanno intensificato gli attacchi soprattutto al confine con Israele
A tre giorni dalle elezioni presidenziali dal Sinai arriva una notizia positiva per la sicurezza
dell’Egitto. È di ieri sera la notizia dell’uccisione di Shadi el-Menei, considerato il leader
del gruppo islamista Ansar al-Beit Maqdis (“Sostenitori di Gerusalemme”). Su quanto sia effettivamente accaduto circolano versioni discordanti. Secondo fonti della sicurezza egiziana
il terrorista sarebbe stato ucciso dai militari nella notte insieme ad altre tre membri anziani
dell’organizzazione. Il gruppo si trovava a bordo di un’auto nel centro del Sinai ed era in
procinto di effettuare un attacco contro un gasdotto. Altre fonti sostengono invece che El
Menei sia stato ucciso da ignoti insieme ad altri cinque membri di Ansar al-Beit Maqdis.
In attesa di conoscere la reale dinamica del blitz, appare comunque evidente il tentativo
da parte dell’esercito egiziano di appropriarsi della titolarità dell’uccisione di un islamista
pericoloso come Shadi el-Menei, un risultato che fa certamente comodo al generale Abdel
Fattah Al Sisi nel rush finale che lo separa dalle elezioni presidenziali del 26 e 27 maggio.
Chi sono i terroristi di Ansar al-Bayt Maqdis
Ansar al-Bayt Maqdis (“Sostenitori di Gerusalemme”) è il principale gruppo terroristico attivo
nella Penisola del Sinai e viene associato alla maggior parte degli attentati che hanno sconvolto
l’Egitto a seguito della messa al bando dei Fratelli Musulmani. La formazione, di chiara matrice
salafita, è emersa nel 2011 con la cacciata di Hosni Mubarak ma dopo la destituzione dell’ex
presidente Mohamed Morsi e l’allontanamento dei Fratelli Musulmani dalla scena politica nazionale, ha intensificato le proprie azioni iniziando a colpire indifferentemente forze dell’ordine sia egiziane che israeliane e tentando di sabotare più volte gasdotti e oleodotti.
Inoltre, i membri della formazione terroristica filo-qaedista sono i diretti responsabili di
attacchi in diverse città egiziane (le esplosioni nella stazione di polizia di Mansoura nel dicembre 2013 provocarono 16 vittime), di un attentato al ministro dell’Interno egiziano Mohammed Ibrahim nel settembre 2013, dell’abbattimento di un elicottero militare nel Sinai
e del lancio di razzi contro lo Stato d’Israele più volte intercettati dal sistema missilistico di
difesa Iron Dome (nell’agosto del 2013 un razzo lanciato contro un resort a Eilat sul Mar
Rosso venne abbattuto). Come noto, Ansar al-Bayt Maqdis è legato all’attentato del 16 febbraio nell’area di Taba, al confine con Israele nel Sinai, costato la vita a tre turisti sudcoreani
e al loro autista egiziano (e nel quale sono rimaste ferite anche altre 14 persone), anche se
in realtà l’obiettivo era colpire la città israeliana di Eliat.
A marzo uno dei suoi fondatori, Tawfiq Mohamed Fareej, era morto accidentalmente a seguito dell’esplosione di una bomba che stava trasportando a bordo della sua auto. Negli ultimi
mesi pare che il gruppo sia stato supportato da cellule islamiste radicate nel Delta del Nilo e in
alcune zone del Cairo, dove sono stati sferrati diversi attacchi. La settimana scorsa a nord del
Cairo due ufficiali dell’esercito e cinque miliziani islamisti sono morti in uno scontro a fuoco
durante un raid in un magazzino appartenente al gruppo. Secondo il governo egiziano sinora
Ansar al-Bayt Maqdis ha ucciso almeno 500 persone, perlopiù agenti delle forze di sicurezza.
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rUssia - 24 maGGio 2014
La Russia delusa e le ragioni dell’accordo cinese
Amarezza nei confronti dell’atteggiamento europeo sulla crisi in Ucraina
e nuove strategie geo-economiche all’origine della firma con Pechino
A due giorni dalle elezioni presidenziali in Ucraina, mentre nell’Est proseguono le operazioni militari e si susseguono gli scontri tra l’una e l’altra parte (i secessionisti ieri hanno fatto
17 vittime tra i soldati di Kiev), il Cremlino tuona contro quelli che giudica i colpevoli di questa situazione di crisi, pur se afferma che non commenterà il voto se non dopo i risultati.
“Le operazioni per cambiare i governi di Stati sovrani e le ‘rivoluzioni colorate’ di diverse
etichette orchestrate dall’estero, producono danni evidenti alla stabilità internazionale. I
tentativi d’imporre ad altri popoli i propri disegni per riforme interne che non tengono
conto delle caratteristiche nazionali, e la volontà di ‘esportare la democrazia’, impattano in
maniera distruttiva sulle relazioni internazionali e moltiplicano il numero di focolai sulla
mappa del mondo” ha detto Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, che sintetizza così i
giorni che stanno sconvolgendo l’Ucraina.
È un vero e proprio j’accuse all’Europa e all’Occidente, il suo. Perché la crisi ucraina appare sempre più come “il risultato naturale dell’espansione occidentale della propria influenza verso est, a scapito degli interessi russi”. Una presa di posizione quella dell’Occidente
che, secondo Lavrov, “rovina un’opportunità storica” per un continente che “ha portato a
due catastrofi militari mondiali nel secolo scorso, e che oggi non sta dando esempio al mondo di uno sviluppo pacifico e un’ampia cooperazione”.
Secondo il titolare degli Esteri, insomma, l’Occidente avrebbe ignorato gli appelli della
Russia per la cooperazione in Ucraina, Siria, Afghanistan e in molti altri Paesi e non avrebbe
colto la sfida tesa a integrare l’Eurasia, ma starebbe piuttosto costringendo le nazioni storicamente vicine alla Russia a scegliere tra l’Oriente e l’Occidente. Una situazione definita
“non casuale, piuttosto un risultato naturale degli sviluppi nell’ultimo quarto di secolo”.
Una vera delusione per Mosca. Che ha però reagito immediatamente, ricordando a tutti
che la Russia è una potenza mondiale e che, se vuole, è capace di voltare le spalle persino
all’Europa, preferendo partner più affidabili. Come la Cina, ad esempio.
L’accordo Russia-Cina
L’accordo appena firmato con Pechino – 38 miliardi l’anno di metri cubici di gas per
trent’anni e 80 miliardi di investimenti in infrastrutture, per un giro d’affari complessivo di
400 miliardi – non è uno scherzo. Certo, questo non sostituisce il mercato europeo, che
resta strategico per gli interessi di Mosca, ma è quantomeno un segnale a Ovest.
Il presidente russo ci ha girato intorno per lungo tempo, consapevole che, per portare a
casa il risultato con Pechino, avrebbe dovuto avvicinarsi alla soglia minima sotto la quale il
gigante degli idrocarburi ‘Gazprom’ non scende mai per vendere il suo gas: 12 dollari per
piede cubo è il minimo per non creare precedenti al ribasso, e non a caso il prezzo finale
resta “segreto commerciale”.
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Ma, alla fine, Vladimir Putin ha vinto le resistenze ed è volato a Shanghai per apporre la
sua firma su un documento senza precedenti. A far scorrere la penna sul foglio potrebbe
anche esser stata proprio l’intima convinzione di cui ha parlato Lavrov, cioè che l’Europa si
è schierata contro la Federazione Russa e che, pertanto, bisogna trovare alternative geostrategiche valide e stabili come e più della vecchia Europa.
La gaffe di Carlo d’Inghiliterra
A mettere il dito nella piaga sul disincanto di Mosca nei confronti europei, si è aggiunto
anche lo scivolone di un eminente rappresentante del Vecchio Continente, per di più monarchico. Il principe Carlo d’Inghilterra, infatti, nel corso della sua visita in Canada, avrebbe
paragonato le azioni del presidente russo in Ucraina “a quelle di Adolf Hitler durante la seconda guerra mondiale”. Una caduta di stile che ha fatto dire al portavoce di Putin che
quelle parole “non sono degne di un erede al trono”.
Certo, un accordo come quello con la Cina non si stringe sull’onda emotiva e i denari che
arriveranno nelle casse moscovite possono quanto e più della politica contingente. Ma resta
il fatto che, senza turbolenze in Ucraina e senza l’ostilità manifesta dei leader europei, Germania compresa, una simile scelta non sarebbe arrivata così rapidamente.
In ciò deve aver pesato anche il parere del pragmatico ministro degli Esteri Sergei Lavrov,
di cui sopra. Figura sempre più potente al Cremlino che, da buon giocatore di scacchi, si sta
dimostrando un sempre più abile stratega e suggeritore influente, al punto che alcune analisi
lo vogliono addirittura futuro presidente della Federazione Russa. Quel nome, Lavrov, che
in russo significa “alloro”, potrebbe essere dunque di buon auspicio per uno Stato e un governo che sognano un ritorno ai fasti imperiali. Ma, tengono a ricordare i russi, da quelle
parti non è l’alloro l’ornamento di cui si cingevano gli imperatori, bensì il basilico. Non così
diffuso in Cina, ma molto amato qui in Europa, dove è sempre germogliato rigoglioso.
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israele - 25 maGGio 2014
Segnali di avvicinamento israelo-palestinese
in attesa di Papa Francesco
I leader di Israele e Palestina usano toni più conciliatori dopo le tensioni
delle settimane scorse. Le distanze tra i due popoli però restano. Grande attesa
per l’arrivo di Papa Francesco domani in Terra Santa
Quella rilasciata ieri dal presidente dell’Autorità Palestinese (AP), Mahmoud Abbas, potrebbe essere una dichiarazione dagli effetti rilevanti. “Il nuovo governo di unità nazionale,
alla cui creazione si sta ancora lavorando, accetterà le condizioni poste dalla comunità internazionale e riconoscerà lo Stato di Israele, rispetterà gli Accordi di Oslo e abbandonerà la
lotta armata”, ha affermato Abbas. Tre punti fondamentali su cui in questi anni si sono scontrati non solo palestinesi e israeliani, ma anche le fazioni palestinesi di Fatah e Hamas, moderata la prima, più intransigente la seconda.
Quella di Abbas potrebbe essere la risposta anticipata alle ultime affermazioni del premier
israeliano Benjamin Netanyahu, il quale in un’intervista a Bloomberg pubblicata oggi ha ribadito di volere uno Stato palestinese smilitarizzato che riconosca quello israeliano e che
non rappresenti una longa manus di Teheran, riferendosi ovviamente ad Hamas e ai suoi
rapporti con l’Iran.
E dopo aver gettato la colpa del fallimento dei negoziati sull’AP, a suo modo di vedere incapace di prendere decisioni difficili ma necessarie, il premier israeliano ha ventilato la possibilità di un’azione unilaterale nella West Bank (Cisgiordania), che concretamente si
tradurrebbe in un graduale ritiro dalle aree a più alta concentrazione di palestinesi.
Una posizione che si sta facendo strada tra le forze politiche a Tel Aviv come ha confermato
lo stesso Netanyahu, il quale però ha tenuto a precisa: “Molti israeliani si stanno domandando
se ci possano essere alcune iniziative unilaterali che abbiano senso. Ma la gente è anche consapevole che il ritiro unilaterale da Gaza non ha migliorato la situazione, né ha fatto fare progressi al processo di pace. Ha invece creato l’‘Hamastan’, da cui sono stati lanciati migliaia
di missili contro le nostre città”.
L’ipotesi del ritiro (che in realtà continua a essere molto debole) non ha prodotto reazioni
positive da parte dei palestinesi. L’azione unilaterale implica, implicitamente, anche l’unilateralità nella ridefinizione dei confini con la West Bank. “Creerà solo le basi per un nuovo conflitto”
ha detto un funzionario palestinese, mentre l’ex negoziatore Hanan Ashrawi ha affermato di
non credere che tale mossa non negoziata possa rappresentare una soluzione reale.
Mentre Netanyahu sembra abbastanza pessimista sulla possibilità di riaprire i negoziati, il
sito WND riporta di incontri segreti avvenuti la scorsa settimana in Egitto tra un rappresentante di Washington e Ghazi Hamad, il vice ministro degli Esteri di Hamas. L’incontro sarebbe solo indirettamente confermato dal quotidiano israeliano Haaretz, che menziona un
funzionario della Casa Bianca secondo il quale la Casa Bianca è propensa ad aprire i negoziati
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con il nuovo governo di unità nazionale palestinese formato da Fatah e Hamas, indipendentemente dalla posizione israeliana. Il riconoscimento di Hamas dello Stato di Israele sarebbe
comunque un punto di partenza decisivo per la ripresa dei colloqui e un eventuale rifiuto di
Netanyahu rappresenterebbe un grosso imbarazzo per Israele, che potrebbe così trovarsi ancora più isolato a livello internazionale. Anche se, obiettivamente, a Tel Aviv in pochi sembrano essere preoccupati di questa eventualità.
Il viaggio del Papa in Terra Santa
Intanto in Medio Oriente cresce l’attesa per l’arrivo di Papa Francesco. Domani il Pontefice
atterrerà in Giordania. Domenica 25 maggio sarà Betlemme, dove sarà ricevuto dal presidente dello Stato della Palestina, Mahmud Abbas. Successivamente si sposterà a Betlemme e
poi volerà in Israele, a Tel Aviv prima e Gerusalemme poi, dove ad attenderlo troverà il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Lunedì 26 maggio, infine, visiterà il Gran
Mufti di Gerusalemme sulla spianata delle moschee ed effettuerà una visita al Muro del Pianto e al memoriale dell’Olocausto Yad Vashem. “Tre Stati visitati, tre Messe e quattordici discorsi: tutto in appena 72 ore – spiega il vaticanista di Panorama Ignazio Ingrao -.
Il pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa si preannuncia come un vero e proprio
tour de force. Saranno tre giorni in tutto, come fece Paolo VI nel gennaio del 1964. Ma Bergoglio non rinuncerà a toccare tutti i luoghi più significativi della vita di Gesù senza dimenticare alcune tappe simboliche per musulmani ed ebrei. Il momento centrale del
pellegrinaggio sarà l’abbraccio con il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I,
presso la Basilica del Santo Sepolcro, in ricordo dell’analogo gesto compiuto da Paolo VI e
il patriarca Atenagora, 50 anni fa. E per la prima volta nella storia con il pontefice viaggeranno anche un rabbino ebreo, Abraham Skorka, e un imam musulmano Omar Abboud, due
amici argentini di vecchia data del pontefice”.
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tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed
estere dedicate alla prevenzione e alla gestione
del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne assicurano la piena autonomia gestionale - G-Risk
dispone di numerose sedi operative in Italia e nel
resto del mondo: Roma, Genova, LondRa,
madRid, BeiRut, tunisi, Riyadh, La Paz,
BoGotá, CaRaCas, montReaL.
realmente le attività aziendali e gli asset strategici,
umani e tecnologici.
La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento
in aree domestiche e internazionali. Le nostre
unità sono presenti nelle maggiori aree critiche
del pianeta per investigare sulle realtà locali
con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, ottenendo
La nostra mission è garantire la sicurezza prima tutte le informazioni necessarie nel minor
che qualsiasi minaccia possa compromettere tempo possibile.
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